I BIROCCIAI

I Birocciai

Diziunariàtt Castlàn – Itagliàn

Dizionarietto Castellano – Italiano

Il mestiere del birocciaio

L’amstîr dal bruzâi

Consulenza: Silvano Casadio Loreti
Giuseppe Casadio Loreti
Trascoop e Servizi s.c.r.l.

Si ringraziano: Giorgio Biondi e Paolo Marabini
in modo speciale, Adriano Raspanti

PRESENTAZIONE

Ritengo necessario ricordare che la redazione di questi quaderni, inerenti la raccolta di vocaboli relativi ai vecchi mestieri, ha preso spunto da un’idea e dalla prima raccolta svolta dal prof. Giorgio Biondi (vedi al proposito la sua pubblicazione “Al dialâtt castlän”- edito nel 2007). Poi ha collaborato anche verificando i testi che, oltre a darmi sicurezza nel merito, è motivo di incoraggiamento a continuare.
Questo è il quinto dei mestieri di cui, come Associazione Terra Storia Memoria, ci siamo interessati dopo il contadino, il muratore, il calzolaio e la sarta. Abbiamo qui raccolto, riportandoli in dialetto ed in italiano, i termini d’uso corrente che interessavano il lavoro del birocciaio, e la vita del suo fedele collaboratore a quattro gambe. E’ questa anche un’occasione per far emergere la piccola storia del lavoro delle nostre genti, delle loro fatiche, delle problematiche vissute e dei grandi cambiamenti intervenuti nel giro di pochi decenni (pochi rispetto alla stabilità che i mestieri hanno avuto nei secoli). I due protagonisti su cui si svolge la presente ricerca di vocaboli, sono il birocciaio e il suo cavallo, poi entrano nella raccolta, i finimenti dell’animale, gli attrezzi e il lavoro nel fiume.

Il birocciaio
E’ questo uno dei mestieri più antichi e, per non andare indietro fino alla preistoria, di quando l’uomo inventò la ruota e addomesticò il cavallo, ci riferiamo al lavoro e alle abitudini ancora in uso fino alla metà del novecento, rilevandone i relativi termini dialettali.
A Castello c’erano molti birocciai, e in virtù dell’investimento di risorse fatte nel cavallo, nel suo mantenimento, nel biroccio e nella stalla, era un mestiere che si tramandava di padre in figlio. Fino all’epoca della seconda guerra mondiale, alcuni di loro avevano ancora la stalla in centro, altri invece si erano costruiti la casa e la stalla fuori dalle mura, con una certa concentrazione in via Oriani, strada comoda per arrivare al fiume e collegata alla via Emilia. C’erano ben sette famiglie di birocciai che abitavano in quella via. Alcuni di loro erano i rappresentanti di una vera e propria dinastia del mestiere! Altri erano sulla via Colombarina. Quando l’economia si sviluppò e specie nel secondo dopoguerra, la ricostruzione degli edifici richiese la produzione e il trasporto di maggiori quantità di materiali, occorsero dei mezzi più veloci e capienti. Fu allora che i giovani birocciai castellani che non l’avevano ancora, presero la patente di guida per autocarri e, facendo debiti e molti sacrifici per rimborsarli, dal semplice cavallo a fieno passarono ai cavalli col motore a nafta: comprarono il camion e si fecero “autotrasportatori”. In seguito, qualcun altro, invece preferì cambiare mestiere. Per i vecchi birocciai fu l’inizio dell’abbandono graduale del mestiere. L’ultimo a uscire con il biroccio, quando aveva di molto superato gli ottant’anni, fu Marino Gnugnoli, all’inizio degli anni ottanta. Per questo, gli attuali castellani quarantenni e molti cinquantenni non hanno mai avuto occasione di incrociare un birocciaio per le strade di Castello cun cavâl e brôza.
Torniamo perciò indietro nel tempo, perché è proprio di questo vecchio mestiere che ci stiamo interessando.

Il cavallo
La scelta per l’acquisto del tipo e sesso del cavallo era strettamente connessa alle disponibilità economiche del birocciaio. L’animale era il patrimonio più importante al quale egli riservava le migliori cure, perché gli garantiva il lavoro e le risorse per la famiglia. Sarebbe stato un grosso guaio se l’animale si fosse azzoppato o ammalato seriamente. Il cavallo aveva un nome proprio, preso da quelli umani e questo la dice lunga sulle cure e l’affetto che gli erano dedicati. Il birocciaio viveva più tempo con lui che con la sua famiglia. Quando doveva andare fuori comune, partiva all’alba e poteva ritornare anche a tarda sera. Ad esempio, da Castello per andare a Bologna, occorrevano più di quattro ore, e altrettante per tornare, poi c’era la sosta per il carico- scarico e per far riposare il cavallo, quindi fate un po’ il conto… Si conoscevano reciprocamente, ognuno sapeva dei vizi e difetti dell’altro; il birocciaio gli parlava e l’animale ne riconosceva non solo la voce, ma anche il passo, il fischio, la mano che lo comandava attraverso le redini e a cui esso ubbidiva. L’uomo soffriva quando lo doveva vendere, perché non più valido al lavoro; sapeva che per il suo vecchio amico e fedele collaboratore, quella vendita segnava la fine della sua vita (andava al macello), ma non aveva altra scelta da offrirgli.
Di solito il birocciaio teneva più di un cavallo, così avviava al mestiere anche qualcuno dei figli. Se aveva una cavalla la faceva figliare, ottenendo un’ulteriore risorsa da utilizzare nel lavoro. Ovviamente, tenuto conto dell’utilizzo così importante di questo animale, a Castello c’era la monta equina.
Non ci sono dubbi che il cavallo sia un animale intelligente, affettuoso, affezionato al suo padrone e al luogo dove vive. Mi ha raccontato la signora Gina Marchetti che suo padre, birocciaio di San Martino, durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi cominciarono a razziare il bestiame, per timore che gli prendessero i cavalli li portò su nelle nostre colline, nascondendoli alla meglio nel bosco. La sua fu però una fatica inutile perché, al mattino dopo, i cavalli erano già ritornati a casa!

Il fiume
Noi castellani difficilmente denominavamo il Sillaro con il suo nome proprio, era il fiume e basta (o meglio al fiômm) e i birocciai avevano con questo un rapporto particolare che andava indietro nel tempo. Molti materiali per le costruzioni si recuperavano proprio da lì. Nel novecento, il birocciaio andava a prelevarli in base ad un contratto che aveva con il Genio Civile, che gli consentiva di asportare dalla zona assegnata mille metri cubi di materiale ogni anno (sassi, ghiaia, ghiaino, sabbia), per i quali pagava un importo forfetario. Se poi ne prelevava qualche metro in più, chi se ne sarebbe accorto?
Le pratiche per la concessione erano curate dalla Lega e, secondo il periodo, dalla Cooperativa. Quando aveva ottenuto la concessione, si recava nel tratto di greto assegnato, dava alcune badilate o picconate, in modo da lasciare il segno d’inizio prelievo, e gli altri avrebbero capito che quella era una zona già attribuita.
Dalla zona urbana, per accedere al fiume e raggiungere la propria area di prelievo, c’erano alcuni punti obbligati. Fino ai primi anni settanta del novecento il fiume, dalla Chiusa in giù, era separato da viale Terme da un’area golenale e dal canale di Medicina, per cui si poteva passare solo dove c’era il ponte carrabile che scavalcasse il canale. Il primo passaggio era quindi alla Chiusa, l’altro era più sotto, dopo il parco delle Terme quasi di fronte all’attuale Hotel Parigi (ora ci sono tre paracarri – trî fitôn) e l’ultimo, rispetto all’area urbana, era al Pelacano, prima del ponte. Quando il dislivello tra la strada e il fiume era abbastanza ripido, come quello nei pressi della Chiusa, e il cavallo a pieno carico di sassi non ce l’avrebbe fatta a risalire, il birocciaio era costretto a caricare solo mezzo biroccio di sassi, salire nell’area verso la strada, scaricarli, ridiscendere, caricare l’altro mezzo biroccio, risalire e ricaricare la prima parte che aveva depositato, e tutto con la forza delle sue braccia.
La presenza assidua dei birocciai nel fiume spiega perché, proprio alla Chiusa, una volta ci fosse un’osteria!
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Il fiume, chissà quante storie potrebbe raccontare del nostro lontano passato! Giuseppe Casadio Loreti (al fiòl ed Frédo ed Lungàn), mi ha raccontato che nei primi anni sessanta, un giorno suo padre, mentre nel fiume stava scegliendo dei sassi “artistici” da usare per un muretto a vista, vide in mezzo alla ghiaia un sasso particolare, con dei puntini luccicanti. Incuriosito, guardò meglio e trovò semiscoperto uno strano, grosso sasso biancastro. Era bello, gli piacque, allora si adoperò per liberarlo totalmente, e lo portò alla luce; aveva un diametro di circa quaranta centimetri ed un’altezza di circa altrettanto.
Chissà da quanto tempo era lì sepolto, pensò; lo pulì, poi lo caricò sul biroccio, lo portò a casa e soddisfatto di quel bel ritrovamento, dopo averlo mostrato ai suoi, lo collocò con orgoglio nel cortile, a fare da ferma cancello, dove rimase per un paio d’anni. Passò del tempo e il suo amico Guerrino Nardi, appassionato raccoglitore di sassi e di fossili, gli fece presente che forse poteva essere un reperto geologico. La voce girò, e arrivò al Museo Geologico Cappellini di Bologna; fu così che una sua delegazione venne a vederlo.
I professori stabilirono che il sasso era il fossile di una piccola palma: la cycadeoidea, che cresceva nella Val Padana, tra i 145 e i 65 milioni di anni fa, e stimarono che questa fosse rimasta lì sepolta per 100 milioni di anni (!) Informarono che, per legge, Alfredo non la poteva tenere, ma egli non ci voleva rinunciare, perché l’aveva trovata e recuperata lui, non voleva proprio separarsene. La trattativa si protrasse per un po’ di tempo poi, visto che egli non cedeva, un bel giorno andarono a prenderla i carabinieri per portarla al Museo! Nel verbale di consegna Alfredo Casadio Loreti è evidenziato come colui che l’ha recuperata. A compenso della fatica fatta per estrarla e del dispiacere provato a lasciarla, i figli hanno chiesto che il suo nome possa figurare nella targhetta che la identifica.

Per predisporre questo vocabolarietto, sono dovuta andare a lezione da un vecchio ex birocciaio ed ex facchino: Silvano Casadio Loreti, ôn di Lungòn, anni 92 ben portati (nemmeno una ruga!). Mi aveva già dato diverse voci e informazioni suo cugino Giuseppe che mi ha procurato, e poi accompagnata all’incontro. Avevo già riordinato e tradotto in dialetto tali vocaboli a cui avevo aggiunto quelli che conoscevo, ma avevo bisogno di approfondire alcuni aspetti che, solo chi aveva praticato il mestiere, era in grado di darmi. Quando mi sono scusata del disturbo che gli arrecavo (sottraendolo alla compagnia degli amici, per la quotidiana partita a carte presso il Bocciodromo), Silvano mi ha detto con un po’ di emozione, che era contento che qualcuno si ricordasse di parlare di questo loro antico e gravoso mestiere. Così con una conversazione brillante e lucida, ha risposto esaurientemente a tutte le mie domande, raccontandomi anche qualche aneddoto, che mi pare carino riportare.

Racconta Silvano che, quando aveva sette-otto anni, un giorno suo padre fece sapere a casa che il bambino gli portasse nel pomeriggio la bicicletta presso un certo podere, dalle parti di Osteria Grande. Egli per altezza non arrivava certo al sellino, per cui dovette pedalare stando di traverso sotto il cannone, così con un poco di fatica e qualche sosta per tirare il fiato, dopo un certo tempo, arrivò dov’era suo padre. Gigetto si doveva spostare presso un altro podere più lontano, per contrattare la fornitura del fieno, per cui il piccolo avrebbe dovuto rientrare a casa con biroccio e cavallo. Alla sua preoccupata domanda se ne fosse stato capace, il padre gli disse che l’importante era che stesse attento ad attraversare la via Emilia perché poi, ad arrivare a casa, ci avrebbe pensato il cavallo.
Quando fu ora di avviarsi, lui salì sul biroccio, il cavallo prese il suo passo
lento e tranquillo, finché a un certo punto, non sa dire quanto tempo fosse trascorso, Silvano udì una voce sopra di sé che un po’ burbera gli chiese; Cosa fai lì?
Era un carabiniere che, avendo visto il cavallo andare senza nessuno che lo guidasse, l’aveva fermato, trovando poi sul biroccio il bambino addormentato dentro a un paniere. In risposta alla domanda del carabiniere, egli spiegò l’antefatto e che ora doveva andare a casa a Castello. Il carabiniere l’aiutò ad attraversare la via Emilia, gli accese la lanterna, perché si era già fatto buio, e gli raccomandò che da adesso in poi stesse ben sveglio! Mentre raccontava, a Silvano gli veniva ancora da sorridere a pensare alla scenetta del suo risveglio dentro al paniere, con la faccia del carabiniere che da sopra lo scrutava.

L’altro aneddoto risale invece a suo nonno, anch’egli birocciaio che, nel periodo successivo all’unità d’Italia (dopo il 1861), nel percorso Castel San Pietro-Bologna, quando trasportava vino, fu fermato dai briganti. Era già successo che questi si nascondessero dietro le siepi, e quando individuavano un carro con botti o damigiane, gli si parassero davanti “chiedendo” di avere da bere. Anche nonno Casadio, come altri, cedette alla “richiesta” e per fortuna, tutto finì lì.

*
Mentre il cavallo era chiamato, secondo il sesso, con un nome di uomo o di donna, il birocciaio era più conosciuto con il soprannome, che con il nome. Ne ricordo alcuni: al Bruzajén, Budgén, Fitûla, Gajàn, La Spôrta, Lischètti, i Lungôn, Manèla, Muschén, Paputén. Fra quelli che col biroccio facevano invece i corrieri, c’erano: Billa e Bachén.
Un mestiere che si può considerare affine al birocciaio, era quello del vetturino. Il vetturino era colui che conducendo una carrozza a cavalli faceva servizio pubblico. Era il taxista di una volta, più raffinato come mestiere rispetto al birocciaio, perché anziché materiali trasportava persone, ma sempre basato su un mezzo derivato dal biroccio e sulla forza del cavallo. A Bologna, quella che oggi è la centrale via Ugo Bassi, era chiamata fino ad un secolo fa via dei Vetturini, proprio per l’importante posteggio di carrozze pubbliche che ospitava. Questo servizio fu attivo anche a Castello, fino ai primi decenni del novecento. Il vetturino in dialetto era detto vturén o fiacaréssta (quest’ultimo termine deriva dal francese fiacre). Il vetturino con la carrozzella resiste ancora come mestiere, per folclore turistico, in certe città d’arte.

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Nel 1890 il mestiere del birocciaio arrivò ai grandi teatri lirici, grazie all’arte musicale di Pietro Mascagni e ad una storia desunta da una novella di Giovanni Verga.
Si trattava di compare Alfio il cui mestiere, com’era d’uso dalle sue parti (la Sicilia) era detto carrettiere, e che cantava soddisfatto:
♫♫ “Oh che bel mestiere, fare il carrettiere!” ♫ ♫
Era un personaggio di “Cavalleria Rusticana”, che cantava felice…. perché non sapeva ancora che sua moglie Lola gli metteva le corna con compare Turiddu.
Noi emiliani, invece, avremmo detto che il mestiere di compare Alfio era il birocciaio, però non avrebbe fatto rima con mestiere!

*
Quando avevo quasi terminato questa ricerca, parlandone con una giovane signora, questa mi chiese un po’ preoccupata se nel vocabolarietto avessi inserito anche il frasario corrente che si diceva usassero i birocciai. Intendeva il modo di esprimersi in cui comparivano molti intercalari che, detto eufemisticamente, erano poco raffinati.
Tanto era noto questo aspetto che, per chi si esprimeva inserendo nel discorso termini volgari, era stato coniato il detto: “Al dscàrr cme un bruzâi” (parla come un birocciaio).
Rassicurai la mia interlocutrice: il mio obiettivo non era di tramandare gli intercalari volgari, ma il dialetto quale lingua utilizzata per la corretta e normale comunicazione attinente al mestiere! Pare però che il detto in origine volesse significare “parlare a voce alta”, in quanto i rumori che sulle strade acciottolate procurava il transito dei carri, lo scalpiccio degli animali, i ragli degli asini, costringessero le persone a parlare a voce alta per farsi sentire.
Fine delle divagazioni. Torniamo ora alla storia che li riguarda, perché non è possibile parlare dei birocciai di Castello senza raccontare qualcosa della loro storia collettiva: Cooperativa e Lega.

L’amstîr dal bruzâi

Cum l’è al cavâl da tîr Com’è il cavallo da tiro

Al cavàl l’è al conprimèri dal bruzai, Il cavallo è il comprimario del birocciaio
acsè a tâc da lò così comincio da lui

al cavâl il cavallo maschio: era castrato.
la cavâla la cavalla femmina: non era castrata;
lavorava anche per tutto il tempo della gravidanza, fino al giorno precedente il parto e poteva riprendere il lavoro nei primi giorni successivi.
i dôrmen svultè e d in pî dormono sia sdraiati sia in piedi. Spesso
quando dormono in piedi, lo fanno su tre gambe.
pàis dal cavâl da tîr peso del cavallo da tiro: dai 4 ai 5 quintali.
pàis traspurtè peso trasportato: dai 9 ai 13 quintali. A
seconda del sesso, dell’età e della struttura del singolo animale.
vétta lavuratîva vita lavorativa: sui 14-15 anni. Iniziava a lavorare
da molto giovane, ovviamente con carichi di peso minore. Poi da vecchio, seppure a malincuore, il barrocciaio era costretto a venderlo per il macello.
A differenza dei bovini, mi dicono che con l’età la carne del cavallo diventa più morbida e migliore per l’alimentazione. A Castello c’era una macelleria di sola carne equina.

altàzza altezza, circa m.1,40 al garrese.
atacadûra dal côl garrese: è il punto fra la fine del collo e
l’inizio del dorso; da lì si misura l’altezza dell’animale.
cô d cràina coda di crine, formata da lunghi e folti
peli, che arriva fin verso il garretto.

crinîra criniera: frangia di crine, pendente dal margine superiore del collo. Coda e criniera si pettinavano con la brusca.
curpuradûra tamóggna corporatura tozza
dént: quaranta int al mâsti denti: quaranta nel maschio; dice la
enciclopedia che alla femmina mancano i canini. L’età e la salute dei cavalli si riconoscono dai denti, per cui chi li doveva comprare, per prima cosa apriva loro la bocca.
ganba-ganb gamba-gambe: gli arti del cavallo sono
detti gambe e non zampe, come per gli altri animali.
garàtt garretto: primo snodo sporgente della zampa posteriore.
grôpa lèrga groppa larga: dorso
pail rasè pelo rasato
zòcol-zòcuel zoccolo-zoccoli: è l’unghia del terzo dito,
fortemente sviluppata e molto spessa.

Al magnèr, la stâla e al cûr da dèr al Il vitto, la stalla e le cure da cavâl prestare al cavallo

bàvver bere: per bere il cavallo veniva portato
fuori dalla stalla. Quando era in giro per lavoro, beveva dal secchio.
bièva biada: qualsiasi cereale usato come cibo per i cavalli. L’avena
di solito gli veniva data alla sera, perché gli procurava un effetto riposante.
bivràn cun ràmmel e tridèl beverone con crusca e cruschello, come
pasto dato al mattino e anche durante la giornata. Se restava fuori tutto il giorno, il birocciaio integrava il beverone, di cui sopra con un macinato di ceci e fava. A tale scopo prendeva con sé un panierino di queste farine (un chilo o poco più).
faggn fieno: miscuglio di graminacee essiccate,
che gli veniva dato sia in stalla sia quando era fuori per lavoro.
fèva maréina carruba: legume con baccello dolce e
carnoso, particolarmente gradito dai cavalli.
pistinèga carota: per il cavallo è come ricevere un premio. anèla grosso anello murato a cui era attaccata
la cavezza per tenerlo fermo quando era nella stalla.
bûsa letamaio dove si depositavano gli escrementi, che poi
stagionati, erano usati come ottimo concime, specie per l’orto e i fiori.
cavazza cavezza: legaccio che dall’anello scendeva a tener legato per il collo il cavallo.
cavèr al pulpatt togliere lo sterco (le palle di cacca).
fiamè sterco del cavallo. Quando defecava per strada, lo sterco non vi
rimaneva a lungo, perché se lo accaparravano in fretta gli ortolani.
grôppia greppia, mangiatoia: manufatto posto sul pavimento
appoggiato alla parete, sopra al quale era posta la rastrelliera.
pâja paglia: era stesa sul pavimento, dove il cavallo si poteva sdraiare, andava regolarmente cambiata per eliminare urina e sterco. capocc’ cappuccio di tela bianca, con i fori da cui far uscire le orecchie
e lasciare liberi gli occhi; gli veniva messo per proteggerlo dal sole.
fèr da cavâl ferro da cavallo: camminando su suolo
duro stradale e sul greto del fiume, per evitare che lo zoccolo si logorasse e lasciasse scoperta la carne viva, lo si proteggeva inchiodandovi sopra una piastra metallica, appositamente sagomata; operazione che si faceva in media due volte l’anno.
Quando c’era il ghiaccio, per evitare che il cavallo scivolasse, il ferro veniva sostituito con un altro, munito di punte esterne che, conficcandosi nel ghiaccio, gli davano stabilità.
La ferratura dei cavalli, l’iniziarono i Celti e i Britannici, da cui la copiarono i Romani all’inizio dell’era Cristiana, ma si propagò molto lentamente. L’adottarono poi i signorotti medievali e si diffuse in tutta Europa solo all’epoca delle Crociate nei secoli XI-XIII.
Si credeva che, chi trovava un ferro di cavallo, fosse persona fortunata; era conservato come porta fortuna e spesso attaccato alla porta di casa.
quérta coperta da mettere sulla groppa per
proteggerlo dal freddo o dalla umidità.
rastlîra rastrelliera: era attaccata alla parete sopra la mangiatoia,
circa all’altezza della testa dell’animale, su cui veniva messo il fieno (così non si doveva chinare per mangiare). Il fieno che disperdeva mentre mangiava, cadeva nella mangiatoia e veniva successivamente recuperato.
stargèr strigliare: usando striglia e brusca; di solito si puliva
il manto del cavallo, al mattino.

I finimént par preparèr al cavâl al lavurîr (la bardadûra) I finimenti per preparare il cavallo al lavoro (la bardatura)

balanzén bilancino: cinghia che serviva per tenere
attaccato il secondo cavallo, fuori dalle stanghe, a fianco del primo, quale aiuto nel traino, oppure tenuto per dare il cambio al primo.
bràjja-brai briglia/e, redini: era tutto il complesso della imbracatura
fatta da cinghie di pelle e cuoio, tra di loro collegate e affibbiate, in modo che il cavallo potesse reggere il peso del biroccio e sfruttare tutta la potenza muscolare che sviluppava quando camminava, e potesse quindi trainare tutto il carico anche per lunghi percorsi. In italiano per redini, si intendono le due strisce che, dal morso, arrivano alla mano del conducente.
Siccome al cavallo da tiro non veniva applicato il morso, per dargli il comando, sul muso gli veniva appoggiato il così detto seghetto, collegato alle redini.
fióbba- fióbb fibbia-fibbie: per unire e tenere fermate le
varie parti delle briglie.
grupîra groppiera: striscia di cuoio che passava
posteriormente alla sella e terminava col sottocoda.
inbrèg imbraca: lunga striscia di cuoio, passante posteriormente alle
natiche e attaccata alla groppiera o alle tirelle, collegata alle stanghe.
paraûc’ paraocchi: coppia di schermi di cuoio, fissati a una cinghia
della briglia, a lato di ciascun occhio, in modo che il cavallo guardasse solo avanti, ad evitare che potesse adombrarsi e imbizzarrirsi.
sâtt-panza sotto pancia: cinghia che si affibbiava
sotto la pancia, per tener ferma la sella.
sâtt-cô sottocoda o posolino: striscia di cuoio a
cui si infilava la coda e che sosteneva la sella.
sèla sella: nel cavallo da tiro, serviva per
supportare l’appoggio delle stanghe. Era in legno, imbottita e ricoperta in modo da non creare sbucciature alla pelle della groppa.
sèlva culèr salva collare o collana: in legno imbottito
che scendeva sul petto, sul quale erano attaccati i tiranti.
sunâi sonagli: sferette metalliche spesso applicate alle briglie della testa, che tintinnavano quando il cavallo si muoveva, segnalandone così la
presenza.
urnamént cun dischétt d’utân -ornamenti: in alcune parti più in vista
dei finimenti erano applicate delle borchie in ottone a titolo decorativo. Quando il birocciaio usciva in alta tenuta, provvedeva a far ben figurare anche il suo cavallo. A lui, oltre alla più accurata pulizia, gli completava la toletta con la pettinatura e acconciatura di criniera e coda, poi puliva e lucidava il cuoio delle briglie e delle relative borchie color oro.

I usvéi dal bruzâi Gli attrezzi del birocciaio

badîl badile: ce n’era uno da usare nella stalla per togliere lo sterco
e un altro sul biroccio (per badilare sabbia e ghiaia).
brôssca brusca: spazzola di materiale duro per togliere lo sporco, già
raschiato al mantello del cavallo, per completarne la pulizia di crine e coda.
castlè o vasèla castellata o vascella: botte orizzontale
per il trasporto dell’uva o del mosto, della portata di otto quintali. Andava preparata per tempo, per renderla stagna dopo i mesi di inoperosità, poi rigorosamente pulita con brusca e acqua.
furchèl forcale: uno era usato per portare il fieno
alla rastrelliera; un altro per togliere la paglia sporca dalla lettiera.
mastèl mastello, della capacità di due quintali.
Quando il birocciaio trasportava il mosto con la castellata, se il percorso da fare era lungo, per evitare che questo fermentando tracimasse, durante il percorso ne travasava una parte in un mastello, che prudentemente portava con sé. (ad es. per andare dal contadino ad una osteria di Bologna potevano occorrere più di 4 ore, era normale che in quel tempo la fermentazione già iniziata, provocasse la tracimazione).
mâza mazza: grosso martello atto a spaccare i sassi.
mèza castlè mezza castellata: la solita botte
orizzontale, ma più piccola, cioè di soli quattro quintali di portata. parpignàn frusta costruita con sottili cordelle in
sfoglia di legno bianco-grigio intrecciate. Si usava il legno del bagolario, pianta volgarmente conosciuta come spacca-sassi.
picàn piccone: da usare nel fiume, per
smuovere dalla melma essiccata, i sassi grossi e la ghiaia.
straggia striglia: attrezzo a lamine parallele dentate, infisse in una tavoletta, per staccare il sudicio (lo sterco) dal mantello degli equini;
cioè strigliarli.
tanâi tenaglie per togliere i chiodi dei ferri.
vâl vaglio: telaio con rete a maglie di misure diverse, per selezionare
i litoidi (sabbia e ghiaino), quando li prelevavano dal fiume.

Côsa i traspurtéven i bruzâi Cosa trasportavano i birocciai

d’incosa! ogni cosa! Qui, nel nostro territorio, dove
non c’erano vie d’acqua navigabili, quello animale fu storicamente l’unico mezzo di trasporto (con i cavalli il birocciaio, e con i buoi il contadino).
materièl dal furnès: préd e calzéina -laterizi e calce dalle fornaci. Una
volta, a cavallo fra otto-novecento, c’era a Castello la fornace di laterizi Pirotti che poi, esaurita la materia prima, fu trasformata in fornace da calce; era nei pressi dell’attuale laghetto Scardovi in viale Terme. Poi c’erano quelle, sempre da calce, in via Mazzini e tra viale Terme e l’attuale viale dei ciliegi.
Cessata la locale fornace di laterizi, i birocciai andarono a rifornirsi alla fornace Gallotta di Imola. L’operaio della fornace, passava a mano i laterizi
al birocciaio che stava sul biroccio, dove li sistemava uno accanto all’altro perché non si rompessero; il carico era fatto sempre a mani nude perché a quei tempi non si portavano i guanti da lavoro.
dala staziàn dla ferovì dalla stazione ferroviaria tutto ciò che
arrivava con il treno e viceversa.
dai cantîr tôtt i materièl ed dschèrt dai cantieri edili portavano a discarica tutti i materiali di scarto: macerie e simili.
i sanmichél i traslochi, anche verso la città di Bologna.

Da la canpàgna, i purtéven: Dalla campagna portavano:

  • ai mulén o ai gruséssta: i zereèl ai mulini o ai grossisti: i vari cereali, per la parte che andava venduta. ali ustarì: l’û o al mâsst alle osterie: l’uva o il mosto, sia a quelle
    locali, sia a quelle di Bologna. Il lavoro dei birocciai nel periodo della vendemmia era da loro detto: la campagna dell’uva. ai zucarifézzi: al barbabiéttel agli zuccherifici: le barbabietole.
    Per poterle consegnare, causa la concentrazione della raccolta del prodotto in una decina di giorni, spesso i birocciai dovevano trascorrere la notte nel cortile dello zuccherificio, e scaricare al mattino successivo. Poi secondo i turni, ritornare al podere, caricare, e riprendere la strada. (di solito per Molinella o Bologna). Era detta: la campagna delle barbabietole.
    -ai curdarén: la cânva ai cordarini: la canapa.
    -in paais o in zitè: la laggna da brusér in paese o in città: la legna da ardere.
    -dscarghèr la brôza scaricare il biroccio.
    Se erano trasportati prodotti fragili o di riguardo, tutto andava scaricato a mano. Se invece si trattava di materiale sfuso, il birocciaio toglieva il sottopancia e l’imbraco al cavallo (lasciando solo le tirelle), toglieva la sponda nel retro del barroccio, alzava le stanghe. –al mandéva a l’âria la brôza mandava all’aria il biroccio, e il
    materiale scivolava al suolo.

La brôza e i sû qui necesèri Il biroccio e i suoi accessori

brôza (la brôza) biroccio, baroccio, o barroccio
veicolo a trazione animale costruito in legno (con alcuni accessori metallici) a due ruote e due stanghe, era destinato al trasporto di merci e prodotti. Era dotato di sponde, per trattenere il prodotto.
câr carro: veicolo, come sopra, più lungo
della brôza ma a quattro ruote, di cui quelle dietro più grandi, con il timone per facilitare le sterzate; anch’esso a due stanghe, destinato a trasportare merci più pesanti o ingombranti, da usare con o senza sponde.
Per entrambi i veicoli si pagava il bollo (tassa di circolazione).
fréno freno lo aveva sia il biroccio sia il carro.
gavì o ghèvel dal rôd quarti di ruota: pezzi curvi della ruota,
poi assemblati per completarla, sulla cui circonferenza, a protezione, si poneva il cerchione di ferro.
lantêrna o lumîra a petròli lanterna a petrolio: da tenere attaccata
alla sponda del biroccio e da accendere quando in strada cominciava a far buio.
mastèla o caldarnèn secchio da tenere attaccato al biroccio, da
utilizzare per far bere il cavallo.
mzôl dla rôda mozzo della ruota.
râz dla rôda raggi della ruota
rôda-rôd ruota-ruote: erano in legno, sia il
cerchione sia i raggi. Quelle della brôza erano alte da m.1,40 a m.1,70.
Poi con l’uso della gomma, anche per questi mezzi di trasporto, si poterono utilizzare le ruote gommate, di dimensioni più piccole rispetto a quelle di legno, meno rumorose e che facilitarono il traino da parte del cavallo.
sâc ed fâggn sacco di fieno: era portato appresso per alimentare il
cavallo durante la giornata di lavoro, lontano da casa. Nel momento di sosta il sacco era infilato alla testa dell’animale, che vi mangiava dentro. Da questa situazione è nato il modo di dire: “Mangiare con la testa nel sacco”, cioè trovare la pappa pronta e non darsi da fare per procurarsela.
sónnza e gràs ed cavâl grasso: unto per mantenere lubrificate le
parti soggette ed attrito (mozzo e altre). Il grasso di cavallo si otteneva utilizzando il sego, risultante dalla sua macellazione.
Quando si riponevano gli scarponi da lavoro, era d’uso ungerli proprio con il grasso di cavallo, idoneo per evitare che la tomaia si indurisse.
stanga-stang stanga-stanghe: i due elementi anteriori del biroccio,
che servivano per il traino ed erano attaccati ai finimenti dell’animale.
stérz sterzo: leva per comandare le ruote del carro.
timân timone, per meglio sterzare.
unbrèla inziré ombrello di tela cerata verde, portata seco
per proteggersi sia in caso di maltempo, che dal sole cocente in estate
zarciàn-zarciôn cerchione-cerchioni: fasciatura metallica applicata
sulla circonferenza della ruota in legno, a protezione contro l’usura.
zirôdel chiodo ferma-ruota di carro e biroccio
(essendo un pezzo di poco valore, questo termine era usato come modo di dire nei confronti di persona poco sveglia o un poco imbranata: l’è un zirôdel).

I bruzâi e al fiômm I birocciai e il fiume

Spicunèr, sbadilér, e tôr vî Picconare, badilare, e asportare: lazza limo, melma, pantano. Le piene del fiume quando si ritirano,
oltre ad averne cambiato il corso in alcuni punti, spostano gli ammassi ghiaiosi, e depositano il limo su sassi e ghiaia; quando questo si essicca è come li avesse cementificati. Ecco perché per estrarre sassi e ghiaia occorreva usare anche il piccone.
sabiunèra zona sabbiosa del fiume.
sabiàn, giarlén, gèra sabbia, ghiaino e ghiaia (di varia
grossezza, selezionati previa vagliatura). Prima di essere badilato sul biroccio, il materiale andava lavato, per evitare che rimanessero residui terrosi, inidonei per il lavoro edile.

Sâs da dlàzzer e carghèr par: Sassi da scegliere e caricare per:

-fèr dal mûr fare del muro
-fèr dal rivestimànt fare del rivestimento (i più piatti).
-fèr dal salghè (es. qualli sàtta ai pûrdg) fare i selciati (es. quelli sotto i portici).
-dlàzzer quî adât par la furnès da calzéina scegliere quelli adatti per la fornace da calce.
-dlàzzer quî par tgnîr sâtta la cânva scegliere quelli grossi da 6-7 chili, da portare ai maceri della canapa, per tenere i mannelli immersi,
a evitare che vengano a galla.
-sâs da spachèr par fèr la braccia sassi da spaccare per fare la breccia. Con la mazza spaccavano i sassi più grossi per farne delle scaglie,
che venivano utilizzate per i sottofondi stradali, e per l’appoggio di traversine e binari della ferrovia. Se non c’erano ordini immediati da soddisfare, il birocciaio che aveva spazio in cortile, caricava i sassi dal fiume, li trasportava a casa, dove poi nei momenti liberi li spaccava,
facendosi anche aiutare dai familiari (donne e bambini) magazén dla gèra magazzino della ghiaia: erano cumuli di
ghiaia collocati ai lati delle strade, esterne al centro storico, a qualche centinaio di metri l’uno dall’altro, in attesa di essere stesa di solito in primavera, per pareggiare le buche createsi col maltempo invernale, dato che allora le strade non erano asfaltate (magazzino per conto del Comune).

Al bruzâi e qui èter Il birocciaio e gli altri

bruzâi barrocciaio, o meglio birocciaio, come comunemente era
denominato dalle nostre parti, mentre in altre regioni, era detto carrettiere,
normalmente teneva due cavalli. La muntûra dal bruzâi: L’uniforme del birocciaio: la fâsa in zintûra fascia in cintura: agli abiti normali
aggiungeva, legata in cintura, una lunga sciarpa di lana dai colori vistosi, con alle estremità due grossi fiocchi per tenerla perpendicolare.
fazulàtt ràss al côl fazzoletto rosso legato al collo, per
raccogliere il sudore, fatto passare dentro un anello, per tenerlo fermato.

I èter: Gli altri:

fachén facchino/i. I facchini erano di supporto
al birocciaio quando questi trasportava certi prodotti e i facchini provvedevano allo scarico, oppure loro caricavano e poi il birocciaio provvedeva al trasporto in altro luogo. Potevano essere chiamati al mulino per scaricare i cereali da macinare e caricare poi i sacchi di farina, oppure in stazione quando c’era da caricare o scaricare dal treno merci, prodotti diretti a Castello o da qui spediti, al cui trasporto era addetto il birocciaio. Questa loro frequentazione di lavoro, portò poi i facchini, alla fine del 1975 quando di birocciai non ce n’erano quasi più, a diventare soci della Cooperativa Autotrasporti di Castello (CASAC)
falegnâm il birocciaio ricorreva al falegname per
interventi di manutenzione particolare su biroccio e carro. Quello specializzato a costruirli e ripararli, in italiano, era detto il carradore.
frâb fabbro, per intervenire sulle parti metalliche dei due veicoli.
frarazza ferramenta
manischèlc maniscalco: artigiano che forgiava su
misura e applicava i ferri agli zoccoli del cavallo, dopo averli pareggiati, per eliminare le anomalie dell’andatura. (maniscalcus, è parola latina che voleva dire: addetto ai cavalli) slèr sellaio: artigiano che costruiva, riparava
e vendeva i finimenti per equipaggiare i cavalli.
veterinèri veterinario, per curarne i malanni e assistere la cavalla
durante il parto. I cavalli erano spesso soggetti a disturbi polmonari.
ustarì osteria. Il lavoro faticoso, creava abbondante sudore che
disidratava il corpo e richiedeva di conseguenza una compensazione dei liquidi; a questo bisogno, chi meglio vi poteva sopperire se non l’osteria?
Molti di questi locali erano già nella memoria del cavallo, e quando vi
passava davanti automaticamente si fermava, perché era “un’abitudine consolidata”!

ALCUNI PROVERBI CHE SI ISPIRANO AL CAVALLO O HANNO ATTINENZA CON PAROLE DEL VOCABOLARIETTO

A cavâl ch’suda, a ômen ch’zûra, a dôna ch’ zîga, a ni cradder
Non credere a cavallo che suda, a uomo che giura, a donna che piange.

A cavâl dunè, u n si guèrda in bacca
A caval donato non si guarda in bocca

U n i è bèl cavâl ch’u n dvanta un brótt rôz
Non c’è bel cavallo che non diventi un brutto ronzino

Al câsca un cavâl ch’la quàter ganb….
Cade un cavallo benché abbia quattro gambe…

Al cavâl da la bièva tréssta
Un cavallo dalla biada scadente. (Un bell’uomo con una brutta moglie)

Al cavâl dal bruzâi us fàirma dnànz a tótti ali ustarî
Il cavallo del birocciaio si ferma davanti a tutte le osterie

Barâta, barâta, da ‘na cavâla ui avanzè ‘na gâta
A forza di fare cambi, al posto di una cavalla, gli rimase una gatta

Canpa cavâl che l’érba la crass
Campa cavallo che l’erba cresce

Chélz ed cavâla un fè mai mèl al puledrén
Calcio di cavalla non fece mai male al puledrino

Chi u n pôl bâter al cavâl, al bât la sèla
Chi non può battere il cavallo, batte la sella

Cun dal bôni bràjj us guida i cavâl, cun la prudànza us guida l’ômen
Con delle briglie solide si guidano i cavalli, con la prudenza si guida l’uomo

La scuéttla cme ‘na cavâla in bràjja
Si dimena come una cavalla sotto le briglie

L’è cme al cavâl ed Scâja, ch’l avéva trantasî mèl satta la cô
E’ come il cavallo di Scaglia, che aveva trentasei mali sotto la coda

L’ôc’ dal padràn guérna al cavâl
L’occhio del padrone nutre il cavallo

Quand la gróppia l’è vûda, i cavâl i tiren i chélz
Quando la greppia è vuota, i cavalli tirano calci

Chi dà al sû cavâl in cûra ad èter, prèst l andrà a pî
Chi dà il suo cavallo in cura ad altri, presto andrà a piedi

La statûra dal cavâl la stà int al casàn dla bièda
La statura del cavallo sta nel cassone della biada

Cavâl nuvézzi, cavâl sanza vézzi
Cavallo novizio, cavallo senza vizio

Chi stàrgia al su cavâl, u n si pol dir garzàn
Chi striglia il suo cavallo, non si può chiamar garzone

L aldâm ed cavâl u n sbaglia, quall ed bâ al fa quall ch’al pôl, quall ed pigra al fa dimondi
Il letame di cavallo non sbaglia, quello di bue fa quello che può, quello di pecora fa moltissimo

Al cavâl vèc ui piés l’érba fràssca
Al cavallo vecchio piace l’erba fresca (all’uomo vecchio piace la donna giovane)

Al cavâl svélt ui bâsta ‘na frusté, a l ômen inteligiànt brîsa piò d’na parôla
A cavallo veloce basta una frustata sola, all’uomo intelligente non più di una parola

Rânper i sunâi
Rompere i sonagli (rompere le scatole, disturbare)

Sînter scusèr i zîrc’
Sentire scuotere i cerchioni delle ruote. (Avvertire che sta andando male in salute o in affari)


Un câr ed pinsîr u n pèga gnanc un bajôc ed dèbit
Un carro di pensieri non paga nemmeno un soldo di debiti

La rôda piò tréssta dal câr l’è qualla ch’la zirla
La ruota peggiore del carro è quella che cigola

Chi vôl savàir cus l è l inféren, al fâga al cûg d estèd e al bruzâi d invéren
Chi vuol sapere cos’è l’inferno, faccia il cuoco d’estate e il birocciaio d’inverno