Ercole Valerio Cavazza
Trascrizione in italiano corrente di Eolo Zuppiroli
RACCOLTO di MEMORIE ISTORICHE DI CASTEL SAN PIETRO
VOLUME 1°
dalla fondazione al 1500
L’Autore a suoi concittadini
L’amore alla Patria fu sempre considerato un atto normale piuttosto che un atto di volontà. Empio è chi non l’ama, traditore chi l’offende e sconoscente chi non le dimostra il proprio amore.
Notando che da quando è stato fondato questo nostro Castel S. Pietro non ho trovato alcuno che si interessasse alla sua storia ho pensato di interessarmene considerando che questa materia fosse degna da essere ricordata.
È vero che padre Gian Lorenzo Vanti ha lasciato alcune notizie manoscritte, ma sono così poche che hanno lasciato il desiderio di saperne di più.
Quindi acceso da tal brama, per diminuire il dispiacere e mostrare ai concittadini l’affetto patrio ho ricercato i fatti di questo nostro luogo negli antichi annali, dalle storie degli scrittori e dai documenti che ho potuto trovare ed avuti dalla gentilezza di cordiali cittadini.
Lo stesso non posso dire di alcuni archivisti che mi hanno negato l’accesso alle loro documentazioni.
Fin da principio mi sono accorto che la difficoltà era grande, ma non mi sono arreso e ho raccolto tutte le memorie e racconti che ho potuto avere, ricordandomi dell’insegnamento di Plinio che la storia, comunque scritta, piace e diletta.
Dedico questa mia fatica a voi concittadini. In essa troverete molti fatti dei nostri antenati che vi serviranno come esempio per imitarli nel bene e a condannarli nel male.
Castel S. Pietro 30 novembre 1798 Ercole Ottavio Cavazza
Giurisdizione di Bologna dal 1198 al 1300
Libro primo, Centuria prima
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Argomento
Le origini di Castel S. Pietro, sua ubicazione, da chi fu fondato e perché. Fatto colonia degli Alboresi. Nomi e Cognomi delle prime famiglie che lo popolarono. Dichiarate cittadine di Bologna. Fatte esenti da Dazi e Gabelle. Suo primo territorio e sue prerogative. S. Francesco di Assisi si ferma nel Borgo, vi predica e cosa gli accade. Il beato Giovanni Schiò, domenicano, si trattiene nel Borgo, vi predica e che accade. Giovanni Re di Gerusalemme si ferma nel Castello. Qui viene accolto dagli inviati faentini. Gli imolesi prima rifiutano il passaggio, poi lo ricevono con i dovuti onori. La fazione ghibellina occupa Castel S. Pietro e lo incendia. Viene ristorato. Assalito dal Conte di Romagna. Difeso valorosamente dai castellani e loro vittoria. Qui si tratta la pace fra i potentati di Romagna e i bolognesi, sua conclusione. Si segnano i confini fra il Castello e le Terre e i Comuni vicini.
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1198, l’inizio
Godevano le città della bella Italia pace e tranquillità nell’anno 1198, dopo la nascita del Redentore. Si sperava in una lunga serie di anni felici, quando morì in Sicilia, avvelenato dalla moglie, l’imperatore Enrico VI.[1] Riuniti per la scelta del nuovo imperatore, gli elettori si divisero chi per Filippo, fratello di Enrico, chi per Ottone[2] duca di Sassonia lasciando fuori il figlioletto Federico.
In questa occasione molte città della Lombardia e della Romagna cominciarono a combattersi, cercando di allargare i propri territori.
Marcovaldo di Annweiler, fatto duca di Ravenna da Enrico, si era spinto verso la Puglia a nome di Filippo per farsi tutore del nipote Federico. In questa occasione il papa Innocenzo III spogliò Marcovaldo del marchesato di Ancona e del ducato di Ravenna che riteneva possedimenti della Chiesa.
I bolognesi vedendo che ognuno si sollevava contro l’impero ritennero questa una opportunità per allargarsi sui luoghi circonvicini. Quindi usciti col Carroccio occuparono alquante terre nell’imolese. [3]
Però poiché la conquista non era sicura per le turbolenze degli imolesi che di quanto in quanto scorrazzavano nel bolognese, il podestà di Bologna propose al Consiglio Generale che si edificasse una ben munita difesa sopra la via consolare al Sillaro per fronteggiare la Romagna e per tenere a freno i malfattori che assalivano i passeggeri.
La proposta fu applaudita e approvata e si decise di fabbricare un forte castello. Così lo attestano gli atti pubblici della città e tutti gli scrittori bolognesi. Suspecta inde Imolensium cepit fides, itaque ad coercendos lorum impetus, Consilio placuit Castrum medio inter Bononiam atque Imolam itinere edificare. (…) S. Petri nomine insignitum.
Sono noti i versi di Giulio Cesare Croce
E per tener li suoi nemici indietro
Bologna fa fondar Castel S. Pietro
Infatti gli imolesi si erano fatti così coraggiosi che si erano avanzati fino ad Alborio nella vicina collina sul Sillaro. Il conte Guido, signore di quel piccolo castello, era alleato dei bolognesi. Per non lasciarlo bersaglio del furore imolese i bolognesi affrettarono la fabbrica del nostro castello. Per ciò il Parlamento elesse prontamente tre soggetti fidati cioè Pietro Carbonesi, Egidio Pritoni e Tiberio Garisendi ai quali fu data facoltà di scegliere il sito adatto. Vennero immediatamente sul luogo proposto, visto il pianoro sopraelevato a ponente del Sillaro, sopra la antica contrada di S. Pietro, lo scelsero per la ubicazione del nuovo Castello.
Come i bolognesi costruirono il Castello e si originò il nome delle strade
Nelle regole del governo bolognese troviamo quelle stesse che usavano gli antichi romani nella costruzione di simili castelli.
Non si annoi alcuno se nel corso di questo racconto troverà qualche digressione poiché si segue l’esempio di Quintiliano, maestro dell’arte storica, che ammette la digressione purché non sia dominatrice del racconto ma affabulatrice e somministratrice di lumi sulla trama dell’opera.
Fa d’uopo sapere che quando la Repubblica Romana, come scrive Livio, voleva piantare castelli per la difesa dell’Impero ove poi introdurvi colonie di cittadini, eleggeva tre soggetti capaci. Si dava ad essi ampio potere di scelta del sito più opportuno per la sicurezza della nuova colonia e della frontiera della repubblica. Triumviri a Senato Romano creabantur qui locis primum consideratis in quibus expediret Reipublice propugnaculum construi ut novam Colonia deduci vellent.
Il Parlamento bolognese si comportò nello stesso modo. I tre consoli indicati, come si è detto, scelsero la elevata pianura sopra la via romana ove vi erano le tracce di un accampamento difensivo fattovi dai bolognesi nel 974. Avesse voluto il cielo che allora fosse stato costruito il castello, non avrebbero allora avuta la peggio contro gli imolesi come accenna un antico scrittore delle cose d’Imola. Dallo scritto si dedurrebbe che in quell’anno non vi fosse sul Sillaro il ponte in tre archi che si vede ora, essendo stato allora il capitano imolese Bulgarello, per la piena, obbligato a farne uno di legno per il passaggio dei suoi soldati.
Un documento riportato dal chiarissimo padre Sarti nella sua opera: De claris Archigemnasi Bononien. Professoris, prova che prima della fondazione del nostro castello esisteva il ponte sopra il Sillaro sulla via romana. Se fosse di legno, di mattoni cotti o di macigni sul modello dell’architettura etrusca, come si vede ora, né le carte antiche né la storia ce lo raccontano onde ne resta sepolta la memoria nella oscurità dei tempi antichi.
Ritornando alle operazioni dei nostri triumviri essi si comportarono, nella costruzione del castello, come quelli di epoca romana come chiunque può osservare con i propri occhi.[4]
I romani, secondo Livio, formavano i loro castelli in forma quadrata, li circondavano di steccato e fossa. Pure così fecero i nostri triumviri come si osserva nella sua pianta, circonvallazione e distribuzione delle abitazioni. Nel 1399 però nel rifare le nuove mura sembra che a levante siano state ristrette, come si riscontra dai segni delle precedenti mura nelle fiancate visibili dei baluardi angolari.
Gli steccati romani distavano 200 piedi dalle abitazioni. Pure i nostri steccati furono piantati in distanza. La circonvallazione romana era un argine su cui era piantato lo steccato di travi acuminati ad uso di siepe, colla fossa larga dodici piedi e profonda nove. Così in principio fu circondato il nuovo castello invece che da delle mura.
I Romani separavano i loro quartieri con otto strade delle quali cinque erano le rette e tre le trasversali. Si chiamavano trasversali perché attraversavano le rette. Viae erant tres transversae et quinque rectae. Si dia un’occhiata al nostro Castello e si veda se diciamo il vero.
La prima delle trasversali romane andava da uno steccato all’altro e si chiamava via Pretoria per essere situata al di sopra della residenza del Pretore. Nello stesso modo fu tracciata la prima delle trasversali sopra il nostro Pretorio ora Casa Municipale[5]. La strada inizia a oriente dalla via Framella dove sono i palazzi nobili e va diritta allo steccato occidentale
Questa strada poi col tempo fu chiamata dal volgo via Ramazzotta perché dai conti Ramazzotti fu assestata e nel 1500 vi iniziarono in fondo il loro palazzo, ampliato nel 1600 dai loro successori marchesi Locatelli per villeggiarvi. In questi giorni il palazzo viene demolito dal possessore Bertocchi di Budrio.
La strada passa, proseguendo, nella piazzetta davanti alla chiesa di S. Bartolomeo dell’antichissimo convento degli agostiniani ora soppresso. La piazzetta viene chiamata Liana perché vicina a via Liana
Questa strada la si può chiamare via Pretoria come i romani, per essere sopra l’isolato del pretorio locale, infatti i nostri triumviri costruirono sopra la larga e quadrata piazza maggiore la Residenza comunale ove tutt’ora si trova.[6]
La seconda delle vie trasversali fu dai romani chiamata Principale o anche Media cioè via di Mezzo. Nello stesso modo si comportò il triumvirato e disegnò e stabilì la strada di Mezzo da oriente presso la chiesa do S. Francesco del convento soppresso dei frati minori osservanti edificato nel 1525. Proseguendo la strada attraversa la piazza maggiore e termina presso il sito della Rocca Grande che poggia sulle mura occidentali.
Questa strada era dai romani chiamata via media vel Principia perché vi tenevano i loro altari, vi si prestavano i giuramenti, vi si eseguivano le punizioni, vi si tenevano le bandiere e, come luogo santo, si rispettava.
Pure i nostri triumviri in questa strada, oggi chiamata via di Mezzo, vi destinarono le cose sacre, cioè la chiesa matrice plebana e in essa misero gli altari, il fonte battesimale e successivamente i Santi tutelari. Inoltre nel fronteggiante pretorio sulla piazza maggiore si tennero le insegne, si pubblicarono i proclami, tutte le leggi e i provvedimenti del governo.
Per quanto riguarda la giustizia punitiva fino all’ingresso dei francesi nel 1796 si tennero qui le antiche carceri, gli strumenti di tortura e i ferri della berlina nella colonna angolare dell’edificio comunale.
Come i romani teneva su questa strada le statue dei loro capi, i nostri castellani ponevano le memorie e le iscrizioni dei Governatori con gli stemmi gentilizi dopo che avevano bene servito il paese con il loro governo. Tali iscrizioni si leggevano sulla parete esterna del pretorio e furono tutte levate per opera dei francesi nel 1797. Esse avrebbero potuto illustrare la storia del paese e delle famiglie castellane e nobili di Bologna.
La terza strada fu dai romani chiamata Decumana, a decem cohortibus, perché abitata da dieci coorti. La nostra terza strada trasversale parte dalle mura orientale ove fin dal 1650 vi erano fornaci per pignatte ed altri vasi. Durarono questi edifici a tal uso fino al 1776 in confine dell’orto dei francescani. Da queste fornaci prese la via il nome di Via degli Ollesari. Questa proseguendo passa in mezzo alle case Vanti, Fabbri e Graffi, quindi attraversa la Via di Saragozza, la Via Maggiore poi le case Calderini, Nicoli, Graffi passando in Via dei Pistrini, quindi termina sulle mura a ponente presso l’orto già Calderini che si estende sopra la soppressa Via dietro le Mura, detta Quintana dai romani. Detta via Quintana é occupata fino all’angolo del Castello dagli orti Marani, Bergami e Cavazza.
I romani nella via Decumana ponevano i quartieri degli ufficiali come più comodo alla piazza grande, similmente la nostra per esser presso la piazza Maggiore e la Rocca Grande.
Passando alla descrizione delle altre cinque vie rette, che dai romani ricevettero il nome dalle cose a cui le avevano destinate.
La prima la chiamiamo, come i romani col nome di Frameola, cioè quartiere destinato ai Frameati che erano soldati armati alla leggera e si chiamava anche Veliti dalle armi che usavano. Queste armi erano un’asta con una acuta punta di ferro in cima. Cornelio Tacito scrive che si usavano nella Germania e i soldati frameati erano sempre i primi ad azzuffarsi perché coll’arma framea combattevano sia da vicino che da lontano secondo la necessità.
I nostri triumviri, ad imitazione dei romani, assegnarono ad una truppa, detta i Frameati, la contrada a levante per essere di fronte alla nemica Romagna. Da qui venne il nome di Via Framella[7] o anche Via dei Palazzi per esservi in essa grandi edifici fabbricati da nobili bolognesi per villeggiarvi, accogliere e banchettare con i Legati Pontifici, allorché venivano spediti dalla Corte romana al governo di Bologna. Questi prima erano stati incontrati pomposamente dagli ambasciatori ai confini. Questo solenne ingresso si mantenne fino al principio del 1700.
La nostra Via Framella è la più spaziosa di tutte e fu così progettata per mettervi il maggior numero di soldati. Comincia dalla parte superiore del paese dall’angolo di levante ove sopra il baluardo si alza il bellissimo torresotto rotondo, fabbricatovi dal Marchese Locatelli nel 1658.
Questa strada termina contro un fabbricato che si trova sul terraglio di Giacomo Graffi. A metà c’è un pozzo costruito per comodo pubblico.
La seconda strada non è nominata dai romani, il nome le fu dato per la presenza di famiglie emigrate da Bologna dalla Via di Saragozza, che si domiciliarono qui per godere delle immunità attribuite al Castello. Il padre Don Giambattista Meloni riferisce di un rogito del 1297 actum in platea Saragotie Castri S. Petri. La strada inizia dall’orto Locatelli sopra il terrapieno che circonda a sud il paese.
La terza strada era dai romani indicata col nome di Via Maggiore o Via Principia e iniziava dalla parte superiore e terminava nella parte inferiore ove aveva una porta. Così fu anche chiamata la nostra, sulla quale è inutile dilungarsi, inizia da sopra ove esiste la porta Montanara e scende direttamente sotto la torre maggiore e passa al Borgo sempre con lo steso nome di Via Maggiore.
Quanto alla quarta strada pure di questa non conosciamo il nome romano, sappiamo solo il suo percorso diritto dal di sopra al di sotto del castrum.
Nella parte superiore al pretorio vi abitavano i tribuni e i centurioni, questa parte, che arriva fino alla piazza, noi la chiamiamo Via Liana. Fu chiamata così dagli abitanti che provenivano dal vicino comune di Liano. La rimanente parte di strada che dalla piazza arrivava alla mura inferiore ed ora pone capo al foro boario, mediante apertura fatta di recente nelle mura, prese il nome di Via dei Pistrini a motivo che vi erano botteghe per le macine di granaglie e simili.[8]
La quinta ed ultima strada delle rette, chiamata dai romani Quintana, é quella che noi chiamiamo delle Caserme e dal volgo le Casulle e fu assegnata alle guardie in servizio alla vicina Rocca Grande della quale non è rimasto che il baluardo rotondo all’esterno della fossa occidentale presso il quale c’era l’ingresso con cassero di pietra e calce, oggi coperto da terreno lavorativo.
I castelli romani avevano ai lati quattro porte, l’una contro l’altra. Tale regola fu osservata anche nel nostro Castello. Una a nord ove è la torre maggiore sovrastante la porta dell’ingresso principale al Castello e l’altra superiormente di rimpetto, che fu chiusa nel 1399 quando si fece un nuovo muro circondario. La porta fu riaperta nel 1510 quando fu introdotto il Mercato dal Borgo entro il Castello. Questa porta fu chiamata Porta Montanara perché dal Castello si passa alla collina e montagna vicina.
Le altre due erano poste ad est e ad ovest. La prima contro la Via di Mezzo che fu chiusa nel 1399 e poi successivamente ripristinata presso la chiesa di S. Francesco ove erano le abitazioni della famiglia Cheli, fondatrice del convento dei frati minori. La porta ora si chiama: i Portoni di S. Francesco.
L’altra porta fu fatta a ponente e sbucava in piazza maggiore fino a quando fu edificata la Rocca Grande lunga 160 piedi bolognesi e larga 63, con lo scopo di difendersi dai nemici esterni e dai fazionari interni[9]. Rocca che si mantenne fino al tempo di Paolo Papa V[10] in cui, cessate le lotte intestine tra le fazioni bolognesi, fu demolita ed il suolo fu concesso in enfiteusi alla famiglia Morelli.
Quindi fu costruita la fortissima torre che guarda il Borgo alta 100 piedi. Questo edificio è l’unico testimone rimasto delle prime costruzioni del Castello. Al fianco fu fatta una piccola rocchetta difensiva. Questa fu distrutta quando furono ricostruite le mura della cerchia e fu edificato davanti alla torre un chiostro che, alto fino alla metà di questa come si vede, aveva un corridore al quale accedevano i soldati da un’apertura fatta nella parete della torre prospiciente il Borgo.[11]
Cessate le guerre il chiostro fu trasformato in abitazione, questa con la torre fu donato da Clemente VII al suo chierico di camera, il castellano Giovanni Rota. In seguito, con chirografo pontificio, passò in proprietà ai nobili Malvasia che, ai giorni nostri, lo dettero in enfiteusi alla municipalità del paese.
Sulla torre fu costruita un’altra piccola torretta per mettervi una campana e una sentinella per scoprire da lontano il nemico e poter dare l’allarme. Circa a metà della torre si vede una porticina che dava accesso al corridore del chiostro. Unite poi queste costruzioni con la Rocca grande e piccola, il nuovo Castello poteva contenere una discreta popolazione ed essere difeso dai nemici.
1199, la fondazione.
Tornando al momento della fondazione, il Parlamento generale di Bologna, che prosperamente governava, emulo sempre della Romana Repubblica, impose al podestà Umberto Visconti di proclamare: che chiunque colla robba e persona venisse ad abitare il novo Castello fosse stato esente per anni XXV da ogni Dazio e Gabella e sarìa sempre stato considerato qual cittadino di Bologna, che li novi abitanti potessero creare li Consoli come le altre castella del territorio e sarebbero stati ammessi alle cariche civiche.
In vista di ciò gli abitanti del vicino castello di Alboro furono dedotti colonia al nuovo Castel S. Pietro, a cui se ne aggiunsero altre famiglie della città e comuni vicini.
Le colonie romane erano luoghi destinati ai cittadini che si mandavano via da Roma per diverse ragioni tra le quali c’era quella di sgravare la città dai poveri. Un altro motivo era quello di fronteggiare i nemici, come riferisce M. Tullio.
Questi furono i principali motivi per cui gli alboresi abbandonarono il loro castello che era spesso attaccato dagli imolesi. I romani per popolare le colonie assegnavano ai coloni dei terreni, così il nostro Senato bolognese, non avendo terreni, per compensare i nuovi abitatori di Castel S. Pietro li compensò con le immunità e i privilegi indicati.
Anche molti abitanti del Borgo entrarono nel Castello. Non vi entrò il conte Guido signore del Castello di Alboro, infatti di lui non si fa cenno onde si suppone che si domiciliasse altrove.[12]
Tutto ciò ce lo conferma Carlo Sigonio nella sua Storia di Bologna: Quia etiam Alborum coloniam deduxere et colonos omnes immunitate donavere, at Castro S. Petri novis incolis assignato, Ubertus Praetor jussu Consilij generalis statuit ut cives bononien. esset et Consules perinde ac alia Castra bononiensium ditioni subjecta crearent. Furono perciò investiti del nuovo Castello, del quale ne accettarono l’investimento, gli alboresi Accarisio e Oddone, Consoli dell’abbandonato castello, in presenza di Oradino Federici, Ugozione Ginibaldi, Orlando Dalforte, Araldino Lenzi, Lamberto Petrucci, Albertino Pellegrini, Viviano Costa, Gerardino Zogoli, Vitale Peroni, Gerardino Delzano come più ampiamente viene manifestato nel seguente documento:
Anno D. millesimo centesimo nonagesimo nono. Indictione secunda. Die Martis XVI Kal. Decemb.
In Bononia in domo quondam D. Bulgari coram Rodaldo Rubeo et Rainerio de Guarino Procuratoribus comunis, Alberto Guidocti de Maio, Alberto D. Rolandi, Gerardino D. Alberici, Buvalello Guidonis de Buvalello offitialibus Curiae et in praesentia Oradini, Federici, Ugucionis de Sinibaldo, Ramberto de Masina Manzi, Oraldini da Forte, Araldini, Dominici Lenzi, Lamberti, Petrucci, Ugolini de Gilberto, Lambertini de Aquavia, Novellini, Alberici, Pellegrini Viviani Dalla Costa, Gerardini de Zogolo, Vitalis de Perona, Gerardi de Rudolfino, Gerardini de Zanis de Alborro et coram Arginello, Henrighetto de Rolando Vecto, Hajmerico de Ropa Castello, Ramberto de Buvalello, Macagnano Rimesino, Juliano Azonis de Majo, Aspectato Petri Cavalli, Testibus
D. Ubertus Vicarius Bononiensis potestatis, accepta parabola a Consilio Generali et parabola supradictorum de Curia.
Statuit ut omnes homines de Alboro et caeteri qui voluntate comunis Bononiae in Castro S. Petri super Silarum consederint et habitaverint, sint liberi et absoluti omnino a qualibet factione sicut cives Bononienses usque ad viginti quinque annos, et occaxione hujus adventus habitationis in castro praedicto facti nullus debeat vel possit suum feudum vel possessionem perdere perpetuo et comune Bononiae hoc teneatur quemlibet perpetuo deffendere et auctoritate et in brevi potestatis futurae communis ponere et statuere quod ipse potestas teneatur hec omnia eo modo ut supra legitur jurare ipse et seguentes potestates vel rectores qui pro tempore fuerint usque ad viginti quinque annos similiter et observare consulariam in eodem Castro habitatores ejusdem eligant sicuti et alia castra bononien..
Confirmetur tamen a Communi bonon. sicuti et aliae fiunt, et hoc modo ut supra legitur. D. Ubertus Vicarius Bononiae Potestas ex parte Comunis Bononiae, investivit Accarium et Oddonem Consules de Alborro recipientes pro se et nomine omnium qui voluntate Communis Bononiae ipsum Castrum inhabitaverint:
Ego Johannes Pileti notarius communis Bononiae et memorati dicti Uberti Vic. eisdem Pot. interfui et eodem Potestate jubente hanc cartulam indi scripsi.[13]
Essendo gli Alboresi, diventati Sanpierani, riconosciuti come cittadini bolognesi furono ammessi agli uffici e cariche della città come si vedrà.
Trasferiti i suoi abitanti Alboro divenne solo un piccolo casolare nella collina sopra il Sillaro, poco distante al confine imolese. Esso conserva ancora il suo nome primitivo, pronunciato lungo con due erre: Alborro.[14]
Il sito di Castrum Albori, l’errore del Ghirardacci.
Lo storico di Bologna Ghirardacci ha ubicato Alboro dove attualmente esiste un grande casamento detto il Castelletto, che è servito lungamente come luogo di villeggiatura ad una nobile famiglia fino al 21 maggio 1604 giorno in cui nelle vicinanze avvenne un atroce delitto.
Non si può passare sotto silenzio l’errore in cui è inciampato questo famoso storico. Scrive che dopo la distruzione di Alboro, castello del conte Lotario, vi rimase solo il nome di Castelletto, non riflettendo affatto sul nome del vicino casale pronunciato lungo dal dialetto popolare bolognese: Alborro, dal latino Alborium o Alborum, casale abitata da diverse famiglie e con diverse abitazioni di distinte proprietà. Il Castelletto non è molto lontano da Alborro e fu costruita dal Cardinale Dal Poggio per il suo ritiro, ove attendeva agli studi legali e aveva una importante libreria ai giorni nostri venduta e dispersa.
Se avesse tenuto conto che nei pressi rimanevano avanzi del distrutto castello e avesse meglio esaminati gli antichi catasti, le carte dei Campioni rurali e gli scrittori delle cose d’Imola che descrivono la ubicazione di Alborro, crediamo avrebbe scritto diversamente.
Tanto più avrebbe dovuto farlo poiché pure ai suoi tempi erano visibili mucchi di rovine che delineavano i resti di un antico municipio e macigni tagliati a scalpello al modo del modello gotico e toscano.
C’è da aggiungere che il Ghirardacci era originario di Castel S. Pietro, essendo egli figlio di ser Andrea Ghirardacci, perito in lettere, fornito di documenti patrii, di una progenie che contava domicilio nel nostro Castel S. Pietro fino dalla fondazione, quindi doveva conoscere, più di noi, le notizie più vicine all’epoca in cui fu abbandonato quel municipio d’Alborro.
Poteva almeno informarsi dai suoi parenti anziani e dai più attempati paesani per avere notizie più certe dell’ubicazione dell’indicato Alborro. Crediamo che se ciò si fosse messo a cuore, avrebbe capito che non fu mai piantato Alborro ove è il casamento del Castelletto, che nemmeno ha aspetto di castello. Invece avrebbe compreso che il castello Alborro esisteva nel sito in cui anche oggi giorno si conserva il toponimo come si riscontra pure negli antichi codici comunitativi dell’estimo dei terreni.
La conferma la avrebbe avuta considerando la sua vetusta costruzione, i materiali, la delineazione simile a suoi vicini castelli nella collina di Fiagnano, Bello, Corbara abbandonati e da tempo in rovina.
Inoltre Il locale del Castelletto è incapace di contenere la metà di quelle familie indicate nel su riportato decreto di esenzioni come pure quelle indicate nel giuramento prestato al parlamento di Bologna nel 1178, epoca lontana dalla emigrazione degli alboresi a Castel S. Pietro.
Se tutto questo non fosse sufficiente si provi ad osservare la località tanto del Castelletto quanto del distrutto Alborro e si rileverà se ci opponiamo al vero. Nella situazione di Alborro osserverà, avanti quel rimasuglio di fabbricato, la piazza che serve ora di ara agli abitanti degli antichi edifici rimasti, riscontrerà la posizione dell’ingresso della Terra, la cisterna comune per le acque pluviali e infine la strada per cui si accedeva all’abitato che viene incrociata da altra strada detta via di Varignana per la comunicazione di commercio tra questi due castelli.
Nelle vicinanze su una piccola emergenza, portante il nome di Ghisiola ossia Chiesuola, sono stati trovati ai giorni nostri frammenti di antichi vasi serventi il culto, campanelli di metallo, pezzi di candelabri di chiesa. Resti di un edificio di culto al servizio degli alboresi. [15]
Sappiamo che nei tempi antichi si fabbricavano le chiese in piccolo per rendere al vero Dio il dovuto culto e fuori delle città e municipi per timore degli attriti. Ciò non si ritrova in vicinanza del Castelletto.
La denominazione stessa di Alborro tuttora si conserva in bocca delle persone più rozze ed incolte non che nel dialetto bolognese, toscano e latino venendoci canonizata nei rogiti pubblici e nei contratti comunali.
I latini al tempo della esistenza di questo muncipio, ed anche prima, lo chiamarono sempre Alborium, i toscani Alborio ed Alborro e non Arbore. Il Manzoni nella sua Storia de Vescovi imolesi in una bolla di Eugenio III del 1051 annovera la conferma al vescovo imolese della chiesa del Castello d’Alborro così: Ecclesiam S. Pauli de Castro Alborii, confirmamus. ma non Arboris!
Nel 1178 al fol. 14 del Registro grosso, Archivio pubbl. di Bologna, ove sono descritte tutte le famiglie di quel castelluccio, che giurarono fedeltà al Senato di Bologna, trovasi Alborio scritto in latino con i due sostantivi della seconda declinazione cioè Castrum Alborii e non Arboris della terza. Il decreto pure di Uberto Visconti podestà di Bologna nel 1199, epoca in cui si fabbricava Castel S. Pietro non declina punto dal vocabolo della seconda declinazione Homines de Alboro e non di Arbore.
Venendo a tempi più recenti del 1491 e del 1530, in cui furono misurati i terreni componenti il territorio di Castel S. Pietro, si troverà, nei catasti pubblici e nei campioni esistenti nell’archivio della Comunità, scritto Alborro ed in nessun luogo dell’Arbore. Carlo Sigonio, chiaro storico e che era prossimo come il Ghirardacci al tempo in cui fu abbandonato Alborro dagli abitanti, scrisse nella sua storia Alborium e non Arbor oppure Arboris.
Si concluda dunque che il fondo e suolo sopra indicato col nome di Alborro è quello che forma un gruppo di case fabbricate sugli antichi modelli del gotico, denominato Alborro, castello di giurisdizione del Conte Lotario e Conte Guido. Quindi che questo piccolo castello non era ubicato sul posto dell’ampio casamento detto il Castelletto di spettanza del Cardinale Poggio e suoi successori.
Le famiglie che da Alborro vennero al nuovo Castel S. Pietro si ricavano scritte nel Decreto di Uberto Visconti, alle quali se ne unirono altre di luoghi diversi e del Borgo. Ad esse possiamo aggiungere le molte scritte nel giuramento del 1178, allorché il Conte Lotario giurò fedeltà a Bologna. A quello ed a questo noi ne aggiungiamo altre ritrovate in autentiche carte ed in cronache cioè: Peggi, Prudenziani, Preti, Toschi, Pepoli, Rinieri, Giraldi, Vitali, Burioli, Paganelli, Ungarelli, Rustighelli, Mattei, Ubaldini, Gilioli, Zopi, Feliciani, Schifati, Pucci, Dalzano, Belloli, Zenzani, Tani, Brochi, Zanesi, Ghirardacci, Laxi ed altri che vennero di Bologna cioè: Schiffati, Fichi, Bonori, Brochii, Fabbri di Ferro, Leali, Ricardi, Nobili, Rondoni, Ciarli e Zangolini.
Prima del Castello….c’erano i Romani
Qualcuno ci potrebbe rimproverare di non avere avuto cuore di ricercare memorie più antiche del 1200, come alcuni scrittori che per rendere più importanti la storia della loro patria si sforzano originarla sino dalla edificazione del mondo e poi, essendo in contrasto con altri, incontrano poca o nulla credibilità.
Quindi, sebbene abbiamo da fonti autorevoli sia nazionali che estere prove certe sull’epoca e origine del nostro castello, non di meno supponiamo che vi saranno scrupolosi che vorranno sia la sua edificazione assai più antica, portando l’autorità di Gaudenzio Merula, diligente scrittore delle antichità cisalpine.[16]
Nel suo libro De Gallorum Cisalpinorum Antiquitatibus scrive: Claterna vetus opidum, vi Gallorum et Longobardorum deletum. Vicus S. Petri Silare aluitur. Nella parola Vicus sidovrebbe intendere il nostro Castel S. Pietro già fondato fino dai tempi della distrutta Claterna, che fu fino alle fondamenta abbolita ed annichilata dalla soverchiaria di Galli[17] e Longobardi e devastato anche il suo territorio fino al Sillaro.
La parola vicus usata dal Merula non indica altro che uno scarso abitato di poca popolazione ed una contrada. Se fosse stato per ciò qui ubicato il nostro nuovo Castello certamente il diligente Merula l’avrebbe descritto con altro termine. Con tali ragioni crediamo tolti tutti gli scrupoli in proposito.
Per quanto riguarda la contrada indicata vicus pensiamo sia un avanzo dei mali che fece nel 749 nel bolognese Astolfo Re dei longobardi, che fece molti più danni di quelli che fecero in passato tutti gli altri popoli barbari. I longobardi allorché ebbero in potere tutta l’Italia si sforzarono di guastarle il più bello che l’adornava. Mutarono le provincie, i nomi delle città, terre e castelli, atterrarono gli edifici e monumenti romani, guastarono la parlata toscana, i dialetti, si mutarono per fino le pronunce e le parole, formarono nuove leggi e costumi. I longobardi furono così chiamati per le lunghe barbe e capelli lunghi sciolti che portavano. Furono cacciati da Carlo Magno e fu tranquillizzata tutta l’Italia i cui popoli si diedero poi al ristoro dei loro municipi maltrattati.
Il Comune bolognese, dopo la scomparsa di Claterna, aveva assorbito il suo territorio e il Senato intervenne a sanare i danni. La contrada suddetta di S. Pietro ne sentì benigni effetti per essere di fronte immediata alla Romagna d’onde poi col tempo divenne un Borgo come ci scrisse il Vanti sulla tradizione popolare e come si riscontra da documenti autentici ed ultimamente dagli annali del Savioli.
Supponendo ancora che qualcuno che volesse confondere la costruzione del nostro castello con altri portanti lo stesso nome li togliamo da ogni equivoco per la presenza di una contemporanea lapide in marmo in caratteri gotici, che esisteva sopra l’ingresso interno della torre maggiore del nostro Castello, che, per salvarla dalle vicende dei tempi passati, il Conte Antonio Malvasia nel 1635 la pose nel giardino del suo palazzo. Alcuni anni fa la magnificenza del Senatore Giuseppe Malvasia la donò alla pubblica rappresentanza che subito la pose entro l’ingresso della porta maggiore, alla sua destra.
In essa si legge che al tempo di Rolando de Rossi di Parma, reggendo egli saviamente Bologna, nel 1200 fu edificato il nostro Castel S. Pietro in questo luogo affinché in quei tempi pericolosi servisse di antemurale alla città, fossero sicuri i passeggeri e i malfattori si allontanassero per timore della pena.
Annis millenis currentibus atque ducentis
quando Parmensis rolandus nomine dictus
Justitiae cultor et Pacis verus amator
Bononiam rexit Legalia jura requirens
yunc etiam jussit pacem cupiendo tenere
hoc Castrum fieri Comitatu Bononiensi
transitus ut fieret securus euntibus inde
et malefactores fugerent formidine paena
Da quanto esposto sulla origine e datazione del nostro Castello si riconosce non essere precedente al 1200. In ciò sono concordi tutti gli storici che ne hanno scritto. Pure la ubicazione è incontestabile. Esso si trova sulla via romana, la strada costruita nel 186 avanti Cristo dal Console Marco Emilio Lepido e non su quella che in antico valicava le nostre colline e che fu abbandonata per le sue incomodità. I tratti ritrovati di recente dell’antica selciatura ne confermano la presenza come pure i miliari ritrovati nel 1768 in lavori sulla strada. Fra gli altri se ne ritrovò uno come una colonnetta, distante circa mezzo miglio dal Castello, in località Marazzo, alla sinistra procedendo verso Bologna. Questo ritrovamento fu diligentemente portato, dietro le nostre notizie, il 17 gennaio 1769 nell’Istituto delle Scienze ove fu collocato nell’atrio della scuola dei pittori figuristi. Egli è alto poco più di quattro piedi, mozzato al di sopra e contiene le seguenti lettere romane a caratteri maiuscoli
M. AEMIL.
LEPID
C
Non ci vuole molto, per chi conosce la storia romana, per riconoscere che questa colonnetta è uno dei miliari fatti piantare da Cesare Augusto quando si prese cura di restaurare le cose dell’Impero. Si impegnò soprattutto nelle strade che portavano a tutte le parti dell’Impero partendo da Roma ove pose il miliare aureo, (una colonna di marmo dorata). Da questa colonna si contavano le distanze stradali. Fece anche porre in diversi luoghi iscrizioni e lapidi indicanti gli autori che le costruirono. Così nella via romana si conserva il nome del suo autore come si legge nella iscrizione riportata così trascritta
MARCO
AEMILIO
LEPIDO
C
(Curante oppure Console)
Un altro miliare si conserva alla vista di tutti in Borgo al fianco del pilastro della casa dei fratelli Andrini presso il casamento dei giudei, detto il Ghetto. In questa colonna si legge in lettere maiuscole romane:
M. AEMILI
LEPID
CCLXII
e dietro
M. F. M. N.
COS
XV
CCLXII (256) indicherebbe la distanza da Roma, M.F.M.N. forse si può leggere che Marco Emilio figlio di Marco e nipote similmente di Marco Lepido, console per la 15° volta, fece qualcosa in questa strada.
Quindi possiamo sicuramente dire che il nostro Castel S. Pietro giace sopra la via consolare detta comunemente Emilia, nel bolognese, poco più di un miglio distante dalla provincia di Ravenna. È prossimo alla sponda sinistra del Sillaro, sul quale si incurva un bellissimo ponte a tre archi che congiunge le rive. Sorge con buone fortificazioni in elevata pianura, ai piedi di ameni colli rivestiti di viti e piante di ottimi frutti. Abbonda il suo territorio di frumenti, biade e di ciò che può occorrere alla umana alimentazione.
L’aria è così salubre che fu chiamata dagli antichi nei tempi di pestilenze locus perfectissimi aeris. Marco Porzio Catone scelse un aperto monte per suo ritiro in queste vicinanze sopra il castello di Dozza, d’onde quel monte ne riportò poi il nome di Monte Catone.
Così operò nel nostro territorio Caio Rusticello, amico di Caio Tullio, eccellente oratore che si ritirò nella aperta pianura, lontano dai rumori della città, in un luogo che prese il suo nome poi, col dialetto, alterato in Rusticale. Nel 1178 in un giuramento di fedeltà a Bologna che presero gli alboresi risulta menzionato un Rusticello. Da scrittori più antichi si ha che la famiglia Rusticello si estese in diverse parti del territorio bolognese. Perciò si può sostenere che il Rusticello nominato nel giuramento sia un rampollo di questo famoso oratore.
Il nostro impegno però non è quello di cercare le genealogie passate nel nostro Castello per il quale la natura aveva scelto il luogo più opportuno per servire da antemurale di Bologna contro i suoi nemici.
Un piccolo edificio nel Borgo era il luogo di preghiera degli antichi abitanti. Non conosciamo quando fu edificato e a chi era dedicato. Sappiamo solo che fu costruito molto prima dei secoli cattolici e che poi fu dedicato al principe degli apostoli S. Pietro, dal quale si pensa derivi il nome del nostro Castello. Il citato Padre Vanti riferisce nelle sue Selve delle patrie memorie del paese che ai tempi di Claterna esisteva qui una contrada nominata Silarena, nome derivato da due parole latine unite Silaris Arena, per essere presso le sponde sabbiose del Sillaro.[18] Il Vanti non ci dice la sua fonte, ma la sostiene dovuta ad una immemorabile tradizione della gente.
Il Vanti poi aggiunge che finita l’idolatria da queste parti fu distrutto il tempio in cui gli abitanti adoravano gli stessi dei che si adoravano nella Roma pagana.
Che si possa dubitare delle cose scritte non possiamo impedirlo non avendo carte o memorie adatte, tutte mancanti nelle luttuose vicende del primo cristianesimo.
L’Ughelli nella sua Italia sacra ci fa noto che S. Pietro creò S. Apollinare vescovo di Ravenna e ad esso fu imposto di diffondere la verità evangelica nella vicina Emilia.
Crediamo che essendo il nostro Borgo ai confini della Romagna, il seme evangelico arrivasse prima da Bologna, quindi, abbandonata la idolatria, i nostri antichi paesani convertirono il vecchio tempio al culto del vero Iddio. Essendo poi stato martirizzato S. Pietro l’anno 24 del suo pontificato sotto l’imperatore Nerone, teniamo per sicuro che S. Apollinare fosse quello che dedicò il tempio suddetto a S. Pietro.
Propagatasi in seguito la fede cattolica i Papi elessero pastori nelle città. Nella serie di essi abbiamo nell’anno 356, vescovo di Bologna, S. Basilio che accrebbe le chiese e i pastori e fondò le Chiese curate. All’arrivo di S. Petronio a Bologna, che avvenne nell’anno 429, la nostra chiesa di S. Pietro, essendo beneficio della Mensa arcivescovile di Bologna, fu tra 70 chiese curate donata agli abati Celestini detti volgarmente di S. Stefano di Bologna.
Ai tempi nostri molti rogiti delle concessioni enfiteutiche fatti dagli abati dei terreni uniti alla nostra chiesa, la contrassegnano come Chiesa curata con le precise parole olim cura. Gli ultimi rogiti sono del 1617 e del 1769.
L’affittuario dei terreni sottoposti a questa chiesa, oltre ad una quota pecuniaria annua, era impegnato a far celebrare 52 messe settimanali e altre 10 il giorno della festa dei santi Pietro e Paolo.
Lo storico faentino Tonduzzi racconta che il nostro Castello fu insignito del nome di S. Pietro dai bolognesi perché da tempo era il principale protettore della città e del territorio.
Gian Francesco Negri, nei suoi Annali di Bologna degli anni dal 1196 al 1198, scrive che la prima pietra di fondazione del nostro Castello fu gettata li 29 giugno giorno dedicato alla festa di S. Pietro, onde per questa ragione riportò il nome di Castel S. Pietro.
Da una mappa antica del Nelli del 1593, si legge così:
Petrus ubique pater, legumque Bononia mater.
Illius hoc Castri nomine signat opus
Questo distico, che è conforme a quanto scritto da Negri e Tonducci, fu trascritto nella sala municipale del paese.
Nel marzo del 1763 essendosi rotto il fosso che divide la chiesa di S. Pietro dall’antico cimitero e avendo le acque scavato il terreno, fu ritrovata una iscrizione romana. La acquistammo e questa è la scritta:
D.
OPI
CL. SP. CL.
SAL. TUT.
AVR. CON.
ET IVLIA. F.
V. B. ….
Comunicata la scoperta agli esperti di antichità, supposero che qui vi fosse un tempio dedicato alla dea Ope, protettrice della terra e delle selve. L’erudito Ovidio Montalbani nel suo libro Antiquitas antiquitatum Bonon. afferma che in queste zone , coperte da folte boscaglie, vi erano diversi templi e cioè a Stifonte quello a Diana, a Monte Cerere, chiamato scioccamente Monte Celere [19], uno dedicato alla dea Cerere a cui fu sovrapposto dai primi cristiani una Pieve la cui giurisdizione arrivava fino al Medesano e pure a Monte Pasto vi era un tempio dedicato al dio Pastino nella parete del quale si vede ancora la statua di questa divinità guastata dai fanciulli nelle scoperte pudende. Pure qui sorse una pieve che si chiama tutt’ora Pieve di Pasto.
Il dott. Francesco Bartolucci originario di Castel S. Pietro, sagace investigatore ed interprete dei monumenti antichi, riferisce in alcuni suoi fogli manoscritti, comunicatici dal cittadino budriese Mariano Gollinelli, di avere visto alcune medaglie trovate a Claterna, con la rappresentazione da un lato la dea Ope sopra un carro tirato da due leoni e dall’altro due lettere romane cioè P. C. Queste si devono interpretare PRAESIDIUM CLATERNATE oppure PRAERES CLATERNAE.
Si può quindi supporre che nel sito della attuale chiesa di S. Pietro i claternati abbiano costruito un tempio dedicato alla stessa divinità, poiché questo nostro borgo faceva parte del loro territorio. La scritta può essere così interpretata:
DIVAE
OPI
CLAVDI SPORVLI oppure CLODI SPURILI CLATERNATIS
SALUTE TUTATA
AVRELIA CONIVX ET
IULIA FILIA
VOTI BENEMERENTES
………………………………
Quale che sia l’interpretazione la cosa certa è la presenza di un insediamento in epoca romana.
È un peccato che non esistano più tanti abitati e costruzioni distrutte da Galli, Longobardi ed altri barbari. Attorno a al nostro Castello si scoprono fondazioni, tracce di non piccoli fabbricati che sono memorie della magnificenza romana.
Nel fondo Colombarina Vachi, sopra la via Emilia a levante, si trovano, scoperte dall’aratro, piccole pietre rosse di forma quadrilatera, esagonale e ottagonale e frequenti tessere di mosaico. L’aratro è spesso fermato da fondamenta sotto terra.
Giovanni Bedetti, coltivatore di quel terreno, vide un giorno l’abate Serafino Calindri, autore del Dizionario Corografico bolognese, che faceva indagini ed osservazioni sul suo terreno. Lo condusse nella sua abitazione ove gli fece osservare una pietra, incastrata nella parete del focolare, ove erano lettere romane presso che consumate. Il Calindri ne fece copia poi chiese di potere togliere la pietra ma, nonostante il mio intervento, non gli fu concesso. Quindi anche io ne feci la copia che è:
………………….. NAE
CON …………… MPT
………………………….
C Q V………… X S Q
È quasi impossibile interpretare quello che resta dell’iscrizione, non c’è dubbio però che non sia una lapide sepolcrale fatta da un marito alla sua sposa. Ce lo fa credere la desinenza della parola NAE, nella prima linea, conforme ai nomi di Corina, Lucina, Arcina e simili, nella seconda linea si osservano le seguenti lettere CON, vale a dire Conjugi o Conjux, ed in fine sulla stessa linea MPT che si può supporre COMPTATE. A questa interpretazione corrisponderebbero le lettere della quarta linea cioè CQV, solita abbreviatura per CUM QUA VIXIT e nella parte mancante della linea si può supporre vi fosse il nome del marito con gli anni, la X formerebbe il numero dieci e la S col Q potrebbe essere SINE QUERELA. Simile iscrizione è tipica dello stile lapidario dei romani. Comunque lasciamo l’impegno della interpretazione a chi possiede maggiori cognizioni, essendo per noi ardua la briga.
Poco lontano da questo fondo, in un altro podere della stessa proprietà chiamato la Ca’ Alta si ritrovò un’altra inscrizione mutilata in marmo bianco, contenente i seguenti caratteri romani. Il frammento, ritrovato nel 1765 da Antonio Trochi e fratelli lavoratori di quel fondo, è in nostro possesso.
O….
SEV………
TI. CL. MEN……..
CONIV……………
Questo fondo Ca’ Alta, come il suddetto Colombarina, è nel quartiere della Lamma, sopra la Via Emilia al levante di rimpetto alla celletta di S. Maria Addolorata detta la Madonna del Cozzo ed anticamente Croce pellegrina.
Questo frammento dovrebbe appartenere ad un edificio sepolcrale. Gli antichi romani usavano alzare depositi ed ossari ai loro defunti presso le vie maestre, massime quando erano persone di una qualche chiarezza di lignaggio.
Si è tentato, scavando, di cercare eventuali resti del monumento, ma sono stati trovati solo frammenti di cornici di marmo bianco mescolato a frammenti di tegole. Quindi è giusto pensare che il frammento sia stato trasportato da altro sito e sia stato usato per un aggiustamento della casa rurale, come raccontarono i coloni.
Consultati gli antiquari sulla interpretazione del frammento abbiamo ricavato che forse faceva parte del sepolcro di uno di quei tribuni romani denominati Seviri augustali, dalla cui moglie Tiberia Mentonia fu costruito il deposito per le sue ossa. Il monumento così dovrebbe leggersi:
OSSIBUS
SEVIRI…………………..
TIBERIA CLAUDIA MENTONIA
CONIV…………………..
Questa Tiberia Claudia Mentonia, potrebbe essere una matrona romana del cospicuo lignaggio dei Mentoni romani. Un Cajo Julio Mentone nel 324 di Roma ebbe il consolato, altro Sesto Julio Mentone fu tribuno militare nel 330 e così altri della stessa famiglia, che furono tribuni militari fino al 350 della edificazione di Roma.
Un altro monumento ben più importante fu ritrovato alcuni anni prima in un luogo al di sopra e poco distante dal nostro Castello, facente parte di una possessione detta Fosso lovara, nel quartiere del Dozzo di proprietà dei Padri Gesuiti di Bologna. Ce lo fece vedere il Padre Domenico Leardi nobile veronese, allorché era procuratore della Compagnia. Ci concesse il comodo di farne copia della inscrizione. La inscrizione è la seguente:
APVLIA OLINIA
M. APV. FV.
F. C. V. S. S.
Nelle pagine del catasto delle possidenze del paese, il più antico nell’archivio municipale dell’anno 1490, trovammo il nome di un campo facente parte alla possessione Fossalovara indicato PULIA. Si può supporre che il nome di PULIA sia la contrazione dialettale di APULIA. Nel 1786 Tomaso Giordani, abitante nel fondo poco distante chiamato Il Dozzo, arando il terreno aveva scoperto le tracce di un antico fabbricato.
Allettato dalla speranza, comune a tutti gli agricoltori, di ritrovare cose preziose ed anche per agevolare la speditezza dell’aratro, seguì la traccia delle fondazioni. Trovò un muro rettilineo molto solido, dietro al quale scoprì due piccoli ambienti sotterranei vicini e dietro due lunghissime linee simili a un corridoio, che veniva chiuso da altra linea alla fine.
I due piccoli ambienti vicini, che sembravano due sepolcri, erano lunghi 8 piedi bolognesi, profondi sei piedi circa e larghi poco più di tre e avevano nella sommità del fornice una finestrella larga per la quale poteva passare una persona ed aveva l’incastro per poterla chiudere. Scoprì pure alcuni gradini per la discesa nel loro pavimento.
Dopo questa scoperta seguendo la traccia del supposto corridoio, circa a metà scoprì un pavimento rettangolare a mosaico lungo trenta passi, equivalenti a 200 piedi bolognesi, e largo 15 passi nel cui mezzo vi era un segnacolo raffigurante quattro fiammelle che, dopo averle levate dal loro incastro, pulì con l’acqua e se le portò nella sua abitazione.
Sopra poi aquesto pavimento scoprì e trovò una base intonacata rotonda di grossi mattoni di terra cotta, che tolse per servirsene per fare un sentiero dalla sua abitazione sino alla vicina strada detta dagli antichi Via Viarum e dai moderni Via di Viaro. Infine distante circa dieci piedi da questa base trovò un piccolo battuto lungo poco più di otto piedi e un quadrilatero di sassi a foggia di mensa.
Fattaci questa descrizione, non avendo fatto che della inutile fatica, ce ne fece a penna un disegno dimostrativo essendo uomo pratico di lettere e disegno per il vecchio mestiere di tagliapietre e scalpellino in una cava detta la Gozadina, nel comune di Varignana.
In vista di tutto ciò ci portammo sul sito con l’abate Serafino Calindri e il Padre Francesco Conti, bibliotecario del Senato nell’Istituto delle Scienze. Esaminato il tutto, si argomentò che in questo fabbricato vi fosse nei secoli idolatri un recinto di vestali costruito da una certa Apulia, in questo luogo appartato per pregare meglio.
Farebbe ciò supporre la massiccia base rotonda come piedistallo della statua di un idolo e che il pavimento vicino fosse il battuto del tempio. Il Giordani ci fece osservare una nuova traccia quadrilatera ai piedi del pavimento che fu considerato per il vestibolo del tempio. Quanto poi ai due piccoli ambienti che nella carta del disegno sono quelli con un semicerchio, furono interpretati come avelli sotterranei destinati a seppellire vive quelle vestali che si fossero scoperte mancanti nelle loro regole, che tale era la legge.
Per quanto riguarda la iscrizione, di cui se ne fece copia il Calindri, per unirla alle altre memorie del nostro paese, nel suo Dizionario bolognese, fu così trascritta:
APULIA OLINIA
MANCI APULI FILIA VESTA
FUNDO COMPARATO VIVENS SIBI STATUIT
oppure
VOTUM SUSCEPTUM SOLVIT
Sappiamo da Plutarco che alle vestali non era interdetto comprare beni, né fare testamento.
A questo monumento si potrebbero da noi aggiungere altri frammenti di antichità romana e segnatamente una porzione di una olla cibaria colla inscrizione nell’orlo superiore R. PULCRI, che è presso noi, ritrovato nel vicino fondo rurale della Maranina. Però, considerando che saremmo troppo prolissi e che ci allontaneremmo assai dal nostro oggetto, ripigliamo il discorso nostro.
Diciamo che era giusto che il nostro Castello fosse ubicato qui per essere questa posizione adatta ad una piazza militare che doveva servire da frontiera e aiutare la salvezza degli abitanti della città e del contado.
Essendo, come narrano le storie, in scompiglio l’impero romano, l’anno 43 avanti la nascita del Redentore, il console Irzio si trovava nella vicina Claterna alla testa delle truppe contro Marc’Antonio che stava assediando Modena.[20] Si può supporre che Irzio tenesse un corpo di soldati sulle sponde del Sillaro per ogni necessità, sebbene Cajo Ottaviano avesse ad Imola un forte esercito.
Il Padre Vanti nella sua Selve delle memorie patrie racconta che nell’anno 387 Filippo Statilio, valoroso capitano dei bolognesi, per ostare ad Asligio, conduttore delle armi dell’Imperatore Graziano, volendo rendergli difficoltoso l’accesso a Claterna, si accampò colle sue truppe sopra la Emilia presso il Sillaro. Asligio, trovandosi in svantaggio, fu costretto ad imboscarsi nella collina superiore per salvarsi.[21]
Così pure Dagistico, capitano dell’invitto Narsete [22], avendo espulsi da Imola i Goti, li incalzò talmente che furono costretti ritirarsi di qua dal Sillaro. Ma poi, senza più dargli tempo, replicò qui l’attacco con tanto ardore che i Goti abbandonarono per forza la pianura del Sillaro e si rifugiarono a Claterna.
Poiché parliamo del nostro Sillaro ci permetta il nostro lettore di raccontargli quanto abbiamo trovato su di lui, facendo parte anch’esso del presente Raccolto.
Origine del nome del fiume Sillaro
Vogliono alcuni che codesto nostro Sillaro sia così chiamato per la capacità della sua acqua a pietrificare ciò che vi resta immerso. In prova di ciò Lorenzo Legati già medico condotto nel 1600 in Castel S. Pietro, uomo chiaro nella sua professione ed erudito nella antiquaria, parlando delle cappe striate scrive: La cappa striata è composta non d’altro che di minutissima arena impastata col suco pietrificante, la quale se fosse testaceo impietrito non riddurrebbesi struffinandola come fa in minutissima arena, ma in terra semplice e simile alla polvere di pietre calcinate, né posso crederla così formata in alcuna matrice di mare, perché la legge marina di questa specie, per quante io ne abbia vedute, quantunque striate nel convesso, non lo sono nel concavo e questa ha il dorso striato fino nel sito de spondili. Me ne fece dono il virtuosissimo sig. Ottavio Scherlatini arciprete di Castel S. Pietro nel bolognese in tempo che io servivo di medico questa comunità ed affermava averla ritrovata nel vicino fiume Silaro. e più oltre: anzi si impietriscono talvolta li arbori intieri e non ha molto che su la ripa destra del Silaro vicino a Castel S. Pietro nel territorio di Bologna, cavandosi non lungi dalla via Emilia nella radice del colle per fabbricarvi una fornace, vi fu trovata una grandissima quercia pietrificata ma fu sciagura che ella non giungesse in potere di un uomo di senno avvegnachè chi la scoperse e ne ebbe il possesso, non (avendola) conosciuta lasciò che fra li materiali della fornace, messa in pezzi scioccamente, si consumasse, (il fondo ove fu trovata questa quercia si chiama Fornacetta Santini nel quartiere del Dozzo).
E così si può dire con Silio Italico, poeta latino
Nunc Silarus quos nutrit aquis, quo gurgite tradunt
Duritiam lapidum mersis inolescere ramis [23]
Altri pensano che il nome Sillaro derivi da Sillae rivus, essendo Lucio Cornelio Silla considerato fondatore di Forum Cornelii nome romano di Imola.
Che il Sillaro nostro sia stato nei tempi passati il confine dell’imolese col bolognese è innegabile. Nell’anno 776 i bolognesi volendo ampliare il loro territorio, attendarono le loro truppe di là dal Sillaro. Gli imolesi accortisi di ciò mandarono Alvarico, loro capitano, che di nottetempo assalì i bolognesi, li circondò, parte ne fece prigionieri e parte ne ricacciò al confine del Sillaro. In appresso ne seguì la pace come accenna un cronista imolese.
Pure il Manzoni nella sua Storia de Vescovi d’Imola ce lo assicura con la conferma fatta da Carlo Magno, espulsi che ebbe i Longobardi, di tale confine.
L’avvocato Alessandro Macchiavelli, scrittore bolognese, aveva un’altra teoria sull’etimologia del nome Sillaro ossia che era un composto delle due parole latine Sil e Rus[24]. Sil, silis è una specie di pigmento giallo che si trova nei minerali. Infatti queste montagne sopra al nostro Castello producono non solo pietre di materia più nobile del macigno ma anche ambra, marchesite ed ingranate. Ultimamente il Padre Ermenegildo da Campeggio, cappuccino del nostro convento dal 1789 al 1796, uomo di ampie conoscenze e buon osservatore, trovò oltre l’ingranato anco l’onciante, il carbon fossile ed altre cappe con le quali arricchì il Pubblico Istituto di Bologna.[25]
Vicino al nostro fiume nel comune di Frassineto si trova un villaggio montano detto il Silero da dove si inizia a salire a Sassoleone lungo il rio dell’Acqua bona. Qui sulla costa del Sillaro si trova molta marchesite, quindi si può dire che qui comincia a formarsi il fiume e che da qui ne avrebbe riportato il nome.
Non fu lontano da questa opinione del Macchiavelli il nostro reggente agostiniano Padre Nicola Aquaderni, che molti anni prima del Machiavelli così cantò in una sua composizione, essendo bravo poeta.
Non lunge l’aqua buona sorge un colle
povero d’erbe e di terreno adusto
in cui natura altro proddur non volle
che dura stirpe di silvestre arbusto
ma d’infocate adamantine zolle
porta lo steril grembo sempre onusto
d’onde saper ci fe l’etade avita
aver sua sede qui la marchesita
La tradizione popolare racconta che i nostri vecchi chiamassero il Sillaro: il fiume della marchesite.
Io invece penso che il nome possa provenire dal selaro ortense, un’erba che produce l’acqua dove ristagna. Barbaro nelle sue Castigazioni pliniane[26] sulla parola Silarus, dice che altro non è che erba da noi detta: Crescione e Silero selvatico, colle radici del quale usavano gli antichi condire il vino e prenderlo come aperitivo e lo chiamavano Silatum. Da tali erbe dunque si crede che verisimilmente abbia preso il nome il nostro Sillaro, essendovi molto copiosa.
1200 – 1219. I primi anni, scontri con gli imolesi difesi dall’imperatore.
Stabilitisi dunque gli Alboresi nel nuovo Castel S. Pietro con la roba e le famiglie e con loro altri abitanti vicini, questi per ascoltare le messe i giorni festivi, non avendo chiesa in Castello, dovevano andare alla chiesa di S. Pietro nel Borgo, quindi dovevano lasciare le abitazioni incustodite. Nel 1204, con la partecipazione del vescovo Gerardo Ariosti, fabbricarono la chiesa entro il Castello dove era stato fissato il sito dai triumviri fin dall’inizio, terminata la dedicarono a Maria Santissima.
A questa dedica unirono i Santi Pietro e Paolo con S. Stefano protomartire. Il primo per essere il nome del nuovo castello, il secondo per essere già stato il loro antico protettore e titolare della chiesa dell’abbandonato Albore come si ha dalla Storia de Vescovi d’Imola del Manzoni sotto l’anno 1151: Aclesia S. Pauli de Alborro. Il terzo infine, cioè S. Stefano, perché la suddetta chiesa di S. Pietro era di pertinenza alla Abbazia di S. Stefano di Bologna.
La dimostrazione di tale dedica, oltre a vedersi dipinta nella chiesa fu ripetuta sulla tavola dell’altare maggiore nel 1500 da Gaspare Sacchi. La firma dell’autore è scritta nel sasso dipinto ai piedi di S. Girolamo, dipinto con altri santi, di questo tenore: Gaspar Sacchius, MD. XVII No.bris. Nella stessa tavola si vede dipinto S. Francesco d’Assisi come quarto protettore del paese per le sue fruttuose predicazioni qui fatte, come diremo, nel 1232.
Appena costruito il nostro Castello e reso adatto alla difesa dai nemici, non mancò tuttavia di soffrire delle avversità che al tempo funestavano tutta l’Italia.
Correndo l’anno 1206, papa Innocenzo III, nominò, Legato d’Italia Volfango patriarca di Aquilea per pacificare la cristianità e riconciliare i principi elettori.[27] Il patriarca spedì legati in Alemagna al re Filippo di Svevia[28] perché aderisse a prendere in Italia la corona dell’Impero. Purtroppo il 21 giugno 1208 Filippo fu ucciso nel suo letto dal conte palatino Lontegano (Otto di Wittelsbach)[29]. Il papa adirato mandò subito legati agli elettori in Alemagna onde eleggessero Imperatore Ottone di Brunswick duca di Sassonia[30] Imperatore, che fu eletto, secondo il desiderio pontificio, l’anno 1209.
Questi venne in Italia per farsi incoronare Imperatore a Roma secondo l’uso antico. Mandò pertanto avanti il detto patriarca a disporre gli animi dei popoli ad accettarlo e riconoscerlo per Re d’Italia e ricevere il giuramento di fedeltà.
Ottone passando per queste parti si fermò al nostro castello ad attendere gli ossequi degli imolesi. Come scrisse il Padre Vanti, i capi d’Imola Nordili, Bonassisi, Bulgareti, lo fornirono di danaro ed equipaggio e con loro passò alla città.
Proseguendo il suo viaggio, giunto a Roma fu incoronato il 21 ottobre 1209 dal Papa in S. Pietro, giurò fedeltà alla Chiesa, promise di difenderla, di conservare il patrimonio di S. Pietro, di avere pace con Federico Re di Sicilia e riconoscere quel reame.
Ma partito, ritornando a casa, dimenticò il giuramento e si mostrò crudele con tutti. Saccheggiò tutta la Romagna poi, giunto nel bolognese si scagliò sopra il nostro Castello, svelse i palancati, rovesciò le costruzioni e spianò le fortificazioni, mise a sacco il Borgo e fece altri danni continuando così nel resto del contado per tutto il 1210.
Prima di andarsene si fece giurare fedeltà da ogni luogo, ma i popoli amareggiati durarono poco a conservargliela. Rifatte per tanto le fortificazioni al nostro Castello i bolognesi si ribellarono. Molte città di Romagna li imitarono. Solo gli imolesi restarono fedeli all’Impero.
Allora i bolognesi e i faentini, favoriti dalla chiesa, cominciarono le ostilità contro Imola. Tentarono di prenderla ma senza successo. Fu incaricato per ciò Pepolo da Castel S. Pietro a fare un trattato con Pepulardo, capitano imolese. I bolognesi comunque mandarono truppa al nostro Castello col pretesto di mettere una guarnigione.
Gi imolesi insospettiti spedirono immediatamente Boccadoluccio, pretore, con Pelegrino Picolo e Palmirolo Morettani da Ottone per chiedere soccorso. Non fu sordo, mandò truppa ed intimò, mediante un trombetta, ai bolognesi, che erano venuti al nostro Castello con molti armati, la partenza. Inoltre fece ampia conferma agli imolesi della protezione imperiale, come si legge nella Cronaca Savini che così comincia: Imperialis Benignitatis Circumspectio, per cui furono costretti i bolognesi e faentini ad abbandonare l’impresa.
Il Pontefice sdegnato della ribellione d’Ottone, lo scomunicò con i suoi fautori e lo privò della dignità imperiale. Quindi procurò che Federico Ruggero fosse eletto imperatore[31]. Seguì la elezione il 18 novembre 1211
II bolognesi ai quali pesavano i danni patiti da Ottone, ripudiarono pure essi il giuramento e ordinarono poi al Conte Guido di Castel D’Alborro, che colli suoi Alboresi, già divenuti Sampierani, infestasse l’imolese col pretesto che il vescovato e contado d’Imola spettasse a Bologna.
Cominciò il Conte le ostilità sopra Dozza, Monte Catone e luoghi limitrofi. Gli imolesi si armarono per fargli fronte. Il Parlamento di Bologna l’anno seguente 1212 spedì molti armati in assedio a Imola.
Gli imolesi chiesero aiuto al nuovo Imperatore per le molestie che soffrivano implorando aiuto e la conferma del decreto di Federico I sopra il loro vescovado e per la rimozione dell’armi bolognesi. Federico ascoltò il ricorso ed impose ai bolognesi di togliere l’assedio da Imola. Si rileva ciò da un suo diploma, riportato pure nella Cronache del Savini, che incomincia: Decet Regalis Celsitudinis Dignitatem.
Dichiarò poi, l’anno 1213, che non dovesse spettare ai bolognesi non solo il Vescovato ma neppure il contado d’Imola. Ma non per questo si acquietarono li bolognesi, anzi continuarono, atterrarono le mura a quella città e costrinsero gli imolesi ad una pace servile.
La generosità di Gerardo, vescovo di Bologna, si distingue in quest’anno verso il suo Capitolo di S. Pietro. Gli donò egli non solo lo jus di esigere le decime di questo nostro comune di Castel S. Pietro, ma anche il diritto sulla stessa chiesa del Castello. Eccone il testimonio tratto dal Libro dell’Asse: Gherardus Bononiae Episcopus. Dilectis in X.to fratribus Henrico archidiacono at Julio archi presbitero at universis fratribus. Damus et concedimus vobis jus percipiendi decimas pleno jure Eclesia S. Marie de Castro S. Petri, quae est juxta Silarum. Dat. Bonon. An. D.ni 1213 die 4 No.bris.
In seguito di che fu messo un sacerdote in questa chiesa per beneficio spirituale dei castellani.
Papa Innocenzo il 17 luglio 1216 finì i suoi giorni. Gli successe Amerigo Savelli nobile romano col nome di Onorio III.
Racconta il P. Girolamo Benelli nella sua storia di Lugo che, guerreggiandosi negli Stati della chiesa, governava l’anno 1218 la città di Faenza, col titolo di Pretore, Talamanzio chiamato il gran cremonese, uomo di doppio cuore. Questi tramò la distruzione di Lugo col maneggio di Riniero Conte di Cunio[32].
Trovandosi egli a Castel S. Pietro, ove i bolognesi stavano fabbricando le mura, costituì qui nel febbraio una compagnia d’uomini d’arme il cui incarico era di essere pronti ad ogni impresa per la città di Faenza. Apprestata questa compagnia di gente partì da Castel S. Pietro alla fine di febbraio e si portò all’assedio di Lugo.
Fu anche in questo tempo edificato da dei prigionieri Castel S. Polo poco distante dal nostro Castello al confine del comune.[33]
Ottone, che continuava a travagliare la Chiesa, il 17 maggio 2018 morì miseramente fuori dal grembo cattolico. Fu perciò confermato Federico per Re dei romani.
Gli imolesi non potendo tollerare la lunga servitù postagli dei bolognesi, sollecitati da Gotifredo Biandrato [34] Conte di Romagna, di nuovo chiedono a Federico, come fedelissimi all’Impero, che li difenda dai maneggi di Marqualdo [35] che operava in pro dei bolognesi. Marqualdo, saputo ciò, scrisse anch’esso all’Imperatore e usò la sua viltà contro Bologna. L’Imperatore, venuto a conoscenza che Imola era stata sottomessa a patti servili dai bolognesi, si adirò contro essi e non accettò la scusa, da loro detta, che l’autore principale ne fosse stato Marqualdo. Privò perciò Bologna dello Studio ed impose a questi di infestare il bolognese. Costui, mostrando la sua malignità, unito agli imolesi, venne sotto Castel S. Pietro e chiese la resa ai castellani, che sul momento gliela negarono chiedendogli tempo.
Marqualdo, senza attendere la risposta e perché i bolognesi non li soccorressero, subito diede il segnale colle trombe all’attacco al Castello. Seguì una gagliarda difesa dai terrazzani ma, non potendo resistere all’impeto di uomini d’arme, ne seguì la resa salva roba e persona. Non furono però salvate le fortificazioni e la incominciata fabbrica della rocca.[36]
Tenne il nostro Castello, secondo le cronache d’Imola, occupato fino al marzo del 1219 poi, carico di prede fatte nel vicinato, andò nel modenese. I bolognesi che erano stati timorosi di scontrarsi coll’armi contro l’Imperatore, collegati con altre città e luoghi maltrattati, ricorsero al Papa contro Federico, che non si preoccupò affatto e anzi prese più a cuore la protezione d’Imola.
In questo tempo essendoci una forte diatriba tra l’Arcidiacono e il Capitolo dei Canonici di Bologna, intorno alla giurisdizione sopra le chiese parrocchiali di Castel S. Pietro, Medicina e altre, fu fatto un ricorso al Pontefice Onorio III che si espresse a favore dell’Arcidiacono. In questo documento, riportato dall’abate Sarti nel de Claris Archigymnasii Bon. Profess. risulta che la nostra chiesa maggiore dedicata a S. Maria era caratterizzata dal titolo di Pieve, infatti così la indica questo pontefice.
Intanto fu restaurato il nostro Castello e ripristinate le fortificazioni.
1219 – 1228. Arriva Federico II Imperatore e, in Borgo, S. Francesco.
A Federico Imperatore serviva farsi incoronare dal Papa, quindi dissimulò i suoi intendimenti. Partito dalla Germania alla volta dell’Italia, mandò avanti Corrado vescovo di Spira col titolo di gran Cancelliere per ricevere da tutte le città e popoli il giuramento di fedeltà e disporli agli opportuni ossequi e per non trovare al suo arrivo alcun disturbo.
Nel settembre giunse a Bologna. Non partì finché non sentì giunti al confine del territorio gli ambasciatori delle città romagnole. Alla fine di ottobre ricevette a Castel S. Pietro gli ambasciatori d’Imola, Faenza ed altri. Gli oratori faentini gli presentarono mille e cinquecento marchi d’argento a nome dei loro cittadini. Ricevuti tali onori nel nostro Castello Federico se ne partì alla volta di Roma col grosso esercito che aveva con sè.
In quest’anno S. Domenico instituì la devozione del Rosario per l’apparizione avuta da Maria Vergine.
Giunto in Roma Federico prese la corona dell’Impero il 22 novembre 1220, il giorno di S. Cecilia, poi si incamminò in Sicilia ove l’anno 1221 vi cacciò i suoi nemici.
In questo tempo Azzone, abate di S. Stefano, pretese che la decima di alcune chiese tra cui S Maria di Castel S. Pietro spettassero al suo monastero Invece che al Capitolo di Bologna. Il papa Onorio III con suo chirografo gli dette torto.
Nello stesso tempo Coradino figlio di Sanfadino coi suoi tartari sconfigge i cristiani. Il Papa, per evitare maggiori perdite chiamò l’imperatore e i cardinali e fece un Concilio che decise di chiamare il Re di Gerusalemme e il Maestro del Tempio allo scopo di prendere Gerusalemme.[37]
Bologna fioriva in potenza ma declinava nei costumi. Lo sdegno divino si fece sentire col flagello del terremoto, onde rovinarono molti edifici. L’abbandonato Alborro fu distrutto in gran parte.
Racconta il Diola nei suoi Annali francescani che mosso a pietà S. Francesco partì dalle Marche e venne in Emilia. Fermatosi nel Borgo alla chiesa di S. Pietro con frate Egidio suo compagno, dopo breve riposo esortò il popolo a ben vivere. Entrò in chiesa ed aveva appena cominciato a pregare che cominciarono subito a distrarlo i nemici infernali. Egli, ripetendo il segno di S. Croce, uscì fuori della chiesa gridando con stupore di tutti ad alta voce ai demoni: Dio onnipotente, vi scongiuro spiriti infernali che voi facciate in questo mio corpo quanto vi è dal Signor mio permesso, che io sono apparecchiato soffrire tutto per suo amore e non avendo maggior nemico che il mio corpo voi mi verrete a vendicare di lui.
Il popolo della vicina contrada, sbigottito da così forti esclamazioni, corse dal Santo per capire cosa succedesse, ma egli era ritornato a pregare. Poi, dopo aver dato santi suggerimenti e predicato a tutti di abbandonare il male, se ne partì per Bologna.
Dopo avere ripartita la città in quattro tribù o quartieri per meglio regolarla, alla fine di novembre fu diviso in quattro anche il contado e ogni terra fu associata ad un quartiere della città e al suo vessillo e destinata a seguirlo nelle cavalcate.
Le Terre del bolognese erano 345. Al quartiere di Porta Ravegnana furono sottoposte: Borgonovo[38] che è questa nostra contrada sulla via Emilia e che con Castel S. Pietro fa un solo corpo, a questo si aggiunsero Castel S. Polo, Pizzano, Ciagnano detto Clagnanum, Stifonti, ora Sette Fonti, Varignana, Casalecchio, Sassuni, Cassano, Liliani ora Liano, Vidriano, Galegato, Oggiano ora Ozzano, Frassineto, Sassonero, Monte Armato e Bisano. Così è scritto negli Annali Savioli in data 30 novembre 1223.
Gli imolesi, vedendo impegnati i bolognesi coi modenesi e scordando la pace, cominciarono di nuovo ad infestare i dintorni di Castel S. Pietro meno difesi.
All’inizio del 1224, dopo avere predato fin sotto l’abitato, tentarono la presa del Borgo ma, respinti dalla bravura dei borghesani diretti dai Ghirardacci, scorsero la campagna e nella loro fuga incendiarono capanne e casali rustici.
Dopo un governo di dieci anni, l’anno 1227 morì il papa Onorio III ad esso successe Gregorio IX.
Calmata la guerra coi modenesi, i bolognesi si volsero agli imolesi e gli spedirono contro Aldigrando Faba, pretore, poi permisero a Carnevario Ozeno, pretore di Faenza, di assalire il territorio imolese dalla parte faentina. Gli imolesi, perché non erano mancanti di armati e perché erano protetti dall’impero, decisamente si difendevano sia dagli uni che dagli altri. Finalmente venuti a scontro coi bolognesi questi furono cacciati fino al Sillaro. Fatti fuggire i bolognesi, gli imolesi tentarono di nuovo la presa del Borgo, ma furono respinti valorosamente dai castellani comandati dai Cattani.
I bolognesi l’anno seguente 1228 uscirono con un poderoso esercito ed andati a Imola la ebbero in loro potere, ma per poco poiché gli imolesi aiutati dalle armi imperiali si liberarono dalla sottomissione a Bologna.
1228, Arriva Jean de Brienne con i suoi Galli. Origine dei nomi dei quartieri.
Intanto nel settembre giunse a Bologna Giovanni di Brienne[39] Re di Gerusalemme con Berengaria (Berenguela di Leon) sua moglie ove ricevette gli ambasciatori del Papa e gli fu dato il possesso di tutta la Romagna e dell’Esarcato. Questi però, prima di incamminarsi a Roma, mandò avanti il Conte di Bordò per disporre gli imolesi ai doverosi ossequi ma questi, sollecitati da Leonello Bonsisa di stirpe nobile e bravo soldato che aveva altre mire per il primato nella città, tentarono di opporsi al passaggio del Re anche per non perdere la protezione imperiale.
Il Re ne fece poco caso, mandò il Conte a Castel S. Pietro con un distaccamento di quei Galli che aveva nel suo seguito. Qui giunto il Conte si fermò e, come ci riferiscono le Memorie del nostro Dott. Francesco Bartolucci, dispose le sue genti per assicurarsi dagli attacchi imolesi in quattro compagnie affidandone ciascuna di esse ad un ufficiale. Le compagnie furono acquartierate in quattro località, detti ora quartieri, nei dintorni dell’abitato del Borgo e Castello.
Alla prima compagnia fu assegnato per quartiere tutta quella parte di collina al levante, che era sottoposta all’abbandonato castello di Alborro nella quale, sorgendovi acquitrini, si formano paludi e pozzanghere. Da qui quelle genti le posero il nome francese di Quartier de Lamè quindi di Lama che nell’ idioma toscano è lo stesso che dire pozzanghera ed acquitrino e così da allora in poi ha sempre mantenuto il nome volgare di Quartiere della Lama.
Alla seconda compagnia fu assegnato tutta la pianura sotto la via romana di fronte al su descritto Quartiere. Questa pianura guarda al levante la Romagna fino al comune di Castel Guelfo ed essendo in gran parte di terreni scoperti e fertili per le granaglie, fu indicata da quei Galli col nome di Quartier de Granier, che tradotta nel nostro linguaggio significa terra di grano e così da allora fu chiamato Quartiere di Granara e così fu anche indicato nei Campioni di estimo, come si legge nell’archivio municipale del paese.
Alla terza compagnia fu assegnato per quartiere tutto quel territorio sopra alla via Emilia ed al nostro Castello che a mattina costeggia il Sillaro e a mezzogiorno e sera confina col comune di Liano. Essendo questo terreno inclinato e sassoso, ricco una volta di vigneti ed uva di squisito sapore e dolcezza, riportò da quei francesi il nome di Quartier de Doux che significa Dolce. In seguito dai nostri terrazzani fu sempre indicata come Quartiere del Dozzo o Doccio ed è così indicato anche nei catasti. È certo che le uve di questa collina pareggiano quelle del territorio di Dozza, per cui si vuole che anche il suo nome provenisse dai primi Galli occupatori di questi luoghi.
A questo proposito il dott. D. Paolo Dalmonte, nostro cittadino coetaneo, uomo erudito in ogni scienza, primo bibliotecario in Roma della celebre Biblioteca Imperiale, scrivendo un poemetto latino in lode dei Signori Malvezzi feudatari di quel castelluccio, scrisse: Dulcis a vinis Ducia nomen habet.
Infine alla quarta compagnia fu assegnato per quartiere tutta quella pianura sotto alla via romana che al ponente guarda il bolognese ed è dirimpetto al quartiere del Dozzo. Pianura che confina col comune di Liano di Sotto e Villa di S. Biagio di Poggio e non avendo alcuna caratteristica speciale per la nominazione, derivò, come riporta il Bartolucci, il suo nome da quello dell’ufficiale della compagnia: Monsieur de Gages e quindi Quartiere del Gaggio.
Secondo Padre Vanti, riferendosi ad una tradizione avuta dai più attempati lavoratori di questa zona, avrebbe riportato il nome di Quartiere del Gaggio da un piccolo casale demolito dopo la cacciata dei Goti da queste parti. Casale che prima si chiamava Gozio, poscia Gazio ed infine Gaggio indicandoci per prova la ubicazione di un fortilizio. La forma di questo fortilizio è quadrata e di mediocre grandezza. Si osservano in essa terrapieni con la fossa di contorno, il cassero, per l’ingresso da est, distrutto. Si vedono i resti e i fondamenti di un forte muro con, nei quattro angoli, quattro torri rotonde distrutte, per cui fu poi anche chiamato questo sito la Torre del Gaggio, come si ha dai campioni di estimo comunali. L’interno è tutto prativo però non si può coltivare per i resti sepolti del fabbricato distrutto.
Per avvalorare maggiormente questa sua opinione aggiunge che nelle vicinanze del casale distrutto vi era il suo Campo Marzio, che serviva a quel popolo barbaro per addestrarsi nell’armi.
È innegabile che nei pressi vi fosse un terreno lavorativo detto Campo marcio. Da carte nell’archivio, in un elenco di antichi documenti del 1400, gli uomini del comune di Castel S. Pietro vendettero questo terreno all’abate Don Mattia del Gesso, che lo incorporò in una sua possessione detta La Gessa. Da nostre indagini nei catasti pubblici comunali risulta che dal 1531 al 1541 la proprietaria del fabbricato, chiamato le Torri del Gaggio, era Madonna Giacoma Bentivoglio. Potrebbe quindi essere il luogo un fortilizio dei Bentivoglio nei tempi che signoreggiavano a Bologna per far fronte al poco distante Castel S. Polo, edificato dalla potente famiglia bolognese dei Griffoni della fazione guelfa in cui furono infeudati i signori Malvezzi.
Abbiamo dalle cronache che, dopo la cacciata dei Bentivoglio dalla città, gli furono tolte ed atterrate le loro più belle fabbriche anche nel contado ed in conseguenza si suppone che così accadesse di questo fortilizio.
Proseguendo il racconto sul Conte di Bordò, egli fece di nuovo intendere agli imolesi che il suo re voleva assolutamente passare col suo seguito per la loro città e territorio. Gli imolesi sentita la volontà decisa del Re, decisero di lascialo passare spiegando che se prima erano stati ostili, era stato per timore dei bolognesi coi quali non volevano rischiare, quindi lo pregarono di interporsi per la concordia.
Ascoltò il Re, accettò la scusa, si interpose per la quiete e così furono sopite le amarezze.
Successivamente nel seguente ottobre passò il Re con tutto il suo seguito ad Imola, ove ricevuta la debita riconoscenza ed onori prima di partire lasciò nella città il Conte di Bordò per suo vicario. Da lui poi ne discese quella nobilissima famiglia che, col corrotto dialetto del volgo, fu detta del Conte della Bordella invece di Bordò.
Nel seguente 1228 Ottaviano Ubaldini[40], vescovo di Bologna, chiese all’arcivescovo di Ravenna la facoltà di donare al Capitolo Metropolitano di Bologna, come di fatti donò, la chiesa plebana di Castel S. Pietro coi diritti di istituzione, correzione e riformazione.
Questo documento si riproduce dal Libro dell’Asse fol. 431 dell’Archivio Capitolare: Octavianus Episcopus. Licentia Archiep. ravennatiusis donat Capitulo Eclesiam S. M.rae de Castro S. Petri, nec non Jus institutionis, convectionis et refformationis in eodem ecclesia.
A Bologna si risvegliarono i contrasti tra le fazioni e si sparsero persino nelle famiglie del contado. Negli Annali Savioli nell’elenco delle famiglie della fazione Geremea, è menzionata la famiglia Zenzani del nostro Castello che poi fu detta: di Castel San Pietro e infine Sampieri. A questa familia si aggiunse quella dei Zogoli, primi abitatanti traslocati da Alboro. Erano le dette famiglie Zenzani e Zogoli potenti e forti per la estesa parentela a cui si univano anche le famiglie dei Zopi, gente facinorosa che, stabilitisi a Bologna, cambiarono il cognome in Zoppi dal Castello ed in seguito Castelli, che divennero essi pure nobili e potentissimi signori.
Il Guado, sua origine e importanza.
E sebbene si fosse risvegliata la discordia nella città e nel territorio non per questo però era abbandonata l’ingegnosità nella agricoltura locale. Si pretende dalla tradizione dei nostri castellani che sia da questo tempo, in cui soggiornò coi suoi Galli il Conte di Bordò nel nostro Castello, che fu introdotta la piantagione del Guado[41], detto anche Isate che oltre che servire come tintura di un forte colore azzurro nelle manifatture, sarebbe pure utile al medicamento delle emorragie, ulcere, morbo gallico ed altri mali di cui per lo più sono attaccati i militari.
Pensiamo però che molto prima il Guado sia stato introdotto nel bolognese per opera più dei Brittoni quando occuparono queste parti. Sappiamo non solo da nostri scrittori bolognesi ma anche dagli autori antichi che era usanza dei Brittoni, quando andavano alla guerra, tingersi di blu la faccia e tutto il corpo col succo del guado per incutere spavento a chi volevano sottomettere.
I nostri cronisti aggiungono che, al tempo della occupazione del territorio bolognese, presso al torrente Idice edificarono una città a cui diedero il nome di Brintia o Brinta dal nome della loro nazione della quale il solo nome ci resta di un castelluccio chiamata Castel de’ Britti e dai latini Castrum Brittanum. Poiché questa località è poco distante da Castello è probabile che fino d’allora si introducesse la semina del Guado nelle nostre campagne come già confacente alla natura di quella pianta.
Quando i francesi del Conte di Bordò furono a Castel S. Pietro nel mese di settembre (mese appunto in cui si fa il raccolto del guado come insegna Agostino Gallo nella sua Agricoltura, edizione di Venezia) insegnarono il modo migliore per avere abbondante raccolto e come lavorarlo per averne il maggiore utile.
Leandro Alberti nella sua Italia, edizione di Venezia 1536 assicura che a Castel S. Pietro, si ricavava ai suoi giorni molto danaro e che era la ricchezza del paese e l’occupazione delle persone. Andrea Scoto nel suo Itinerario, edizione di Padova 1629 lo conferma usando le stesse parole dell’Alberti.
Qualcuno potrebbe eccepire che si cita Castel S. Pietro come mercato e non come luogo di produzione. Francesco Scoto dice senza equivoco che in Castel S. Pietro si fa il Guado, vale a dire si fabbrica il Guado.
Conferma di ciò ci viene non solo dal ricordo dei più vecchi del paese ma pure dai ricordi di un Fabbri trasferito a Medicina a fare il tintore di panni, nonché alle carte antiche della soppressa compagnia di S. Caterina, che esisteva fin dal 1404.
Siamo poi ancora più sicuri perché qui si fabbricavano le macine che si usavano, delle quali una si vede nel pavimento dello scaldatorio comune del soppresso convento de Cappuccini e l’altra simile, della grandezza della macina da grano, si vede sulla via romana che porta a Bologna nella quale si rileva la sua manifattura. Altre prove si potrebbero portare che si omettono per non stancare il lettore.
Del modo come si faceva l’estratto non ci impegniamo a darne alcuna istruzione avendone date il citato Agostino Gallo. La fabbrica del Guado in Castel S. Pietro fu totalmente abolita quando fu introdotta l’indaco forestiero.
1232 – 1240. Scontri vari con forlivesi e modenesi
Il Signore, sdegnato delle stragi e dei molti altri mali che si commettevano fece sentire gli effetti della sua ira anche nel 1232 mediante un terremoto che distrusse molte costruzioni. Nel nostro vicinato furono sconquassati il Castello di Fiagnano, Corvara e Castel Alborro. La vicina chiesetta, dedicata a S. Paolo, edificata sopra l’apice di un vicino monticello dai primi cattolici, non essendo permesso dai pagani edificarle negli abitati, rovinò. Di essa si vedono solo gli sfacimenti.
Non ostante queste calamità le fazioni si propagavano ed accadevano disordini soprattutto nelle popolazioni di confine. Il Parlamento di Bologna accortamente si fece giurare fedeltà dai popoli e castelli limitrofi.
I nuovi abitanti di Castel S. Pietro, che continuavano ancora a chiamarsi Alboresi, furono pronti e nel 1233 replicarono il loro giuramento in questo modo: Nos Alborenses juremus bona fide sine omni fraude in perpetuum fidem servare Populo et Comuni Bononiae et defendere Homines, honores et bona in tota nostra Guardia, ubicumque guerram et cavalcatus facere contra hostes. Successivamente spiegarono le bandiere e le insegne del comune giusto gli statuti della città del 1001.
Pur con laboriose indagini non siamo riusciti a sapere quale fosse l’emblema degli Alboresi e del nuovo Castel S. Pietro, sappiamo solo che i Consoli di ogni luogo erano obbligati tenerle e portarle quando andavano alle riviste ed alla guerra per rendere riconoscibile la popolazione.
Nel mese di aprile del 1233 il Beato Giovanni da Schio[42] dell’ordine dei Predicatori, mosso da zelo, venne a Castel S. Pietro per convincere alla penitenza il popolo con le sue predicazioni ed orazioni.
Giunto al Borgo incominciò le sue apostoliche fatiche e si sparse perciò la fama di questo sant’uomo nelle vicine contrade per i continui miracoli che per suo mezzo Dio operava col solo nominare Gesù, donde dal volgo fu perciò chiamato: Frate Gesù. Arrivarono ad ascoltarlo infinite genti. Predicava la mattina nella chiesa di S. Pietro nel Borgo e fuori nella sua contrada e la sera entro il Castello.
Un grosso gruppo di faentini venne quivi ad ascoltarlo. Il Tolesano, scrittore delle cose faentine ce lo conferma così: (…) iverun faventini omnes cum pueris et puellis semes cum junioribus et mulieribus apud Castrum S. Petri in Bononia tam de civitate, quam de distriche, cum vexillis omnibus crucis defuger portantibus ad praedicationem Frat. Joannis, qui erat de ordine Praedicator, qui et J. C. per ipsum multa mirabilia operatus est.
Predicò molti giorni pure nella piazza davanti questa nostra chiesa con gran successo. Molti paesani riferiscono la tradizione che questo Beato avrebbe dato origine nel nostro Castello ad una devota compagnia di fedeli col nome del Buon Gesù, il cui officio era di assistere alle funzioni parrocchiali. Questa compagnia durò fino al 1597 in cui fu incorporata in quella del SS.mo Sacramento.
Intanto i bolognesi avevano rotto la pace con i forlivesi per avere questi invaso il territorio faentino e gli avevano dichiarata la guerra. Per sostenerla il Senato fece fare gli estimi a tutti i terreni del contado affinché pagassero una porzione di rendita per tornatura. Questa è la prima volta che fu imposta ai terreni bolognesi l’estimo.
Erano pure nel 1235 in armi i bolognesi contro i modenesi. Questi non potendo resistere ricorsero a Federico perché li aiutasse, egli non fu sordo alla loro preghiera. I bolognesi lasciarono quindi l’impresa contro i modenesi e si rivolsero contro i forlivesi.
Nel 1236 vennero a battaglia e furono sconfitti i forlivesi con perdita di soldati e comandanti. Fra questi vi furono Guido Guerra[43] Conte di Modigliana e Guido Malvicini conte di Bagnacavallo con altri nobili che furono relegati nel nostro Castello e consegnati ai Cattani.
Esultanti per questa vittoria l’anno 1239 i bolognesi ritornarono contro ai modenesi. Si combatteva ormai ovunque.
I Cattani del nostro Castello, che si distinguevano in tutto, avevano nella Religione domenicana un frate Riniero da Castel S. Pietro che, per le sue ottime qualità e virtù, fu chiamato a Roma da Gregorio IX. Da semplice frate, ma dotto nelle lettere, fu assunto alla carica di vice Cancelliere pontificio. Tenne questa carica per due anni e cinque mesi e morì con dispiacere universale perché prometteva molto di sé. La sua carica ora è cardinalizia.
Poiché la turbolenza nella Romagna cresceva di giorno in giorno, il Senato di Bologna perciò rinforzò oltre il solito Castel S. Pietro. Le carte dei nostri archivi confermano della vigilanza che usò il Comune di Bologna per il rinforzo dei castelli ai confini della Romagna. Per primo nell’aprile del 1241 fu munito Castel S. Pietro al comando di Enrico di Andalò.
L’8 agosto 1240 era morto Paolo Traversari signore di Ravenna. Federico intesa tale notizia spinse la flotta a questa città, l’assediò e la prese per resa. Fattosi signore di Ravenna, passò ad assediare Faenza dove erano in aiuto i bolognesi. La tenne in assedio per nove mesi. Ridotti alle strette, né sperando in soccorsi il 14 aprile 1241 i faentini si arresero a Federico. Questi poi intendendo che il Papa voleva celebrare un concilio contro di lui, si pose in mare con la flotta e facendo scorrerie, prese Jacopo Prenestino, Legato di Francia, ed Ottone, Legato di Inghilterra, con molti vescovi.
1241 – 1250. Enzo assedia e saccheggia Castello. Battaglia di Fossalta, Enzo fatto prigioniero. Muore Federico II
Nel seguente maggio passò ad Imola. Di qui mandò suo figlio Enrico[44] nel bolognese.
Giunto a Castel S. Pietro, ove si erano ritirati i bolognesi e gli imolesi condotti da Antonio Loffio e Sulpizio Brocco, ne diede l’assalto, ma difeso bravamente dalla parte dell’ingresso maggiore, non ebbe successo.
Replicò l’assalto simultaneamente dalla parte montana e fu di nuovo respinto, nuovamente e con impeto maggiore attaccò l’ingresso maggiore presso la torre. Non potendo resistere alla furia ed alla quantità nemica, i due capitani gli aprirono la porta maggiore ed essi poi uscirono dalla porta di ponente.
Avuto il Castello Enrico lo saccheggiò. Cinque giornate lo aveva stretto d’assedio e nello stesso tempo scorreva la campagna e tutto predava. Ristorata la truppa si rivolse ad inseguire i bolognesi. Giunto alla Quaderna ove si era fermato il campo di Sulpicio Brocco, lo attaccò frontalmente, ma Antonio Loffio, che si era imboscato nelle colline superiori, sentito il rumore calò alla strada e lo attaccò alle spalle.
L’Imperatore Federico, che era a Imola. venne in aiuto del figlio ma fu subito contrastato dai presidi e dai villani di Varignana e Ozzano obbligandolo, dopo aver messo in salvo il figlio, a ritirarsi a Castel S. Pietro. Qui però, temendo di essere assalito, rimase poco e ritornò a Imola incendiando tutto ciò che non poteva portare con sé. I terrazzani che non erano occupati a spegnere gli incendi inseguirono la retroguardia e gli presero parte del bagaglio recuperando parte delle robe saccheggiate dal figlio. Così non fu troppo amara la perdita.
Il Papa sdegnato di tante violenze replicò la scomunica, aumentando sempre più la reciproca ostilità. Questa fu motivo ai popoli di seguire chi un partito chi l’altro. Il primo aderente alla Chiesa fu chiamato Guelfo l’altro aderente all’Imperatore fu chiamato Ghibellino. In poco tempo quasi tutta l’Italia rivolse verso sé il ferro micidiale e si rese più funesta da sé stessa di quello che l’avessero mai resa qualunque barbara nazione.
In Germania sotto Corrado IV[45] si divisero fra loro le città, i parentadi e perfino le famiglie d’onde nacquero infinite stragi.
Il 22 agosto 1241 morì Gregorio IX, dopo aver retta lodevolmente la chiesa quattordici anni e nove mesi. Il 25 ottobre gli successe Celestino IV che resse la chiesa brevissimo tempo (17 giorni).
Il 25 giugno 1243, dopo un anno e mezzo di sede vacante, fu eletto papa Sinibaldo Fieschi col nome di Innocenzo IV, uomo d’animo grande e dottissimo. Appena incoronato riprese nuovamente lo scontro con l’Imperatore Federico.
Il Senato bolognese amorevolmente pose riparo ai danni e alle rovine patiti dal nostro Castello e dai terrazzani e, per evitare una emigrazione, condonò agli abitanti tutti i debiti che avevano colla Camera. Quindi l’anno che seguì 1244 fece rimettere i palancati, riscavare la fossa, fortificare le porte e restaurarlo dove bisognava. Della cura fu incaricato Mattiolo Paluzzi deputato capitano alla difesa
Il Papa intanto tentava invano di riportare alla Chiesa l’Imperatore che, anzi reso più baldanzoso, fece carcerare moltissimi ecclesiastici, assediò lo stesso Innocenzo in Sutri di dove lo liberarono i genovesi.
Il Papa passò poi a Lione, ove convocò il Sinodo che nel luglio 1245 scomunicò Federico. Quindi il papa mandò messi ai principi dell’Alemagna onde eleggessero un nuovo Imperatore. Designarono Altigrano Principe di Turingia[46].come Re dei Romani e Germania. Federico divenne ancora peggiore.
Il papa l’anno successivo 1246 depose il figlio Corrado dal reame di Germania e ordinò che Altigrano fosse promosso alla dignità imperiale, questi cacciò dalla Germania Corrado ma all’inizio del 1247 fu sconfitto in una battaglia e si ritirò.
I bolognesi che vedevano Federico battuto da ogni parte, attaccarono Modena per vendicarsi dei torti avuti. Spedirono armati al comando di Antonio Lambertazzi, uomo di gran valore e senno. Arrivò in aiuto ai modenesi il figlio di Federico, Renzo che, nella battaglia, fu fatto prigioniero dai bolognesi.[47]
Esaltati dal successo e persuasi dal cardinale Ottaviano Ubaldini mossero l’anno 1249, sotto il comando dello stesso Lambertazzi contro la Romagna. Posto il grosso degli armati nel nostro Castello prese Dozza, Toscanella, Monte Catone e altri castelli di là del Sillaro e avanzò fin sotto Imola.
Impauriti quei cittadini mandarono subito messi a Castel S. Pietro ad Antonio Lambertazzi che li accolse umanamente, in seguito gli presentarono le chiavi della città quindi giurarono di essere fedeli al papa e obbedienti a Bologna.
Federico per tutte queste novità si adirò, minaccio Bologna e la dichiarò privata dello Studio. Ma la sua perfidia durò poco poiché l’anno successivo 1250, per tradimento del figlio Manfredi, fu soffocato nel letto. Morte degna di uno scomunicato![48]
1251 – 1268. Lotte con gli ultimi Svevi, Corrado e Corradino. A Bologna lotte tra Lambertazzi e Geremei.
Suo figlio Corrado, con quanta forza potette, entrò in Italia l’anno 1251, passò in Puglia e si impadronì del reame di Sicilia.
I podestà che governavano il contado di Bologna nei castelli, spesso abusavano della loro facoltà con condanne arbitrarie. Furono puniti e fu posto riparo alle loro estorsioni. Perciò il Parlamento decretò che ogni sei mesi fosse mandato ai castelli un Prefetto ed un Pretore eletto come gli altri magistrati. Fu ad essi imposta la residenza personale nei rispettivi castelli e luoghi. Non abbiamo trovato chi fossero i pretori e prefetti che vennero a Castel S. Pietro.
L’origine dei podestà nella città cominciò fino da quando Bologna si sciolse dal giogo imperiale. Fu inoltre statuito che il governo di tali podesterie durasse un semestre.
Nell’ottobre seguente il pontefice Innocenzo IV dalla Lombardia venne a Bologna e, diretto a Roma per la via di Romagna, fu incontrato a Castel S. Pietro dai messi imolesi. Nel suo passaggio da questo nostro Castello dette la papale benedizione.
Corrado intanto, essendo coll’armi in Puglia, spogliò la Chiesa di alcuni possedimenti. Perciò l’anno 1252 il papa convocò a Brescia un parlamento di alleati sopra queste vicende. Vi intervenne anche Bologna.
Si stabilì che si assoldassero dalla Chiesa e ciascun alleato 600 cavalieri armati di tutto punto. Che i comuni di Bologna, Brescia e Milano ed altri fornissero complessivamente 70.000 lire imperiali ed altrettanti dalla Chiesa in sussidio della guerra. I bolognesi furono tassati per 4.500 bolognini.
In questo tempo il contado bolognese era diviso in 30 podesterie che erano governate dai podestà i quali erano i capitani delle fortezze del paese e venivano eletti dal governo e ad esso rendevano conto. Chi fosse destinato a Castel S. Pietro non sappiamo è però certo che ebbe per governatore, come le altre podesterie, un nobile.
Si cominciò a seppellire i defunti nel Castello che fino ad ora si seppellivano presso la chiesa di S. Pietro nel Borgo
In questi tempi, tra le varie famiglie castellane, era tra le prime quella di Cino di Guidinello di Ugulino di Zambone Zenzani o Zovenzani, da cui ne è derivata la nobile e chiara famiglia Sampieri che fino al 1378 si mantenne qui domiciliata. L’eruditissimo padre Sarti nella sua opera: De Claris Archigymnasii Bonon. Professoribus scrive in questi termini del famoso Floriano di Castel S. Pietro: Ea ex S Petro cognomen sumsit, quia ex S. Petri Castro agri bononien. notissimo in civitate se recepit. Questo Cino fu quello che diede lo stemma alla famiglia col rappresentare un cane levriero tolto dalla parola greca Cinos o della parola latina Canis.
Nel maggio 1254 morì Corrado re di Sicilia, aveva indicato come successore suo figlio Corradino. Papa Innocenzo si trasferì subito in Puglia, obbligò Manfredi[49], principe di Taranto e tutore di Corradino a giurare fedeltà alla chiesa poi passò a Napoli ove morì il 7 dicembre.
Essendo vacante l’Impero, l’anno 1256 il nuovo papa Alessandro IV si adoperò per l’elezione dell’Imperatore. Gli Elettori, dopo molte discordie scelsero come Re dei Romani Riccardo Conte di Cornovaglia, fratello del Re d’Inghilterra[50].
Gli imolesi, divisi in due partiti, si scontrarono tra loro. Vengono cacciati i rappresentanti di parte popolare. Bologna interviene mandando a Castel S. Pietro Antonio Lambertazzi che si accampò con le sue truppe di là dal ponte presso l’Ospitale di S. Giacomo sopra il Sillaro.
Gli imolesi mandarono messi a Bologna perché ritirasse gli armati e furono accontentati.
Bologna in questo tempo godeva di molta gloria e stima per avere assoggettato la maggior parte della Romagna. Due famiglie potentissime guidate da Antonio Lambertazzi e Lodovico Geremei si contendevano il primato.
L’anno 1256 il Lambertazzi fece eleggere un suo uomo, Bonacosso da Soresina come Capitano del Popolo, che era il magistrato che presiedeva al governo quando il Podestà si occupava dei conflitti armati e, in tempo di pace, serviva come giudice inferiore. L’anno seguente 1257 lo fece salire al grado di Podestà. Costui commise molti mali e fu condannato. Il Lambertazzi se la ebbe a male e si ebbero altercazioni e baruffe pacificate poi da Lambertino Rangoni.
Con tale occasione i Manfredi di Faenza si sollevarono l’anno seguente 1258 contro i bolognesi e si liberarono. Bologna ordinò subito agli uomini di Castel S. Pietro di prendere l’armi per la difesa del Castello e Borgo. Quindi, assoldate truppe, nella primavera dell’anno 1259 fu spedito qui l’esercito per poi passare alla presa di Faenza. La cura e guardia del castello fu affidata a Zambone di Ugolini Zenzani, ai Fucci ed altre famiglie del paese. Ciò preparato, e messo il paese in condizione di difendersi, andò l’esercito a Faenza ove avvenuto uno scontro d’armi, furono cacciati i Manfredi con i forlivesi arrivati in aiuto.
Morto Papa Alessandro IV a Viterbo il 25 maggio 1261, successe ad esso nel soglio pontificio Urbano IV che, per quanto nato da umili parenti, era di sublime ed elevato ingegno.
Le disgrazie che affliggevano Bologna a causa delle fazioni costrinsero molte famiglie a ritirarsi dalla città ed andare nei castelli del contado, parte volontariamente e parte forzatamente. Le famiglie Pellegrini, Verondi, Salti con altre, emigrate da Bologna, si stabilirono nel nostro Castello e Borgo, come ci confermano le carte e i rogiti nell’archivio Fabbri.
Al trentesimo anno dalla fondazione dell’ordine dei Cavalieri Gaudenti[51] gli fu decretata la regola e il vestiario dal papa Urbano. Nel numero di questi cavalieri vi fu frate Albizio Cattaneo da Castel S. Pietro.
Le famiglie Bonacatti e Cacciali, spatriati da Bologna, si stabilirono nel nostro Castello in via Saragozza l’anno 1262. Su tale esempio ne vennero altre anche dalla Romagna a causa delle lotte tra le fazioni che giornalmente crescevano in modo che si spopolavano le città. Rari furono quei municipi che non ne provassero gli effetti funesti.
L’anno seguente 1263 Imola si divise in due partiti, uno era dei Mendoli e l’altro dei Brizi. Ricorsero le parti al Parlamento di Bologna, furono ascoltate le istanze e, nel mese di luglio, furono delegati per la pacificazione il Podestà Giacomo Tavernieri con alcuni Consoli. Questi vennero a Castel S. Pietro ove immediatamente prescrissero alle due fazioni che si dovessero uniformare a quei precetti che avrebbe imposto ad essi il Comune di Bologna. Vennero il 12 agosto i messi imolesi, cioè Panfilio Notaro per la parte dei Mendoli e Gajo Notaro per la parte dei Brizi e furono stabiliti i patti di concordia. Abitò il Podestà di Bologna in casa di Guidoberto Cattani nel Borgo. Nella sua corte fu stipulato l’accordo per mano di Paolo Guardasogni.
L’anno 1264 Urbano IV pubblicò la bolla di che istituiva la festa del Corpus Domini poi il mese di ottobre finì i suoi giorni. Gli successe il 25 febbraio 1265 Clemente IV.
Corradino[52], nipote di Federico secondo, nel settembre 1267 invase la Lombardia per soccorrere i ghibellini di Milano. Essendosi poi Corradino inoltrato negli Stati pontifici, il Papa, che era a Viterbo, gli mandò messi perché si astenesse dal molestare il Regno di Sicilia che era di S. Chiesa e del quale ne erano stati privati suo padre e suo nonno. Sprezzato il precetto papale fu scomunicato.
Carlo d’Angiò[53] Re di Sicilia, saputo che Corradino si avvicinava, gli andò incontro dalla parte di Roma per fermarlo. Vennero in battaglia il 23 agosto1268[54]. Corradino, giovinetto di anni 18, fu sconfitto e fatto prigioniero col Duca d’Austria e molti baroni. Fu decapitato a Napoli il 29 ottobre 1268.
1268 – 1277. Lambertazzi e Geremei si contendono Castello, assedi e saccheggi.
Al terminar dell’anno il Papa si ammalò e cessò di vita il 29 novembre.
Paolo Zoppi del fu Riviero, famiglia trasferita al nostro Castello dal vicino Castel d’Alboro, dalla quale furono derivati i Castelli, nobili di Bologna, fu di professione Notaio e facinoroso al segno di levar di vita un monaco benedettino in Bologna e prendersela per fino col monastero di S. Procolo. Amò la poesia toscana e si distinse fra suoi coetanei, di esso ne parlano l’Alacci, il Crescimbeni ed ultimamente il Conte Giovanni Fantuzzi nelle sue Notizie stampate di Scrittori bolognesi, edizione di Bologna.
La famiglia Zoppi radicata nel nostro Castel S. Pietro si è sempre mantenuta qui. Ne fanno fede le memorie di Nicolò Mamellini in un atto fatto sotto il giorno 17 agosto 1447 di un Bartolomeo quondam ser Ghino Zoppi Not. di Castel S. Pietro Sindico della Comunità. Gli atti successivi della nostra Comunità la citano fino al termine del 1600.
In una lista di reclutamento di militari e volontari presso gli eredi del fu capitano Valerio Fabbri, si trova un Francesco Zoppi che, con altri paesani di questo Castello, si arruolarono nel famoso reggimento Caprara ed andarono in guerra nella Strigonia[55]. di cui parleremo a suo tempo.
Nel seguente 1269 in Bologna si eccitarono le discordie fra le due fazioni Geremei guelfi e Lambertazzi ghibellini quest’ultimi pretesero, con gli Ordelaffi, di gravare troppo i forlivesi che l’anno seguente 1270 si sollevarono contro Bologna.
I Geremei, in maggioranza nel Senato, fecero sì che per tale insurrezione fosse intimata la guerra ai forlivesi. L’anno dopo 1271 il Senato spedì soldati a Castel S. Pietro. Qui si fece l’ammasso delle genti e dell’armi sotto la condotta del generale Lodovico Geremei quindi si avanzò l’esercito sotto Forlì difeso dagli Ordelaffi.
In questo tempo Teobaldo Visconti nel mese di settembre fu creato Papa col nome di Gregorio X.
I bolognesi che erano all’assedio di Forlì, travagliati dal freddo e dalla pioggia, nel novembre furono costretti ritirarsi dall’impresa.
L’anno appresso 1272, a causa delle scorrerie dei saraceni contro i cristiani, il Papa ordinò un concilio per l’aiuto della Terra Santa che poi si fece Lione nel maggio 1274, dopo che era stato eletto il 24 ottobre 1273 Imperatore il Conte Rodolfo di Asburgo[56].
Il Senato di Bologna che aveva ancora in mente la sollevazione di Forlì, deliberò mandarvi di nuovo l’esercito. Condotto il Carroccio in piazza per andare a Forlì, il pretore Giuliano Pusterola entrò in Senato a chiedere licenza di partenza. Antonio Lambertazzi si oppose fortemente alla partenza, calpestando l’onore dei Geremei che lo contrastavano. Infine usciti, Geremeo Geremei ed Antonio Lambertazzi vennero alle mani. Testa Gozadini e Giovanni Angeletti, corsero con molti soldati e divisero la zuffa. Però il successo fu scarso poiché raramente passava giorno che non si venisse alle mani. Le strade erano sempre piene di armati.
Le fazioni erano presenti anche nelle città vicine. I guelfi di Modena da una parte e i ghibellini di Forlì dall’altra si armarono a favore delle due fazioni bolognesi. Il Senato prese provvedimenti perché non andasse all’aria tutto il Comune e vietò agli abitanti dei castelli di intervenire, senza essere richiesti. Non per questo però si astennero molti castelli. Riferisce il Savioli che a S. Giovanni, Castel S. Pietro e a Budrio vi furono partiti e mischie. Maghinardo da Panigo, che si era armato in Bologna a favore di Antonio Lambertazzi, se ne fuggì.
Molti miliziotti bolognesi, intendendo che da una parte e dall’altra si avvicinavano aiuti alle due parti avverse, pigliarono le armi e si misero col popolo a guardia alle porte della città mentre altri si incamminarono verso Modena e, incontrati i modenesi, si scontrarono.
Da quest’altra parte i forlivesi assoldarono il generale Guido da Montefeltro[57] e superbi si avanzarono con molta gente. Sappiamo ciò dai cronisti e da un arguto poeta
Giungea la compagnia de modenesi
a fomentar la guelfa fazione,
fioccavano a migliaia i forlivesi
a diffender d’Antonio la raggione.
Giunti sul faentino il 18 aprile 1274 piantarono il campo e sopraggiunta la notte, con l’aiuto degli Accarisi, faentini ghibellini, dopo aver corrotto i guardiani di una porta, introdussero il Montefeltro coll’esercito. Subito si dette la caccia ai Manfredi guelfi che tenevano per i Geremei.
Per sfruttare la vittoria passarono ad Imola che presero con poco contrasto. La mattina del 21 aprile vennero coll’esercito al nostro Borgo inseguendo i Manfredi che, non potendo resistere alla forza del Montefeltro, si ritirarono entro il Castello per più sicurezza.
L’assedio al Castello durò fino al 25 aprile tentandone il Montefeltro la presa, assalendolo ora da levante, ora da ponente ma senza successo per essere difeso valorosamente non solo dai Manfredi e Geremei ma anche dai terrazzani capitanati dai Catanei. Inoltre i militari erano attaccati nelle retrovie dai villani in rivolta. Vedendo per ciò il Montefeltro difficile l’impresa e sentendo avvicinarsi una truppa di bolognesi, tolse il campo e nel ritorno che fece a Imola tutto distrusse.
Questa sedizione però si faceva sempre più consistente in tutta la Romagna. I Lambertazzi perciò il 2 giugno 1274 furono banditi da Bologna con quindicimila cittadini del loro partito. Antonio si salvò a Faenza ove fu accolto dagli Accarisi e dai Majnardi.
Antonio, diventato ribelle alla patria ed unito ai forlivesi, venne sotto Castel S. Pietro nella pianura di qua dal Sillaro, a distanza di mezzo miglio. Qui fece costruire un terrapieno vicino al fiume in un sito chiamato Panicale, presso le rovine del Castelletto del Gaggio. Il posto prese poi il nome di Montirone. Qui si accampò e di quando in quando scorreva il vicinato fino sotto il nostro Castello. I Manfredi che stavano sicuri nel Castello, uscirono con alquanti castellani e sulla via romana attaccarono una rabbiosa baruffa, per cui i nemici furono costretti a ritirarsi al Montirone. Questo ai nostri giorni è stato corroso dalla corrente del Sillaro e vi resta solo il nome. Vedendosi perciò la fazione Lambertazza poco sicura in questo sito, tolse il campo e ritornò nella vicina Romagna.
Nella primavera dell’anno seguente 1275 il Lambertazzi e i fuorusciti bolognesi ritornarono con maggiori forze presso il nostro Castello. Ad esso si aggiunsero in aiuto molti cittadini ravennati espulsi dalla loro città perché ghibellini. Questo esercito si portò nuovamente al sito di Montirone. Ne facevano parte Guido Novello e Manfredo Malatesta, i Conti Bandini, Ruggero e Tigrino fratelli e figli di Guido Guerra Conte di Modigliana[58]. Cominciarono poi scorrere il vicinato fino al Borgo che era presidiato dai Ghirardacci, Brochi e Catanei. Il Castello era difeso dai Geremei e castellani che, essendo di numero inferiore al nemico, non potevano che stare sulla difensiva.
Antonio Lambertazzi e il Montefeltro, considerando difficile la conquista del castello se non con troppe gravi perdite, ricorsero all’astuzia. Tolsero l’assedio e salirono la collina attaccando Liano, Frassineto e Vedriano. I Geremei uscirono dal Castello per attaccare alle spalle il nemico. Questi finsero la fuga ma, scendendo dalla parte del torrente Gaiana sotto Casalecchio dei Conti, tentarono di circondare le truppe geremee. Queste, avvisate, sfuggirono ritirandosi nella pianura. Non fecero però in tempo a tornare al Castello che fu subito preso dal Malatesta.
Per tale conquista il Lambertazzi, avendo in mano la frontiera del contado, si fece più animoso.
Il Geremeo, ritiratosi alla città, raccolse nuovi armati e venne nuovamente col campo al nostro Castello e Borgo e cominciò a contrastare l’uno e l’altro
Il Lambertazzi, non potendo resistere, se ne andò, ma per poco poiché arrivò in suo soccorso un poderoso esercito di alleati romagnoli. Con un assalto improvviso cacciò i Geremei inseguendoli in fuga per un lungo tratto di strada. Riavuto nelle mani il Castello vi pose fuoco mettendo tutto in rovina.
Sebbene questo nostro nascente Castello fosse soggetto a vicende funeste, c’erano castellani che risplendevano nelle sette arti come in questo tempo Gerardo Gerardi nell’arte medica, come pure nella stessa, Guglielmo Prudenzani.
Smantellato il nostro Castello, i Lambertazzi se ne andarono continuando a razziare il territorio circostante. I bolognesi, temendo altri danni, chiesero aiuto al re di Napoli Carlo d’Angiò che mandò gente, intanto si riparò il nostro Castello.
Nel gennaio 1276 muore Gregorio X, succede Innocenzo V che muore dopo pochi mesi. In luglio viene creato nuovo papa Adriano V che muore in agosto. il 13 settembre viene eletto papa Giovanni XXI. Tutte queste morti di pontefici sembravano preparate dagli avidi al pontificato.
In questa situazione, non avendo timore dei pontefici, le fazioni si accrebbero e si accesero maggiormente.
Alla fine dell’anno i Lambertazzi con trecento soldati tornarono al nostro Castello che, non essendo del tutto fortificato ma nemmeno difeso, si arrese senza resistere. I Geremei in fretta raccolsero genti e in febbraio 1277, arrivati in Borgo, assediarono da ogni parte il Castello. Cominciarono a batterlo nei palancati dalla parte della via corriera. Alla fine del mese lo assaltarono ma invano, infine dopo forti scontri se ne impadronirono, cacciarono i Lambertazzi e fecero molti prigionieri.
Trovandosi Papa Giovanni XXI in Viterbo morì il 20 maggio 1277 e il 28 fu eletto papa il Cardinale Giovanni Orsini col nome di Niccolò III.
Ottaviano Ubaldini, vescovo di Bologna, intendeva far pagare le decime agli uomini di Castel S. Pietro che, ribellandosi agli esattori, facevano accadere dei disordini. Per liberarsi di questa molesta questione, il vescovo deputò Egidio Foscarati e Domenico Poeti per arbitri nella definizione della questione. L’esito dovette essere favorevole ai castellani poiché nelle imposte del paese non se ne trova più memoria.
1278 – 1290. Pace fatta e rotta tra Geremei e Lambertazzi. Intervengono i Malatesta e i Montefeltro.
Non ostante la cacciata dal nostro Castello i Lambertazzi continuavano ad infestare questi nostri intorni con ruberie, aggressioni, incendi ed altre malvagità. I bolognesi, per timore di rivolte in città e nel contado, decisero di chiedere la protezione della Chiesa ed a essa sottoporsi.
Mandarono perciò messi al Papa che, accogliendo la richiesta, mando come suo Legato in Romagna suo nipote frate Latino Malabranca affinché pacificasse le due fazioni.
L’anno seguente 1278 mandò in Romagna anche Bertoldo Orsini, altro suo nipote, facendolo Conte e Governatore di essa. Scrisse poi a frate Latino che concludesse la pace, imponendogli che per ostaggio si facesse consegnare dai bolognesi Castel S. Pietro e Castel Franco come frontiere più importanti del contado ed altro ancora all’occorrenza.
Bertoldo Orsini che aveva le truppe nella vicina Romagna, le portò a Castello e se lo fece consegnare dai Geremei assieme con gli ostaggi.
Consegnato Castel S. Pietro a Bertoldo Orsini vi era però chi protestava quindi il figlio Felice, temendo per il padre, gli venne in aiuto e si attendò fuori dal Castello e dal Borgo cioè a S. Giacomo sopra il Sillaro. Poi si fece consegnare i Lambertazzi che erano in prigionieri a Bologna per le guerre passate. Se li fece condurre a questo Castello poi passò col padre a Cesena. Ciò fatto e visitata tutta la Romagna, l’anno seguente 1279 il 29 giugno concluse in Imola la pace fra i Geremei e i Lambertazzi.
Il 2 agosto Bertoldo coll’arcivescovo di Ravenna vennero a Castel S. Pietro dove furono messi in libertà gli ostaggi della gente dei Geremei. Fu quindi restituito Castel S. Pietro ai bolognesi. Il Cantinelli riferisce che ciò fatto i Lambertazzi che erano a Faenza tornarono a Bologna.
Il Senato per quanto riguarda il nostro Castello ordinò che nell’anno seguente fosse aperta la porta e riparata la torre rovinata del Castello, anche perché a mala pena si poteva entrare, essendo stata barricata con terra per difendersi dagli gli attacchi.
Passati pochi mesi i Lambertazzi, che poco stimavano la pace fatta, uniti ai Gallucci, di nuovo presero le armi e vennero a scontri coi Geremei ma con poco frutto poiché, aiutati questi dai Lambertini ed Ariosti, furono cacciati di città con loro seguaci. Passarono immediatamente i Gallucci a Castel S. Pietro e vi stettero una giornata per prenderlo ma, facendo resistenza i castellani e sapendo difficile perciò la riuscita, marciarono sotto Liano razziando quella zona in tutta sicurezza.
Bertoldo Orsini saputa la cacciata da Bologna dei Lambertazzi e che stavano depredando i villaggi delle colline sopra Castel S. Pietro, invitò entrambe le fazioni a giustificare la rottura della pace, pretese la consegna di Castel S. Pietro e Castel Franco per i due mesi prossimi ed inoltre che facessero palancati, fossati ed altre cose necessarie per difesa e salvezza di questi due castelli, il tutto sempre a nome della Chiesa.
Tanto si fece e alla fine di febbraio 1280 fu consegnato il nostro Castello al cardinale Latino. Poi nel mese di maggio Bertoldo Orsini Conte di Romagna ebbe gli ostaggi, che per maggior sicurezza furono portati a Castel S. Pietro. Però mentre che si trattava accadde il 22 agosto 1280 la morte del pontefice, onde fu sospesa ogni decisione.
Restò vacante la S. Sede per cinque mesi e dopo molte discussioni, il 22 febbraio 1281 fu eletto il cardinale Simon de Brion col nome di Martino IV
Il Senato aveva decretato fin dal 1256 che tutti i servi e serve fossero manomessi col pagare ai rispettivi padroni lire 10 a testa per i maggiori di anni 14 e per i minori lire 8, a condizione che poi in avvenire pagassero un tanto l’anno ai Pretori dei castelli in cui erano. I detti manomessi potevano farsi famiglia libera ed aprire casa. Tutto ciò fu descritto e regolato in un libro intitolato: Paradisum voluptatis.[59]
Il Senato in seguito nel 1283 ordinò che gli abitanti del contado per i loro affari civili dipendessero dai loro Pretori, perciò tutto il contado fu diviso in tante podesterie da assegnarsi annualmente a cittadini di Bologna che fossero estratti.
Giovanni D’Appia[60], nominato nel maggio 1281 dal papa Conte di Romagna, decise di intervenire col suo esercito contro i Ghibellini, che avevano violata la pace e molestavano ora un territorio ora un altro. Mosse contro Guido di Montefeltro capitano delle genti di Forlì e dei bolognesi di parte Lambertazza.
Sapendo i forlivesi di non potere resistere alle sue forze, si dettero alla Chiesa e così fecero i cesenati ed altri popoli. La dedizione fu di breve durata poiché a Faenza e Forlì nel 1284, nacquero nuove discordie che, per quietarle, Malatesta si portò a Forlì e poi a Castel S. Pietro. Qui si fermò al ponte del Sillaro ove era l’ospedale di S. Giacomo, qui l’attendeva Taddeo da Montefeltro Conte di Urbino per unirsi assieme.[61]
Uniti assieme tentarono la presa del nostro Castello ma furono respinti. Replicarono l’assalto dopo breve tempo. Il Malatesta attaccò dalla parte montana e il Montefeltro dalla parte inferiore e di nuovo furono bravamente respinti dai castellani, così che convenne ai due capitani abbandonare l’impresa.
Il 29 marzo 1285 morì Papa Martino IV, successe il Cardinale Giacomo Savelli romano col nome di Onorio IV. Nell’anno seguente 1286 e 1287 furono fortificati i castelli del territorio. Castel S. Pietro, che ne bisognava più degli altri per i danni subiti dal Malatesta e Montefeltro, fu riparato alle rocche, torri e casseri.
Papa Onorio IV morì il 5 aprile 1287, gli successe il 22 marzo 1288 il Cardinale Gerolamo d’Ascoli col nome di Nicolò IV.
La chiesa di Castel S. Pietro, che fino ad ora era semplice beneficio clericale, il 14 settembre fu dal Capitolo Metropolitano di Bologna, a richiesta dei castellani, elevata al grado di Rettorato.
Fu eretto nella chiesa il fonte battesimale alla destra dell’ingresso a fianco della porta maggiore, ove si è sempre mantenuto fino alla nuova fabbrica.
A causa dei danni dovuti al passaggio delle truppe e per lo scarso raccolto, la università di Castel S. Pietro chiese aiuto al Senato che rispose esentando Castello da Colette e Dazi escluse quelle su pane e vino.
Serpeggiando una pestifera scabbia, fu ordinato che nessun lebbroso o contaminato di altro male entrasse nella città o luogo abitato, ma i contaminati dovessero albergare negli ospitali e, in queste parti, nell’ospitale dei Santi Giacomo e Filippo di là dal Sillaro presso il ponte. In tale occasione, nel seguente 1289, fu restaurato sia il ponte che l’ospitale.
L’anno successivo 1290 avendo il Conte Alberto da Gesso ucciso un suo castellano, il Podestà di Bologna ordinò la demolizione di quel Castello sopra il Sillaro nella podesteria di Casalfiumanese. Fu incaricato il capitano d’arme Bartolino da Castel S. Pietro che con alquanti soldati e guastatori si portò a quel castello e lo spianò.
1291 – 1298. Azzo d’Este con i principi romagnoli e il Lambertazzi attacca il bolognese. Battaglia del Campo della Baruffa.
Giunto il 1291 ricominciarono discordie tra fazioni nella vicina Romagna.
Il 4 aprile 1292 finì i suoi giorni Papa Nicolò IV, cominciarono pure le discordie fra cardinali per la elezione del Papa. Fu questa una opportunità ai fazionari per prendere nuovamente le armi.
A Imola venuti alle mani le famiglie dei Nordili con quella degli Alidosi, furono cacciati dalla città Alidosio e Litta Alidosi che furono inseguiti fino a Castel S. Pietro. I castellani e i borghigiani, temendo una strage uscirono in difesa dei fuggitivi che furono posti al sicuro e respinsero i Nordili e i loro seguaci fino alla Toscanella.
Intervenne il Conte di Romagna e Vescovo di Reggio Aldobrandini che si recò a Imola per calmare i tumulti, comporre le parti e rimettere in città Litta ed Alidosio Alidosi. I Nordili scontenti facero diffamare il vescovo dai loro aderenti. Questi reagì, li fece carcerare poi li spedì a Riniero Cattani a Castel S. Pietro, che era qui il castellano e gli fu imposto una rigorosa custodia.
Il Senato di Bologna, temendo aggressioni al nostro Castello e Borgo dai fuoriusciti d’Imola per liberare i prigionieri, mandò subito Desio Castelli a fare le necessarie provviste per una valida difesa quindi, oltre i molti pedoni, fu rinforzato di cavalli il Borgo e il Castello, ma i nemici imolesi non perdendo tempo, cominciarono a fare scorrerie e saccheggi.
Per queste molestie il Senato l’anno seguente 1293 spedì Riccardo Beccadelli a rinforzare Castel S. Pietro in previsione di una guerra imminente. Fece rimettere i palancati ove bisognavano, barricò le strade eccetto quelle che portavano nel Castello così che il Borgo divenne col Castello un solo abitato. Fu rinnovata la difesa esterna colle porte una al levante e l’altra al ponente, non sembrava più il Borgo di prima e di qui si vuole che incominciasse a chiamarsi Borgo Novo.[62]
Finalmente sopite le differenze fra cardinali, il 29 agosto 1294 fu eletto Papa un eremita chiamato Pietro da Sulmona che prese il nome di Celestino V. Questo poi ritenendosi inadatto alla gestione delle cose ecclesiastiche il 13 novembre rinunciò al papato[63]. Successe il 24 dicembre Benedetto Caetani, cardinale di Anagni col nome di Bonifacio VIII.
Poiché i poderi dell’ospitale di S. Giacomo e Filippo di là dal ponte sul Sillaro, che avrebbero dovuto servire per mantenimento del ponte e dell’ospitale, erano occupati da persone estranee ed in parte erano rimasti incolti per le guerre passate, il Senato, a richiesta dei nostri castellani, ordinò che fossero subito liberati dagli occupanti e con la vendita si mantenesse il ponte e si alloggiassero i pellegrini.
Non conosciamo la data di fondazione di questo Ospitale, sappiamo che tempo addietro spettava alla Mensa d’Imola. Il documento più antico che conosciamo è una Bolla dell’anno 1151 di papa Eugenio III diretta a Ridolfo vescovo d’Imola nella quale si conferma che questo ospitale e la chiesa parrocchiale del castello di Alborro dedicata a S. Paolo è soggetta alla giurisdizione del vescovo di Imola. Così è riportata dal Manzoni nella sua Storia de Vescovi imolesi in questi termini: Sub ditione Eclesie imolensis confirmamus Capellam S. Pauli in Castro Alborji et Hospitale S. Jacobi in Silaro.
Mentre Guglielmo Durante[64] vescovo milanese, governatore della Romagna nel 1296 stava sforzandosi di procurare la pace, il Marchese di Ferrara Azzo d’Este[65] mise tutto in discussione per i suoi contrasti con Bologna. Quindi, riuniti i maggiorenti di Romagna, cioè Ravennati, Riminesi, Bertinoresi, Forlivesi, Cesenati e Faentini e i fazionari Lambertazzi di Bologna concluse con essi in Argenta sia di levare Imola ai Bolognesi e sia di rimettere a Bologna i Lambertazzi.
Il Senato avvisato da Guglielmo presidiò Imola e Castel S. Pietro ma il Conte Galasso di Cesena e Majnardo[66] generale delle armi forlivesi vennero subito sopra Imola, si scontrarono e sconfissero i bolognesi che si ritirarono a Castel S. Pietro.
Il nemico esaltato dalla vittoria si diresse qui. Uguccio Salcizia, che era con molte genti attendato fuori del Castello, si unì con gli altri soldati scampati alla battaglia, prese la bocca del ponte sopra il Sillaro a levante e vi si fortificò.
Maghinardo, riconosciuta difficile la presa del Castello, salì il colle e, passato il Sillaro, cominciò ad attaccare i villaggi sotto Liano, Frassineto, Galegato per attirare alla campagna Uguccio ma questi, proteggendo il nostro Castello non abbandonò mai il posto.
Maghinardo allora scese verso Castello attaccandolo dalla parte superiore con tutte le sue forze
Bisio Musitelli ed Angelotto Pellegrini che avevano la guardia di quel quartiere lasciarono prima che il nemico si scontrasse con alquanti uomini, che avevano mandato in agguato, perché si stancasse. Quindi, avvicinatosi il nemico al Castello, si fece più aspra la battaglia. I nostri Castellani si difendevano strenuamente nella parte di sopra al Castello.
Al ponte del Sillaro un altro attacco era sostenuto da Mattia Cattani ed Enrichetto Feliciani contro i quali Maghinardo non poteva far frutto per la scomodità del posto. Allora con maggior ardore replicò l’assalto a Bisio rompendo il palancato. Veduta la mala parate i nostri castellani abbandonarono la resistenza e Maghinardo entrò nel Castello.
Questi fatti accaddero nell’agosto 1296. Occupato Castel S. Pietro cominciò a depredare i dintorni nelle robe e bestiami, scorrendo fino a Medicina con ferro e fuoco, distruggendo case e fienili. Durò poco questa barbarie poiché i bolognesi, per tirarlo fuori da Castel S. Pietro, ritornarono a Imola per la parte bassa, e là giunti misero a fuoco i sobborghi della città.
Saputo ciò il Maghinardo ritornò alla difesa di Imola lasciando pochi presidi al nostro Castello. L’armata bolognese tornò indietro e venne all’assalto del Borgo e subito lo prese. Gli uomini di Maghinardo, conoscendosi inferiori di forze il 23 settembre abbandonarono Castel S. Pietro, distruggendo prima i palancati e le porte d’ingresso.
Seguì in quest’anno 1296, come scrive il Gozzadini nella sua Cronaca dei Matrimoni Nobili di Bologna, il matrimonio fra Beatrice di Riniero Cattani di Castel S. Pietro e Ridolfo di Bonacorsi Bonromei di Bologna.
Giunto l’anno 1297 il Senato spedì a questo Castello Bonifacio Bolognetti per visitarlo e fortificarlo. Riferì dello stato deplorevole in cui era e la desolazione che lo sovrastava. Spedirono per ciò 600 cavalli per difenderlo sotto il comando di Malatestino Gozzadini al quale fu consegnato il Castello.
Giunta la primavera Uguccione della Faggiola[67], generale dell’armi forlivesi e cesenate, messo il campo sopra le colline di Castel S. Pietro saccheggiò Varignana poi, tornando indietro al nostro Borgo, si scontrò coi cavalieri del Gozzadini ma poi uscì dal Castello Mattia Cattani coi terrazzani e borghigiani e fu fatto retrocedere.
Il Senato vedendo andare le cose di male in peggio, spedì le Tribù del Popolo (milizie popolari) al nostro Castello con gran quantità di fanti e cavalieri e vi si accamparono attorno. Ciò inteso Uguccione passò con 200 cavalieri il Sillaro. Si appostò di là dal ponte presso S. Giacomo, poi unitosi a molti fanti cesenati, dispose la sua armata in tre corni, poi mandò un araldo ad intimare la battaglia ai bolognesi che erano in Castello.
Questi, conoscendo la sua abilità nelle armi e per non aprire il passo alla città se avessero perso Castel S. Pietro, rifiutarono l’invito. Uguccione come che fosse stato vincitore, spiegando le bandiere a suon di tromba, se ne ritornò nella Romagna.
Allontanato Uguccione, nel mese di giugno i nostri passarono a razziare l’imolese. I soldati forlivesi cercarono di impedirlo assieme ai faentini, ce lo scrive il Tonduzzi così: Die 18 junjo equitaverunt milites et populi Faventie ad civitatem Imole quia bononienses venerunt versus Imolam ad faciendum guastum.
I bolognesi poi si ritirarono ed il Senato il 25 giugno ordinò nuovi custodi a Castel S. Pietro, designando capo dei cavaglieri Pietro Basciacomati e capo dei fanti Leonello Brochi. Fu accomodato il Castello, in Borgo si costruì una fortificazione consistente in una torre rotonda a fianco dell’ingresso a levante, ove ora vi è una comoda locanda detta Il Portone, poi fu consegnata questa in custodia a Princivalle Ghirardacci.
Nel medesimo Borgo, per comodità degli abitanti, vi fu scavato un pozzo pubblico sulla strada, ove ora è la chiesa della SS. Annunziata, esternamente alla parete che guarda il Castello, pozzo che fu chiuso nel 1620 per evitare i chiassi che disturbavano i ministri del culto, esercenti i divini uffici nella chiesa. Il pozzo fu scoperto pochi anni fa, 1775, nell’occasione di selciarsi il Borgo e poi fu interrato.
Oltre ai lavori accennati fu anche riscavata la fossa attorno al Castello fino a quella del Borgo. Dentro lo stesso Castello furono pure scavati altri pozzi dei quali se ne vedono e sono in uso comune parecchi cioè nella piazza Liana, nella piazza Framella presso il convento di S. Francesco e nella via a ponente presso le mura dove esisteva la Rocca grande del Castello, edificata in questi tempi[68] della quale ora non si vede altro che un rotondo ben forte maschio a fianco di un tronco di torre.
Gli altri pozzi sono stati in parte coperti dalle vicine proprietà e parte interrati. Il sistema di fabbricazione di quelli che si vedono e di quelli chiusi è lo stesso, formando un mezzo circolo unito ad un parapetto diritto, la camicia interna è tutta di pietre in piano a diversità dagli altri pozzi moderni che sono di pietra in coltello. Fu accomodato anche il chiostro davanti la torre maggiore.
I ghibellini imolesi, vedendo ben difeso Castel S. Pietro, si voltarono si diressero alla pianura sotto strada, e il 3 luglio 1297 attaccarono Castel S. Polo, castello distante da noi circa un miglio ove uccise cinque persone. Conosciuto ciò a Castel S. Pietro, i Cattani si adirarono ed uniti ai Zopi, Pelegrini, Campana, Fabri, Feliciani e Ghirardacci sollecitarono gli armati del presidio del Castello e, unendosi con gli uomini di Pietro Basciaco che aveva 400 cavalli in Castel S. Pietro, andarono immediatamente ad incontrarli a Idice. Venuti alle mani i nostri furono respinti.
Il Senato pensò di assicurare meglio Castel S. Pietro nominandovi due nuovi capitani, uno nobile che fu Angelotto Uccelletti per la cavalleria e l’altro popolare che fu Uguccio Salcizia per la fanteria. Avuti questi la carica marciarono subito a Castel S. Pietro e il 20 ottobre si posero in guardia al Borgo e Castello.
In questo tempo Pellegrina Accarisi di Bologna si sposò con Egidio Cattani di Castel S. Pietro, tanto ci riferisce il Gozadini nella sua Cronaca dei Matrimoni Nobili di Bologna. Ne esultò molto il nostro Castello per tale illustre parentela sperando di averne in seguito dei favori.
Nel mese di maggio 1298 Uguccione Faggiola e Maghinardo tornarono dalla Romagna ad infestare nel vicinato, perciò il Senato aggiunse altre bande di soldati a piedi ed a cavallo agli uomini dell’Uccelletti e Salcizia. Il rinforzo pose il campo al Borgo, nella pianura sotto strada, attendendo qui allo scoperto il nemico.
Avvisati di ciò il Maghinardo e il Faggiola evitarono l’accampamento, salirono la collina sopra il Castello lungo il Sillaro, poi presero la costa del fiume per assalirli dalla parte alta.
Se ne accorsero i Castellani e senza perder tempo, uscirono dal Castello in due gruppi, una di castellani condotta da Dondidio Fabbri unito ai Cattani, Zogoli, Rinieri, Musitelli, Ghirardi, Toschi ed altri andarono su la parte superiore.
L’altro composto dai bolognesi del presidio, uscì dalla parte della rocca comandato dal Salcizia e si inoltrò anche essa per la Via di Viara o sia Via Cupa, che tale veramente si può chiamare tanto poco vi si vede il sole.
Erano così distribuite le nostre genti quando cominciò Maghinardo dall’alveo del Sillaro ad avanzare per affrontare i nostri.
Il Salcizia, che procedeva coperto nell’ombra della via suddetta, aspettò di sentire l’attacco, quindi attaccò il nemico con vantaggio per la situazione dei suoi armati. Si fece più che ardente la battaglia con spargimento di sangue dall’una e dall’altra parte. Per molto tempo non si distinse chi fosse il vincitore. Angelotto Uccelletti avvisato accorse in aiuto dei nostri. Il Faggiola, che era nella collina di sopra, calò furiosamente colle sue genti per aiutare Maghinardo, ma l’Uccelletti gli tagliò la strada ma non potendo superare le forze del Faggiola, si voltò verso Liano inseguito per un buon tratto di strada finché si riparò nella boscaglia.
Fintanto che si facevano queste cose da un canto, dall’altro proseguivano a battersi con tale ferocia che se non sopraggiungeva la notte, come scrive il Ghirardacci ed altri storici, si distruggevano a vicenda. In questa battaglia ebbero la peggio i romagnoli e i nostri carichi di preda ritornarono vittoriosi a Castello. Questo scontro ebbe luogo in un terreno fronteggiante il Sillaro sopra il Castello nella via che porta alla fonte della Fegatella. Questo luogo prese il nome glorioso che tuttora mantiene di Campo della Baruffa.
Il ricco bottino che vi fecero i nostri diventò proverbiale, quando si vuole esprimere una cosa di gran pregio rispetto ad un’altra si dice: Non dare la parte per quella della Baruffa.
Fecero i nostri paesani anche molti prigionieri importanti per grado e condizione fra i quali vi fu il Conte Ghinoro di Semito, fiero nemico di Azzo d’Este.
1299 – 1300. Pace di Monte del Re, o della Croce Pellegrina, tra bolognesi e romagnoli.
Questa sconfitta dei romagnoli ad opera dei castellani spinse a trattare per la pace. Il 2 agosto il Senato nominò i suoi delegati e intanto si mandarono al nostro Castello due balestre grosse oltre le altre piccole e in più dieci militari scelti colle lance lunghe dodici piedi.
I romagnoli, umiliati dalla sconfitta continuavano però le scorrerie nelle vicine campagne provocando i castellani fino sotto il Borgo. Convenne aumentare le truppe, furono aggiunti 200 cavalli, 100 di riserva di qua dell’Idice e 100 destinati a pattugliare di là del Sillaro.
Siccome poi Castel S. Pietro e Borgo per le guerre passate avevano patito forti danni e lasciato incolti perciò e abbandonati i terreni, il Senato di Bologna, anche per premiare il coraggio dimostrato, decretò il 4 marzo 1299 che fossero esenti dalle Colette dei soldati, estimo, fumo ed altre imposte eccetto il dazio del pane e vino. Questa esenzione si estese anche a Liano e agli altri altre castelli vicini di Galegata, Bisano, Sassuno, Montecalderaro e Castel S. Polo.
Giovanni Savelli vescovo di Bologna per concludere la pace fra bolognesi e romagnoli, inviò Frate Agnello, priore dell’Ordine dei Predicatori di Bologna, a interpellare i capi romagnoli per un incontro coi bolognesi. Il Senato accettò e decretò il 6 aprile che il Pretore si portasse con gli ambasciatori a Castel S. Pietro, luogo approvato da tutti per trattare.
Quindi fu ordinato agli uomini di Castel S. Pietro e Borgo che fino al 12 aprile non dovessero molestare la parte nemica. In particolare fu imposto a Enrichetto Feliciani di impegnarsi per iscritto con Frate Agnello in questi termini: Che esso non auria né per se né per li suoi seguaci in alcun modo molestato le genti di Romagna, che nel giorno di martedì prossimo l’attendeva in Castel S. Pietro dove in tal giorno il Pretore e li ambasciatori di Bologna si sariano ritrovati per trattare la pace il mercoledì seguente, dove si dovesse trovare anco la parte di Romagna
In seguito Domenico Tolomei consigliò che si mandassero cinquanta cavalli forestieri ed altrettanti pedoni alla guardia del nostro Borgo per evitare problemi.
Martedì 7 aprile, il Pretore Ottolino da Mondello giunse con gli ambasciatori a Castel S. Pietro e tutti andarono in casa di Princivalle Ghirardacci custode della rocca del Borgo per il pubblico Parlamento da farsi coi nobili di Romagna.
Il giorno seguente mercoledì 8 aprile arrivarono gli ambasciatori e i nobili romagnoli. Si convennero che siccome i nostri erano attendati nel quartiere del Gaggio e i romagnoli nell’opposto quartiere di Granara, si facesse perciò l’incontro in un luogo in vista dall’uno e dall’altro campo. Era questo sito il Monterone lungo il Sillaro, l‘altura formata dai partitanti del Lambertazzi l’anno 1274, dal cui apice si potevano scorgere entrambe le truppe.
Qui salito Frate Agnello esortò le due parti ad una stabile pace e ricostruire la desolato Romagna. Maghinardo per sé e i suoi seguaci giurò vera pace al comune di Bologna, Ottolino ed il Conte Galasso da Montefeltro[69], generale dei bolognesi, fecero lo stesso e qui fu deciso il pubblico accordo di pace. Si decise quindi di definire tutte le altre cose del trattato lunedì 13 aprile.
Intanto la domenica si dovevano incontrare a Castello gli ambasciatori di entrambe le parti mentre il Conte e i nobili di Romagna sarebbero stati al castello di Dozza per poi ritrovarsi a Monte del Re quindi a Castel S. Pietro, avendo tutti gli opportuni salvacondotti.
Ciò disposto, e avvisato Frate Agnello, il Pretore Ottolino e gli ambasciatori vennero a Castel S. Pietro e di qui passarono a Imola ove, convenuti il Conte Galasso con Maghinardo e altri, nella chiesa di S. Cassiano si tenne il Parlamento generale. Il Conte confermò di nuovo la pace.
I bolognesi chiesero, per una pace migliore, che Imola fosse concessa a Bologna. Gli altri si opposero e si decise per il momento di soprassedere.
Il 15 mentre il Pretore a Castel S. Pietro attendeva la decisione su Imola, Frate Agnello riferì che i romagnoli non volevano assolutamente accordare questa città.
Il giorno dopo 16 aprile i messi di Forlì, Cesena, Faenza ed Imola vennero al nostro Borgo ove si teneva il Consilio dei bolognesi. Aliotto, giudice di Forlì disse che nel trattato di pace Frate Agnello mai parlò d’Imola che però, per dimostrare la volontà di concludere la pace, proponeva una breve tregua finché fosse deciso la questione d’Imola. Ciò fu subito accordato.
Il Senato di Bologna il 25 aprile decretò di tenere parlamento a Castel S. Pietro sopra la pace, quindi il 28 i Sapienti di Credenza[70] vennero da Bologna a Castel S. Pietro e il seguente 29 scrissero a Frate Agnello così Declaravimus pro meliore negotio vos personaliter venire ad Castrum S. Petri die mercuri 29 aprilis 1299, invitandolo a Castel S. Pietro per provare a concludere.
Lo stesso giorno venne a Castello il Pretore Ottolino e con i Sapienti di Credenza, si decise di proporre di incontrarsi per definire il trattato a Monte del Re. Tutti concordarono.
Quindi si riunirono nel coro dei frati minori del convento di Monte del Re e qui il Giudice di Forlì a nome dei nobili ed altri ambasciatori di Romagna disse che Imola non poteva essere data ai bolognesi perché era soggetta ad interdetto papale, quando fosse stata liberata allora si sarebbe tenuto conto della richiesta di Bologna ma che intanto si concludesse la pace. Ciò detto restò il tutto per allora sospeso ed ognuno se ne ritornò a propri alloggiamenti.
Non si comprende come si sia potuto in una lapide a Monte del Re celebrare la pace ivi conclusa, quando che rimanevano ancora molte condizioni da decidere. Infatti la desiderata pace si concluse il 4 maggio a Croce Pellegrina nel comune di Castel S. Pietro ove c’è un oratorio dedicato a Maria SS. Addolorata. Comunque qui si riporta l’iscrizione
D. O. M.
In hac Minorum Aede
inter Bononienses ex una parte
Imolenses vero, Faventinos, Cesenates
ac Forolivienses ex altera
Presidentibus hinc inde legatis
Pax et Concordia
restituta est
die mercuri 29 aprilis 1299
Si sarebbe dovuto scrivere incohata est oppure preparata est invece di restituta est.
Appianate tutte le differenze finalmente vennero ambo le parti il 4 maggio al luogo chiamato Croce Pellegrina. Il Pretore Ottolino riconfermò quale era l’animo del parlamento, popolo e comune di Bologna per la consegna d’Imola, ciò ascoltato i capi dell’una e dell’altra parte si baciarono assieme e poi fu celebrato il solenne strumento di pace che noi tralasciamo trovandosi stampato nella storia del Ghirardacci
Fatta dunque la pace si fece grandissima festa e gli ottimati di Bologna vennero a ringraziare il Signore nella nostra parrocchiale di Castel S. Pietro. ll giorno seguente, 5 di maggio, il Pretore con gli Anziani e i Sapienti ritornarono a cavallo a Croce Pellegrina. Si schierarono qui aspettando i nobili e ambasciatori di Romagna che venissero a pranzo al Borgo.
Mentre questi indugiavano, Ottolino chiese agli Anziani e ai Sapienti cosa si doveva fare intorno alle rappresaglie contro la Romagna e per quanto tempo si dovesse aspettare e sospenderle. Messa in votazione la proposta della sospensione per un quinquennio, indicando il voto negativo stendendo la mano e il braccio sull’arcione del cavallo, questa fu approvata.
Appena ciò fatto cominciarono a comparire gli invitati. Ottolino e compagni cortesemente li incontrarono e con grande onore li condussero al preparato Ospizio e si passò tutto il giorno in letizia.
Il nome di Croce Pellegrina è dovuto a motivo che i pellegrini, prima di essere ricevuti nell’Ospitale di S. Giacomo sopra il Sillaro presso il ponte, si fermavano qui per essere controllati poiché in questi tempi potevano entrare nei luoghi abitati sconosciuti che potevano essere pericolosi per la salute pubblica, ma anche per evitare tradimenti ed insurrezioni e pure per riconoscere se erano esploratori od emissari.
Questo luogo poi essendovi una immagine di Maria SS. Addolorata, prese il nome di Madonna del Cozzo dal cognome del proprietario Fredo Cozzamonte. La medesima denominazione di Pellegrina si estese anche al vicinato e tutt’ora si conserva sul podere di fronte. Il Cozzamonte poi, per rendere memorabile il suo fondo per la pace ivi fatta, vi costruì una celletta dedicata alla Vergine del Pianto.
Essendo Bologna in buone condizioni, il Senato ordinò che si levassero molte spese addossate ai castelli e ordinò che questi fossero affidati ai massari e uomini degli stessi purché fossero di parte guelfa. Purtroppo non sappiamo chi furono i massari di Castel S. Pietro per mancanza di documenti.
il 24 dicembre il Senato pubblicò un bando col quale comandò il rientro entro un mese di molte nobili cittadini che erano espatriate con famiglie e beni. Partirono da Castel S. Pietro Nicola Bonacatti, Enrico Basciacomatri, Adreuccio Cacciali, Enrico Muccia, Ricobono Visconti, Tomaso Ubaldini, dottore di legge, Bartolomeo Spiolari, Lamberto Chiari e molti altri e così terminò l’anno 1299.
L’anno seguente 1300, Bonifacio VIII, che reggeva saggiamente la chiesa, lusingandosi di una tranquillità perfetta, per consacrare l’anno alla pietà ed alla devozione, istituì il Giubileo.
Azzo d’Este che era intenzionato a non rispettare i patti con Bologna, cominciò a trattare con alcuni bolognesi per sconvolgerla, inoltre si accordò con altri della Romagna
Il Governo per evitare disordini verso il confine romagnolo spedì Pietrobono Graffi a rifornire e fortificare Castel S. Pietro. Fece riparare subito le porte della rocca e della torre e rimontare i palancati ove necessario. Il Senato mandò nel febbraio Giovanni de Bonpietri con venti soldati al vicino Borgo e Pietro Pegolotti con altri quaranta soldati al Castello poi ordinò ai castellani di stare pronti alle ostilità cominciate dal vicino nemico.
Volendosi maggiormente assicurare questo luogo di somma importanza per essere la frontiera della Romagna, il Parlamento generale di Bologna fece subito arginare il Borgo e chiudere i passi dai quali potevano entrare senza contrasto gli aggressori.
Consisteva prima questa terra in una linea di case sopra la via consolare dalla parte meridionale, la qual linea era intersecata da una strada perpendicolare portante al Castello. Aveva due porte l’una a mattina, verso la Romagna e l’altra a ponente verso Bologna. La porta a levante che tuttora esiste, e si chiamava il Portone, di stile gotico, aveva alla destra dell’ingresso un rotondo baluardo che fu già chiamato Rocca del Borgo.
Dell’altra porta opposta non abbiamo più nessuna traccia se non la posizione del fabbricato che si congiungeva alla porta ove poi Ghino di Giai vi fabbricò una grande e comoda osteria coll’insegna del Montone, fabbricato che è in faccia all’abitato detto il Ghetto, ove abitavano i Giudei.
Fu riscavata la fossa che lo circondava, che era stata fatta fin dal 1293, e riceveva le acque superiori della Viola del Lupo e, traversando la via romana, andava a congiungersi al circuito dell’accennato baluardo. Tanto ciò è vero quanto ché la vicina possidenza sotto il casino Graffi si chiamava la Fossa nei pubblici rogiti e al suo intorno vi era una siepe di travicelli acuminati.
Di questa cerchia o fossa non abbiamo altra traccia che il corso dell’acque che, sotto passando la via romana dalla parte di ponente, passava al disotto del fabbricato Gini fino alla sconsacrata chiesa di S. Carlo, costeggiante la via di Medicina. Carl’Antonio Giorgi, fabbricando avanti a quella un edificio ad uso di molino da olio, nello scavare i fondamenti ed il pozzo, ritrovò alcuni dei travicelli ben conservati e posti regolarmente.
Le famiglie principali che abitavano nel Borgo erano queste che abbiamo ritrovato in publici documenti cioè: Puozi, Bolghelli, Righi, Tedeschi, Fucci, Scarsella, Ghirardacci, Fabbri, Ubaldini, Balioli e Magnani.
Ma perché questa terra non aveva confini definiti con Castel S. Pietro né con Liano e Casalecchio per cui in caso di reati non era chiaro di chi fosse la giurisdizione, il Senato ordinò di determinare i precisi confini e nominò una commissione con questo incarico[71].
Trovandosi Castel S. Pietro in difficoltà nel pagare varie imposte il 27 maggio il parlamento decise che per quattro anni gli uomini di Castel S. Pietro ne pagassero solo la metà. Poi, poiché per la guerra erano stati sottratti molti beni agli ospitali e ai ponti, decise col decreto de Generalitate Pontium che si recuperassero i beni dell’ospitale dei SS. Giacomo e Filippo del ponte Sillaro, che fosse di nuovo istituito il Rettore di detto Ospitale e ponte e che, colle rendite dei beni, mantenesse il ponte.
Due soggetti di Castel S. Pietro si distinguevano in questo tempo nelle facoltà scientifiche cioè Giacomo Gherardi ed Albritto Mattei, il primo nell’arte medica e l’altro nella giurisprudenza, i quali furono promossi alla dignità di Anziani nel mese di ottobre.
Nonostante la decisione presa sui confini, gli uomini della terra di Borgonuovo, continuavano ad essere malcontenti. Il senato per porre termine alle contese incorporò Borgonuovo con le sue campagne nel comune di Castel S. Pietro essendo altro che una contrada sulla Emilia di pochi abitanti e quarantasei focolari.
Lo stesso è riportato nella descrizione fatta dal cardinale Albornoz generale di S. Chiesa per ordine del pontefice Gregorio XI nel 1371. Anche il Savioli ne fa menzione ne suoi Annali di Bologna, aggiungendo che anche la Villa di S. Biagio di Poggio fu aggregata ed incorporata nel comune di Castel S. Pietro che così accrebbe la sua giurisdizione
Raccolto di Memorie istoriche
di Castel S. Pietro,
Giurisdizione di Bologna
dal 1301 al 1400
Libro secondo
Centuria seconda
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Argomento
Gli imolesi infestano il territorio di Castel S. Pietro, assediano il Castello, difeso dai castellani. Entrano i ghibellini poi sono cacciati. Il castello di Triforce attaccato dagli uomini di Castel S. Pietro. Loro vittoria. Romeo Pepoli cacciato da Bologna si fortifica a Castel S. Pietro. Viene attaccato, si difende con l’aiuto dei castellani. Vanno gli uomini di Castel S. Pietro come ausiliari a combattere a Ganzanigo e lo distruggono. Bologna è interdetta, lo Studio pubblico si trasferisce nel Borgo. Loro permanenza con la scolaresca. Si scopre la fonte della Fegatella. Sue virtù. La Parrocchiale di Castel S. Pietro dichiarata Pieve. Arrivano gli Agostiniani a Castello. creano il loro convento. Castel S. Pietro dichiarato Podesteria di Bandiera. Comunità subordinate. Descrizione delle medesime e numerazione delle loro abitazioni dal cardinale Albornoz. Ospitale per i viandanti in Borgo. Disordini accaduti. Atterrate le vecchie fortificazioni si fanno mura nuove. Varie beneficenze fatte al paese e fatti d’armi.
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1301 – 1320, Gli imolesi infestano il territorio. Liberato Triforce, occupato da fuorusciti. Interventi del papa contro i ghibellini guidati da Cangrande della Scala.
In questo tempo si governava Bologna nel modo della democrazia quindi entrarono nella Credenza anche i nobili del contado. Questi nobili erano i maggiorenti dei castelli e municipi del contado perciò non ci si deve meravigliare se tra gli Anziani e negli altri uffici dell’apice del governo si trovano famiglie di Budrio, Medicina, Castel S. Pietro e altri luoghi. Nell’anno 1301 furono in febbraio promossi alla carica di Anziani i castellani Enrichetto Feliciani e Bartolomeo Bonacatti.
Azzo d’Este, che continuava ad essere ostile ai bolognesi, sollevò gli imolesi che cominciarono a commettere qualsiasi male che potevano saccheggiando questi dintorni.
Il Senato avvisò Roma e nel seguente aprile mandò come ambasciatore Giacomo Gherardi di Castel S. Pietro. Presso il parlamento invece operava il castellano Albritto Mattei, affinché nelle attuali vicende avvenisse il minor danno possibile per la sua patria. Per assicurarla dalle invasioni fu accomodato il ponte e la via presso il Castello, furono rinnovate le fosse del Borgo ed arginato con forti ripari, si aggiunsero nove guardie e munizioni da guerra.
Gerardo Gerardi ritornato da Roma si ammalò mortalmente e finì li suoi giorni con dispiacere universale avendo perduto la città un buon concittadino e fu sepolto in S. Francesco.
Giunto l’anno 1302 il Senato di Bologna ordinò l’11 gennaio che si fortificasse e rinforzasse il nostro Borgo perché il Marchese di Ferrara Azzo si dirigeva verso questo confine. Perciò dalla parte di levante si alzò un terrapieno e vi si lasciò solo uno stretto passaggio tanto che vi si potessero entrare solo carette e fu inoltre alla testa del ponte del Sillaro piantato uno steccato a difesa.
Fu poi provveduto il Castello di vettovaglie, munizioni e foraggi. Oltre la consueta milizia vi furono aggiunti quattrocento cavalli. La Rocca grande[72] del Castello ed il Cassero furono riparati e fortificati da ogni parte. Alberto Ghirardacci ne era il custode ed in questo modo fu assicurato questo luogo.
Intanto Azzo si era avvicinato ai confini di Massa Lombarda. Volendo assicurarsi anche da questa parte, il Parlamento ordinò che fosse soccorso quel paese. Furono spedite immediatamente truppe al comando di Matteo Zambonini di Castel S. Pietro. Cavalcarono con lui molti di questo Castello e furono Sante Lamprini, Bertolino Guiduzzi, Superbo Giacomelli, Giovanni Ridolfi, Cecco Rolanduzzi, Mattiolo Bertoli, Gerardo Sussuli ed altri che militavano a proprie spese come volontari onde poi il Senato li rimborsò a guerra finita.
L’11 ottobre dell’anno seguente 1303 mancò Bonifacio VIII. Tale morte fece più largo campo ai nemici imolesi, che all’inizio di maggio 1304 cominciarono le ostilità. Nelle memorie della famiglia Mondini, proprietaria dell’oratorio di S. Giacomo e Filippo presso il ponte sopra il Sillaro, è riportato che il primo maggio una masnada di imolesi, col pretesto di venire alla festa che si faceva all’oratorio, assalirono donne e fanciulli spogliandoli di quel che poterono. Richiamati dal subbuglio gli uomini del Borgo li inseguirono fino a Croce Pellegrina, ma senza risultato.
Il nuovo pontefice fu Benedetto XI che godette poco il pontificato poiché dopo otto mesi nell’aprile 1304 morì avvelenato in Perugia.
Gli imolesi, sempre più spalleggiati dall’estense, scorrevano la nostra pianura e la collina e si avanzavano fino presso il nostro Castello provocando gli abitanti del Borgo. Il Parlamento di Bologna, avvisato di così frequenti provocazioni ed aggressioni alle persone, nel dì 14 dicembre accrebbe la forza del Borgo e del Castello con un distaccamento di 100 militari, poi alla Rocca del Castello vi fece fare un corridore di legno per potere da quella passare sopra le mura da una parte all’altra.
Si deduce da ciò che la Rocca era un corpo separato dalle mura del Castello, a diversità di quello che ora si vede nei suoi resti consistenti in un baluardo rotondo congiunto alla porta della torre verso ponente, che è ormai demolito[73].
Fu altresì fortificata la stessa Rocca esternamente mediante bastioni ed alzati di terra. Era così difeso il nostro Castello non solo perché era chiave del contado dalla parte di Romagna, ma anche perché aveva in città paesani che, interessati nel governo, avevano a cuore la loro patria, le loro sostanze e i congiunti che qui abitavano. Oltre ai soggetti accennati altri paesani si distinguevano sempre pi d’anno in anno ed erano conosciuti e riconosciuti meritevoli nella capitale.
Scrive l’Alidosio, nel suo Trattato de Cavalieri, che la familia Cattanei di Castel S. Pietro si rese vieppiù chiara nella persona di frate Michele Cattani. Questi passò all’ordine dei Frati della Milizia della B. V. in cui sostenne le cariche primarie. I componenti erano alcuni claustrali ed altri coniugati[74]. I primi vivevano nel convento e i secondi fuori e andavano vestiti di bianco con croce in petto profilata d’oro con due stelle sopra il traverso della croce. Erano di molta autorità e reggevano la città col Pretore.
Dopo una vacanza di 13 mesi, finalmente l’anno 1305 il 5 giugno, dopo molti dissensi fra cardinali, fu assunto al pontificato il Vescovo di Bordeaux col nome di Clemente V che trasferì la sede pontificia in Avignone nello stesso anno. Non essendovi più il Pontefice in Italia molte città, fomentate da spirito di parte, si sollevarono.
A Bologna il partito ghibellino dei Lambertazzi era diventato così aggressivo che cominciò ad attaccare il partito guelfo dei Geremei. Accadero perciò stragi e massacri. Il card. Legato Napoleone Orsini vedendosi in pericolo fuggì a Imola. In tale contingenza, essendo rimasta la città priva di autorità, il Consilio Generale il 12 aprile 1306 elesse per proprio capo Romeo Pepoli[75], tale elezione fu plaudita universalmente.
Ma da Imola il Legato scomunicò Bologna privandola dei divini offici e dello Studio. Molti dottori partirono e passarono a Padova anche la sede episcopale abbandonò la città. A tali notizie il Papa non potette che dolersi. Il Consilio generale perciò mandò a chiedergli scusa e perdono. Questi ascoltò benignamente la scusa, perdonò il delitto e restituì lo Studio e la sede episcopale alla città.
In questa luttuosa epoca si distinguevano i castellani Ventura Rinieri di Castel S. Pietro, Lettore di grammatica, Michele Ghirardi che nell’anno seguente 1307 prese la laurea dottorale in Medicina e non la cedeva a suoi coevi nella professione, Bonaventura Fabbri, uomo scienziato nelle leggi, fu chiamato dai pistoiesi al loro governo come Podestà e Pretore.
Cacciati i Lambertazzi, dopo molte risse e spargimento di sangue, non solo fuori dalla città di Bologna ma anche dal contado, i fuorusciti cominciarono a sollevare la vicina Romagna. Occupando terre e castelli aumentarono i loro alleati. Presero fra l’altro Dozza dalla quale giornalmente uscivano per razziare nel nostro comune che, non avendo forza sufficiente, non poteva contrastarli.
Il Senato, temendo un attacco anche al nostro Castello, poiché i nemici venivano fino al Borgo, ordinò che la milizia di Bologna attaccasse Dozza, dove si era fatto capo Giacomaccio de Principi. Di fatti, seguita la pace col Azzo Duca di Ferrara, l’esercito il 14 settembre 1307 si recò con mangani e trabucchi[76] sotto quel castello e lo assediò. Durò l’assedio fino al 14 ottobre, ma invano perché le grandi e continue piogge fecero tornare la truppa a Castel S. Pietro.
Galvano Rinieri di Castel S. Pietro fu fatto dottore di grammatica a Bologna e non fu dissimile nella virtù al ricordato Bonaventura di lui fratello.
Cessata la pioggia la truppa bolognese tornò verso Imola, arrivati allo scontro gli imolesi furono battuti e molti fatti prigionieri che furono subito condotti a Castel S. Pietro.
Però l’anno seguente 1308 gli imolesi, con i fuorusciti ghibellini ricominciarono a fare scorrerie fino alla Toscanella e poi nel nostro comune. I villani, non potendo coltivare i campi, ricorsero al Senato che tardò ad intervenire e quindi i nemici si fecero più coraggiosi e incendiavano anche le case. Infine nell’anno 1309 si impadronirono di Triforce[77]. Erano capi di questa truppa Daniello Rizaldini e Ridolfino Saldadieri, che fattisi forti anche con la presa del vicino castelletto di Triforceto, non ebbero limite ai loro danneggiamenti.
Finalmente il Senato decise di intervenire, mandò i soldati del quartiere di porta Stiera e i cavalli di tre quartieri. Andarorono Trifolce dove si era fortificato Biancolino Zovenzoni. Questi da lì assaliva queste contrade fino a Castel S. Pietro, facendo preda di buoi ed altri animali, pigliando uomini e donne indistintamente. Lo scontro avvenne a Poggio ove ora è la chiesa della Madonna.
Durò la mischia circa tre ore con molto spargimento di sangue. Intanto Riobaldo e Mattioso Catanei di Castel S. Pietro attaccarono il nemico dalla parte di Castel S. Polo aiutati dai villani malcontenti. Così fu che Ridolfino restò morto. La stessa sorte incontrò Daniello Rizzaldini. I corpi di Ridolfino e Daniello furono appesi agli alberi. I pochi che si salvarono fuggirono nella vicina Romagna.
Il Senato, assicurata questa parte, decise di assicurare le altre e perciò spedì a Rocca Corneta come capitano Jacopo Ghirardacci di Castel S. Pietro, uomo forte nel maneggio delle armi.
Enrico VII di Lussemburgo[78], eletto Imperatore, desiderando essere incoronato in Italia, chiese il permesso al papa Clemente V di venire a Roma. Il papa promise di concederlo ma fra tre anni. Enrico espresse la volontà di non aspettare. Ciò non piacque né al papa né ad ogni nazione italiana.
I bolognesi rafforzarono tutti i loro castelli, soprattutto quelli ai confini. Perciò i cinque Sapienti, eletti per ciascuna tribù della città, decisero il 16 agosto 1310 che la torre di Castel S. Pietro fosse guardata da un capitano e 12 soldati. Per ciò il nostro Castello fu consegnato a Rizzardo Linetto ed il Borgo ai Cattanei.
Gli uomini di Fiagnano, Corvara, Bello ed altre comunità dalla parte di Romagna erano diventati così temerari che non vi era maleficio che non commettessero sia per essere del contado d’Imola che per essere i loro castelli difficili da prendersi per la loro posizione.
Il Senato proibì l’anno 1311 tutti i mercati soliti farsi a Liano, Frassineto, Galegato ed altri perché diventavano occasione di risse, stragi e massacri provocati dai faziosi. Permise solo che i mercati si facessero due volte il mese a Monteveglio, Pianoro e Castel S. Pietro come luoghi più frequentati e adatti per il commercio della città e del contado.
Intanto Enrico passò da Avignone a Roma dove nel mese di luglio 1312 fu incoronato del titolo imperiale, ma poco lo gustò poiché l’anno seguente 1313 morì il 23 agosto a Benevento e fu sepolto in Pisa.
Per la successione al trono imperiale fu eletto da 5 elettori Ludovico duca di Baviera, i restanti elessero Federico duca d’Austria. Per gran tempo ci fu contesa ma alla fine rimase Ludovico.[79]
I bolognesi, che in questo tempo erano in guerra coi modenesi, non trascuravano però le guarnigioni al confine con la Romagna temendo aggressioni da questa parte, quindi, oltre le provviste di viveri, ordinarono a Rizzardo Linetto che raddoppiasse le guardie a queste campagne.
Intanto giunto l’anno 1314, il 20 aprile Clemente V, partito d’Avignone per Burdagalla sopra il Rodano, infirmatosi a Roquemaure morì dopo avere retto otto anni e dieci mesi la Chiesa romana in Francia.
La Santa Sede fu vacante per tutto il 1315, che fu anno di carestia per l’invasione delle locuste che distrussero le seminagioni in quei luoghi che non erano state cacciate mediante il segno della S. Croce. Quindi il raccolto fu mediocre.
Quest’anno Galvano Rinieri di Castel S. Pietro, Dottore in Grammatica, cominciò a dare pubblico saggio della sua dottrina in Bologna. Nel successivo agosto 1316 fu eletto papa Giacomo di Cahors. Prese il nome di Giovanni XXII. Questi fu il secondo papa che continuò la sede apostolica in Avignone. Patì molte ingiurie dal nuovo Imperatore Ludovico di Baviera da lui scomunicato.
Il Senato di Bologna, desiderando ordinare il governo delle fortezze e castelli del contado, determinò di assegnarne la custodia delle Società dell’Arme e dell’Arti del Popolo onde l’anno 1317 assegnò Castel S. Pietro alla Società delle Traverse e de Fabbri.
Marsilio di messer Gerardo Gerardi di Castel S. Pietro, essendosi stabilito in Bologna, esercitava là lodevolmente l’arte medica l’anno 1318.
I ghibellini intanto si erano fatti molto forti per lo loro ruberie e uccisioni e in ogni luogo e sopra tutto nel nostro comune per essere di confine e situato sotto folte boscaglie. Furono per ciò banditi per ruberie e omicidi i seguenti soggetti di Castel S. Pietro: Pellegrino Ghiberti, Margarita Toschi, Sante Marganelli, Ghillino Tecasacchi, Giacomo Risso, Filippo Zesso, Zanello Zani, Michele Fichi detto Bandella, Balduccio Leali, Guido di Guidone detto Vinea.
Poi il Papa adirato scomunicò tutti i ghibellini.
Pensarono essi di unirsi ed elessero come loro generale Cane della Scala[80], uomo di grande capacità e talento. I forlivesi spaventati da queste novità e stanchi più di tutti dalla fazione ghibellina, chiesero soccorso al Re Roberto di Sicilia[81].
Benedetto Fabbri, sebbene fosse stato aderente ai Lambertazzi, avendo dato prova coi fatti di averli abbandonati per decreto del Consiglio fu reintegrato nella facoltà di far parte degli Anziani.
Il Re di Sicilia ricevute le suppliche dei forlivesi spedì nel dicembre 1319 il suo siniscalco Guido Scarpetta a Forlì, fu eletto Capitano e in breve tempo cacciò i ghibellini dalla Romagna.
Il Papa e questo Re fecero tra loro molti concili per sterminare la fazione ghibellina fulminandoli di scomuniche. Ma poiché le armi spirituali si dimostrarono inefficaci ricorsero alle armi temporali. Quindi il Re di Francia[82], l’anno seguente 1320 mandò truppe in Italia sotto il comando del Conte di Rosè, di Bernardo da Margaglio e Filippo Valesio (di Valois). Queste truppe iniziarono a difendere i guelfi eliminando a fil di spada questi ghibellini che si trovavano nella Romagna ed in altri luoghi, incendiando anche le loro case.
Furono banditi nello stesso anno 1320 per sospetto di intelligenza coi nemici i seguenti paesani: Francesco Galliani e sua moglie Riccardina, Gabriele di Pagino, Saraccosa di Gerardo, Bartolino di Rimpiolo, Riniero Oliva, Baldezza Leali, Gazalo Leali, Giacomo Dalli Aceto, Muricolo Dainesi, Nicolò Ricardi, Zecco lino Diamanti, Bigolo de’ Nobili, Muzzolon Ricardi, Nicolò Ricardi, Rainirolo di F. Alberico, Riniero Rondoni.
Il Conte di Romagna Astorre che stava alla difesa di Castel S. Pietro sentendosi poco sicuro abbandonò il Castello e andò a Budrio. Berluccino Cattani e Giovanni Zenzani abbandonarono anch’essi Castel S. Pietro per tale ragione.
1321 – 1334. Romeo Pepoli cacciato da Bologna. Cangrande occupa Castello. I Pepoli tentano il ritorno, occupano Castello. Il Legato Bertrando del Poggetto è cacciato da Bologna.
Nel giugno del seguente 1321 Romeo Pepoli fu cacciato dal popolo da Bologna che lo inseguì fino a Castel S. Pietro e devastò tutti i raccolti delle sue proprietà.
Restò la città in mano di Antusio da Munzone nel posto di Pretore. Si fece una nuova imborsazione di Anziani. Per la tribù di Porta Stiera fu eletto Ottone da Castel S. Pietro, il suo cognome la storia non ce lo manifesta.
Romeo Pepoli che se ne stava in Romagna, vedendo i grandi preparativi che si facevano per invadere lo stato di Bologna, radunò i suoi amici. Il Senato saputo questo mandò gli ingegneri a Castel S. Pietro per rafforzarlo maggiormente. Si fecero fortificazioni tanto interne che esterne nelle strade circondarie, vi si spedirono vettovaglie e vi si aggiunsero guardie. Scrive il Ghirardacci che trovandosi molti beni di Romeo Pepoli intorno a Castel S. Pietro, che erano stati saccheggiati, fu ordinato dal Senato che chiunque avesse tali beni li dovesse consegnare. Il Consilio usò poi tali beni per fortificare Castel S. Pietro[83].
Intanto i ghibellini della Lombardia spalleggiati da Matteo Visconti[84] e Passerino[85] da Mantova cominciarono l’anno seguente 1322 ad agitarsi. Il Senato, che temeva non tanto dalla parte della Lombardia ma dalla parte di Romagna, rinforzò la guardia di Castel S. Pietro, vi mandò sedici soldati con due capitani e due balestre grosse nella torre e sette a staffa, che furono messe nella Rocca con molte lance, poi nel mese di luglio lo rifornì di viveri.
Ma Cangrande della Scala, Passerino e Francesco Bonacolsi, dopo avere messo a ferro e fuoco tutto il reggiano, scorsero fino a Bologna da dove venne verso la nostra parte, facendo infiniti mali per le campagne. Cane prese subito con impeto il nostro Borgo e si preparò per prendere il Castello. Avvicinandosi al ponte levatoio fu forte la difesa dei soldati e dei castellani così ché vedendo difficile la presa pensò di usare il fuoco.
Il terzo giorno, fatta condurre una gran quantità di legna, incendiò le fortificazioni esterne con gli steccati a levante. Il Ghirardacci scrive che fu incendiato il Castello ma noi abbiamo da altri scrittori che vedendosi i castellani privi di soccorso da Bologna patteggiarono con Cangrande la entrata nel Castello salva roba e persone. Avuto il Castello e sua Rocca lo tenne fino all’inizio dell’inverno. Se fosse stato bruciato non poteva avere gli alloggi sicuri per le sue genti.
Nell’autunno del 1322, mori ad Avignone Romeo Pepoli.
I bolognesi non tardarono a raccogliere armati per cacciare Cangrande da Castello che, non avendo forze per resistere, all’inizio dell’inverno si ritirò. Prima di andarsene però abbatté le porte del castello e della rocca, bruciò il corridore di legno, rovesciò una parte delle mura vicine, smantellò le fortificazioni, portò via le munizioni e incendiò il ponte levatoio.
I figli di Romeo Pepoli che erano a Cesena pensando che la rovina di Castel S. Pietro fosse occasione per rientrare più facilmente a Bologna, l’anno seguente 1323 cominciarono ad assoldare gente. Il Senato allora spedì a Castello Fantone Beccadelli a rendersi conto della situazione e a distruggere la torre di Facciolo Cattani che era nella vicina collina perché non servisse di ricovero ai nemici.
Questa torre è quella chiamata volgarmente Torre dei Moscatelli in confine col comune di Liano che ora si vede troncata in angolo della abitazione padronale a sud-est e della quale non vi resta che un secondo piano a livello del resto dell’abitato. Si vedono ancora le grosse e forti mura in macigno.
In seguito il Senato ripristinò le difese del nostro castello e lo fornì dell’occorrente. Quindi accrebbe i dazi per il mantenimento della milizia così pure fece del Dazio del Passaggio di Castel S. Pietro che era di due danari e che fu duplicato per capo di ogni forestiero transitante.
I Pepoli comunque assoldarono cento cavalli oltre ai fanti vennero coi loro seguaci da queste parti l’anno seguente 1324 e il 23 maggio si presentarono davanti la porta maggiore. Rotte le porte con macchine e strumenti militari entrarono con poca resistenza nel Castello. Poi proseguirono per Bologna ma furono respinti fino al nostro Castello da dove sloggiarono alla fine di maggio.
Giunto l’anno 1325 i Malatesta, signori di Rimini fecero il 23 giugno una solenne festa alla quale intervennero molti bolognesi e pure il paesano Giacomo Cattani, che fu uno di quelli che aiutò Pandolfo Malatesta[86] nell’omicidio del nipote Uberto. Per gratitudine i Signori di Rimini dettero il titolo di Cavalieri Aurati[87] a Francesco Pretoni e a Giacomo Cattani.
I Pepoli continuavano a brigare per tornare a Bologna e l’anno seguente 1326, uniti con Passerino Bonacolsi da Mantova e altri alleati andò fino alla Sambuca. Il Senato, perché non si avanzasse ulteriormente dalla parte della Romagna spedì a Castel S. Pietro molti militi comandati da Pietro Bianchetti, con Bombologno Zagni detto Prenzia, capitano a cavallo.
In questa occasione furono rifatte le porte, i casseri e i ponti levatoi ad ambedue le rocche e rimesse in buon stato le altre fortificazioni. Il Senato spedì come sovrintendente Mino Beccadelli che riferì che erano erano pochi gli armati. L’anno dopo 1327 fu mandato con truppa Francesco Montevenzoli per controllare e difendere anche la campagna.
Il cardinale Bertrando del Poggetto[88], legato della città, ricordando le passate discordie per le quali molti furono i morti e gli esiliati e prevedendo altri e maggiori disordini, ordinò il 17 marzo 1328 che i banditi potessero rientrare assolti da ogni pena.
Il Senato per sicurezza fece tuttavia premunire tutte le fortezze e castelli del territorio. Fu affidato l’incarico a Mino Beccadelli che provvedette subito Castel S. Pietro di vettovaglie e di quanto occorreva.
Nel 1329 il card. Legato ordinò la spedizione di diversi bravi capitani con valorosi soldati, inoltre furono ordinati molti lavori ai confini del territorio. Matteo Benelli, detto Tordino, da Castel S. Pietro, fu fatto capitano di 48 fanti e fu spedito al lavoro da farsi presso il Castello di Serravalle per la difesa del contado con altri bravi capitani.
Nel gennaio del seguente 1330, richiamato a casa, passò il med. Tordino, con 43 soldati, alla
difesa di un altro posto contro i modenesi, al quale vi andarono nel mese di maggio anche i paesani Cito Cattani assieme a Civilino di Puzuolo con 25 soldati e Paolo di Zeno con altri 25 soldati i quali, sotto la condotta del Tordino, passarono colle loro truppe a Formigine. Quindi, incontrato il nemico fra Spezzano e Fiorano, ebbero una cruenta battaglia ove, pur combattendo valorosamente, furono costretti a ritirarsi per il sopraggiungere della cavalleria modenese.
In quest’anno non essendovi null’altro di notevole nel campo delle armi per Castel S. Pietro, chiudiamo con due rispettabili matrimoni che fanno parte della nostra storia cioè di Giovanna figlia di Mattiolo da Castel S. Pietro con Giovanni Ugolino Guidozagni nobile bolognese e l’altro di Tomasina di Zandonato Malvolti con Giacomo Ubaldini da Castel S. Pietro.
Il cardinale Bertrando, che fu il primo ad essere chiamato Legato di Bologna da Giovanni XXII, cominciò l’anno 1331 a fabbricare una fortezza alla porta di Galliera con architettura di Angiolo ed Agostino Daniesi per assicurare la città. Poi per l’irrequietezza della Romagna mandò gli stessi ingegneri a Castel S. Pietro per fortificarla dalla parte che era stata più indebolita dal Cangrande. Fu fatto un baluardo rotondo a fianco dell’ingresso esterno della Rocca grande e chiusa la porta vecchia, col farne un’altra vicino ed al di sotto. Tutto il lavoro fu terminato nel 1332.
Nel mese di agosto per castigo divino si riempì il contado di un’immensità di cavallette e grilli che lo devastarono. Delle piante di gualdo, che era una delle maggiori risorse del paese, restarono solo i gambi. Non servì neppure la polvere di lupini stemprata nell’aceto forte per fermare l’invasione.
Nell’anno 1333 si ebbero due importanti matrimoni. Guiduccia di Cambio Giambeccari sposò Tomasino di Faciolo Cattani con una dote di 700 lire, e Lucia di Albertino Beccari con Bono Bonacursio.
Il popolo di Bologna molto malcontento del Legato e dispiaciuto per la costruzione della rocca di Galliera il 17 marzo si ribellò e fece fuggire il Legato lasciando la città al governo popolare.
Frattanto il 14 dicembre 1334 Giovanni XXII morì in Avignone al quale nel dì 16 dello stesso mese successe Jacques Fornièr col nome di Benedetto XII.
1335 – 1340. Taddeo Pepoli Signore di Bologna. L’interdetto alla città. L’università a Castello. La fonte Fegatella.
Taddeo Pepoli [89] che era fuggito durante la sollevazione popolare, rientrato in città fu acclamato Signore di Bologna con 908 voti favorevoli, nel 1335 spedì il figlio Giacomo Pepoli ai castelli del contado a prenderne possesso in nome del padre.
Taddeo sollecitò il Parlamento a prendere provvedimenti per meglio governare il contado. Esso fu diviso in 14 podesterie alle quali erano affidate diverse comunità e furono chiamate Podesterie di Bandiera. Questi Podestà avevano anche l’obbligo di custodire il Castello capoluogo e nell’esercizio del loro potere dovevano essere accompagnati dal Sindaco del Comune, detto anche Massaro come capo della Massa del Popolo, e da un uomo armato portante la bandiera inalberata e spiegata.
A questi Podestà furono accordate molti poteri, cioè di vigilare all’annona, sui reati con la giustizia civile e criminale, visitare le pubbliche strade nell’abitato per il loro ornato. La giudicatura era di lieve momento ma le punizioni si estendevano molto nelle pene pecuniarie ed afflittive fino alla morte.
Fino al 1796 nella pubblica residenza c’erano le carceri ed erano conservati i ferri per la tortura e la berlina.
Questi funzionari, che si chiamavano anche castellani, assistevano alle assemblee comunali, tenevano le bandiere spiegate nei giorni di mercato per quel tempo che era interdetto ai rivenditori l’acquisto dei generi commestibili.
I Comuni a sottomessi alla Podesteria di Bandiera di Castel S. Pietro furono i seguenti: Liano, Vedriano, Monte Calderaro, Frassineto, Galegato, Sassuno, Monterenzio, Bisano, Monte Armato, Zena, Ciagnano, Ozzano, Varignana, Casalecchio dei Conti, Borgonuovo colla villa congiunta di S. Biagio di Poggio. Queste due ultime terre furono dichiarate parti di Castel S. Pietro.
Queste comunità furono obbligate dal Governo a concorrere alla difesa del loro capoluogo, mantenere le fortificazioni e le mura del Castello e gli edifici pubblici del medesimo nonché corrispondere al Podestà un piccolo mensile. Nella Bandiera c’era dipinto lo stemma del capoluogo della podesteria. Crediamo, da un documento del card. Cossa del 1406, che l’emblema fosse le due chiavi apostoliche incrociate sopra un’asta dritta col capellone.
Quest’anno vi furono due nobili matrimoni di castellani e cioè Misina di Nicolò Misino Tebaldi con Paolo Cattani e Nanna di Masolino Catani con Paolo Matuliani di Bologna.
Poiché i fuorusciti di quando in quando facevano scorrerie nel contado, il Consiglio Generale mandò a Castel S. Pietro, minacciato più degli altri castelli, Tomaso Foscarari con truppa per proteggere le nostre contrade. Contemporaneamente Paolo Cattani fu fatto cavaliere dal Conte di Vienna a richiesta di Taddeo Pepoli. Ciò fu la ragione per cui un ramo della famiglia Cattani emigrò da questa sua patria.
Bonaventura Fabbri di Castel S. Pietro che si trovava a Pistoia come Rettore di S. Bartolomeo, sospettato di spionaggio a favore dei nemici della città, fu privato della carica. Nanna Cattani e il marito Paolo Matuliani presentarono con energia la sua difesa al Senato bolognese che spedì una solenne ambasciata a pistoiesi, onde fosse il Fabbri reintegrato come innocente nel suo ministero. Accertata la sua innocenza il Fabbri fu tostamente reintegrato.
A Bologna la famiglia Bianchi era fortemente ostile ai Gozzadini e l’anno 1337 Giacomo Bianchi venne coi suoi aderenti in piazza alle mani con i Gozzadini. Durò lo scontro a lungo poi, spartite le due fazioni, furono cacciati i Bianchi dalla città e inseguiti fino al Borgo di Castel S. Pietro, ove arrivati i paesani li fermarono e li condussero prigionieri entro il Castello guardati dai Cattani.
Uno di detti Cattani mandato con un presidio a Medicina per la difesa di quella terra, fu ucciso a tradimento da dei medicinesi che fuggirono a Ganzanigo e qui si fortificarono unitamente a quelli del luogo.
Il Senato spedì una truppa con guastatori a Ganzanigo per arrestare i malfattori. I terrazzani si opposero, si scontrarono, scorse sangue. Furono mandati altri soldati e intervenne anche un gruppo di castellani per vendicare una tanta scelleratezza contro un cittadino di Castel S. Pietro. Assaltato e preso Ganzanigo, puniti i colpevoli, il paese fu distrutto fino ai fondamenti.
Benedetto XII era molto dispiaciuto di tutte queste insorgenze e fatti che si commettevano in diversi luoghi ma era molto più preoccupato di quello che avveniva a Bologna. Infatti avevano eletto, in pregiudizio della romana Chiesa, Taddeo Pepoli come loro signore.
Nel gennaio 1338 inviò una citazione alla città perché si giustificasse. Il Consiglio mandò ambasciatori al Papa per rispondere. Nel mentre che viaggiavano fu replicata la citazione con la privazione dello Studio.
Taddeo per evitare il pericolo che lo Studio si trasferisse in altra città, si recò alla scuola per convincere gli scolari a proseguire lo studio a Castel S. Pietro come luogo assai adatto per coltivare tranquillamente la scienza. Non tardarono molto a trasferirsi e il 16 aprile 1338 Rainero Arsendi da Forlì e maestro del gran Bartolo[90] ed Ugo da Parma, lettori sommamente amati, vennero a Castello con gran seguito di scolaresca.
Ebbero lo Studio nelle abitazioni del Borgo, allora chiuso da fortissime difese.
Rainero leggeva nella casa ora detta il Montone, presso la porta occidentale del Borgo in faccia al ghetto dei giudei, dove si fabbricò poi una comoda osteria Ghino de’ Gini all’insegna del Montone.
Ugo leggeva nella casa di Bittino de’ Fabbri di fronte al campo detto dell’Annunziata, ove è stato finora lo stemma gentilizio dei Fabbri. Questa casa fu riedificata nel 1612 da Cristoforo Fabbri suo successore.
Passati due mesi e vedendo che non arrivava la riconciliazione, tra gli studenti cresceva l’incertezza e alcuni erano ritornati in città. Pietro da Correggio, che era stato uno di quelli che aveva incoraggiato gli studenti a venire a Castello si adoperò per fare tornare la calma negli animi degli studenti più timorosi e proseguì le sue letture fino alla fine dell’interdetto.
Secondo P. Vanti fu allora, per comodità della scolaresca e per tranquillizzare gli animi, che fu dato inizio alla costruzione della chiesa della SS. Annunziata nel Borgo.
Riconciliatasi la città con la Chiesa il 19 ottobre 1338, venne a Bologna il nunzio apostolico vescovo Beltramino (Parravicini) e nell’entrare nel contado si fermò nel nostro Borgo e, sulla via corriera presso la chiesa della Annunziata in costruzione, rivolgendosi verso il Castello, diede la benedizione al numeroso popolo.
Nel luogo dove si fermò a benedire fu piantata una colonnetta di macigno portante una croce con incisa la mano benedicente. Col passare del tempo, essendo la colonna in mezzo alla strada fu tolta, ma la croce fu trasferita all’interno della chiesa ove si vede incastrata nella parete fra le due cappelline[91].
Ritroviamo in questo tempo per la prima volta menzionata la fonte della nostra acqua della Fegatella dal cronista Gian Giacomo Brochi. Supponiamo che fosse stata scoperta durante la presenza qui dello
Giunto a Bologna il Beltramino trattò le condizioni per la assoluzione le quali furono: Che il popolo giurasse e mantenesse fedeltà alla Chiesa, che pagasse ottomila fiorini ogni anno come feudo papale ma che però il governo della città fosse libero dalla Chiesa. Il papa il 23 dicembre per la conclusione di tutto spedì a Bologna per suo esecutore Giuliano dei Germano, questi pretese nuove norme ritenute umilianti e che il Consiglio ricusò. Il seguente gennaio 1339 il messo se ne tornò a Roma.
Il parlamento riaprì la trattativa e finalmente nell’estate 1340 avvenne il giuramento alla presenza di sei mila uomini in mano del Nunzio Apostolico che, dopo aver preso il possesso della città e di tutti i castelli e fortezze del contado mediante la consegna delle chiavi, diede la benedizione papale e l’assoluzione.
Levato l’interdetto furono restituite le insegne di Signoria al Pepoli, cioè il manto scarlatto con cappuccio, la spada di giustizia, le chiavi della città e dei castelli e fu dichiarato Vicario di S. Chiesa.
Matteo Gerardi da Castel S. Pietro medico, fu fatto dal Senato cittadino di Bologna ove, conducendo a guarigione le più ardue infermità, ne riportò universale applauso.
1341 – 1350. Morte di Taddeo Pepoli. La Peste Nera. Astorgio di Durafort contro Giovanni e Giacomo Pepoli.
Nella primavera del 1342 i Malatesta di Rimini, che male sopportavano la signoria di Taddeo Pepoli, cominciarono ad infestare i dintorni di Castel S. Pietro predando bestiami, foraggi, facendo razzie e prigionieri fino sotto le porte del Castello. Il Pepoli, perché non si inoltrassero di più, pensò di fronteggiarli quindi li 14 ottobre 1342 spedì al nostro Borgo i soldati del quartiere di porta Stiera e di porta Procola che poi si incamminarono alla volta di Faenza.
I nemici, che erano qui accampati, che stavano saccheggiando le vicine possidenze dei Pepoli, sentendo venire i bolognesi se ne andarono. Quindi l’anno 1343 i bolognesi ritornarono coll’armi nel modenese contro Luchino Visconti[92] facendovi infiniti danni.
Fu spedito intanto alla corte romana Matteo di Nicolò da Castel S. Pietro, ove stette tre mesi e dieci giorni per comporre le comuni vertenze contro i bolognesi. Quindi fu liberato Castel S. Pietro e i suoi intorni dai nemici. In ringraziamento a Dio di ciò si promosse una devota unione di castellani e borghigiani, che per dimostrare pubblicamente la sua gioia edificò nel 1344 un oratorio nel quartiere superiore del Castello, detto Piazza Liana e lo consacrò alla gloria di S. Bartolomeo apostolo. Oratorio che fu poi assegnato all’Ordine degli Agostiniani nel 1345.
In autunno si cominciarono a sentire tremori nella terra che furono l’avviso di una potente scossa di terremoto, che seguì nel successivo 22 febbraio 1346 per cui caddero molti fabbricati.
Tra non molto giunse a Bologna Umberto Delfino del Viennois[93]. Fece predicare la crociata [94]contro il turco che molestava la cristianità, essendo stato confermato dal Papa per comandante dei Cristiani.
In seguito 120 nobili bolognesi, ben montati a cavallo, presero la bandiera con la croce dalle mani di quello poi nell’aprile se ne partirono per Venezia accompagnati da molti cittadini bolognesi e non pochi volontari del contado fra i quali ve ne andarono anche di Castel S. Pietro delle famiglie Mattei e Lasi.
Raccontano le Cronache che in tale occasione Taddeo Pepoli ottenne dal Delfino molta attenzione e, a sua richiesta, furono fatti cavalieri i castellani Messer Zeno e Messer Polo Cattani.
Il 29 settembre 1347 Taddeo morì. Dovendosi per ciò eleggere un nuovo Governatore per la città e il contado, fu convocato il Parlamento generale il 30 settembre. Nel dibattimento che seguì la eloquenza di Giacomo Sacenti Sanuti e di Filippo Cattani e la energia di Giacomo Dainesi di Castel S. Pietro fu usata con tanto calore a favore dei Pepoli che fu ottenuta la elezione dei figli Giovanni e Giacomo[95] al posto del defunto Taddeo.
Questi divenuti eredi del padre nel dominio non lo furono però nella sapienza, poiché Taddeo fu dottore scienziato di somma prudenza ed avvedutezza. I figli furono osteggiati nella città da congiure e tradimenti, massime dai Cattani di Castel S. Pietro, tanto beneficati dal loro padre, e fuori furono perseguitati da Astorgio[96] conte di Romagna.
In questo anno morì pure Giovanni di Lussemburgo Re di Boemia e Carlo IV[97] suo figliolo fu eletto Imperatore.
I due fratelli Pepoli eletti Signori di Bologna iniziarono il loro governo in mezzo alle maggiori calamità del mondo poiché cominciò qui una grandissima pestilenza in tutta Italia[98].
A Bologna morirono i tre quarti dei cittadini e nel contado un quarto e così pure in altre provincie in modo che restò quasi disabitata l’Italia. A questa disgrazia si aggiunse il terremoto. Da quel che si scrisse sappiamo che caddero molti edifici. Nel nostro Castello si rovesciarono le merlature alle torri delle Rocche, nella nostra collina rovinarono la chiesetta presso Alborro e molti suoi tratti di mura, così a Crovara, Fiagnano e Galegato sopra il nostro Sillaro.
Durarono queste funeste vicende fino al 1348 quando, per le orazioni che si facevano in ogni dove, si placò un poco l’ira divina. Ma poi cominciò un altro castigo e ci fu per molti giorni una nebbia densissima nel contado che durò fino ad aprile, la quale danneggiò molto la campagna e fece seccare perfino i getti degli alberi e i prodotti.
Lodovico[99] Re di Ungheria di passaggio Bologna per portarsi a Napoli a vendicare la morte del fratello Andrea (d’Angiò duca di Calabria) fatto strozzare dalla Regina Giovanna, fu incontrato il 12 dicembre da Giovanni e Giacomo Pepoli e passò 13 dicembre a Castel S. Pietro accompagnato da molta nobiltà. Qui fermatosi ed accolto dai Rinieri, fece cavaliere Matteo di Zerra col cingerli la spada al fianco. Il giorno seguente 14 dicembre partì verso la Romagna, lo seguirono alcuni aderenti dei Rinieri e furono delle famiglie Ronacalti, Cheli, Zaffolini, Lamprini e Battisti, Camminava il Re a cavallo, colla spada ignuda in mano e così i suoi cavalieri ed in tal guisa andò fino a Imola.
In questo tempo Frate Francesco della famiglia Fucci di Castel S. Pietro dell’ordine de Predicatori, insigne teologo, fu fatto Vicario Generale del suo istituto.
Astorgio di Durafort, conte di Provenza, che aveva sposato una nipote di papa Clemente VI ed era stato nominato governatore e Conte di Romagna, l’anno 1349 fu cacciato da Faenza dai Manfredi alleatisi cogli Ordelaffi di Forlì e inseguito fino a Castel S. Pietro. Da qui chiese aiuto ai Pepoli, questi gli fornirono solo 100 cavalieri, scusandosi e pregandolo di accontentarsi di questi. Il Conte se la ebbe a male. Covò la vendetta e pensò di rifarsi uccidendoli e prendendo il dominio di Bologna.
Mentre era al nostro Castello, trattò con Bonaventura Bonimontri e Rainero Raineri su come poteva uccidere i due fratelli Pepoli ed avere prima in pieno potere Castel S. Pietro e poi il libero dominio di Bologna.
Si accordarono su un compenso di trenta mila fiorini d’oro e sull’invio segreto da parte del Conte di cinquanta uomini animosi e fedeli da nascondere nelle case dei congiurati in città. Case davanti le quali erano soliti passare i Pepoli, che presi alla sprovvista sarebbero stati uccisi. Nello stesso giorno i congiurati avrebbero dato un segnale di fuoco o suono al Conte che si doveva trovare a Castel S. Pietro e di qui andare in città dove gli avrebbero aperto una porta.
Il complotto fu scoperto, i congiurati arrestati, torturati confessarono e il 15 giugno furono decapitati e le loro teste furono portate sopra due aste in giro per la città.
Il Conte deluso e dispiaciuto per i decapitati, dissimulò il suo dispiacere e scrisse ai Pepoli chiedendogli consiglio sopra l’assedio di Solarolo, che resisteva, e sopra la pace coi Manfredi di Faenza, chiedendo il loro arbitrato. Perciò desiderava incontrarsi con loro dove avessero preferito.
Giovanni Pepoli si fidò del Conte, anche perché con sé aveva 200 cavalieri, sebbene il fratello Giacomo lo dissuadesse. Il 6 luglio, con promessa fatta al fratello di non oltrepassare Castel S. Pietro, si recò incontro al Conte avendo con sé 300 soldati condotti da Giacomo Bianchi, Cino da Castel S. Pietro, Gazo Tolomei da Siena, Ubaldino Malavolti, Giovanni Bentivogli ed altri gentiluomini.
Purtroppo non rispettò la promessa fatta al fratello e, oltrepassato Castello, si recò al campo di Astorgio che, fatta circondare a tradimento la tenda dai soldati, arrestò il Pepoli e i suoi compagni che il seguente 7 luglio fece condurre alla Rocca d’Imola.
Il 9 luglio il Conte venne all’assedio di Castello difeso da Paolo Cattani. Cominciò ad attaccarlo da ogni parte ma poiché la torre era fortemente difesa dai soldati e dai terrazzani, vedendo vani gli assalti, promise di raddoppiare la paga ai suoi soldati. Si infiammò la lotta, si cominciò a battere le difese colle macchine e, spezzati i palancati ed in parte incendiati, fu aperto l’accesso alle mura. A questo punto furono aperte le porte al Conte che corse subito alla rocca maggiore e, forzate le porte, fece prigioniero Paolo Cattani che vi si era rifugiato con alcuni valorosi soldati e castellani. Quindi saccheggiò il Castello malmenando i paesani.
Il giorno seguente assalì Varignana, poi Ozzano fino ad Idice con l’intenzione di assalire Bologna. Lasciato Giovanni ben guardato nel nostro Castello sollecitò i suoi soldati ad assediare la città, ma questi non mostravano alcuna volontà anzi lasciavano intendere di volere abbandonare il campo se non erano prontamente pagati.
Il malcontento dei soldati era anche fomentato dai castellani, malcontenti della sua condotta. Una fonte dei soldi per la paga dei soldati doveva venire dal pagamento del riscatto per la liberazione del Pepoli e compagni. Quindi propose ai soldati di consegnare loro, come garanzia, il Pepoli e il Castello e i luoghi vicini con la condizione che se entro il prossimo settembre non fosse stato pagato il riscatto concordato disponessero e del Castello e del Pepoli a loro piacimento.
Tale proposta non piacque per niente ai paesani perché avrebbe sottoposto il paese ad un nuovo saccheggio. Non piacque però nemmeno ai soldati perché avrebbero dovuto andare a scontri con i paesani con sicuri rischi. Quindi il progetto non fu attuato.
Giacomo Pepoli saputo che il Conte Astorgio progettava con Mastino della Scala di prendere Bologna, ricorse all’arcivescovo Giovanni Visconti[100] Duca di Milano, il più temuto signore in questi tempi, poi anche ai Malatesta di Rimini, ai Gualtieri e ai Gonzaga di Mantova per lo stesso scopo.
Il Visconti mandò venti bandiere equestri e 400 uomini guidati da Giovanni Visconti da Oleggio[101]. Arrivato tale soccorso in Bologna fu chiesto ad Astorgio di liberare Giovanni, di evacuare Castel S. Pietro e che i suoi 500 cavalieri assoldati partissero dal suo campo. Astorgio rifiutò
Intanto il Pepoli, prigioniero nella piana di Castel S. Pietro, fece amicizia con un certo capitano Fragnano e cominciò a trattare per la sua liberazione. Propose che, una volta liberato, avrebbe coi suoi soldati assaltato il campo del Conte e fatto molti prigionieri. Poi col loro riscatto avrebbe pagato la stessa cifra già contrattata per il suo di riscatto.
Il Conte scoprì il complotto, arrestò il capitano coi suoi complici e il 27 agosto li fece strascinare a coda di cavallo per tutto il Castello e poi li fece impiccare ai merli della Rocca piccola sopra la porta del Castello. Poi, temendo altre novità, trattò ed accordò il riscatto in 80.000 fiorini d’oro, dei quali 20.000 pagati subito e rimanenti entro settembre, avendo per garanzia i tre figli del Pepoli in ostaggio.
Avuto il danaro il Conte non per questo cessò di danneggiare il contado. Scorreva ora in questa parte ora nell’altra saccheggiando come gli veniva in testa. Il maggior danno lo subirono Medicina, Budrio, Liano, Varignana e i castelli sopra al nostro. Il Conte operava tutti questi mali per tener quieta colle ruberie la sua soldatesca. Scrisse anche al papa, di cui aveva per moglie una nipote, per avere contante per pagare i soldati ma non ebbe che buone parole.
Nacque intanto discordia tra i suoi soldati, Brocardo, uno dei capi dei suoi tedeschi, trattò con Bernabò Visconti[102] di vendergli i figli di Giovanni Pepoli e Castel S. Pietro per avere le paghe loro dovute.
Astorgio venne a conoscenza del contratto e che a Bologna si trovavano 1.300 cavalli dell’arcivescovo di Milano e che dalla parte di Romagna veniva Ugolino Malatesta ed Ugolino Gualtieri di Firenze con molta gente. Quindi 26 novembre abbandonò Castel S. Pietro, smantellando quelle fortificazioni che si erano fatte. Si incamminò verso Budrio, mandando a ferro e fuoco quanto ritrovava.
Prima però di partire dal nostro castello consegnò a Mastino II della Scala e a Brocardo le fortezze del paese coi suoi approvvigionamenti, e inoltre Dozza e Fiagnano. Lasciò anche gli ostaggi in conto delle paghe che doveva.
Giacomo Pepoli per liberare i prigionieri e Castel S. Pietro scrisse a Mastino che spedì dal paese a Bologna Broccardo che trattò con Bernabò Visconti la liberazione dei prigionieri di Castel S. Pietro purché fossero corrisposte le loro paghe in tre volte. Così fu concluso e così Bernabò ebbe Castel S. Pietro.
Il 10 febbraio 1350 Brocardo rese Castel S. Pietro ed il giorno 13 partirono gli ostaggi e fu evacuato il nostro castello.
1350 – 1360. I Pepoli vendono Bologna ai Visconti. L’Oleggio cede la signoria di Bologna al cardinale Albornoz. Visconti assedia e prende Castello. Visconti cede Bologna alla Chiesa.
Tornato Giovanni Pepoli a Bologna, conoscendo non potere resistere ai nemici, il 16 ottobre 1350 cedette la signoria della città all’arcivescovo Visconti di Milano per 170 mila fiorini d’oro[103]. Questi mandò a Bologna Gian Galeazzo Visconti con molti armati per prenderne possesso come fece poi delle fortezze di Castel S. Pietro.
Sentita tale vendita il Papa interdisse la città e contado.
Astorgio Durafort che era nella Romagna, raccolse molte genti quindi nel marzo 1352 venne nel contado e scorazzò sotto Castel S. Pietro. Predò uomini, bestie biade e tutto ciò che trovò. Tentò anche la presa del Castello, attaccando la Rocca piccola all’ingresso sotto la torre. Assalito da una turba di paesani usciti dalla Rocca grande che l’investivano di fianco, abbandonò l’assalto e, ritornandosene verso la Romagna, saccheggiò ogni luogo impoverendo le famiglie e commettendo mille mali.
Il papa accortosi di non potere avere Bologna con la forza, trattò col Visconti e, per riconoscergli il dominio sopra la città, concordò il pagamento annuale di dodicimila fiorini d’oro. Stipulato il trattato fu tosto levato l’interdetto. In seguito furono riparati tutti i castelli e forniti di munizioni da guerra. Per la prima volta ritroviamo nelle memorie che furono messe nella Rocca grande di Castel S. Pietro alcune spingarde che non avevamo mai trovate in precedenza.
Morto il 6 dicembre 1352 il papa, gli era successo il cardinale Etienne Aubert col nome di Innocenzo VI.
Durante la guerra passata il conte Astorgio aveva divelto le palificazioni che, nelle sponde del Sillaro presso il ponte, difendeva la strada consolare dalla corrente e dalle piene del fiume. Per prevenire i danni fu ricostruita un’ala all’imboccatura di levante al ponte di cui se ne vedono tutt’ora le fondazioni quando le acque le scoprono.
Anche Liano aveva molto sofferto e molte famiglie lo avevano abbandonato, alcune si trasferirono a Castel S. Pietro e furono queste: Astorri, Fisoli, Dalla Costa, Bellosi, Marozzi e Grappi.
L’anno che seguì 1356 ebbe un inverno luttuoso poiché fu talmente freddo che pure le persone più robuste morivano e si trovavano congelati i viandanti.
I nostri agostiniani di S. Bartolomeo, prevedendo la visita di tutti i conventi dell’Ordine, accomodarono la loro chiesa e convento coll’aggiungervi alcune stanze.
Il Governatore di Bologna Giovanni di Oleggio a conoscenza di disordini in alcune città della Romagna, per assicurarsi anche dal Conte Durafort, l’anno 1357 fece alzare gli argini attorno alle fosse sia nel Castello che nel Borgo e aumentò le guardie.
Il Senato per meglio regolare il contado sia sotto l’aspetto politico che giudiziario ordinò che fosse diviso in sette vicariati invece di podesterie ai quali furono assegnate altre comunità. Castel S. Pietro fu dichiarato vicariato e gli furono sottomessi i seguenti Castelli e Terre cioè Liano, Vedriano, Castello Monte Calderaro, Frassineto, Galegato, Sassuno, Monterenzio, Bisano, Monte Armato, Zena, Gorgognano, Stifonti, Ozzano, Varignana, Casalecchio, Poggio o sia Villa di Poggio.
Il giorno 3 marzo 1358 Cino da Castel S. Pietro fu eletto podestà di Perugia, fu esempio di probità e prudenza tanto nel militare che nel politico.
I fuorusciti, esiliati dal Visconti, infestavano il territorio ora in un luogo ora in un altro soprattutto dove era poca o nulla la difesa. I piccoli conventi e i casali erano i più danneggiati. Il convento di S. Giovanni Battista della Castellina nel Medesano patì più degli altri essendo spesso saccheggiato e maltrattato.
Il P. Luigi Torrelli di Bologna, nei suoi Secoli Agostiniani fa menzione non solo del nostro convento di Castel S. Pietro ma pure di quello del Medesano scrivendo. abbiamo altresi (…) la certa esistenza del convento del Medesano, il quale poi per le gravi molestie che continuamente pativa da fuorusciti fu dalla relligione dopo alcuni anni trasferito in Castel S. Pietro ed è quello che oggi ivi possediamo col titolo di S. Bartolomeo.
Si rileva da questo storico sia la esistenza del nostro convento di S. Bartolomeo prima della presente epoca, sia la emigrazione dei religiosi dal Medesano in questo luogo e sia il motivo per il quale furono qui trasferiti.
In questi tempi erano così frequenti i disordini in molte città dell’Italia che Papa Innocenzo per quietare le città, vi spedì Egidio Albornoz Cardinale di Spagna[104] che passando per la Toscana si fermò ad Imola per non inquietare l’Oleggio che si era fatto Signore di Bologna e la tiranneggiava. Ciò non ostante l’Oleggio il 10 luglio venne a Castel S. Pietro. Quindi passò il ponte sopra il Sillaro e si fermò a S. Giacomo con la truppa, attendendo il cardinale, ma questi ritardò molti mesi.
Intanto, morto di veleno Matteo Visconti, il principe Barnabò suo fratello, succedendogli nella signoria, si preparò con un poderoso esercito per cacciare l’Oleggio da Bologna e non passò molto che lo condusse nel bolognese, facendovi ogni crudeltà, non risparmiando nemmeno le chiese e luoghi sacri.
L’Oleggio, visto il pericolo, fece intendere al cardinale Albornoz che gli avrebbe ceduto la signoria di Bologna purché avesse dato in cambio il Marchesato della Marca anconitana. Fu ascoltato e il 12 dicembre l’Oleggio aspettò l’incontro col cardinale a Castel S. Pietro. Questi venne ricevuto onorevolmente ai confini e introdotto in Castello, fu ospitato in casa dei Cattani mentre l’Oleggio stava in quella dei Rinieri.
Qui stettero tutti tranquilli il sabato 22 dicembre, la domenica ed il lunedì vigilia di Natale ove, intervenuti gli ambasciatori del Marchese di Ferrara si trattò l’accordo proposto ma senza concludere, quindi il Cardinale se ne ritornò ad Imola poi passò a Forlì.
Il Conte Lando[105] che era stato fin ora al soldo dei veneziani, venne sotto Bologna per unirsi al Legato ma, saputo che era a Forlì, si incamminò verso la Romagna.
Giunto a Castel S. Pietro, lo prese una grossa neve per cui si fermò fino alla fine di dicembre nel Borgo e nel Castello.
Nel seguente gennaio 1359 vennero tali e tante nevi fino all’altezza di quattro piedi. Caddero per il gran peso molte fabbriche e restarono abbattuti i casali nella collina ove perirono anche delle persone. Alle nevi si aggiunsero fortissimi venti per cui caddero le case nel Castel di Corvara, la chiesa di Fiagnano ed Alborro.
Quest’anno fu spedito qui per capitano della Rocca grande Broco Brochi.
Finalmente, dopo lunghe trattative, fu concluso l’accordo fra l’Oleggio e la Chiesa. Pier Nicola Farnese, generale dell’armi pontificie, prese il possesso della città di Bologna e contado in nome del Legato Albornoz. Questi poco dopo venne alla città e fu incontrato ai confini di Castel S. Pietro da Mattiolo Gallucci e Giacomo Ramponi il giorno di S. Simone e Giuda (28 ottobre 1359). Appena giunto in città ordinò che tutte le insegne dell’Oleggio fossero abbassate e sostituite con quelle della Chiesa, il che in fu eseguito ovunque.
Nel gennaio 1360 fu estratto nei Consoli di Bologna Facciolo Cattani di Castel S. Pietro.
Bernabò Visconti vedendosi spogliato della signoria di Bologna a cui aspirava come legittimo successore di Matteo, si armò e per disturbare i pontifici nelle Marche, mandò là Anchino Bongarbi a guerreggiare negli stati del Papa. Il Legato, vedendosi poco sicuro a Bologna, la abbandonò lasciando la difesa al suo vice Blasco Fernandez[106] e il contado in cura dei terrazzani.
Visconti con poche truppe si avanzò in queste parti, razziando e guerreggiando continuamente. Prese vari piccoli castelli poco difesi. Fattosi più coraggioso venne nell’aprile 1360 a Castel S. Pietro, prese solo il Borgo perché quegli abitanti si erano già ritirati entro il Castello.
Pose a questi l’assedio, ne tentò la presa coll’assalto ma, difeso dai castellani, fu vano ogni suo tentativo. Quindi ritenendo non gli convenisse perdere il tempo in questa piccola impresa, rovinò il Borgo e distrusse il suo ingresso a ponente. Andò in Romagna ma vi rimase poco tempo e ritornò per bloccare Bologna. I bolognesi chiesero aiuto a Galeotto Malatesta[107] di Rimini, che venne subito a Imola, poi lasciato un presidio a Castello, avanzò verso Bologna.
Il Visconti, sentendo il Malatesta che avanzava, per disturbarlo tolse dalla città alquante genti e schierò un cordone da Budrio fino al monte. Così, assicuratosi le spalle, il 19 maggio mandò attraverso la collina 400 soldati a Castel S. Pietro per tirarne fuori i malatestini.
Duecento attaccarono la porta del Castello e duecento la Rocca. I difensori non si intimorirono. La mattina del 20 maggio cominciarono a battere l’ingresso della porta maggiore con la bombarda ma fu vano poiché la porta era stata barricata con terra. Si rivolsero allora dalla parte a levante tralasciando la Rocca e la torre. Qui fecero una larga la breccia nel palancato in modo che avrebbero potuto tentare la scalata, ma i malatestini e i castellani, vedendosi in pericolo sortirono dalla parte della Rocca e col massimo ardore investirono di fianco il nemico che, stanco del lavoro fatto per aprire la breccia nel palancato e dovendo salire dalla fossa del Castello per ascendere le mura, fu da nostro battuto e respinto.
Arrivarono nel mezzogiorno altre genti del Visconti, condotte dal capitano Tognazzo da Dozza, che con grandi sforzi riuscirono tuttavia a conquistare il cassero della Rocca. I malatestini vedendo di non potere resistere aprirono alcune postierle nelle mura del Castello e, usciti per esse, fuggirono ad Imola. Gli altri combattenti con i terrazzani parte fuggirono al monte e parte restarono prigionieri.
Entrato il Visconti nel Castello il 24 maggio lo fortificò subito al meglio che poté ma il Malatesta, finché le genti del Visconti restavano qui a fortificarsi, andò per altra parte a Bologna.
Il giorno seguente saputo che il Malatesta era andato verso Bologna a marce forzate, abbandonò Castel S. Pietro e ritornò alla città. I bolognesi che si vedevano alle strette scrissero al Papa per avere soccorso, questi esortò il Visconti ad abbandonare Bologna. Non lo ascoltò quindi il Papa lo scomunicò, concedendo indulgenza a chi contro lui prendeva le armi.
Intanto il Visconti aveva fatto levare le acque del Reno alla Canonica perché non andassero a Bologna così il 12 ottobre il Parlamento Generale di Bologna determinò che due Tribù ci andassero con molti guastatori e si unissero al Malatesta.
Furono eletti al comando Berluccino Cattani e Giovanni Cattani di Castel S. Pietro con lo spagnolo Blasco Fernandez lasciato dal cardinale come Governatore alla città.
Passarono al ponte del Reno, misero i veterani alla testa dell’armata e partirono in due corpi, il destro fu affidato a Berluccino ed il fianco al Conte Blasco. In mezzo furono collocati i soldati armati alla leggera, la retroguardia fu affidata a Galeotto Malatesta con i bolognesi condotti da Giovanni Cattani.
Furono mandati esploratori a spiare la disposizione del nemico e avendolo trovato pronto alla battaglia, si venne subito allo scontro. Il conflitto fu sanguinoso per ambo le parti e non si distinse per molto tempo chi fosse il vincitore. Galeotto con Giovanni Cattani entrarono con tanta forza in campo contro il Visconti che restò perdente.
In questa battaglia restò morto il Blasco[108] e furono fatti molti prigionieri fra quali Francesco d’Este. Morto Blasco coprì il suo posto il Governatore Gomezio Albornoz.
Cacciato in il Visconti il card. Egidio Albornoz per ordine papale tornò alla volta di Bologna.
Il 26 ottobre fu incontrato ai nostri confini da Nicola e Giovanni Cattani con molti nobili, fu introdotto in Castello ed albergato nella residenza pubblica ben preparata in tale occasione. Qui si trattenne fino al 28 poi andò alla città ove fu accolto con solenne pompa.
1361 – 1371. Samachino cattura la lupa. Descriptio civitatis bononiensis eiusque comitatus del cardinale Anglico.
L’Albornoz nel seguente 1361, fece accomodare con nove fortificazioni i castelli che erano stati danneggiati.
Quindi siccome il chiostro della Rocca grande del nostro Castello era basso nella fiancata colla merlatura, ne fece alzare le pareti eguagliandole alle mura. In mezzo alla piazza vi fece edificare una bassa torre quadrata che serviva di protezione all’ingresso della Rocca, le cui vestigia si scoprirono anni sono in occasione di selciare a sassi la piazza[109]. La porta del Borgo che guardava nella via corriera verso Bologna, distrutta come si scrisse, fu totalmente demolita e sostituita con un cancello di travicelli acuminati.
Il 12 settembre 1361 morì Papa Innocenzo IV, il 22 fu assunto al pontificato il card. Guglielmo di Grimoard col nome di Urbano V.
Nel seguente anno 1362 Giovanni di Gerardo Gerardi e Geminiano Geminiani, ambi di Castel S. Pietro, si distinsero nell’arte medica. Il primo abitava in Bologna ed il secondo in patria e molto operarono per la grandissima mortalità che si ebbe in questa epoca.
La Cronaca Gozzadini dei Matrimoni Nobili di uomini e donne riporta che Lippa di Giacomo Vitali da Castel S. Pietro sposò Nicolò Cavalli.
La epidemia manifestatasi nell’anno scorso non che la guerra, aveva fatto espatriare molti dalle città e contrade, perciò il parlamento di Bologna, unitamente al Legato, ordinò il rimpatrio a tutti nell’anno 1363 e chi non ritornava era marcato come ribelle.
Si racconta anche che il territorio di Bologna era infestato da molti lupi. Il parlamento per distruggerli pubblicò una taglia di 3 lire per ogni lupo ucciso. Sappiamo che queste fiere avevano molti covi sopra le nostre montagne e le folte boscaglie presso il Sillaro.
Nel mese di luglio fu eletto nei Consoli di Bologna Faciolo Catani di Castel S. Pietro.
Cessati i tumulti militari e le guerre, poiché rimane sempre qualche scintilla del fuoco delle contese,
gli uomini del comune decisero di rafforzare la vigilanza che in passato facevano le guardie che si servivano di grida e trombe per dare gli allarmi. A questo fine decisero di costruire una campana grande, dato che le campane delle rocche erano piccole, e di metterla nella torre presso la parrocchiale, affinché il suono fosse sentito anche nella campagna.
Terminata la legazione del cardinale Albornoz nel gennaio 1364 fu nominato legato Androvino della Rocca[110] che poi nominò come vicario Bartolomeo Bovini vescovo di Candia.
Nei ricordi della famiglia Fabri è raccontato che un certo Albritto Cammozza detto Galabrone rubò al medico Guido de Boi, abitante in casa di Bittino de Fabbri, una veste. Fu scoperto e quindi l’autorità locale ordinò che fosse vestito della stessa veste e fosse condotto in giro per tutto il Castello e il Borgo. Fu tanto deriso e provocato che, vedendosi disonorato, appena uscito dalle mani della giustizia prese un pugnale e si uccise.
In questi anni si erano sparsi molti lupi nel contado e sopra tutto nelle vicinanze di Castel S. Pietro. Queste belve si erano anche avvicinate all’abitato dove avevano assalite bestie. L’anno 1365, come lasciò scritto il P. Vanti, Momo Samachino vide una formidabile lupa nei suoi campi, denominati oggi la Samachina, sopra i Cappuccini. Non si arrischiò affrontarla da solo, la seguì e trovò che aveva la tana in una profonda fossa vicina. Avvisò alcuni suoi compagni fra quali un certo Tono della Collina e le fecero l’agguato più di una volta.
Finalmente, osservato il percorso che faceva, le fecero un laccio nel quale si imprigionò. Accorse il Samachini da solo, non avendo avuto coraggio gli altri e levatosi di dosso la giubba gliela avventò addosso. Poi l’assalì con una lunga ronca che aveva con sé e la ferì nelle gambe posteriori. Subito corsero gli altri suoi colleghi per finirla. Chiamati dagli ululati della bestia uscirono dalla tana i piccoli lupetti che furono presi. La fossa della tana prese poi il nome di Fossa lovara poi trasformato dal dialetto in Fossaloara. Il Samachini per tale azione ricevette un premio doppio.
Urbano V per risarcire le finanze della Chiesa ordinò nel seguente 1366 una Coletta alle chiese e luoghi pii del bolognese di soldi tre per ogni lira di estimo. A questo scopo fu fatto un elenco delle chiese. Fra queste troviamo sottoposta la nostra di Castel S. Pietro al pievanato di Monte Cerere ed è misteriosa questa soggezione poiché fin da tempo di Onorio III[111] la nostra arcipretale era denominata Pieve. Crediamo che comunque così potesse essere fino al XIV secolo nel quale troviamo alcune parrocchiali sottomesse a Castel S. Pietro, fra le quali quella di S. Biagio di Poggio.
I villani di Poggio pretesero nel 1790 ed anche dopo di sottrarsi dal pagare le collette a Castel S. Pietro e smembrarsi anche nel temporale, fra ragioni da loro portate alla Segnatura di Roma produssero un documento attestante che, da tempo immemorabile, era dovuta alla loro chiesa la colletta del Cero Pasquale e perciò non dovevano pagare tale coletta alle entrate comunitative di Castel S. Pietro. Però, essendo state presentate le ragioni del pievanato di Castel S. Pietro, subirono sentenza contraria.
Nel febbraio di questo anno fu nei Consoli di Bologna nuovamente Facciolo Cattani che pure fu replicato nel successivo gennaio 1367 ed in giugno Nanne Cattani e in agosto lo stesso Facciolo.
Per i seguenti 5 anni sono poche le notizie che possiamo riportare infatti gli scrittori poco o nulla ci hanno lasciato. Nel gennaio 1368 tra i Consoli c’è un certo Giovanni da Castel S. Pietro e nel dicembre Nanne Cattani.
L’anno 1369 abitava nel Borgo, in una casa di proprietà, Messer Mello Geminiani, buon filosofo e medico, e qui esercitò la sua arte.
L’anno successivo 1370 stavano nascendo nuovi motivi di guerra, perciò il Parlamento decretò che si fornisse dell’occorrente Castel S. Pietro colle sue Rocche. Furono tosto mandate munizioni da bocca e guerra. In tale occasione alcune delle Terre, che erano subordinate al Vicario di Castel S. Pietro si staccarono, fra queste vi furono Frassineto, Galegato e Monte Armato.
Nel dì primo dicembre fu eletto per Podestà di Pistoia Messer Paolo Cattani di Castel S. Pietro. Sotto il suo governo accadde la guerra fra i Visconti di Milano e i pistoiesi.
Il 19 dicembre 1370 morì il papa Urbano V a lui successe il 30 dicembre il cardinale francese Pierre Roger de Beaufort col nome di Gregorio XI. Appena creato Papa decise di restituire la cattedra pontificale a Roma dopo che era stata lungo tempo in Avignone. Prima però di effettuare ciò spedì nella Romagna ed altre provincie il Cardinale Albornoz a farne la descrizione dei luoghi e del loro governo. Fu incaricato della relazione il Cardinale Anglico[112] che nella sua Descriptio civitatis Bononiensis eiusque comitatus dell’ottobre 1371 così descrive Castel S. Pietro: Castrum S. Petri est supra stratam rectam eundo de Bononia ad Imola et distat ab Bononia per tredecim milliaria, et ab Imolam per septam milliaria et est magnum castrum, forte, bene muratum(…) Cioè:
Castrum S. Petri. è sulla strada diritta andando da Bologna ad Imola e dista da Bologna 13 miglia e da Imola 7 miglia ed è un grande castello, forte, ben murato con fossa e rive e bene abitato. In esso c’è una porta, con una buona torre sopra detta porta per la quale si entra e esce da detto castello.
In detta torre sopra la porta sta un Castellano con 4 uomini. Nel Castello sta un Capitano con un Notaio, due cavalli e un ronzino. Il Capitano tiene la chiave del Castello e deve fare la guardia di giorno e di notte a detta porta e intorni. (…) Gli uomini e persone del castello e chiunque altro della comunità sono soggetti a detto Capitano
Inoltre in detto castello c’è una rocca che ha ingresso e uscita, ben murata, con una forte torre, con buone fosse e ben munita, nella quale rocca risiede un Castellano con 12 compagni.
Segue l’elenco dei comuni sottoposti al suo Vicariato col numero dei focolai
- Castel S. Pietro (212)
– Liano (120)
-Vedriano (47)
– Monte Calderaro (25)
– Frassineto (20)
– Galegato (13)
-Sassuno (22)
– Monte Renzo (25)
– Bisano (42)
– Montarenti (15)
– Gene (23)
– Gargognano (16)
– Settefonti (38)
– Ozzano (157)
– Varignana (253)
– Casalecchio (81)
– Poggio e Borgonuovo (46)
Da questa descrizione si può rilevare che i castelli erano governati da un Castellano con un Notaio che dovevano amministrare la giustizia a chi ne avesse bisogno. Non è meraviglia se non abbiamo i nomi né gli atti giudiziari. Solo dopo il 1376 troviamo, nel secondo semestre, Faciolo Cattani per il primo Pretore di Castel S. Pietro con il suo notaio Andrea Ardizioni.
Dalla nota dei capitani o vicari che guardavano i castelli abbiamo nel nostro castello Giovanni Infangani vicario che riceve al mese 15 fiorini ossia 31 soldi e 8 danari. Castellano della Rocca grande era invece Bernardo Ast che percepisce 35 fiorini mensili. I soldati che in questo tempo stipendiava Bologna erano 9.000, contando anche le spese per la fanteria.
Nell’elenco della Comunità inoltre si trova che la Villa di S. Biagio di Poggio era sottoposta a Borgo Nuovo e vi era un suo massaro, ma poi incorporata la popolazione in quella del Castello, fu abolito l’officio di massaro. Sia tutto ciò a confusione di questi torbidi abitanti di Poggio che vollero più volte smembrarsi con sotterfugi e cavilli dalla subordinazione al comune di Castel S. Pietro pretendendosi farsi un massaro, un depositario, uno scrivano ed altri ministri, quando che nella unione si erano congiunti ed incorporati nel ceto comunitativo del nostro Castello, come annunzia la Bolla di Eugenio IV nel 1425, per cui il Savioli nei suoi annali scrisse che coi borghesani congiunti ai castellani prese maggior consistenza il nostro Castel S. Pietro.
1372 – 1378. Storia di Taddea e Zanello. Bologna si rivolta al papa. Giovanni Acuto, al soldo pontificio, assale e saccheggia Castello. Inizia lo Scisma d’Occidente.
Giunto il 1372 il papa si trasferì a Roma e il 12 gennaio mandò il nuovo Legato Pietro de Stagno[113] francese che fu ricevuto con molte cerimonie.
La pace tra la Chiesa e il Visconti durò poco. Il Papa, sentendo armarsi il Visconti, si collegò con molti signori. Il nuovo legato cominciò anch’esso a prepararsi alla guerra e visitò di persona tutte le fortezze del contado. Venuto a Castel S. Pietro come luogo di maggiore importanza rinnovò quasi tutti i palancati, fortificò la porta del Borgo a levante ed aggiunse alla rocca del Castello alquante spingarde.
Il papa si preparò a scomunicare il Visconti ma poi nel 1373 si accordarono dietro il pagamento di 200.000 scudi.
Richiamato da Bologna il Legato Stagno, il Pontefice lo sostituì con Guglielmo Novello[114]. Furono cambiati i castellani alle rocche del contado e pure i capitani e vicari dei castelli colle solite paghe.
L’anno 1374 la pestilenza percorreva il contado di Bologna onde morivano infinite persone, tuttavia non mancarono omicidi commessi da individui sanguinari. A questo proposito riportiamo uno spaventoso fatto commesso a Castello riferito nelle sue Selve Storiche dal Padre Vanti in questi termini.
Zanello di Lippo Dal Forno di Castel S. Pietro amava grandemente Taddea di Buriolo. Avendola richiesta al padre per isposa più volte, dopo lungo amoreggiamento, sempre gli fu negata. Infirmossi per tanto la medesima e fra non molto venne a morte. Per la qual cosa Zanello, trasportato da una enorme passione, la sera della di lei sepoltura si nascose nella chiesa senza essere veduto.
A notte avanzata, nulla riguardando il luogo né la bestialità che voleva commettere per sfregio al padre, andò al cataletto della defunta, quivi usò colla spoglia non altrimenti che fosse stata viva. Nella consumazione del misfatto gli sfuggì uno starnuto. Fu forse incidente o volere di Dio.
Si svegliò il custode della chiesa che era in guardia del cadavere e rivolgendo l’occhio a questo vide un movimento. Atterrito chiamò ajuto ma il Zanello di volo corse al custode ed afferratolo per la gola gli vietò proferire parola non che urlare imponendogli un rigoroso silenzio, minacciandolo di uccisione. Poi avuta la promessa, fattosi aprire la porta della chiesa sortì il malfattore Zanello.
Ma che ? Egli fu visto da chi forse aveva inteso il rumore, quindi si cominciò a vociferare e degli amori passati fra Taddea e Zanello. Entrò costui in sospetto di essere stato accusato dal custode per la qual cosa, fattogli un agguato, lo ferì mortalmente così si scoperse il tutto.
Fuggito ad Imola il malfattore si mise al soldo di Litto Alidosio signore di quella città ed un giorno, dopo alcuni mesi, si invogliò di rivedere la sua parentela. Venne in paese travestito ma, riconosciuto dai congiunti di Taddea questi gli tesero un tranello mentre si avvicinava a casa, ma non andò bene il colpo, onde egli, dato mano ad uno stile cominciò a ferire i Burioli.
Si alzarono molte grida dal loro canto come anco da parte dei congiunti del Zanello quindi, attaccatasi una fiera baruffa, restò morto il malfattore ed alcuni altri corsero pericolo di morte.
Per questa grave fatto durarono molto tempo le inimicizie fra queste famiglie e i loro congiunti onde benespesso erano in cimento, cosi ché il paese era sempre in scompiglio.
Resasi vacante questa chiesa arcipretale di Castel S. Pietro ne fu proclamata la Vacanza e contemporaneamente fu mandato l’invito al Comune per la proposta di nomina. Andrea Burioli, capo della Comunità e con mandato della stessa, il 26 ottobre presentò al Capitolo la persona di Don Andrea Ceputi. Fu questo accettato e il 25 dello stesso mese gli fu dato l’incarico.
Nel successivo anno 1375 ritroviamo solo annotato il Castellano della Roca piccola, cioè la torre che tuttora esiste sopra l’ingresso maggiore del Castello. Fu questi Raimondo Rudezio.
Scrive l’Alidosio che Bartolomeo Geminiani di Castel S. Pietro, essendo dottore del collegio di medicina, per la sua sperimentata dottrina nella professione, fu fatto Lettore fino al 1382. Era questi nipote di messer Geminiano Geminiani, famiglia illustre del nostro Castello sia per la sua ricchezza che per i luminosi dottori avuti.
Nel 1376, si sollevò Bologna contro la Chiesa[115]. La sollevazione avvenne il 20 marzo fu condotta da due partiti, uno fu chiamato dei Maltraversi, perché a tutto si opponevano[116] e l’altro fu dei Pepoleschi o siano Scacchesi perché lo stemma dei Pepoli è formato da scacchi bianchi e neri. In seguito del tumulto furono eletti sopraintendenti alla guerra Pietro Bianchi con altri nobili, fra quali Bartolomeo Visani, che fu eletto alla custodia delle fortezze. Abbandonato il nostro Castello dalle autorità il Visani venne immediatamente ad impossessarsi delle Rocche, fortificò la Grande con bombarde e munizioni di bocca e si fece giurare fedeltà dagli uomini del Castello e Borgo.
il Legato di Bologna che era stato in pericolo di vita nella sollevazione, fu salvato da Taddeo Azzoguidi che era capo di una fazione e molto stimato nella città. Lo liberò dalle mani del Conte Bruscolo, uomo empio e scellerato, il quale gli aveva già levato l’anello dal dito. Fu poi affidato ad Ugone Ghiselieri, uomo di gran stima ed umanità, che travestitolo lo condusse a S. Giacomo ove fu accolto dai religiosi agostiniani di quel convento.
Partito il Legato si fecero nuovi magistrati. Per tali fatti patirono molti altri luoghi della Romagna soprattutto Faenza perché passò da lì il 29 marzo il conte inglese Giovanni Hauchevud,[117] che era al soldo della Chiesa. La prese alla sprovvista, assalì il popolo e passò a fil di spada infinita gente e pure i lattanti che erano al seno delle meschine madri. Uccise in meno di un’ora 4.000 cittadini.
Fece ciò perché i Manfredi, signori della città erano alleati dei bolognesi. La saccheggiò poi andò a Ferrara. Saputo ciò i bolognesi imprigionarono il capitano Filippo Puer e altri militari dell’Hauchevud che erano di presidio a Bologna per conto della Chiesa. Questi si arrabbiò e mandò a minacciare i bolognesi che spedirono a Ferrara Riccardo Saliceti per pacificarlo, ma fu vano perché dopo poco passò nel bolognese e vi fece tali danni che non lasciò intatto né luogo né chiesa né castello. Il Saliceti scampò la vita per miracolo.
In seguito furono liberati i militari detenuti. Ciò nonostante l’Acuto nell’aprile venne dalla parte di Romagna, assalì il nostro Borgo e il Castello con tale impeto che i borghesani, i castellani e i soldati di presidio fuggirono e abbandonarono la torre. Entrato in Castello fece alquanti prigionieri, che poi rilasciò, picchiò i custodi delle porte, malmenò le donne più animose e, se vergini, furono ignominiosamente insultate e stuprate senza riguardo per la loro età. Quelle che si rifugiarono nella chiesa di S. Bartolomeo furono portate fuori e lasciate seminude. Le case delle famiglie dei Rinieri, Fucci, Balducci, Bonacelli, Ghirardacci, Lupi, Burioli, Battisti, Verondi, Comelli, Fabbri ed altri di minor condizione furono saccheggiate.
Fu pure saccheggiato l’ebreo banchiere nel Borgo. Infine abbatté le mura, appianò i terragli del Borgo, incendiò l’ospitale di S. Giacomo presso il ponte del Sillaro, né vi fu luogo che non fosse maltrattato.
I bolognesi, vedendosi a mal partito, si allearono con Barnabò Visconti ed intanto elessero le altre autorità governative. Nell’anno presente 1376, secondo semestre, sappiamo essere stato nominato dagli Anziani e Consoli di Bologna per Pretore e Vicario del nostro Castello e sua giurisdizione il commendabile Faciolo Catani o de Capitani, uomo di grande stima, della nobile famiglia che ha coperto anche la carica di Anziano della città.
Irritato Papa Gregorio XI per la rivolta di Bologna, pensò di spedirle contro una truppa armata. Assoldò perciò i nipoti del veronese Cangrande della Scala. Vedendosi perciò in cattiva situazione i bolognesi spedirono al Papa per trattare la pace Ugolino Scappi. Questi nel ritorno fu catturato da Nestore Manfredi[118] di Faenza per il mancato pagamento di milizie. Gli anziani allora rispedirono al papa Paolo Cattani di Castel S. Pietro con Ugolino Galluzzi per fare l’accordo.
Perché molti cittadini e nobili erano fuggiti dalla città per timore di essere sospettati o per sfuggire le risse, i nuovi magistrati, per evitare altre perdite di cittadini, l’anno seguente 1377 crearono un nuovo consiglio di 500 persone le più scelte per valore ed autorità ed amate dal popolo allo scopo di pacificare gli animi. Tra queste vi furono Paolo e Faciolo Catani, Sasso Sassi e Minoccio di Cino Zenzani tutti di Castel S. Pietro. Cino era notaio ed aveva in consorte Giovanna Donati da Imola. Alla custodia delle fortezze e castelli furono spediti diversi cittadini e nobili. A Castel S. Pietro venne Domenico Vizani. Fu confermato per Podestà, Vicario e Governatore il lodato Faciolo Cattani di Castel S. Pietro
Intanto il 4 luglio 1377 fu fatta la pace tra il papa e Bologna. Alla fine dell’anno era a Cesena una compagnia di 400 lancieri al comando del della Scala e al soldo della chiesa, questi per andare nel veronese chiesero il passaggio per il contado, il vettovagliamento e 10.000 ducati.
I bolognesi risposero che permettevano il passaggio a condizione che dessero degli ostaggi, per il resto invece c’era il rifiuto. Comunque, onde evitare problemi, il Governo, oltre ai cavalli che aveva in città, armò 2.000 persone al comando di Pietro Canetoli. Questi senza perdere tempo le condusse a Castel S. Pietro.
Intesosi ciò dai comandanti dei 400 lancieri, mandarono subito gli ostaggi a Castel S. Pietro. Chi fossero i comandanti e gli ostaggi ce lo tacciono gli scrittori. Una parte della truppa bolognese si fermò nel Borgo e l’altra entrò nel Castello il 19 dicembre con gli ostaggi.
Il 30 giunsero i 400 militari e furono scortati dai bolognesi fino alla città e da quella fino ai confini di Modena ove furono restituiti gli ostaggi. In tal modo fu assicurato Castel S. Pietro col resto del contado.
Nel seguente anno 1378 entrò Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Bartolomeo Poeti. Il 29 gennaioGhino detto Cino di Castel S. Pietro figlio di Guidinello di professione notarile fu fatto cittadino di Bologna e tostamente fu posto nel Consilio civico per decisione del governo.
Il papa Gregorio XI Papa aveva eretto a Bologna un collegio per la gioventù a cui aveva incaricato per lettori i migliori professori di Bologna, fra quali Bartolomeo Geminiani da Castel S. Pietro e Matteo da Varignana, ambo celebri nella medicina che furono insigniti del titolo di Eccellentissimi, che in passato mai si era dato alcuno benché fosse illustre ed insigne.
Il 27 marzo morì a Roma papa Gregorio XI e il 29 novembre l’Imperatore Carlo IV nella Rocca di Praga, al quale successe Venceslao[119] suo figlio. Nel pontificato successe il cardinale Bartolomeo Prignano napoletano col nome di Urbano VI.
Fu questo pontefice inesorabile nella giustizia. Non si lasciò condizionare nei castighi né dalla nobiltà, né dalla dignità, né dalle maggiori autorità. Ai cardinali ridusse il numero dei servi. Fece leggi rigorosissime e ridusse la pompa delle cerimonie. I popoli che si erano abituati a vivere a capriccio, si umiliarono. I prepotenti deposero le armi quindi i sanguinari furono più cauti, sopra tutto i nobili che pretendevano soddisfazione da chiunque. Così il mondo cattolico cambiò faccia. Nemmeno gli ecclesiastici furono esenti. Dovevano destinare il loro di più a sollievo dei poveri ed a opere pie.
I cardinali francesi, temendo la sua severità, si ritirarono a Fondi e il 9 agosto elessero un antipapa che fu il card. Roberto dei Conti di Ginevra col nome di Clemente VII[120].
Questo dannoso scisma si sparse ovunque e fu tormentoso con guerre, ribellioni, omicidi, impunità di delitti. Chi seguì Clemente VII e chi Urbano VI. I bolognesi seguirono il vero papa.
1379 – 1394, L’Ospitale dei pellegrini trasferito dal ponte in Borgo. I Lianesi costruiscono il nuovo castello. Pestilenza nelle bestie, alcune pecore bevono alla Fegatella e guariscono.
Essendo vacante, per la morte di Don Giovanni da Cuzzano, la chiesa di S. Biagio di Poggio, giuspatronato dal 1276 di quei parrocchiani, questi presentarono al Capitolo della Mensa di Bologna Don Pietro da Castel S. Pietro sebbene fosse parroco della vicina chiesa parrocchiale di S. Giovanni nel vicino castello di Triforce, castello poi distrutto di cui resta solo il nome del podere detto Trifolce. Tale proposta e nomina fu fatta vista la piccola rendita di entrambe le parrocchie. Questa chiesa di Poggio fino al 29 ottobre 1451 si denominò sempre coi titoli di S. Biagio di Poggio e S. Giovanni di Triforce.
Giunto l’anno 1379 negli Anziani fu eletto Facio di Tomaso Catani di Castel S. Pietro. Ritenendosi gli abitanti dei castelli del bolognese troppo gravati di imposte, ricorsero al parlamento della città, che deputò una commissione di 14 suoi membri, dei più vicini al popolo, con facoltà di togliere le nuove imposte. Tra i nominati vi fu anche Facio Cattani. A quelle richieste, poi soddisfatte, si aggiunsero altre petizioni dei nostri castellani contro gli uomini del Comune, che si erano appropriati dei proventi di quelle imposte. In seguito furono biasimati essendo massaro del nostro Castello Onofrio Bonacossi.
Erano in questa epoca al soldo militare di Bologna Rosino di Castel S. Pietro, capitano di lancieri a cavallo e Francesco Naldi capitano di molti fanti.
Le Cronache Bianchetti ricordano che nel seguente anno 1380 Bartolomeo Geminiani di Castel S. Pietro, celebre medico, pubblico lettore della città, ebbe aumentato l’onorario per la cattedra fino a l. 50. Tale onorario non si ritrova in questi tempi in alcun altro.
Accaduta a Firenze una grande rivoluzione, molti cittadini furono uccisi, altri cacciati dalla città e molti fuggirono[121]. Uno di questi, Francesco Pitti, racconta di un caso accaduto nel nostro Borgo mentre si era unito con altri fuorusciti alle truppe di Carlo Durazzo[122] che l’anno 1381 con gran esercito di ungheresi, tedeschi ed italiani si incamminava per la Romagna per andare a conquistare il Regno di Napoli investitone da Urbano sesto.
Questo è il suo racconto: Messer Carlo con grande esercito di ungheri e tedeschi e taliani venne in Romagna e noi con lui, essendoci accompagnati con Bernardo di Lippo e con Giovanni de Raffi, andammo nel Borgo di Castel S. Pietro bolognese per essere meglio alloggiati dove avendo cenato, fuoco si apprese alla stalla, per modo che a me toccò lasciarvi arsi quattro de migliori cavalli che io avessi. Trassero i villani dal Castello per ucciderci, per sospetto che fossimo incendiari, venia lor fatto se non fosse stato uno di Firenzuola, che prima ce ne venne avvisati (…) Chi a piè e chi a cavallo con grande fatica ci partimmo in la meza notte e tirammo verso il campo che era presso di qui quattro miglia e andammo a Forlì.
Si deduce da questo scritto che il campo era fra la Toscanella e Piratello nella via corriera.
Al Parlamento di Bologna arrivavano continue lamentele per la gestione dei laici degli ospitali presso i ponti del contado con le abitazioni che andavano in rovina. Il Senato si rivolse Filippo Caraffa, vescovo di Bologna, perché provvedesse ad un governo grato a Dio e agli uomini. Fu deciso che fossero governati con personale ecclesiastico.
Il nostro Ospitale di S. Giacomo e Filippo era ridotto, per le guerre passate ed ultimamente dalle truppe inglesi di Hawkwood, inabitabile e, essendo lontano all’abitato, sottoposto sempre a ruberie. Perciò, e perché aveva bisogno di rifacimento, fu pensato di trasferirlo nel Borgo in modo che non solo si albergassero i viandanti ma anche si accogliessero gli infanti abbandonati che spesso si ritrovavano nei crocicchi e talvolta morivano senza sapere se erano stati battezzati oppure no.
Fu fatto il progetto con una generale approvazione e il comune assegnò alcune pertiche di terreno sul margine nord del fossato del Borgo. Aiutarono molto alla costruzione gli agostiniani di S. Bartolomeo e la pia unione di paesani congregata nella loro chiesa.
In seguito diversi paesani fecero lasciti a favore del nuovo luogo pio. Questi benefattori e l’unione furono poi incorporati nella compagnia di S. Caterina.
A Bologna intanto comincia a diffondersi una pestilenza che mandava molte persone al sepolcro. Era questa una febbre tabifica che produceva gonfiore nelle inguinaie poi infiammazione quindi la morte in creature di ogni età e sesso. Per salvarsi si cercava di fuggire in campagna. I cittadini si sparsero nel contado ove l’aria era più perfetta.
In questo anno 1382, sia a causa della pestilenza sia per contrastare e malvagi e i nemici, fu spedito a Castel S. Pietro Nicolò Lodovisi con soldati.
Propagatasi l’anno 1383 la pestilenza, Castel S. Pietro fu uno dei più colpiti castelli del territorio con più di 1.000 morti fra castellani ed agricoltori, secondo i manoscritti in casa Fabbri. Durò l’epidemia fino al 1384. Il motivo di tanti decessi fu anche per la sua ubicazione su una via di transito di pellegrini e viandanti che continuavano a trasmettere l’infezione.
La contrada di Liano nelle ultime guerre aveva sofferti notevoli danni e saccheggi. I lianesi pensarono di abbandonarla e trasferirsi in luogo più sicuro e facile da difendere. Radunatasi quella comunità decise di fabbricare, a proprie spese, nella cima del vicino monte un castello difensivo, con mura e torre all’uso di questi tempi.
In breve tempo fu costruito a forma di quadrato con grosse mura, l’ingresso era dalla parte nord e vi si accedeva solo dalla sottostante collina essendo dalle altre parti troppo scosceso il pendio, Sopra l’ingresso costruirono una torre dalla quale si poteva vedere non solo gli uomini sulla via romana ma anche i castelli e le fortezze nella parte a levante fino all’imolese. Nella torre ci misero una campana per poter dare l’allarme.
Di questo castello abbiamo fra le nostre carte il disegno in scala fatto l’anno 1722. Nella torre vi era lo stemma della comunità raffigurante un giglio. Le case e la piazza erano ben disposte come si vede dai fondamenti e dalle vie. La chiesa interna era dedicata a S. Nicolò da Bari.
Serafino Calindri che ha scritto molto nel suo Dizionario Corografico sopra la parte montana, non ha scritto tutto per la sua avversione mostrata a quel zelante pastore Don Matteo Baldazzi di Castel S. Pietro che ha costruito una nuova chiesa, riformata la canonica e corredata la sagrestia del bisognevole.
L’anno 1385 Alberico e Giovanni da Barbiano[123] volendo passare con le loro genti per il contado di Bologna per affrontare gli Ubaldini, loro nemici, chiesero permesso al Senato offrendo ostaggi di pace. Il Senato rifiutò il permesso e temendo qualche sorpresa mandò soldati a Castel S. Pietro al comando di Tarlato Beccadelli, Lamberto Bacilieri e Francesco Parigi, con facoltà di oltrepassare il nostro Castello se vi fosse stato bisogno. Questi avanzarono in Romagna ma scontratosi a S. Prospero con le truppe dei conti di Barbiano e di Zagonara furono sanguinosamente sconfitti e fuggirono fino al nostro Borgo.
Matteo Grifoni, che in Senato aveva sostenuto che si dovessero accettare l’offerta degli ostaggi, saputa la sconfitta dei bolognesi e che si erano attendati a Castel S. Pietro, né arrischiavano tornare a Bologna per la vergogna, gli fece una satira in verso toscano facendola attaccare nel palazzo pubblico.
Stettero perciò nel nostro Castello alquanti giorni, né avevano voglia di ritornarsene in città, non avendo superato un nemico di forze minori, essendo essi di gran lunga superiori e alleati col Duca di Ferrara Azzo d’Este.
Bartolomeo di Tomaso Marozzo, fabbro, avendo terminato il suo ufficio di Sindaco fu inquisito per il suo operato, sopra tutto per le collette imposte alle quali molti castellani intendevano sottrarsi. Rese egli il conto di tutto nell’anno seguente 1386.
Per il seguente primo semestre 1386 chi fu fatto podestà di Castel S. Pietro le carte dell’archivio non ce lo indicano.
I fratelli Giovanni e Floriano detti da Castel S. Pietro[124] ambedue dottori di legge, di giorno in giorno crescevano e splendevano nella Lettura con gran seguito di scolari cosi Floriano fu insignito dalle genti del titolo di Lume delle Leggi.
Il Conte Lucio Tedesco[125] capitano che era al soldo di Astorre Manfredi signore di Faenza, essendo stato licenziato colle sue genti, sdegnato si trasferì nella pianura sotto Castel S. Pietro per andare in Lombardia. Siccome il Manfredi era alleato coi bolognesi, il Conte si diede ai saccheggi, provocando anche scontri con le guarnigioni dei castelli e i paesani. Così fece anche da noi, ma con poca fortuna poiché, attaccato il Borgo, uscirono dal Castello Lisandro Campana, Ugolino Balduzzi con molti paesani e villani, si scontrarono coi tedeschi e li respinsero fino alla Villa di Poggio.
Il Conte Lucio intanto, richiamate le altre sue genti per non perdere tempo in cose da poco avanzò verso Bologna, da cui usciti i bolognesi lo allontanarono dalla città. Proseguendo egli il suo cammino entrò nella Lombardia.
Il Senato, temendo attacchi dal Barbiano che stava danneggiando la campagna con scorrerie, pubblicò una Grida che tutti i contadini e le famiglie che avevano abbandonato il loro paese dovessero ritirarsi entro i castelli capoluoghi del rispettivo comune. Pertanto le famiglie Pavarelli, Samachini, Dalla Serpa, Cheli, Dalla Collina, Nicoli e d’Alborro che erano partite dal nostro Castello, rimpatriarono.
Il Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre 1387 fu Facciolo di Campeggio.
Il Conte di Cunio che veniva dalla Romagna chiese il passaggio per queste nostre parti. Gli fu accordato a condizione che le sue genti fossero accolte ai nostri confini e scortate fino al di là di Bologna. Tanto seguì nel maggio 1387 e fu accompagnato fino a Panzano.
L’arciprete Antonio Ricaguti stanco di fare l’arciprete a Castel S. Pietro nel mese di luglio seguente annunciò la rinuncia agli uomini del Comune. La pubblica rappresentanza del paese procedette alla presentazione di Don Giovanni Silveri al Capitolo di Bologna il 17 agosto, nel giorno seguente 18 furono affissi gli editti e nel giorno 22 fu conferita la chiesa al presentato.
Bartolomeo de Zangolini di Castel S. Pietro che in questo tempo era al governo di Bologna ordinò che il Consiglio degli 400 si accrescesse fino a 600 componenti. In quel tempo era anche anziano nella tribù di Porta Procola Sasso Sassi di Castel S. Pietro. Un tale fatto piacque molto alla cittadinanza.
I lianesi avevano terminato il loro castello e si stabilirono al suo interno. Desiderosi di governarsi da soli soffrivano di essere sottoposti alla Giudicatura di Castel S. Pietro e anche per dovere concorrere alle fortificazioni del capoluogo. Pensarono perciò di sottrarsi e ricorsero al parlamento della città per erigere a Vicariato il castello di Liano unito alle terre e paesi vicini della collina e della montagna.
Il Senato accordò che Liano fosse eretto in Vicariato senza però alcuna altra prerogativa. Intanto per il seguente anno 1388 furono podestà di Castel S. Pietro per il Primo Semestre Filippo Manzoli e per il S.S. (secondo semestre) Ercole Bentivoglio
Gli uomini di Liano, non contenti dei limiti imposti, cercarono di tirarsi dietro i comuni di Frassineto, Galigata ed altre vicine terre e castelli con falsità, estorcendo decreti e decisioni. Tutto ciò veniva maneggiato occultamente dal nuovo arciprete di Castel S. Pietro per le aderenze di parentele che aveva con alcuni lianesi.
Se ne accorsero gli uomini di Castel S. Pietro onde le famiglie magnatizie del paese Fabbri, Zopi, Sassi, Comelli ed altri cominciarono a contrastarlo in modo tale da indurlo ad andarsene non solo dalla chiesa ma anche dal paese. Quindi rinunciò alla cura della parrocchia a favore di Don Bertusio Berti da Varignana. Fu proposta questa rinuncia alla Comunità, che la accettò colla condizione che si desse attuazione al fatto nel futuro agosto 1389.
Il Governo di Bologna diede al Vicariato di Liano la giusdicenza sul questo comune e le due ville di Corneta di sopra e Corneta di sotto perché fanno parte del comune e le fu dato come Vicario al primo semestre Bartolomeo Bottrigari e per notaio Guglielmo Calanchi che al principio del 1388 investirono la carica.
Giunto poi l’anno 1389 furono fatti Podestà di Castel S. Pietro Galeotto Bocadelli e Matteo Fabri. Il primo nobile e per il primo semestre e l’altro civico per il secondo semestre.
Il 28 agosto poi gli uomini di Castel S. Pietro, giusto il concordato coll’arciprete Silveri, presentarono al capitolo di S. Pietro di Bologna Don Bertusio Berti. Nel giorno 30 furono affissi gli editti e nel giorno secondo di settembre gli fu conferita la chiesa.
Le casse del Comune bolognese erano esauste per le spese delle guerre passate quindi fu deciso di aumentare le imposte sopra i beni dei fumanti. Ciò si fece indistintamente senza tener conto di luoghi e privilegi.
Gli abitanti di Castel S. Pietro fino dalla sua fondazione erano stati dichiarati cittadini ed esentati da qualunque dazio ed imposta. Successivamente, per l’adesione al Governo bolognese, gli erano state confermate la esenzione dalle collette, anche a compensazione dei danni sofferti in passato e del ristoro loro dovuto. Perciò, non intendendo assoggettarsi a queste nuove tassazioni, alquante famiglie emigrarono dal paese ritirandosi nella vicina Romagna.
Il Senato ordinò fossero richiamate, ma non obbedirono. La preoccupazione era che la fuga aumentasse e che il Castello si svuotasse. Le famiglie che furono in rivolta furono, secondo le memorie della famiglia del famoso cap. Gian Battista Fabbri, le seguenti Rondoni, Dalla Muzza, Serpa e Comelli.
Nel seguente 1390 furono Podestà di Castel S. Pietro Giovanni Gozzadini nobile e per il secondo semestre Romolo Schiassi.
Quando un raccoglitore di memorie storiche incontra lacune e contraddizioni negli scrittori è una infelicità assai grande. Tanto ora accade a noi. Nella sua Storia di Milano Bernardino Corio narra che il Conte Alberico da Barbiano, avendo saputo della decapitazione di suo nipote Giovanni avvenuta a Bologna[126], venne con gran quantità di genti a Castel S. Pietro e, presolo, fece prigioniera tutti la guarnigione, poi da qui invase tutto il bolognese facendo danni infiniti. In seguito si presentò a Bologna con animo di vendicarsi dell’offesa.
Questo fatto non è presente nelle storie dei nostri scrittori bolognesi che raccontano però che avendo i Visconti[127] mosso le armi contro i bolognesi nel gennaio 1391 il Senato chiamò i più valenti e prodi guerrieri e capitani fra i quali il capitano Ugolino Balduzzi e Alessandro Campana ambi di Castel S. Pietro. Per non lasciare poi indifeso il nostro Castello furono fornite le Rocche di tutto il bisognevole.
La famiglia Cattani di Castel S. Pietro era così famosa sia per i dottori sia per le genti d’arme che la loro fama era conosciuta anche in lontani paesi. Leonardo figlio di Giovanni ottenne da Sigismondo Re d’Ungheria il salvacondotto per il libero passaggio con armi e persone nei suoi stati, essendo prode ed egregio guerriero.
Il pericolo dei Visconti era tale che sapendo i bolognesi di non avere forze sufficienti per difendersi ricorsero nel 1392 per aiuto al Papa[128]. Spedirono come ambasciatore Paolo Cattani da Castel S. Pietro, Dottore di leggi che con la sua eloquenza ottenne quell’esito felice che narrano le storie patrie.
L’anno successivo 1393 furono sospesi tutti i mercati a causa della grande mortalità nelle bestie dallo zoccolo spaccato (bovini, ovini) In alcuni manoscritti anonimi, ritrovati tra le carte della famiglia Rondoni sarebbe riportata la notizia che in questa circostanza luttuosa si manifestò ancora di più la virtù della nostra Fonte della Fegatella. A questo si riferì padre Vanti, più che allo scritto del cronista Giangiacomo Brocchi che ne accennò nel 1338.
Accadde che delle pecore attaccate dal male bevvero l’acqua in una pozza fatta sulla strada che porta al monte lungo la destra del Sillaro. Molti di questi animali, che gonfiandosi morivano, guarirono diminuendo il gonfiore. Quindi le bestie, sentendosi meglio, correvano a bere. Visto ciò i pecorai cominciarono a interessarsi al fatto. In seguito apertone alcune malate si ritrovò il loro fegato distrutto a causa della malattia. Si cominciò allora a portare il bestiame a bere a questa sorgente. Anche le persone che avevano male all’intestino cominciarono a berla trovandola salutare sopra tutto per il mal di fegato. Da ciò fu chiamata Acqua della Fegatella. Paolo Masini e la Cronaca Ghiselli la vogliono scoperta nel 1415, senza dirci il come.
Delle virtù di questa sorgente ne è stato fatto un laborioso trattato dal dott. Antonio Maria Fracassi medico condotto di Castel S. Pietro negli anni 1773.
Alla epidemia accennata si aggiunsero venti meridionali talmente forti che sradicavano querce annose, danneggiavano gli edifici e le merlature delle torri e delle fortezze. Il Senato nel 1394 fece poi riparare i danni causati dal vento. Concesse il giorno 13 novembre, riconoscendone i meriti, al nostro Leonardo Cattani il libero passaggio con genti d’arme per il territorio di Bologna.
1395 – 1400, Cresce l’antagonismo tra i Canetoli e i Bentivoglio. Nel bolognese arrivano quelli della Comitiva de’Bianchi. Giovanni Bentivoglio si impadronisce del Palazzo.
Nel successivo anno 1395 non sappiamo chi fossero i Podestà e governatori di Castel S. Pietro.
Il dott. Paolo Dalmonte bibliotecario della Biblioteca Imperiale di Roma, oriundo del nostro territorio, in una sua raccolta sul castello di Dozza, scrive come sorti forti rancori tra i Benini e Buscaroli e i Valloni, questi furono cacciati da Dozza. Costruirono allora una forte torre sulla collina al confine col bolognese in un luogo detto il Macchione per le folte boscaglie. Da lì facevano agguati e molestavano i dozzesi, spalleggiati da fuorusciti di Castel S. Pietro. Poi fu fatta la pace e demolito il fortilizio.
Passando poi all’anno 1396 furono Podestà di Castel S. Pietro per il P. S. Giusto Gelli nobile e per il S. S. Giovanni Bomboloni.
Le comunità del bolognese, avendo sofferti molti danni dalle milizie nemiche, ricorsero al Senato onde essere sollevate tra queste vi fu anche Castel S. Pietro. Riconoscendo questa popolazione come la maggiore danneggiata ordinò che il Dazio Sale fosse a minor prezzo delle altre comunità.
Nel Libro Datiorum et Gabellarum Bonon. si trova questa beneficenza dal primo luglio 1396. Da un altro canto poi il Senato, per economizzare ridusse anche le spese pubbliche e i salari dei castellani. Quindi il castellano della Rocca piccola fu tassato di l. 4 mensili e quello della Rocca grande di l. 10 mensili.
A Bologna i dissapori nati tra Nanni Gozzadini e Giovanni Bentivoglio vennero a tali disordini per cui furono cacciati i bentivoglieschi. Fra i loro più potenti nemici ci furono i Canetoli.
Intanto Galeazzo Visconti, avendo inestinguibili mire sopra la città, assoldava genti nella Lombardia. Il Senato, sapendo che è il denaro è la maggiore risorsa per la guerra, decise nel 1397 di ricavare risorse da un estimo sopra i terreni del contado.
Furono poi Podestà di Castel S. Pietro e Governatori dell’anno presente 1397 per il primo semestre Giovanni di Bartolomeo Dessideri e per il secondo semestre Nicolò Rustigani.
Nel 1398 aumenta lo scontento sopra tutto contro i Gozzadini, ma pure gli scontri tra i Canetoli, sostenitori della plebe, e i Bentivoglio, sostenitori della nobiltà, per cui si sparse non poco sangue.
Ci fa noto l’Alidosio che fra i molti che erano insigniti di dottrina c’era Antonio di Nicolò Cattani da Castel S. Pietro che si distinse plausibilmente.
Nell’anno 1399 furono Podestà di Castel S. Pietro per il P. S. Paolo Filippi e per il secondo semestre Bernardo Rondi.
Il nostro castello aveva bisogno del rifacimento delle mura che sopra tutto a levante erano rovinate. Il Senato il 13 febbraio 1399 decretò per la loro ricostruzione. Poiché gli abitanti avevano piacere di essere più al sicuro si offersero di concorrere alla spesa a condizione di essere esentati dal partecipare alle spese in altri castelli del contado. La proposta fu accettata, si spesero 6.000 lire delle quali Castello ne pagò 1200. Per completare l’opera occorsero altre 8.000 lire che furono ripartite tra le altre comunità della podesteria.
Non abbiamo testimonianze delle mura più antiche che furono distrutte e demolite se non un piccolo avanzo nell’angolo superiore ad est ove la nobile famiglia Locatelli, succeduta nei beni dei paesani Conti Ramazzotti, vi fabbricò, circa alla metà del 1600, sopra il baluardo posto in questo angolo, quel bel torresotto che vi si vede.
Le mura di allora era di mattoni cotti, con un cordone su cui si alzava il parapetto coi merli. Proseguiva questa mura fino alla fine del castello ove nell’angolo c’era un altro baluardo. Da qui partiva un altro pezzo di mura fino alla porta maggiore. Nei fianchi di questo baluardo si può vedere ciò che abbiano raccontato. Ora la fossa è stata interrata ed è il luogo del mercato dei maiali.[129] Fra i due baluardi ce ne sono altri due uguali. Uno dove la mura fa angolo dietro i portoni di S. Francesco, l’altro più in alto dove nel terraglio interno c’era il giardino dei Locatelli.
Le nuove mura furono costruite più internamente al castello di quelle distrutte. La loro ubicazione e costruzione si osserva tanto nella simmetria che nell’edificio. I buchi in essi fatti per le armature dei ponteggi dei muratori ci fanno valutare la costruzione più recente rispetto alle vecchie e demolite mura.
La porta dietro il baluardo fronteggiante il convento e chiesa di S. Francesco rimase interrata fino alla metà del 1600 ed aperta quando fu concesso ai frati minori di S. Francesco il vicolo passante tra la chiesa e il loro orto. Questa porta noi chiamiamo ora i Portoni di S. Francesco.
La Cronaca Bianchetti ci racconta di un disordine accaduto quest’anno a Bologna a causa di un armigero di Castello di nome Giovanni Corbani, uomo facinoroso e fazioso ma talentuoso.
Aveva molta animosità coi suoi compaesani Rinieri e coi Guidotti di Bologna quindi, temendo per la sua vita, chiese ed ottenne dal Senato di poter girare in città e nel contado con dieci uomini armati. Cominciò poi a farsi vedere per la città coi suoi sostenitori, parenti, amici e bravi del paese.
Alberto Guidotti, vedendolo armato e con questo seguito pensò volesse ucciderlo. Anche lui si armò e fece armare molti amici. Divulgatosi il fatto nella città, il giorno di Pasqua, 30 marzo, accaddero molti disordini. Perciò fa richiamato dall’esilio Giovanni Bentivoglio.[130]
Messo riparo a questo disordine, che poteva degenerare, e calmato il popolo il Senato fece affrettare i lavori delle mura del nostro castello e mise un obice sul confine verso la Romagna.
Il giorno 20 luglio vi furono forti terremoti per cui la gente abbandonarono le abitazioni per non restare sepolti vivi sotto le macerie. Le abitazioni del castello di Alborro furono abbandonate, gli edifici in pendenza di Fiagnano, i fabbricati e le mura di Corvara crollarono e questi castelli rimasero quasi svuotati. Non bastando questi castighi, si aggiunse un grave pestilenza che si estese in tutta Italia.
A Bologna cresceva la strage e molti nobili e famiglie civili fuggirono e si ritirarono nelle campagne ove l’aria era più pura.
Mosso a pietà per tali calamità un pio prete, proveniente dalle Alpi con 25.000 uomini e professando penitenza, arrivò nel bolognese diretto ai luoghi santi. Nel mese di settembre proveniente da Bologna arrivò a Castel S. Pietro col suo gran seguito. Cantavano lo Stabat mater, inno composto poco prima da papa Giovanni XXII, e all’inizio delle strade si prostravano a terra gridando tutti Misericordia!
Il vescovo di Bologna Bartolomeo Raimondi, vestito di bianco, ad imitazione dei seguaci di quel prete, con molto popolo lo accompagnò con quattro gonfaloni della città, uno per tribù, fino al nostro Castello. Qui giunto, celebrata la S. Messa, fece un devoto ragionamento persuadendo ciascuno alla pace. Il successo di questa congregazione fu tale che nessuno compariva più in pubblico se non vestito di bianco. Il religioso e i suoi viandanti vivevano di elemosine delle genti.
Fu poi accompagnato a Imola da soldati a piedi e a cavallo per le guerre in atto tra i Barbiano e gli altri castelli romagnoli. A Imola fece la solita funzione di ascoltare la messa in duomo finita la quale frate Alberto da Ozzano, famoso predicatore di quei tempi, esortò i cittadini ad aiutare la comitiva, che veniva chiamata Comitiva de’ Bianchi per la veste bianca che portavano, lunga fino ai piedi con un colletto col quale si coprivano la faccia in tempo di penitenza.
Scrive nostro padre Vanti che in questa occasione la nostra Compagnia di S. Caterina adottò l’uso della cappa bianca e prese anche il nome di Società de’ Battuti come nei suoi statuti.
Il medesimo prete, che procurò ad altri salute spirituale, fu a sé stesso causa di tormento corporale poiché, accusato di eresia e di adesione alle posizioni scismatiche fu dal vero Papa imprigionato in Viterbo e condannato al rogo.
Carlo Zambeccari della fazione popolare con i suoi seguaci, per sfuggire la peste, si rifugiò a S. Michele in Bosco ove si fortificò. Poco dopo morì a causa del morbo. I Maltraversi, suoi nemici, pensarono di approfittarne per farsi signori della città. Il tentativo fallì ad opera di Nanne Gozzadini. Dei Maltraversi parte furono uccisi e parte banditi. Fra i banditi vi fu Giovanni Cattani da Castel S. Pietro.
Quest’anno finì la sua vita Antonio Rondoni che lasciò dei terreni alla compagnia di S. Caterina ed all’Ospitale nuovo de Devoti. Codesto Rondoni era possidente signorilmente benché fosse di professione un muratore e dell’arte meccanica.
L’anno seguente 1400, in cui siamo mancanti di notizie dei pretori del paese, fu dedicato al Giubileo, ma non per questo si spensero le fazioni, i dissidi e le ribalderie in ogni sito. La pestilenza si accrebbe facendo in ogni dove strage. Lo scisma dei pontefici[131] facevano fiacca la pietà e debole la devozione e il culto a Dio. Tornarono i terremoti. Nei bestiami fu ancora più forte la pestilenza che negli uomini cosi restarono incolte la gran parte delle campagne.
Gli uomini di Castel S. Pietro erano amareggiati per la sottrazione delle comunità e terre sottoposte al Vicariato di Liano. Spesso perciò avvenivano provocazioni e liti e divennero queste tanto comuni che, temendo il pericolo di aggressioni, quelli di Vedriano e Galegata completarono certe loro rocchette.
Vedriano aveva la sua alla destra dell’ingresso dell’abitato che non era piccolo. Così pure Galegata aveva assicurato il suo castelletto sull’apice del monte tanto con porte che con la piccola rocca presso l’ingresso. Fatte queste cose quei montanari credevano di essere al sicuro ma si ingannavano. Nel mese di aprile alcuni facinorosi di Castel S. Pietro di nome Gadone Ciarla, Tomaso Marozzo e Canzio di Lamberto detto Brascolo, provocarono una lite con alcuni montanari nel Borgo, al rumore accorsero altri montanari che li fecero fuggire.
Saputo il fatto il Vicario locale fece imprigionare Gadone e Marozzo. Usciti dal carcere organizzarono una masnada di compagni e si recarono di nascosto a Frassineto per vendicarsi di alcuni di quel paese. Questi avvisati chiusero la porta del castello. La masnada allora ripiegò subito su Galegata, cogliendoli all’improvviso e impossessandosi della porta e della vicina rocchetta. I montanari, che avevano litigato coi nostri a Castello, vedendosi a mal partito abbandonarono l’abitato. I masnadieri non potendoli raggiungere incendiarono le loro case e distrussero le porte di quel castellaccio.
Ciò fatto passarono a Vedriano e fecero la stessa aggressione, ma trovarono resistenza nel castello. Allora salirono in alto, ove è ora la chiesa e assalirono dall’alto con sassi i difensori. Questi si allontanarono dalla parte della porta e Brascolo riuscì ad avvicinarsi e darle fuoco. Visto ciò i vedrianesi fuggirono dalla parte sud e scendendo nel rio vicino si imboscarono sotto Montecerere. Avuto quel castello, furono saccheggiate le case dei Conti di quel luogo e dei Mengoli.
Un tale delitto restò impunito perché che i masnadieri erano tutti partitanti dei Gozzadini.
Il dott. Annibale Bartolucci, erede delle carte dell’estinta famiglia Fabbri, ci ha comunicata con altre notizie patrie, la seguente che qui riferiamo così come è stata scritta: Ricordo come questa notte 19 maggio 1400, avendo l’ebreo Banchier Salomin in Castel Sanpetro due fioi, Disach maschio e Lia femena, putta assi venusta, essendose epso invaghito Disach di notte alta, travestito trovolla en letto e sforzoe sebbene fesse forza, essendo lo Zenitor essente nel tempo che cometteva il vitium, gridò assae forte, cosichè fu inteso da visini il rumore, fuzendo po’ il fratello Disach bacucato, perdette l’anello. La mattina fu portato al (giudice) che interogò la putta che non savè die niente. Mostrato poi l’anello ravvisolo de suo fratelo e pianzendo fortemente tornosse a casa, donde trovato Disach presolo per li capelli e tirollo zo per la scala con ferite mortali e dappoi essendo corso ajuto se epsa col ferro isteso uccise. Dio ce guarde da simele disgrazie.
Essendo Carlo Zambeccari, morto di pestilenza a S. Michele in Bosco, rimase vacante la signoria di Bologna. Sia Nanne Gozzadini che Giovanni Bentivoglio aspiravano al primato nella città infine prevalse il partito bentivolesco e fu eletto Giovanni, che si impadronì a viva forza del palazzo. Quindi furono banditi molti seguaci del Gozzadini sia in città che nel contado.
Fine del 1400
Segue la Centuria III
Raccolto di Memorie istoriche
di Castel S. Pietro,
Giurisdizione di Bologna
dal 1401 al 1500
Libro terzo
Centuria terza
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Argomento
Castel S. Pietro viene assediato dal Conte Alberico da Barbiano, difeso dai Castellani. Preso e saccheggiato da Facino Cane. Recuperato dai bolognesi. Baruffe diverse. Il Papa fuggendo la pestilenza in Bologna si ritira a Castel S. Pietro con 21 Cardinali, loro domicilio e per quanto tempo. Esenzione concessa a Castel S. Pietro da tutti i Dazi e Gabelle. Angustiato si ribella a Bologna e viene segregato dalla medesima. Poi reintegrato con le sue Ville e Comunità subordinate. Si divide in due Partiti. Viene occupato da Angelo della Pergola. Diviene asilo del Legato pontificio per la nuova pestilenza. Si ribella di nuovo a Bologna e si mantiene fedele alla Chiesa. Viene assalito e difeso valorosamente dai castellani. Loro Capitolazioni e premio. Viene esentato Castel S. Pietro dalle Superiorità di Bologna. I fuorusciti lo infestano ed occupano. Viene preso dal Gattamelata. Battagliato da Nicolò Piccinino. I Castellani ricorrono al Papa e ne hanno del bene. Il Conte Luigi Dal Verme se ne impadronisce. I suoi soldati sono uccisi. Romeo Pepoli fugge da Bologna con mille dei suoi partitanti e cittadini perseguitati dai Bentivoglio. Il Pepoli si fa forte in Castel S. Pietro spalleggiato dai castellani. Castello viene battuto ma non si arrende sotto la protezione dei Pepoleschi, che valorosamente fanno fronte ai Bentivoleschi. In fine Castello si consegna al Papa e i Paesani riscuotono grazie e beneficenze.
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1401 – 1404. Alberico da Barbiano assedia Castello. Battaglia del Fiume Reno, Palemona libera il fratello. Visconti sconfigge Bentivoglio. Morte di Giovanni Bentivoglio. Visconti cede Bologna alla Chiesa.
Giovanni Bentivoglio impadronitosi del Palazzo pubblico di Bologna l’anno 1401 il 14 marzo si fece dichiarare dal Consiglio dei 600 Signore della città. Fu poi confermato dal Parlamento il giorno 28 dello stesso mese. All’inizio di aprile prese possesso dei castelli. Richiamò i banditi e i fuorusciti, ordinò le cose della città e stipendiò i capitani sia della città che del contado con la paga di 15 fiorini al mese.
Tra questi capitani troviamo Ubaldino Balduzzi di Castel S. Pietro, uomo prode e valoroso che il Ghirardacci cita come famoso. Cambiò i castellani alle rocche. A Castel S. Pietro fu destinato Nannino Nannini per la Rocca grande e Giovanni Pelliciari per la Rocca piccola. Il primo stabilì qui la famiglia e vi rimase fino al 1600.
Intanto fra il Bentivoglio e Battista Baldovini erano nati dissapori. Ostesano e Giovanni Ostesani, di Castel S. Pietro, partigiani del Baldovini, furono banditi dal Bentivoglio essendo considerati entrambi capaci di qualunque insurrezione.
Non mancarono anche nei paesi casi di insurrezioni ed insubordinazioni. Ne sentì gli effetti anche Castel S. Pietro, infatti si smembrarono dal suo vicariato Vedriano, Monterenzio, Calegata, Frassineto, Sassuno ed altri villaggi e si edificarono fortilizi. c’era anche molto malcontento per dovere concorrere alle spese delle nuove mura di Castel S. Pietro.
Accortosi il Bentivoglio di queste e altre cose che turbavano la tranquillità si fece confermare di nuovo dal Consiglio dei 600 Signore della città e contado. Poi, per ottenere maggiore benevolenza e riconoscenza, creò cavalieri aurati molti di essi.
Quindi propose di creare una nuova magistratura, di durata biennale, nominata dal Consiglio dei 4000. Questa prese il nome di Consiglio dei Sedici Riformatori ed egli ne fu il Capo. Tra questi vi fu Floriano da Castel S. Pietro
Poi ritenendo che il papa avrebbe senza difficoltà confermato la sua nomina come Signore e Vicario di Bologna gli spedì come inviati il detto Floriano e Masolo Malvezzi che però furono respinti. Nonostante ciò il Bentivoglio proseguì tranquillamente nella signoria.
Astorgio Manfredi,[132] ritenendo che la rivolta di Bologna avesse indebolito il governo bolognese, si impadronì di Solarolo. Bentivoglio ne chiese la restituzione che gli venne negata. Allora mandò molta gente e il Conte Alberico da Barbiano ad assediare Faenza. Quando ormai stava per essere presa si interpose per la pace il nobile veneziano Michele Steno. La pace fu fatta pagando il Manfredi quaranta mila scudi ai bolognesi.
Il Conte Alberico vedendosi escluso dal trattato e non avendo potuto finire la guerra contro il suo grande nemico Manfredi, si rivoltò contro il Bentivoglio e cominciò a scorrere il territorio bolognese facendosi da Castel S. Pietro. Poi vi piantò il campo per prenderlo mentre continuava con le scorrerie nel contado.
Nel mese di giugno arrivò Ottobono de’ Terzi[133], suo grande amico avendo servito assieme per il Duca di Milano. Qui si accordarono contro Bologna unendo le truppe e arruolando molti fuorusciti bolognesi, tra questi i due fratelli Ostesani di Castel S. Pietro con altri amici malcontenti. Si misero a fare scorrerie fino ad Idice predando uomini, donne, bestiami e cibarie. Però il problema maggiore era la presa di Castel S. Pietro quindi i due capitani, in intesa coi partigiani degli Ostesani che erano nel nostro Castello, il 13 giugno sferrarono l’attacco.
Le poche forze di guarnigione non poterono resistere e quindi fu preso il castello, furono fatti prigionieri il Nanini, Pelliciari, Battista Balduzzi, Bastiano dalla Roda, Clemente Fiegna con altri delle familie Baldi, Salvetti, Ricardi, Trapondani, Verondi e Rondoni.
Presa la terra riposarono un giorno i vincitori, poi il giorno dopo, 15 giugno, ripresero le scorrerie fino a Bologna. Ottobono volendo tornare a Milano e temendo il Bentivoglio, si fece accompagnare dal Barbiano nel territorio bolognese. Fecero nel passaggio ruberie ovunque.
Il Bentivoglio saputo ciò, uscì con un buon numero di soldati dalla porta di Mascarella e raggiunse il nemico al fiume Reno. Qui, attaccata battaglia, prevalse e levò al nemico il bottino e liberò i prigionieri fatti a Castel S. Pietro.
Il padre Vanti scrive nelle sue memorie che in questa occasione Palemona[134] sorella di Battista Balduzzi, donzella dotata di grande coraggio e personalità, tenne dietro al fratello sperando di aiutarlo e se possibile liberarlo dalla prigionia di Ottobono. Mentre ormai si era inoltrata al di là di Bologna, sentì arrivare alle sue spalle l’armata del Bentivoglio, si unì alla sua truppa e così poté mischiarsi ai soldati nello scontro. Ritrovato i prigionieri e il fratello, col pugnale che aveva con sé tolse la picca a un soldato e consegnata l’arma al fratello si fecero entrambi strada tra la truppa nemica. Assieme agli altri prigionieri riuscirono a unirsi ai bentivoleschi e con essi combattere contro il Barbiano ed Ottobono. Infine, ottenuta la vittoria, tornò a Castello accolta dagli evviva dei suoi congiunti e di tutti i paesani.
Dopo la sconfitta Ottobono tornò nella Lombardia, il Conte di Barbiano invece, riposatosi alcuni giorni a Castel S. Pietro, tolse il campo e si diresse verso i castelli romagnoli che appoggiavano il Bentivoglio.
Si diresse subito verso Dozza che era difesa da due capitani bolognesi cioè Marco Cattani da Castel S. Pietro e Bertolo Papazzoni da Bologna. Il primo stava nella Roca con la sua gente e l’altro con la sua e coi castellani proteggeva il paese. Il Conte assalì dalla parte di sotto, il Papazzoni, non riuscendo a farvi fronte, anche perché dalla parte di ponente era crollata la mura e creata una breccia, si ritirò verso la rocca ove si riparò il resto del suo presidio. Il Papazzoni poi uscì per la porta segreta della Rocca e venne a Castel S. Pietro e si diresse verso Bologna.
Marco Cattani ben chiuso nella Rocca, benché attaccato da due parti dal Barbiano, mai si perdette d’animo e valorosamente si difese.
Il Papazzoni andando verso la città incontrò Lancellotto Beccaria che con molta gente veniva da Bologna in aiuto. Questi arrivato a Castel S. Pietro si accampò a S. Giacomo attendo qui gli ordini del Bentivoglio.
Il Barbiano saputo che bentivoleschi erano in buon numero si ritirò da Dozza ma prima la saccheggiò portando via armi, vivande e, non potendo prendere la Rocca, vi incendiò il ponte levatoio.
Il Papazzoni arrivato in città, cercò di difendersi ma fu subito impiccato.
Nel seguente luglio frate Matteo Cattani di Castel S. Pietro dell’ordine de Minori Osservanti fu nel giorno 29 nominato Vescovo.
Dopo alcuni mesi passati senza sentire movimenti nella Romagna, riconosciuta dal Bentivoglio la inutilità di tenere truppe in questo luogo, richiamò il campo che prontamente fu evacuato. Questo fu fatto anche perché c’era bisogno di fortificare la città verso cui si stava dirigendo Gian Galeazzo Visconti signore di Milano per impadronirsene.
Infatti il Visconti messo assieme un poderoso esercito venne in poco tempo a Bologna. L’esercito era condotto dal valoroso Giacomo Dal Verme, col quale erano Pandolfo e Carlo Malatesta di Rimini, Galeazzo Gonzaga di Mantova, Alberto Pio da Carpi, il Conte di Urbino, Facino Cane, Conte Alberico da Cunio, Paolo Savelli romano, Ottobono de’ Terzi ed altri valorosi capitani[135] e con 400 fuorusciti bolognesi e del contado condotti da Gozzadini, Gallucci e Pepoli.
Lo scontro avvenne il 26 giugno 1402 presso il fiume Reno[136] con la sconfitta di Giovanni Bentivoglio. Per questo fatto ci fu ribellione di popolo a Bologna al grido Morte ai Bentivoglio!
I primi ad entrare in città furono i fuorusciti Pepoli, Gozzadini e gli altri. Il Bentivoglio cercando di sfuggire al tumulto popolare si nascose in casa di una povera donna. Ritrovato dal Conte Alberico fu condotto in piazza e qui con più di 40 pugnalate fu crudelmente ucciso. Il suo corpo nudo fu posto in un mastello e sepolto in S. Giacomo. Era in età di anni 45, fu uomo di sottile ingegno, magnanimo, generoso ed eloquentissimo poeta.
Pandolfo Malatesta luogotenente di Gian Galeazzo Visconti prese il possesso della città, ma lo tenne per poco perché all’inizio di settembre morì, gli successe la Duchessa Caterina e il figlio Giovanni Maria Visconti[137] che nel dì 6 novembre fu investito della Signoria.
Prese per esso possesso di Bologna e del contado Leonardo Malaspina. Per farsi poi ben volere dai bolognesi il Visconti confermò alla città i privilegi già concessi dal defunto Duca Gian Galeazzo, salvo alcune cose riguardanti la amministrazione della giustizia e gli uffici delle principali terre e castelli del contado fra i quali Castel S. Pietro (eccetto le porte delle fortezze e castella e delli offici utili di Castel S. Pietro, Budrio, Castel Franco, S. Giovanni in Persiceto, di Cento e Crevalcore.)
Nel seguente 1403 furono spediti gli ufficiali nominati dalla Duchessa e Giovanni Maria Visconti.
Intanto deceduto il Malaspina, il Visconti nominò Governatore Facino Cane, uomo empio, bestiale e tiranno per cui la città cominciò ad agitarsi. Chi fossero gli ufficiali di Castel S. Pietro non ne abbiamo alcuna memoria, forse per i disordini che cominciavano a nascere.
Crescendo questi, Nanne Gozzadini, sollecitò il Barbiano a rivolgersi contro ai Visconti, nonostante i tanti benefici. Non esitò per niente il Conte a mostrarsi ingrato poiché aspirava pure lui alla Signoria di Bologna per mezzo del Gozzadini e suoi partitanti. Quindi si alleò col papa Bonifacio IX Papa e i fiorentini.
Vedendosi in pericolo il Facino se ne andò da Bologna. Il Gozzadini, indotto alla rivolta Crevalcore, vi fece entrare gli Estensi di Ferrara. A questo punto i Visconti mossero guerra ai ribelli. Spedirono 3.600 soldati a Bologna e 3.000 nel contado ripartendoli a Medicina, S. Giovanni, Crevalcore e Castel S. Pietro. Facino Cane si diresse verso la città e Crevalcore, e fornì Castel S. Pietro e Medicina dell’occorrente.
Intanto il Barbiano, in accordo col Papa, scrisse a suo nome ai bolognesi e alla Duchessa sfidandoli alla guerra. Intanto si era fermato nell’imolese col Marchese di Ferrara, che aveva avuto il comando per questa guerra dal cardinale Baldassarre Cossa[138], Legato papale per Bologna.
Per conquistare il nostro castello aveva trattato segretamente con alcuni paesani e cioè Pellegrino Pellegrini, i Marocchi e i Rinieri. Il progetto era che si provocasse un incendio e, mentre i paesani e gli armigeri accorrevano per spegnerlo, si aprissero le porte per fare entrare i cavalieri e il Legato, che stavano nascosti nelle vicinanze.
Ma il tradimento fu scoperto e ritardò pure la venuta del Conte Barbiano. Fuggirono i traditori inseguiti dai paesani e dai villani con la guarnigione del Castello. Quando furono sul ponte del Sillaro si incontrarono con la cavalleria del Conte, Nanne Gozzadini ed altri fuorusciti di Bologna.
Scoppiò una grossa mischia presso la chiesetta di S. Giacomo fra l’una e l’altra parte alla quale accorrendo perfino i borghesani e i villani sparsi nella vicina campagna, scompigliarono la cavalleria del Barbiano che con poco onore si ritirò alla Toscanella. Era capitano dei castellani Ugolino Balduzzi.
La Duchessa di Milano mandò subito Cane con molti cavalli a Castel S. Pietro a cui giunse il 19 maggio con una bella compagnia con tre bandiere, una col suo stemma, la seconda con due montoni nella insegna, e la terza con S. Giorgio[139]. Qui formarono campo per ostacolare le scorrerie nemiche e fortificarono il Castello da ogni parte.
Si ricercarono di nuovo i traditori, ma invano e allora furono saccheggiate e danneggiate le loro case. Alloggiò Cane nella Rocca grande fino al 24. Da lì se ne andò perché i nemici si erano inoltrati dalle parti inferiori fino ad Idice, ove avevano piantato il campo. Lo scontro seguì poi nel successivo giugno in cui, attaccata battaglia, fu disperso il Barbiano e cacciato in fuga.
Nel ritornare verso la Romagna, mentre oltrepassava il Borgo uscirono i paesani dal Castello e, al comando del capitano Balduzzi , attaccarono la truppa fuggiasca, affaticata dalla battaglia e dal viaggio. Scoppiato un nuovo scontro di là dal ponte gli tolsero bagagli, cavalli e fecero anche prigioniera una parte della retroguardia che fu condotta al Castello.
Il Conte pensando che gli arrivasse dietro nuova truppa fresca, si precipitò a Imola. Qui ebbe soccorso dagli Alidosi, signori di quella città. Per questo fatto crebbe in reputazione il capitano Balduzzi e i castellani coi borghesani, come raccontano le cronache di quei tempi.
Il Barbiano avuto un buon soccorso dagli imolesi, adirato più che mai, in luglio ritornò con un grosso esercito sotto Castel S. Pietro. Il Balduzzi riconoscendo ora impossibile resistere contro un nemico così potente, abbandonò l’impegno e la patria per non sacrificarla e farla restare vittima del furore di un valentissimo condottiero d’armi che per due volte aveva nel 1403 sofferto danno e poco onore da un piccolo municipio qual era allora Castel S. Pietro.
Il Conte Barbiano si impadronì facilmente di questo luogo abbandonato dai più valorosi paesani e senza il soccorso di Facino Cane. Poi andò colle sue genti ai castelli superiori cioè Liano, Frassineto, Varignana e infine fu accolto a Bologna coll’esercito degli Estensi e della Chiesa che erano avanzati dalla pianura.
Facino Cane, vedendosi in pericolo, fuggì nella Lombardia. Il Legato pontificio Baldassare Cossa napoletano entrò in Bologna con giubilo universale e solennissima pompa. Stabilitosi in città fece fare la pace fra i partitanti e ne richiamò molti, che erano fuggiti, concedendo loro il perdono.
1404 – 1409. Il Barbiano per essere pagato sequestra i rifornimenti di grano e Castello. Baldassarre Cossa, legato a Bologna, cede Piancaldoli a Firenze. Continua lo Scisma. Castellani vanno a litigare a Medicina.
Il Balduzzi, che aveva sostenuto con onore i suoi impegni di capitano fu reintegrato dal Cossa nella sua patria di Castel S. Pietro nel mese di luglio1404.
In questi tempi fu terminata la costruzione dell’Ospitale nel Borgo per i pellegrini che era diretto dalla Compagnia dei Battuti detti di S. Caterina.
Per le frequenti nebbie e i freddi di primavera patirono i frutti e i seminati in modo che ci fu carestia durante l’anno.
Il giorno primo ottobre1404 morì papa Bonifacio IX, successe il 17 il cardinale Cosma de’ Migliorati col nome di Innocenzo VII.
Il nuovo pontefice, temendo che Gian Maria Visconti alimentasse la ribellione di molte, che Bologna si potesse ribellare alla Chiesa e che il Visconti tentasse di nuovo di prenderla, confermò subito nella legazione Baldassarre Cossa, come uomo esperto di cose militari. Questi pensò subito a provvedere di viveri la città e il contado, facendo grande provvista di frumenti e biade in Romagna.
Il 27 febbraio 1405, il Conte Alberico da Barbiano, che si considerava creditore del Legato per i servizi svolti nella guerra passata, fermò Il trasporto di queste granaglie verso il contado bolognese e le prese in gran parte. Sentito questo sequestro il legato spedì Nicola Roberti al Barbiano per sentirne la ragione ed averne il rilascio. La risposta fu che voleva, oltre le granaglie, Faenza e Castel S. Pietro.
Il Legato e la Città decidono di fare guerra nel caso il conte si ostinasse con le sue richieste. Ciò gli fu notificato con un’ambasciata composta da Gaspare Cossa, fratello del legato, Bartolomeo Bolognini, Nicolò Roberti ed Antonio Montecassino. Non ottennero altro che la richiesta del Conte di parlare direttamente col Legato a Castel S. Pietro.
Fu fissato il 5 marzo come il giorno dell’incontro. Il Legato venne a Castello e fu albergato in casa di Annibale Salvietti. Il Conte venne solo il giorno 11 con molta gente armata e si fermò davanti all’ingresso del ponte sul Sillaro a levante ove era la chiesa di S. Giacomo. Il Legato, anche lui con molta gente armata si recò dalla parte opposta a ponente del ponte al confine col Borgo.
Stavano le due parti, una di fronte all’altra, ai capi del ponte come se dovessero battersi. Il Legato e il Conte si mossero al centro del ponte per parlare, stando in guardia l’uno dell’altro per paura di tranelli. Infine ci si accordò sul fatto che il Cardinale pagasse al Conte 12.000 ducati e gli confermasse alcuni possedimenti in Romagna. Mentre trattavano in mezzo al ponte si guastò il tempo e venne una gran tempesta con pioggia e grandine, quindi sciolta la riunione ognuno si allontanò. Tornò il Legato a Castello colle sue truppe ed il Conte ad Imola. Il dì seguente 12 marzo partì il legato per Bologna.
Il Conte però si pentì e disattese l’accordo non rilasciando le granaglie. A lui interessava avere in possesso Castel S. Pietro come chiave del contado e antemurale della città.
A questo punto il Legato fece pace coi fiorentini, coi quali i bolognesi erano in discordia, concedendo loro Piancaldoli e ricevendo molte granaglie per sopperire alle mancanze della città. Ciò fatto il Cossa adunò il Consiglio Generale che decise di fare la guerra al Barbiano offrendosi ogni parlamentare di mantenere a sue spese i soldati fino al termine della guerra per non addossare la spesa alla popolazione.
Oh fortunati tempi in cui i governanti erano liberali e le autorità non angustiavano il suddito!
Piacque al Legato la prontezza del Consiglio perché anch‘esso era sdegnato col Conte. Fu immediatamente dichiarata la guerra.
Ciò saputo, il Marchese Nicolò d’Este[140] di Ferrara e Carlo Malatesta[141] si interposero per la pace. Fu quindi colla loro mediazione ordinato un altro parlamento a Castel S. Pietro.
Il Barbiano mandò a Castel S. Pietro in sua vece il Conte Manfredi[142] di Faenza con Carlo Malatesta. Il Legato, vista l’assenza del Barbiano, rifiutò di trattare. Il giorno seguente, 23 luglio, il Marchese di Ferrara e Uguccione de’ Contrari tanto si adoperarono che alla fine si misero d’accordo. Fatti i Capitoli di Pace tutti andarono a Bologna il giorno seguente 24 luglio. Finché stettero in Castel S. Pietro abitarono il Cardinale in casa Salvetti, Carlo Malatesta e l’Estense in casa degli Serpa.
Gli uomini di Liano, essendo quel castello signoria dei Gozzadini alleati del Barbiano, non volevano accettare il trattato fatto e arrendersi ai bolognesi. Il Legato volendo ridurre all’obbedienza quel castello vi mandò il 10 agosto mille (?) guastatori a capo dei quali erano Guerra Beccaro e Leonardo Piantavigne, ma con poco risultato.
Quindi il Legato decise di presentarsi al castello con messer Carlo Malatesta alleato del Gozzadini, per ammorbidire i lianesi e indurli alla obbedienza a Bologna. Nel giorno seguente 11 agosto vennero a Castel S. Pietro, da dove il giorno 12 partendo andarono con la truppa a Liano scortata da Gregorio Collina capitano di Castel S. Pietro. Si presentarono ai lianesi ma, mentre si trattava, uno di quel castello sparò con una spingarda contro i parlamentari ed ammazzò il cavallo sotto il Malatesta.
Il Cardinale adiratissimo ordinò ai guastatori di distruggere in sua presenza tutto quello che potevano. Il comando fu eseguito facendo grandi danni. Il Legato stette fino alle ore 22 italiane del giorno a vedere il tutto poi ritornò a Castel S. Pietro.
Finalmente il 14 Liano si arrese salva roba e persone, escluso l’autore della spingardata. Questo infelice fu condotto a Castel S. Pietro e immediatamente strozzato ed il suo corpo appeso ai merli della Rocca.
Il Conte Barbiano però, trasportato dal suo bellicoso carattere, cercava sempre pretesti di guerra e così cercava di provocare il Cossa sperando di impadronirsi di Bologna. Il Legato conoscendo le intenzioni del Conte nell’anno seguente 1406 fortificò i castelli più importanti per conto di S. Chiesa.
Al nostro castello fortificato fu invitato Paolo Orsini[143], generale di S. Chiesa, uomo insigne nelle armi, a custodire il nostro come frontiera della Romagna. Pose egli qui il quartiere della sua cavalleria.
Spiacque questa scelta al Barbiano perché gli chiudeva il passaggio per Bologna e cercò di metterlo alla prova. Tese un agguato sopra il Sillaro il 30 maggio per prendergli dei cavalli che erano qui accampati quando fossero venuti ad abbeverarsi. Infatti riuscirono ad impadronirsi di molti cavalli. Accortosi l’Orsini dette l’allarme agli altri cavalieri che erano a Castello. Balzarono fuori prontamente ed assalirono i predatori nemici. Fece pure chiamare all’armi i terrazzani e paesani quindi, fattosi un buon numero di armati, andarono ad affrontare il nemico.
Fra le grida e rumore delle campane scesero dalla vicina collina i villani e arrivarono quelli della pianura a battere il nemico. Tanto si aiutarono gli uni e gli altri coi paesani e le genti dell’Orsini che recuperarono buona parte del bottino, facendo prigionieri le genti del Barbiano e poco mancò che esso stesso restasse nella rete.
Il Conte comunque voleva Castel S. Pietro e ai primi di giugno, avuto aiuto dagli imolesi, ritornò sotto il nostro castello e preso il Borgo, ricominciò ad assediarlo. Il Legato, con la milizia della città e le bandiere con lo stemma della Chiesa spiegate, venne subito a Castello. Il Conte si ritirò e si trasferì oltre il Sillaro presso S. Giacomo. I due eserciti si fronteggiarono ma non si attaccarono temendo ognuno l’altro.
Alla fine l’Orsini uscì dal Castello con una banda dei suoi cavalli per la porta della Rocca grande, dove non poteva essere visto dalle genti del Conte. Si diresse sopra la colina attraversando il Sillaro a monte poi, calando per il quartiere del Castelletto e Lama, si diresse sul fianco del Conte. Questi, accortosi del pericolo, si ritirò verso Imola e nel viaggio incendiò le messi e le case fronteggianti la via corriera. Queste cose accaddero fino al 15 giugno in cui partì il Legato da Castel S. Pietro avendo voluto assistere ai fatti fino alla fine.
Il 6 novembre 1406 finì i suoi giorni papa Innocenzo VII, gli successe Angelo Correr col nome di Gregorio XII. Sopraggiunto l’anno 1407 fu eletto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Giacomo di Ludovico Monterenzi.
Castel S. Pietro non fu esente questo anno da tumulti tanto interni quanto esterni. Al suo interno nacquero delle divergenze fra castellani e borghigiani.
Essendo morto l’anno scorso Bartolomeo Raimondi vescovo di Bologna, il nuovo pontefice Gregorio XII consegnò la dignità vescovile a suo nipote Antonio Correr.
Lo scisma intanto stava creando disordine ovunque creando due partiti. La promessa fatta, con giuramento, sia da Gregorio XII che dall’antipapa Benedetto XIII della comune rinuncia, non avendo avuto seguito, portò grandissimi guasti nella Chiesa[144].
Il Legato Baldassarre Cossa in questa occasione, tradendo la memoria di Gregorio XII, fece levare nelle città e nel contado le sue insegne. Questo fatto ad alcuni piacque ad altri invece no. Quando a Castello alcuni paesani andarono per togliere lo stemma pontificio con le due chiavi dalla residenza pubblica e dalla rocca grande, il paese andò a rumore e vi furono risse perché anche lo stemma di Castel S. Pietro aveva come simbolo le due chiavi. Per evitare disordini il pretore locale con la pubblica rappresentanza scrissero al Legato per avere chiarimenti.
Il Legato risponde che si possono lasciare le insegne perché proprie della comunità. Questa dichiarazione riferita al pubblico del nostro Castello dileguò tutti i dubbi e calmò ogni turbolenza negli animi dei paesani.
Gli uomini di Vedriano, che si erano sottratti al vicariato di Castel S. Pietro perché non volevano partecipare alle spese per la costruzione delle nuove mura, mantenevano un forte ostilità verso i castellani e non perdevano occasioni per manifestarla.
Secondo la tradizione per la festa di S. Andrea, 30 novembre, si faceva nel loro castelletto, ove si erano fabbricato un baluardo rotondo come rocca presso la porta, una fiera di castagne a cui concorrevano i produttori dei dintorni e tutti quelli che avessero voluto comprare. In questa occasione vi andarono anche alcuni di Castel S. Pietro che furono tanto male accolti che, scoppiata una rissa, furono costretti a fuggire. Siccome questi erano individui maneschi gli furono anche chiuse dietro le porte per evitare altri disordini.
Tornati in paese i nostri, molto malcontenti, pensarono come rifarsi. La notte di Natale presero l’occasione per vendicarsi. In un gruppo, con Goro Ginasi, Rizzo Garetti e Verondone Malaguti e altri 12, andarono al castelluccio di Vedriano e, mentre gli abitanti erano alla funzione nella loro chiesa sopra il vicino monte, si impossessarono della porta e se la portarono fino sotto le rovine del distrutto Liano. I vedrianesi, scoperto il fatto, dettero l’allarme con la campana ma fu inutile perché nessuno ardì cercare i malfattori.
L’anno seguente 1408 nel primo semestre coprì la carica di Podestà di Castel S. Pietro Battista di Bon Pietro Dal Lino. Antonio di Giovanni Rondoni fu estratto per il P.S. Massaro.
In questo anno nacque discordia fra le due comunità di Fiagnano e Bello perché gli uomini di Bello pretendevano pascolare sulle campagne di Fiagnano dette i Mercati perché ivi si facevano grandi fiere di bestiami della montagna.
I fiagnanesi per difendersi dagli uomini di Bello, sapendo che in Castel S. Pietro c’erano armigeri valorosi, assoldarono Giovanni Ciarli per sorvegliare i loro pascoli su quelle campagne. Questi, in compagnia di altri tre facinorosi di Castel S. Pietro, tese un agguato ad alcuni bifolchi e pecorai che custodivano i bestiami. Questi prima di arrendersi vennero alle mani e durò a lungo la baruffa senza capire chi stesse vincendo. Quelli di Fiagnano vedendo la mischia dal loro castello uscirono armati in buon numero. Al rumore accorsero quelli di Bello e riuscirono a liberare le bestie catturate dal Ciarli, che nello scontro riuscì a prendere il caporale degli uomini di Bello di nome Gambarino e consegnarlo ai fiagnanesi che, al grido di A morte! A morte! cercarono di portarlo al loro castello. Tentarono di impedirlo alcuni di Bello ma furono percossi e feriti dal Ciarli.
L’affare fu portato davanti al podestà di Casalfiumanese che condannò gli uomini di Fiagnano al risarcimento delle spese per l’offeso Gambarino e ordinò che il Ciarli fosse bandito per tre anni dalla podesteria.
Il Ciarli non poteva però stare ozioso nella sua facinorosità anche perché chi è abituato all’uso delle armi conserva sempre la voglia di usarle. Raccontiamo quindi un’altra impresa di costui.
Gli uomini di Medicina solevano fare nel mese di maggio la festa dell’Ascensione in una chiesa dedicata S. Antonio da Padova fuori del loro castello, presso la riva della fossa, a cui concorrevano le genti circonvicine.
Venne voglia a parecchi castellani di parteciparvi. Ma perché ci si ricordava ancora dell’omicidio commesso nel 1337 nella persona del capitano Cattani, si pensò da parte di alcuni coraggiosi di andare preparati ad un eventuale scontro con i medicinesi. Quindi Giovanni Ciarli e Antonio Bellini radunarono, presso quella che ora è la locanda del Portone, un gruppo di più di 20 persone e muniti tutti di armi offensive. Poi, colle bandiere del paese spiegate, andarono tutti in truppa a quella festa. Lì arrivati vollero intervenire contro il volere dei medicinesi. Ne nacque una grande rissa, prevalsero i castellani che, gridando: A morte! A morte! picchiarono i medicinesi Giacomo Villani e Pietro Ruffi. I medicinesi reagirono, raccogliendo un numeroso gruppo al suono della campana, e ripresero la baruffa nella quale fu gravemente ferito il castellano Domenico Ugolini detto Ugulinuccio. Si accrebbe il furore della lotta al grido: medicinesi alla morte! alla morte! In aiuto ai castellani venne un grosso gruppo di Budriesi così furono superati i medicinesi e i castellani si poterono impadronire della festa.
Venuti in potere della fossa i facinorosi di Castel S. Pietro, vedendovi in essa erette alcuni pali su cui pendevano certi canestri a delle girelle, ascesero con le scale, le tagliarono coi coltelli di cui erano armati e gettarono tutto a terra, dopo di ché rimpatriarono.
Quelli di Budrio, prevedendo guai in arrivo, abbandonarono ogni impegno e presero la via che porta a Budrio. Alcuni medicinesi furiosi gli andarono dietro e ne presero tre che condussero arrestati a Medicina. Furono tenuti là alquanti giorni.
Erano in questo tempo Massari dei tre castelli cioè di Medicina Stefano Ghisilardi, di Budrio Giovanni Tibertini e di Castel S. Pietro Giovanni Rondoni. Questi furono chiamati al Tribunale de Malefici. Fu fatto il processo il 21 giugno e emessa la sentenza dal Podestà di Bologna il 30 dello stesso mese nella quale furono condannati Medicina a 100 fiorini, Castel S. Pietro a 350 fiorini ed il Ciarli a 50 e gli altri pure a 50 fiorini.
Per il secondo semestre fu deputato per Podestà Pietro Manzoli che fu abilitato al ministero con patente del card. Legato mentre prima i Podestà del contado venivano abilitati dall’officio degli Anziani e Consoli di Bologna.
Terminato poi l’anno presente 1408 ed entratosi nel 1409 fu abilitato alla Pretura di Castel S. Pietro Leonardo Ghisilieri per il P.S., il nome e cognome del Massaro si ignora per mancanza delle carte.
I comuni di Vedriano, Sassuno, Monterenzio, Galegata e Frassineto alcuni anni fa si erano sottratte dall’obbedienza e dal vicariato di Castel S. Pietro perché non volevano pagare le spese per le nuove mura di castello e si erano costruite nei loro castelli baluardi come rocche.
La pubblica rappresentanza di Castel S. Pietro ricorse al Legato Baldassarre Cossa perché provvedesse al disordine. Il Legato spedì Stefano Ghislardi e Lorenzo Rossi sul posto. Verificarono il ricorso e il Legato il 4 aprile decretò la riunione delle comunità al capoluogo di Castel S. Pietro e dichiarò inutili le rocche che si erano costruite.
Le cose della chiesa per lo scisma erano giunte ad una situazione così brutta che per calmare il tutto fu deciso un Consiglio Generale a Pisa[145]. Vi intervennero 300 vescovi e molti prelati e cardinali coi due papi cioè Benedetto XIII scismatico e Gregorio XII legittimo Pontefice. La conclusione fu che era illegittimo Benedetto e legittimo l’altro. Entrambi per il bene della chiesa e per evitare nuove turbolenze rinunciarono al papato. Nel luglio seguente fu creato papa il card. Pietro Filargo bolognese col nome di Alessandro V.
Il Senato avuta tale notizia spedì come ambasciatori Gaspare Caldarini Floriano da Castel S. Pietro e Giacomo Marescotti che furono accolti dal Papa con atti di urbanità e gratitudine.
Quest’anno 1409 ci furono sempre venti caldi di scirocco che resero secche le stagioni per cui la terra non si poté purificare e ne venne mortalità negli uomini e scarsità nei raccolti.
1410 – 1413, Baldassarre Cossa eletto Papa col nome di Giovanni XXIII. Pestilenza a Bologna e sede papale a Castello. Viene messo in ordine il mercato. Carlo Malatesta cerca di prendere Castello.
Baldassarre Cossa per meglio consolidarsi in città si adoperò ed ottenne che il papa Alessandro venisse a Bologna. Arrivò il gennaio successivo accolto con grandi onori, che si godette per poco perché il 6 marzo 1410 terminò i suoi giorni non senza sospetto di veleno propinato dal cardinale Legato Cossa. Questi, per i suoi maneggi, il 17 maggio fu assunto al Pontificato col nome di Giovanni XXIII[146].
Intanto si scoprì nella città la pestilenza che però fece ma poco male perché l’aria era ancora fresca. Tuttavia si presero grandi precauzioni.
In questo tempo abbiamo poche notizie su Castello, una mancanza che forse derivò dalla pestilenza durante la quale ognuno stava in guardia di conversare coll’altro e per il disordine in cui si trovava il Governo nel nostro Castello che proseguì per tutto il seguente anno 1411, memorabile comunque per la fabbrica delle nuove mura, che andava ad essere terminata.
Perché il Senato era debitore a Francesco e Cattozio da Siena di 1.900 scudi per le spese avute per il mantenimento delle guarnigioni nelle rocche di Castel S. Pietro e non poteva saldarle, decretò che si dessero come pagamento tante munizioni da bocca e da guerra quanto occorrevano ad esclusione delle due bombarde grosse che stavano nelle rocche. Fu decretato inoltre che nessuno: castellani, paesani e terrazzani di Castel S. Pietro potesse essere gravato per i loro debiti per due mesi in avvenire decorrendo dal giorno 4 luglio in cui fu fatta la restituzione delle rocche.
Dal Senato fu inoltre il 20 luglio 1411 concesso a Castel S. Pietro la esenzione in perpetuo di ogni dazio e gabella, eccetto il Dazio Pane, per il mercato dei giorni di domenica e lunedì.
Non ostante il decreto di reintegrazione delle comunità di Vedriano, Frassineto al Vicariato di Castel S. Pietro, quelle si ostinavano sempre contro il nostro Castello. Per provvedere alla tranquillità comune il Senato decretò che nella nuova nomina degli uffici gli si desse un Vicario residente a Frassineto. Tanto seguì nel 1417 e durò questo ufficio fino al 1580.
Intanto cresceva la pestilenza in città con molti morti e si erano sospesi perfino i mercati giornalieri dei generi alimentari. Perciò i medici consigliarono al papa di abbandonarla. Passò a S. Michele in Bosco luogo di aria più pura. Vi andò con cinque cardinali il giorno 4 agosto.
Crescendo però sempre più la pestilenza a Bologna e temendo per la vita del papa, anche perché se restava difficilmente evitava le visite dei nobili e i contatti di persone che potevano recare pericolo, sentito il parere dei medici, fu deciso di portarsi a Castel S. Pietro come luogo di aere perfettissima.
Il 15 settembre 1410, accompagnato da tutti i cardinali e la sua corte, venne a questo luogo. Fu incontrato per la strada nel Borgo dalla nostra popolazione con alte esclamazioni ed evviva. La pubblica rappresentanza lo ricevette schierata in due ali. Il castellano della Rocca grande gli presentò le chiavi sopra un catino. Passò quindi alla parrocchiale ove il parroco Padre Berto da Varignana gli presentò l’acqua santa, con la quale asperse e benedì il popolo. Andò poi nella canonica ove prese la sua dimora finché rimase qui.
I cardinali che aveva con sé alloggiarono nelle seguenti case:
Nel palazzo della Comunità il cardinale Enrico Minutolo, il card. Giovanni Migliorati arcivescovo di Ravenna, il card. Giovanni d’Ascoli cancelliere pontificio, che poi attaccati dal male furono trasferiti altrove, e il card. Vivariense.
Il card. Dal Poggio, francese, in casa di Lodovico Fabbri, il card. Pietro Frias, spagnolo, in casa di Gerardo Gherardacci, il card, di S. Grisopono nella canonica della parrocchiale, il card. Giordano Orsini in casa del capitano Ugolino Balducci, il card. di S. Marco in casa di Annibale Salvietti, il card. Brancaccio in casa di Lodovico Baldi, il card. Maranavia in casa di Giorgio Samachini, il card. di S. Giorgio in casa di Lorenzo Dalla Serpa, il card. Stefanesco, romano, in casa di Prospero Gasparini, il card. di S. Maria nuova in casa di Sebastiano Morelli, il card. Prenestino in casa di Guido Verondi, il card. d’Aquileia in casa di Valerio Ronaldi, il card Legato di Francia in casa di Bonifacio Ricardi, il card. Saluccio in casa di Pietro Battisti, il card. Legato di Germania in casa di Gallo Battinelli, il card. Carillo, spagnolo, in casa di Gregorio Collina e il card. di S. Adriano in casa di Tomaso Lasi. In tutto 21 cardinali.
Un così luminoso avvenimento fu dipinto sotto la loggia della residenza pubblica e quando fu restaurata nel secolo successivo sotto il governo di Stefano Pepoli, vi fu messa una epigrafe di Giovanni Morelli che così termina Castrum hoc habuit pontificale Decus.
Mentre il papa stava qui con la sua corte, non permettendo il Senato che per la peste arrivasse alcuna cosa dalla città, dalla Romagna arrivava di tutto cioè una grandissima quantità di pane, vino, olio, selvaggina, carne di ogni sorte e viveri vari. In tale occasione ciò che veniva qui introdotto era immune ed esente da ogni dazio, coletta e gabella.
Forse fu in questa epoca che ebbe inizio l’esenzione totale del mercato alla quale si erano ben volentieri adeguati i castellani che domandarono l’anno successivo la continuazione di questo privilegio.
Gaspare Malvezzi, che era stato incaricato di controllare con armati la parte montana sopra Castel S. Pietro dalle scorrerie dei fuorusciti, essendo dalle parti di Fiagnano, fu sorpreso il 20 settembre da un capo dei fuorusciti, Dandino Papazzoni detto Bolognino e, fatto prigioniero, fu portato nel fiorentino. Però tale arroganza fu ben presto punita, Dandino fu preso e condotto a Forlimpopoli e fu qui tanagliato e appiccato.
Il cardinale Giovanni Migliorati arcivescovo di Ravenna, essendosi ammalato, fu trasferito a Bologna ma, aggravatosi il male, morì il 17 ottobre. Si era ammalato pure Giovanni d’Ascoli cancelliere del papa e qui finì i suoi giorni. I funerali furono fatti qui con molto onore poi il suo corpo fu trasportato a Bologna.
Passati alcuni altri giorni il pontefice cominciò a pensare di tornare a Bologna. Intanto ordinò al Senato che provvedesse per assicurare le rocche e castelli del territorio, perciò il 22 si cambiarono i castellani alle rocche e i capitani alle porte della città mettendovi forestieri.
Il giorno 1° novembre, festa di Ogni Santi, il Papa assistette nella arcipretale alla messa pontificale celebrata dal patriarca di Aquileia, lo stesso fece il giorno dei morti. In tutto il tempo che rimase qui il pontefice, la Cattedra papale stette sempre nella arcipretale per cui in seguito questa nostra chiesa fu insignita del titolo di Cattedrale come riportano autori come il Malvasia e il Masini.
Rinfrescata l’aria e attenuata la pestilenza il 4 novembre il papa tornò a Bologna. Partì sulla chinea[147] accompagnato dai cardinali. Lasciò il nostro Castello dando la apostolica benedizione al numeroso popolo dal balcone della pubblica residenza, con somma consolazione e contentezza del paese.
Per conoscere i numerosi affari qui presi e le numerose ambasciate e i personaggi che lo visitarono bisognerebbe consultare le carte che sono in Vaticano.
L’anno seguente 1411 che sarà sempre ricordato dai castellani per la singolare beneficenza nelle esenzioni dei dazi, pedaggi e gabelle ottenute a ristoro delle sofferte guerre passate.
Partito il papa da Bologna alla fine di marzo lasciò come legato il cardinale Enrico Minutolo che però governò per poco tempo. Infatti un certo Cossolino Beccaro[148], uomo vile, fattosi capo della plebe, salito sopra una cavalla, con il suo grembiale messo sopra un’asta come stendardo, corse per strada Maggiore e andò alla piazza inseguito da molta gente e, entrato nel palazzo, lo mise a sacco, cacciò i magistrati e ne fece dei nuovi ma popolari. Poi imprigionò molti nobili con l’accusa di cospirazione contro il nuovo governo e ne fece decapitare molti.
A questo cambiamento vi tennero dietro molti disordini anche nel contado e si formarono tante repubblichette quanti erano i castelli. In questa crisi si ribellarono a Castel S. Pietro le comunità di Liano, Frassineto e la villa di Corneto alle quali vi tennero dietro le altre del vicariato. Però le rocche, sebbene i paesani fossero fra di loro divisi in partiti, si tennero fedeli alla Chiesa, almeno finché li ebbe in custodia il castellano Cattoccio.
Il Papa considerando che il disprezzo dei nobili e delle persone sensate ma sopra tutto la perdita della città erano in dannose per la Chiesa, scrisse a Carlo Malatesta signore di Rimini che intervenisse con l’esercito per abbassare l’arroganza dei ribelli. Non parve vero al Malatesta un tale invito per la sete che aveva di avere la signoria di Bologna. Subito, raccolte genti a piedi ed a cavallo, entrò nel territorio di Bologna, cominciando da Castel S. Pietro a depredare tutto. Impadronitosi del nostro Borgo fece intendere ai castellani delle rocche che stessero ben fedeli alla Chiesa.
Intanto i bolognesi chiesero aiuto ai veneziani, agli Estensi ed ai signori di Milano, ma mentre si assoldavano genti si concluse la pace tra la città e il papa. Furono eletti dodici tra i più affidabili della città e furono a loro consegnate le rocche.
Il 7 luglio fu consegnata la rocca grande di Castello. Ciò fatto essendo gli uomini e la comunità esauriti di danaro ed ormai sprovvisti di beni immobili, venduti per sostenere le spese delle guerre, domandarono sollievo al Senato che, trovandosi anch’esso in cattiva situazione, pensò ad un compenso.
Castel S. Pietro godeva fin dal 1300 di una buona situazione economica per i traffici e i mercati che erano però da tempo impoveriti per i continui rivolgimenti e guerre. La loro rinascita era impedita anche dal peso delle numerose collette, gravezze e pedaggi. Quindi i pubblici rappresentanti ricorsero al Governo di Bologna perché compensasse le loro perdite mediante un mercato ed emporio immune ed esente da ogni dazio e gabella per due giorni della settimana, tanto più che incentivare qui un mercato di generi di ogni sorte si sarebbe anche provveduto al bene del territorio e dello Stato.
Il Governo bolognese accolse la richiesta, anche perché si era fatto intendere la ipotesi di una sottomissione di Castello ai signori di Romagna.
Il 20 luglio fu fatto un decreto, poi confermato in agosto, che prevedeva la facoltà alla comunità di far passare e misurare i capi e i generi portati al mercato ed il ricavo applicarlo alla cassa comunitativa. Questa beneficenza fino che è stata attiva ha sempre prodotto famiglie facoltose e saldi casati ed anche il povero artigiano ed ogni altro individuo poteva vivere onestamente.
Accomodate poi le cose della città il Papa spedì un nuovo legato e fu Lodovico Fieschi genovese che nel 1412 ne assunse l’incarico. Fu Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Gregorio Rossi e per il S.S. fu Luca Zambeccari
A Papa Giovanni XXIII, che mentre era Legato a Bologna era riuscito con arte, forza e ricchezza a procacciarsi la dignità pontificale, sembrava piacesse molto risiedervi. Decise quindi di venirvi di nuovo tanto più che le cose della Chiesa erano in fermento contro di lui, avendo come antipapa di nuovo Gregorio XII e Benedetto XIII. Venne a Bologna anche per imporre qualche freno al Legato nuovo che già tormentava i cittadini con carceri, morti ed esilio.
Intanto, cresceva il nostro mercato di Castel S. Pietro per l’affluenza di robe, bestiami e cibarie che si commerciavano tutte assieme e, non essendovi un luogo a ciò destinato, nascevano confusioni. Quindi gli uomini del comune destinarono la piazza e i luoghi ove fare il mercato, come riscontriamo dalle poche antiche carte rimaste nell’archivio comunitativo dopo le aggressioni e saccheggi sofferti.
Destinarono il campo delle pecore alla destra del Castello, dalla parte opposta verso il Sillaro quello dei maiali e nella via corriera quello dei bovini e cavalli. Quanto poi alle altre merci bisognose di ricovero fu destinata la contrada del Borgo e per i generi commestibili minuti l’interno del Castello.
Intanto il Legato continuava nel seguente 1413 a perseguitare cittadini e abitanti del contado. Crebbero in città risentimenti e discordie tra il partito del governo popolare e quello ecclesiastico con varie vendette e stragi. Il Legato per ciò fece imprigionare molti nobili e persone importanti anche del contado, altri furono decapitati e molti altri confinati in Toscana. Fra questi Giacomo e Tomaso Cattani di Castel S. Pietro, uomini di gran seguito che partirono il 15 agosto. Questo produsse sussurro e malcontento nella città che ormai era in grandissimo disordine.
Carlo Malatesta prendendo la parte dei mal contenti venne improvvisamente a Castel S. Pietro per impadronirsene, ma trovata resistenza dal paesano capitano Gregorio Colina, non potendo avere l’ingresso, lasciato un corpo di fanti a questo Borgo, scorse con i cavalli fino a S. Lazzaro predando tutto ciò che gli capitava. Fatto un buon bottino se ne tornò in Romagna.
1413 -1414, Il papa assolda Braccio da Montone. Malatesta prende Castello. Braccio lo libera e lo tiene per farsi pagare dal Papa.
Prevedendo che non fosse finito, anche perché erano stati decapitati molti partigiani del Malatesta, il Senato ed il Legato il 12 settembre emisero un bando che ognuno si riparasse colle robe nelle fortezze del contado perché si aspettava la guerra. Infatti il Malatesta non tardò a fare nuove scorrerie nel territorio aiutato da fuorusciti bolognesi arrivando fino a S. Lazzaro. Il nostro territorio fu abbastanza risparmiato avendo nelle sue truppe Tomaso Cattani nostro paesano.
Il 12 novembre 1413 il papa arrivò in città accompagnato da molti cardinali. Per recuperare le terre della Chiesa e sopra tutto Bologna il papa aveva assoldato il capitano Braccio da Montone[149] con molti altri valorosi capitani.
In quel tempo la discordia dei chierici aveva ridotto la Sposa di Cristo ad un mostro a tre teste, cioè Gregorio XII, Benedetto XIII e Giovanni XXIII tutti Pontefici. Il Malatesta nei maneggi per conquistare Bologna cercava di favorire Gregorio XII contro Giovanni XXIII. Poi vedendo che il Legato a Bologna continuava a perseguire e mortificare i bolognesi con esili e morti, pensò fosse l’occasione buona per realizzare il suo progetto.
Si alleò col Conte Lodovico Zagonara, fornito di mille cavalli e buon numero di pedoni, con il Duca Nicolò d’Este e colle genti di Michele Attendolo di Cotignola[150] ed immediatamente vennero nel bolognese. Nel giorno 24 novembre, presero Castel S. Pietro colle rocche ponendovi nuovi castellani. Alla rocca grande vi misero un certo Berbolio che serviva da commissario e governatore, uomo rigido, inesorabile nei castighi, di rozze maniere e avaro nelle grazie, così che provocava alla ribellione i paesani di qualunque grado e condizione.
I poveri castellani erano forzati ad obbedire al potente nemico della Chiesa e non vedevano l’ora di sottrarsi dal giogo di un uomo tiranno e rendersi di nuovo alla Chiesa. Stanchi pertanto delle quotidiane crudezze, fecero noto per via secreta a Braccio che se veniva in loro aiuto gli avrebbero data mano a cacciare il nemico dal paese e consegnato il Castello e le Rocche alla Chiesa.
Braccio venne in fretta a Castel S. Pietro e il giorno 5 gennaio 1414 pose il campo sulla spianata della rocca grande a ponente del castello. Visto ciò i paesani cominciarono a gridare Chiesa! Chiesa! Morte ai dazi! morte ai nemici! morte! morte! Furono a capo di questa insurrezione Ostesano e Giovanni Trisani coi loro figli. Il castellano Berbolio, sbigottito da queste voci, in principio intendeva fare resistenza, ma poi sentendo le trombe fuori del castello e temendo per la vita, abbandonò la rocca grande e fuggì nella piccola. Questa era tenuta da malatestiani e dai paesani, questi si rivoltarono e quindi Berbolio si trovò in grandissimo pericolo dal quale scampò fuggendo coi malatestiani in Romagna.
Presa la rocca grande il prode e valoroso Braccio fu accolto con sommo piacere, fra gli evviva, dai paesani e quindi fu clemente con quelli di partito contrario. Le famiglie dei favorevoli furono Rinieri, Cattani, Zopi, Cheli, Rolandi, Salvetti, Battisti, Morelli, Fabbri, Fucci ed altri come ci lasciò notato il Vanti. In una cronaca anonima di Cesena dei fatti di Carlo Malatesta, esistente nell’archivio Giordani e comunicataci dal nostro concittadino Lodovico Mondini si trova questo fatto descritto in versi:
Poscia Bracio tenendo al bolognese
giunse a Castel S. Pier che il Silar bagna
e qui trattato tal v’ebbe, che el prese
senza usar forza e farvole campagna
Reggeva qui Berbolio che ù ciò intese
voltò a quei del Castello le calcagna
perché gridar, invece di diffesa,
morte ai nemici e viva sol la Chiesa
Dopo aver preso Castello Braccio passò alle terre vicine che si erano ribellate alla S. Chiesa, prese Medicina ed i luoghi che vollero fare resistenza ne ebbero la pena del saccheggio e della vita.
Liano e Frassineto non furono esenti da queste disgrazie, alle quali si aggiunse anche il danno dei terremoti che furono terribili in tutta Italia. Nel nostro Castello crollarono le merlature più deboli ed alte, così pure accadde a Varignana.
Ai nostri paesani toccò somministrare a Braccio e alle sue truppe tutta la necessaria sussistenza e i foraggi per i cavalli. In questa contingenza si sottrarrono alla ubbidienza a Castel S. Pietro tutte le comunità subordinate al suo vicariato, seguirono divisioni e delitti.
Il 16 febbraio del corrente anno 1414Papa Giovanni tornò a Bologna e fu ricevuto solennemente con degni onori. Intanto le cose della chiesa andavano di male in peggio stante lo scisma di tre pontefici cioè Benedetto, in Francia, Gregorio e Giovanni in Italia, in modo che il mondo uscì di governo e vacillava nella religione per le eresie che sorgevano.
Sigismondo Imperatore dei Germani[151], preoccupato per i tanti disordini, ordinò che si convocasse un Concilio Generale a Costanza[152] per spegnere totalmente questo scisma che durava da 19 anni. Quindi furono invitate le cinque nazioni cioè francese, spagnola, italiana, germanica ed inglese mediante cinque ambasciatori. Si fecero molte sessioni, alle quali fu sempre presente Sigismondo, nelle quali furono condannate molte eresie specialmente quella di Giovanni Vigles[153] e dei suoi discepoli che fra le altre stoltezze avevano la stessa opinione di Dolcino da Novara[154], che tutte le donne fossero per uso comune. Furono poi tutti bruciati.
Fatti molti decreti per riformare le cose della Chiesa fu ordinato sopra tutto da Sigismondo, che ciascuna nazione dovesse eleggere fra esse sei persone, che fossero uomini letterati e soprattutto timorati di Dio che, insieme coi cardinali dovessero poi eleggere il Papa.
Intanto Braccio insignorito di Castel S. Pietro in nome della Chiesa, cominciò da qui a scorrere nelle terre ribelli della Romagna sottomettendole alla Chiesa. Nel settembre passò nel riminese conquistando tutti quei paesi ribelli e facendovi infiniti danni. Tuttavia non lasciò abbandonato il nostro Castello che lasciò sotto la buona custodia di suo nipote Giovanni Fortebraccio.
Entrato nell’inverno tornò qui agli alloggiamenti colle sue genti ove ebbe il totale mantenimento dalla nostra popolazione. In tale occasione fraternizzò colle famiglie del paese e la pubblica rappresentanza ed ebbe modo di scoprire le ingiustizie e i soprusi sopportati dal paese. Tra questi la sottrazione delle comunità ribellatesi al nostro Vicariato che perciò non contribuivano più colle collette alla manutenzione delle fortificazioni del paese. Assunse egli l’impegno della reintegrazione e fu di parola. In occasione del patteggiamento per la restituzione di Castello vi incluse il patto della riunione e sottomissione di quelle come previsto dagli Statuti.
Ma perché non conveniva a Braccio come generale di ventura stare qui ozioso senza avere gli stipendi decorsi, fece istanza al Papa, che si trovava a Bologna, per essere pagato, altrimenti si teneva Castel S. Pietro e la rocca di Medicina. Il papa a cui premeva molto recuperare Castel S. Pietro, come luogo importantissimo e migliore fortezza del contado, ordinò di pagare. La cifra fu stabilita in 85.000 fiorini, il pagamento dei quali fu dilazionato nel seguente 1415. Nel frattempo restava nelle sue mani in pegno ed ostaggio Castello colla popolazione e la rocca di Medicina. Perché le condizioni avessero sicuro effetto, Braccio le volle assicurate da un chirografo papale.
Tutto il tempo che Braccio tenne in pieno potere il nostro Castello con facoltà di mero e misto imperio[155], fino alla pena di morte, furono gli oppidani costretti mantenere le sue truppe a proprie spese e non fu lecito nemmeno ad alcuno emigrare dal paese per evitare il rigore di un capitano e generale tracotante il quale era infetto anche da sentimenti eretici onde finì poi miseramente.
1415 – 1421. Concilio di Costanza depone Giovanni XXIII. Braccio restituisce Castello. Lotta tra Canetoli e Bentivogli.
Il Concilio di Costanza ordinò a Giovanni XXIII di presentarsi al conclave, in quello fu dichiarata la sua deposizione dal papato il 29 maggio 1415.
Questa circostanza parve opportuna agli avversari del governo per sollevarsi contro la Chiesa.
Matteo Canetoli ed Antonio Bentivoglio[156], famiglie potentissime, approfittandosi dell’assenza del papa e delle truppe di Braccio, che svernavano a Castel S. Pietro, il 5 gennaio 1416 misero a rumore la città. Bisetto Cossa, nipote di Giovanni XXIII, che era castellano alla porta di Galliera si impadronì della cittadella. Pure Giovannello Cossa, castellano a Cento, si impadronì di quella rocca.
Lo Zambeccari e il Podestà di Bologna, sdegnati per non essere stati associati, istigarono Braccio contro la città per rimettere la Chiesa al potere.
Braccio si recò rapidamente a Bologna, convinse Bisetto a farlo entrare nella fortezza, subito se ne impossessò in nome del legittimo pontefice. Spedì poi Bisetto a Castel S. Pietro sotto buona scorta. Stessa sorte per Giovanello Cossa dopo che Braccio si era impadronito della rocca di Cento.
Intanto Zambeccari e il Podestà, raccolta molta gente armata, andarono alla città e entrati alquanti per la porta di strada Maggiore, furono presi e cacciati. Braccio che era in Castel S. Pietro, temendo guai maggiori, il 10 gennaio andò con genti alla porta del Mercato che era poco difesa ed entrò. Vedendo arrivare i bolognesi per combattere, fece chiamare a sé il Bentivoglio ed il Canetoli per parlamentare sulla restituzione di Castel S. Pietro e Medicina.
Non si poté subito concludere tutto e il giorno 12, ai crociali fuori di strada Maggiore, si fece l’accordo. La sostanza del quale fu che: Fra tre mesi Bologna pagasse trentamila fiorini a Braccio o siano scudi 8200 e che egli in corrispetto restituisse tutte le altre castella da esso occupate o datele in pegno da Papa Giovanni ed oltre ciò fosse reintegrato Castel S. Pietro delle sue comunità cioè Villa di S. Biagio di Poggio, Comune di Casalecchio dei Conti, Corneta con sue ville, Sassuno, Calegata, Vidriano, Monterenzolo, la corte di S. Polo colle sue giurisdizioni (…) e questo Capitolo abbia loco e vigore dal tempo che Castel S. Pietro sarà libero sotto l’obedienza di Bologna.
Furono anche in questo tempo modificati gli Statuti di Bologna.
Il 13 febbraio, avendo rinunciato Don Francesco da Mantova a questa arcipretale, fu presentato dai parrocchiani di Castel S. Pietro Don Giovanni Mattioli al Capitolo di Bologna e il 14 marzo gli fu conferita la chiesa. Non si capisce come questo Don Francesco da Mantova avesse questa cura poiché nulla si ritrova di positivo dopo la nomina di Don Berto di Varignana fatta legittimamente.
Don Giovanni Mattioli dopo ottenuta la chiesa ebbe davanti agli occhi la inimicizia fra paesani nata a motivo di ostilità di partito, ne procurò quindi la conciliazione. Abbiamo nelle carte antiche una pace fatta in sua presenza fra le famiglie di certo Bontempi e Bondone di Alboro con Cenzio de Vitali e suoi congiunti.
Cessati i disordini nella città, fu eletto una nuova Magistratura di Governo composta di sedici cittadini chiamati riformatori, la maggior parte nobili, capo dei quali fu Guido Pepoli e gli altri furono Lambertino Canetoli, Romeo Foscarari, Bartolomeo Manzoli, Giacomo Saliceti, Floriano di Castel S. Pietro, famoso dottore in ambo le leggi, Antonio Guidotti, Matteo Griffoni, Facio Pasi, Lorenzo Cospi, Battista Poeti, Giovanni Malvezzi, Brainguerra Caccianemici, Floriano Cambi e Matteo Marescalchi merciaio.
In applicazione delle Capitolazioni fatte fra Braccio ed il Comune di Bologna, furono nel seguente aprile 1416 riunite e sottomesse al Vicariato di Castel S. Pietro le comunità ribelli. Oltre tale reintegrazione furono anche confermate tutte le altre immunità ed esenzioni dei dazi, gabelle, pedaggi e collette ai partecipanti al mercato settimanale, la remissione dei delitti anche per lesa maestà incorsi per le divisioni passate e infine una generale assoluzione dei reati passati e pure dei debiti contratti con la Camera. Fu anche concesso che in tempo di mercato non si potessero arrestare gli intervenienti per debiti. Altre prerogative furono accordate e concesse al nostro Castello per gli incomodi, spese e danni sofferti per la occupazione del generale Fortebraccio.
Per l’anno successivo 1417 furono eletti Podestà di Castel S. Pietro Aldreando Lucchini per il primo semestre e per il secondo Baldo Combigi, suo notaio Andrea Galassi.
Nella rivoluzione ultima della città essendosi intromessi Pietro ed Andrea Garganelli di Bologna furono confinati sotto buona guardia nel nostro Castello ove stettero fino alla elezione del nuovo Pontefice.
Il giorno 24 aprile da Giovanni Fortebraccio da Montone, che lo teneva per conto di suo zio Braccio, fu consegnato Castel S. Pietro ai sedici Riformatori, nuovo Senato. All’atto della consegna, che si fece a Romeo Foscherari e Lambertino Canetoli furono pagati 145 scudi d’oro al detto Giovanni per la consegna delle chiavi delle rocche di S. Prospero e di Medicina e più altri 20 scudi per la consegna delle chiavi di Castello a titolo di buonuscita.
Il Concilio di Costanza venne finalmente l’11 novembre 1417, giorno di S. Martino, alla elezione del nuovo pontefice, fu Ottone Colonna che assunse il nome di Martino V.
Tale elezione creò molto giubilo e subito Sigismondo Imperatore entrò nel Conclave e con le lacrime agli occhi ringraziò tutti di aver fatto una scelta così degna e, umilmente prostrato con grandissima reverenza, gli baciò i piedi.
Il deposto Giovanni XXIII, che aveva cercato la fuga, fu arrestato e consegnato a Lodovico Duca di Baviera che lo chiuse nel castello di Gotlebe ove stette, accusato di molte mancanze, 4 anni prigioniero.
Il nuovo Governo di Bologna, saputa la nuova elezione pontificia, spedì tre ambasciatori al nuovo Papa scelti tra i componenti l’assemblea dei 600 e furono Floriano da Castel S. Pietro, Bartolomeo Manzoli e Matteo Canetoli.
L’anno seguente 1418 fu Podestà per il P.S. Alamanno Bianchetti e per il S. S. Ubaldo Usberti.
Martino V per far riconoscere la propria sovranità sui beni della Chiesa mandò soldati ad occupare i luoghi più importanti. Perciò tornò Braccio in febbraio ad accamparsi a Castel S. Pietro per farsi signore a nome della Chiesa. I nostri terrazzani, gli aprirono le porte del Castello concedendogli senza resistenza la entrata. In questo modo si ovviò ad infiniti disordini.
Venuto poi il Papa a Mantova scrisse ai reggitori della città di Bologna che voleva venire in persona a farsi riconoscere il dominio sulla città mandando avanti un nunzio apostolico. Accettarono i bolognesi la cosa e fu tutto tranquillamente composto mediante il pagamento di un annuo canone di settemila fiorini.
Stabilita la concordia furono nel seguente marzo richiamate le truppe ed alla metà del mese se ne andarono da Castel S. Pietro. A seguito dell’accordo furono stabiliti i Magistrati e i Riformatori, che da 16, furono ridotti a 10.
Fu decretato Legato apostolico a Bologna Gabriele Condulmer veneziano, che la assolse dall’interdetto in cui era incorsa per la ribellione passata. Lo stesso Legato conferì ai parroci del contado il potere di assolvere da ogni sorte di scomunica anche le loro popolazioni. Ciò fatto se ne ritornò nella sua provincia della Marca di dove se ne era partito come Generale delle armi pontificie e aveva devastato il territorio bolognese per sottometterlo alla Chiesa.
Il nostro arciprete aspettò la imminente solennità di Pasqua per fare l’assoluzione al suo popolo. Salito sopra il palco preparato nella pubblica piazza, dopo avere esortato il popolo a ricevere con riverenza la assoluzione, lo benedì rivolgendosi alle quattro parti dell’abitato cioè levante, meridione, settentrione e ponente. Ciò avvenuto si dette segno di allegrezza collo sparo delle due grosse bombarde della rocca
Dal vicino Fiagnano erano discesi Ghinolfo Castagnolo e Millo da Pozodonego con altri villani di quella zona per partecipare alla solenne funzione. Avevano con sé fanciulli e fanciulle che, all’improvviso sparo delle bombarde, si spaventarono e si dettero a gran urli e pianti. Fu creduto essere successa qualche disgrazia. Perciò, accorrendo il popolo allo strepito delle grida, molti, inciampandosi fra di loro ed urtandosi, vennero alle mani. Non si distingueva nella mischia la ragione dell’uno e dell’altro. Crebbe la confusione al punto che Lisandro Ruzo con Zogolo Zogoli e Testa Naldi di Castel S. Pietro presero le parti di chi condannava la imprudenza avuta da Ghinolfo e Millo. Si dette mano ai coltelli e alla fine fu colpito mortalmente Ghinolfo e Millo restò maltrattato a terra a furia di percosse.
Gli altri villani, commiserando i due feriti, condannarono la condotta di Zogolo e di Lisandro. Cominciò un altro scompiglio poiché si erano fatti due partiti uno di villani e l’altro di castellani. Crebbe tanto la rissa e i villani furono sopraffatti. Se non fosse intervenuto il capitano Collina, qualcuno vi avrebbe perso la vita. Gadone de Jano e Lovantino da Bello, inseguiti da paesani con armi, vedendosi in pericolo, corsero alle mura del Castello dalla parte di levante e, saliti sul terraglio si lanciarono fuori del Castello, poterono tornare alle loro case. Questo fatto riferisce il Vanti di averlo estratto dai Libri de Malefici locali di Castel S. Pietro.
Venuto a Ferrara Martino V, diretto a Firenze l’anno 1419, gli uomini di Castel S. Pietro trovandosi impoveriti per il mantenimento della truppa e i danni sofferti nel tempo che Braccio qui era a nome della Chiesa, ricorsero al Pontefice affinché colla sua clemenza volesse portare ristoro.
Si interessò il cardinale Orsini che non solo era concittadino del papa ma aveva, quando era qui con Giovanni XXIII, contratto familiarità coi Balduzzi e Salvietti di cui frequentava le case.
Egli patrocinò la supplica al S. Padre in modo che quanto si chiedeva fu graziosamente concesso e fu che il Papa, con un breve segnato 17 febbraio1419, concesse alla popolazione di Castel S. Pietro che il sale si dovesse pagare solo quattro danari la libbra. Su questo esempio ricorsero altre comunità del Contado al benefico Pontefice ed ebbero molte grazie.
Trovandosi per le contingenze passate molti ponti nel contado danneggiati e in pericolo, fu ordinato che si riattassero. Il ponte sopra il Sillaro e quello della Claterna furono accomodati, ma il ponte che era sopra il condotto della Masone, da noi detto Rio della Masone, fu demolito del tutto credendolo di poca necessità e per i pedoni si lasciò solo una pedana di legno poggiata sopra i grossi macigni, frammenti del demolito ponte. Questo ponte fu poi nel 1750 per ordine del Senato di nuovo costruito, tralasciando gli antichi fondamenti, che sono ancora in vista.
1420 – 1421. Anton Galeazzo Bentivoglio si impadronisce del Palazzo e caccia i Canetoli. Il papa scomunica Bologna e assolda Braccio da Montone e Angelo della Pergola che occupano Castello. Bologna si arrende alla chiesa. Il Della Pergola si impadronisce di Castello per farsi pagare dal papa.
Il nuovo Governo pontificio per mantenere la pace e tenere in ordine i castelli, distribuì il Governo delle rocche a forestieri, escludendo i governatori del posto che per lo più erano seguaci ora di un partito ora dell’altro. Il 5 dicembre fu per ordine papale eletto castellano della rocca di Castel S. Pietro Marco Cappella di Subiaco.
Durò poco la pace che le fazioni civiche scompigliarono non solo la città ma anche il contado. Infatti l’anno successivo Antonio Bentivoglio, figlio di Giovanni, ridusse l’una e l’altro in un miserabile spettacolo di stragi e miserie. Il Bentivoglio, mal soffrendo la soggezione alla Chiesa e per colpire i Canetoli ben favorevoli al partito ecclesiastico, il 26 gennaio 1420 alle ore 8 della notte corse alla piazza e al Palazzo e se ne impadronì.
Matteo Canetoli gran cittadino, ciò dispiacendogli perché ne prevedeva esiti funesti, raccolse un grosso gruppo di armati e portatosi alla porta di strada Maggiore, gridando Viva il popolo e l’Arti! si unì con i Ghisilieri, gli Usberti, i Caldarini e altri e la mattina alle ore 15 andarono alla piazza con animo di battagliare. Si infrapposero Antonio Guidotti e Bartolomeo Manzoli e fecero sì che Antonio Bentivoglio uscisse dal Palazzo. Uscì ma malcontento e andandosi a casa con i suoi partigiani cominciò a beffeggiare e insultare i canetoleschi. Mal soffrendo anche questi, abbandonando la prudenza, misero mani all’armi e si cominciò una furiosa baruffa nella quale, dopo molto spargimento di sangue, il Bentivoglio restò superiore, occupò la piazza e nuovamente si impadronì del Palazzo e cacciò dalla città i Canetoli.
Avuta tale novità il Papa scomunicò Bologna. Anche i fuorusciti condannarono il Bentivoglio e incitarono il Papa a muovere le armi contro Bologna. Martino V mandò suoi nunzi a Bologna facendo sapere ai rivoltosi che si dovevano sottomettere alla Chiesa e che dava tempo fino a Pasqua, altrimenti avrebbe dichiarato interdetta la città e il contado.
Riunitosi il Consiglio ed in esso invitati i nunzi a sentire il sentimento comune, insorse tra gli altri Gozzadino Gozzadini, partigiano bentivolesco, ed a nome di tutti respinse la resa e concluse che se il Papa non voleva stare ai patti convenuti e si serviva dell’armi e della forza, i bolognesi avrebbero provato a difendersi perché difendevano quella libertà che a loro fu sempre connaturata. I nunzi malcontenti riferirono tutto al Papa che, prendendola a male, ordinò che fosse loro intimata la scomunica ed interdetta la città col contado. Intanto il Bentivoglio si preparò a fare buona difesa alle fortezze.
A Castel S. Pietro aggiunse bombarde alla Rocca, barricò le vie circondarie al Castello con rivellini ed alzate di terra, variò ancora alcune strade conducenti al Castello e alla Rocca poi invitò per generale dell’armi Cabrino Fondulo[157] signore di Cremona a guardare la città. Gli imolesi che già si vedevano vicino un paese nemico si fortificarono anch’essi e munirono la loro rocca del necessario.
Spirato il termine prefisso né essendosi sottomessa Bologna, fu interdetta il 9 aprile ed alla fine del mese furono affisse al nostro Borgo di notte tempo gli avvisi dell’Interdetto. Una tale novità pose in scompiglio tutta la popolazione ed ne nacque una tale disputa e rissa che alcuni paesani furono cacciati, demolite le loro case ed incendiate. Furono queste le case dei Pepolini, dei Laxi e degli Zani ai quali convenne cedere al furore della famiglia Zoppi e ritirarsi nell’imolese.
Sentendo queste novità il Papa sollecitò la spedizione delle sue truppe condotte da Braccio Fortebraccio, da Lodovico da Fermo e Angiolo della Pergola.[158]
Il castellano della nostra Rocca grande Marco Capella, nulla temendo, si tenne sempre saldo per la Chiesa, non dando accesso ad alcuno, tenendo sempre alzato il ponte levatoio e le altre comunicazioni entro il Castello. Ma, perché conosceva la forza dei bentivoleschi, fingeva e per far credere la sua finzione, spiegò nella torricella interna del Castello la bandiera bentivolesca.
Arrivato finalmente Braccio nel nostro territorio cominciò a incendiare le messi raccolte, danneggiare edifici e demolire le torri che erano sparse nelle case rustiche. Poi imprigionando uomini e donne, bestiami e tutto ciò che capitava, saccheggiando si avvicinò al Castello. La difesa dei militari bolognesi non gli permise di averlo subito. Lo pose allora in assedio lasciandovi Angiolo della Pergola e Lodovico da Fermo, salì poi a Liano, possedimento dei Gozzadini, che essendo poco provvisto si arrese prontamente a Braccio.
Ritornando Braccio al nostro Castello, ove erano venuti tutti i villani del suo territorio, mandò un araldo ai castellani per la resa o per l’assalto. I terrazzani si arresero alla condizione che fosse salva roba e persone tanto più che la rocca era in mano di Marco Capella, fedele alla Chiesa.
Stabiliti i termini dell’accordo, a rogito di Ghino Zopi, alla metà di giugno passò Braccio con il della Pergola a Castello e gli fu subito aperta la Rocca. Quindi Bracciò avanzò verso Bologna, che, perso Castel S. Pietro e vedendosi a mal partito, trattò la resa.
Il Papa che si trovava a Firenze sentendo la resa di Bologna esultò. Perché i capitoli della resa dovevano essere confermati dal papa i bolognesi spedirono come messi a Firenze Floriano da Castel S. Pietro, Ricciardo Pepoli, Matteo Marescalchi ed altri con la rinuncia al potere sulla città. Il papa vi mandò a governarla il cardinale Alfonso Cariglio di Castiglia.
Angiolo della Pergola intanto continuava a tenere Castel S. Pietro da dove fece sapere al Papa che desiderava gli fossero pagati i suoi stipendi militari, che gli aveva tante volte richiesti. Ma il Papa tergiversava, quindi il Pergolano nel seguente 1421, proseguendo a stare in guarnigione al nostro Castello, se ne impadronì nel mese di maggio poi, convocata una assemblea generale di tutti i castellani, si fece giurare fedeltà e obbedienza come signore legittimo.
Era massaro della comunità Bedoro Verondi, che fece difficoltà a convocare il popolo. Angiolo subito lo imprigionò in fondo alla rocca ove stette ben guardato perché temeva qualche rivolta dai suoi congiunti ed amici.
Ciò fatto si fortificò con palancati intorno alle porte della rocca e del castello. Si rifornì di tutto il necessario e di giorno e di notte faceva camminare le ronde sia dentro che fuori al Castello. In Borgo, per scoprire il nemico da lontano, fece alzare i terrapieni a levante. Poi cominciò a fare scorrerie, come narrano le cronache, ogni giorno nelle vicine contrade fino alla Quaderna ponendo a sacco i castelli vicini e a fuoco i fienili e i casolari.
Il Legato cercava di recuperare il Castello mediante qualche accordo, finse di curarsi poco di queste ruberie per indurre il Pergolano a uscire dal Castello. Fece simulare una rivolta agli uomini di Poggio, ma il Pergolano, riconoscendo in questa una finzione, stette con gli occhi ancora più aperti.
Il Legato allora mandò un’ambasciata per dire che se avesse avuta qualche pretesa, non era opportuno ad un buon capitano nasconderla e invece occupare le fortezze, costringere i popoli ad una servile sottomissione e distruggere senza alcun diritto.
Il Pergolano rispose che teneva in mano Castel S. Pietro solo per avere il suo stipendio così come avevano fatto altri capitani, non appena fosse stato soddisfatto se ne sarebbe andato. Intanto per far cosa gradita al Legato pose in libertà Bedoro Verondi dalla rocca non però dal castello.
Martino V, riconoscendo ragionevoli la richiesta del della Pergola ordinò al Legato di trattare un accordo. In seguito il legato mandò a Castel S. Pietro Nicola Aldrovandi. Questi si adoperò in modo che furono concordate le seguenti norme.
Il Legato ed il vescovo di Montefiascone, gli anziani, Astolfino e la comunità di Bologna promettevano che si sarebbero osservato il contratto fatto il 4 luglio col capitano Angiolo Dalla Pergola e questi liberamente restituiva la Rocca e Castel S. Pietro nonostante che non siano stati fatti i pagamenti convenuti nel med. contratto. Il vescovo di Montefiascone, Astolfino, Anziani e Sindaco della città di Bologna non debbano actamente né indirettamente offendere alcuno della famiglia del capitano. Questo per il termine di un mese cominciando dal giorno che il Pergolano restituirà la Rocca grande di Castel S. Pietro nelle mani di chi avrà il mandato pontificio.
I bolognesi in seguito consegnarono al Pergolano per ostaggi Malatesta Foscarari, Melchiorre Sassi, Bartolomeo Dallafava e Domenico Bochio che furono condotti in Castel S. Pietro.
Il Ghirardacci che riporta questa trattativa omette due interessanti notizie in questo affare. La prima è che il Papa Martino V avrebbe dato l’incarico solo al vescovo di Montefiascone, l’altra che Angiolo Dalla Pergola non solo non voleva restituire Castel S. Pietro ma che aveva anche imprigionato gli stessi messi. Perciò Martino V chiese per lettera a Nicolò d’Este Marchese di Ferrara di muovere l’armi contro il Pergolano.
Altri scrittori aggiungono che nel seguente settembre nel giorno 2 sborsati novemilla scudi fu restituito Castel S. Pietro e gli ostaggi.
1422 – 1427. Il Cardinale Albornoz a Castello per la pestilenza a Bologna. Costruzione nuovo Cassero e chiusura antica porta. La triste storia di Brainguerra e Fulgeria. Filippo Maria Visconti cede Imola alla Chiesa.
Stancato di reggere questa chiesa per le tante traversie e mutazioni di Governo l’arciprete D. Giovanni Mattioli fece alla fine di settembre la sua rinuncia.
La comunità compadrona del beneficio parrocchiale procedette subito alla scelta di un nuovo pastore, nominò Don Nicola Gatti al Capitolo, fu accettata la nomina ed il giorno 16 ottobre prese il possesso.
Il convento di S. Bartolomeo di questi nostri agostiniani, avendo sofferto danni dai militari del Pergolano, fu riparato ed abilitato a un maggior numero di frati. In tale occasione, avendo sofferto molto maggiori danni l’antico Monastero di S. Giovanni Battista della Castellina nel Medesano, per modo che si era resa inabitabile, nel seguente anno 1422 furono di là trasferiti quei pochi religiosi al convento di Castel S. Pietro, che fu inoltre posto ed incluso come membro della provincia di Romagna. Dove era quell’antico convento della Castellina ora non c’è che un mucchio di pietrisco coperto d’erba.
Cominciò in questo tempo a farsi sentire a Bologna la pestilenza per cui molti morirono. Perciò il Legato, lo spagnolo Alfonso Carrillo de Albornoz, temendo di essere infettato pensò di evitarla lasciando la città e il 2 agosto venne a Castel S. Pietro con tutta la sua corte ed alloggiò in casa dei Morelli. Il giorno 9 venne visitato dal vescovo Nicolò Albergati. Pernottò egli nella canonica presso il nuovo arciprete. Ma, essendo il Legato volubile di carattere ed ambizioso di magnifici e comodi alloggi, come lo sono quasi sempre gli spagnoli, aveva pensato di tornarsene a Bologna coll’Albergati. Questi lo dissuase e rimase a Castel S. Pietro tanto più che giornalmente crescevano i morti. Ciò fu uno dei motivi per cui il Legato si stabilì a Castel S. Pietro con tutta la famiglia. Poi, passò dalla casa Morelli alla Rocca maggiore, vi stette fino al 15 agosto poiché anche nel Castello si era cominciato a far sentire la malattia. Infatti morirono parecchie persone nel seguente settembre, ottobre e novembre.
Il Vanti lasciò scritto che il maggior numero di decessi si ebbe nelle donne di mezza età. L’uso dell’acqua della Fegatella, usato in agosto in bibite calde, contribuì molto alla salute dei maschi ed il vino medicato ai teneri fanciulli.
Alla fine dell’anno si ammalò gravemente l’arciprete Don Nicolò Gatti che finì la vita nel gennaio del 1423. Resa vacante questa chiesa il 5 febbraio dalla comunità fu presentato al Capitolo Don Gherardo Gherardi di Castel S. Pietro ed ottenne la chiesa. Non andò molto che il Gherardi si fece sostituire dal cappellano Don Nicolò Damiani.
Ritornato il Legato colla famiglia a Castel S. Pietro, stette qui per altri sei mesi governando felicemente il contado e la città di Bologna. Sembrando poi calmata la pestilenza alla fine di maggio tornò alla città ma la calma fu apparente poiché, entrato il mese di giugno e crescendo il caldo, prese maggior vigore. Il Legato per salvarsi andò per consiglio dei medici a S. Michele in Bosco ove vedendosi poco sicuro per le genti che lo visitavano e molto più perché qui si era contagiato suo nipote e aveva perso la vita.
Ritornò il giorno primo di agosto a Castel S. Pietro, luogo sicuro dalla peste per la bontà dell’aria naturale e molto più per l’uso dell’acqua della Fegatella ottima a regolare gli umori e per altre virtù in sé contenute. Comunque stesse qui tranquillo e in buona salute scrisse al Papa che desiderava dimettersi dall’incarico di Legato. Accettò Martino V la supplica e lo sostituì nella legazione con il card. Gabriele Condulmer veneziano, venne questi da Ancona e 16 agosto arrivato a Castel S. Pietro ed accettata la legazione, andò a Bologna.
Bologna e il suo territorio, travagliato dalla pestilenza, non trovava altro conforto che il ricorso a Dio. Era guardiano del convento dei Minori Osservanti di Bologna detto della Annunziata Frate Bernardino Albiceschi da Siena, uomo di grande devozione al Santissimo nome di Gesù, alle cui orazioni, nelle quali esortava il popolo a chiedere misericordia a Dio in tanto flagello, andava moltissima gente.
Egli che sapeva essere la città depravata per il gioco dei dadi e delle carte, origine di infinite risse, bestemmie, ubriachezza e altri vizi si adoprò tanto colle sue orazioni che in brevissimo tempo si videro folle di cittadini correre ad incendiare nelle piazze ammassi di carte e portare nelle cloache e pozzi ammassi di dadi, sopra tutto nel pozzo pubblico presso la torre Asinelli.
Grande fu inoltre la singolare devozione al Nome di Gesù ed egli fu l’autore della nascita di tante Compagnie nel contado sotto questa denominazione. Si vuole che nel nostro Castello si erigesse in tale occasione la Compagnia del Bongesù all’altare di S. Biagio della famiglia Toni. Non siamo sicuri di questa notizia tramandata per tradizione. È pur vero che una Compagnia sotto il titolo di Bongesù è citata dal Vanti come esistente in questa arcipretale ma non si ha certezza della sua fondazione in questo tempo, poiché si suppone sia stata prima fondata dal Beato Giovanni Schiò, come si scrisse, nel 1233.
A proposito di questa Compagnia troviamo nelle carte antiche che al suddetto Frate Bernardino era attribuita anche la erezione della Compagnia del SS. Rosario. Di questa Compagnia abbiamo testimonianza in un decreto del 1483 di un Fra Bartolomeo da Vigevano dell’ordine dei Predicatori in cui asserisce che, per ordine ed autorità del R.mo Francesco da Castel S. Pietro, fu promossa la Compagnia del Rosario a questo altare dedicato anche a S. Biagio al quale erano eretti anche benefici laicali. Sembrerebbe però di potere retrodatare l’origine a 60 anni prima.
Entrato il nuovo Legato a Bologna fece subito purgare le case e luoghi ove vi erano stati i contagi, fece purgare tutte le strade, sopra tutto dai letami sotto rigorose pene, il che giovò molto alla fine della peste secondo il consiglio dei più accreditati medici della città, fra quali era in questo tempo Cristoforo Cattani di Castel S. Pietro.
Giunto l’anno 1424 Il cardinale Legato prese Castel S. Pietro e Castel Bolognese a nome della Chiesa ed alla metà di gennaio giunse Filippo Janecito Papazzoni detto Janetto nominato come castellano della Rocca.
Gli uomini di Castel S. Pietro avendo sofferti molti danni nella permanenza del Pergolano e dei suoi militari, bramosi di essere sollevati ricorsero al Senato che esausto di danari non potendo supplire alle giuste richieste dei castellani, ricambiò con la conferma delle immunità che godevano nella franchigia del mercato, mediante decreto nel mese di aprile.
Il paese però aveva anche bisogno di nuove fortificazioni e perciò anche a queste fu provveduto. La porta maggiore del nostro Castello, esistente sotto la torre, aveva al fianco sinistro una piccola rocca quadrata larga 24 piedi e lunga 30 piedi. Con questa si difendeva l’accesso alla porta, quando però avvenivano assalti con numerosi soldati essi riuscivano facilmente a guadagnare l’ingresso. Venuti gli ingegneri si decise di cambiare la ubicazione della rocchetta e la edificarono davanti alla torre chiudendo la porta sotto di essa. Aprirono poi una nuova porta in mezzo la facciata della rocchetta a sinistra di quella vecchia. La fornirono di ponte levatoio colla bilancia e le leve, l’incastro delle quali si vede ancor oggi giorno nella parete esterna che guarda il mercato dei bovini e dentro vi fecero una forte porta di grossi muri con la intercapedine per la saracinesca. Furono alzate le mura tutte intorno con i loro merli, che oggi giorno si vedono, ed in questo modo restò fortificata la torre ed il Castello nell’ingresso maggiore[159].
Un simile lavoro fu anche fatto davanti alla Rocca grande, che esisteva in mezzo la piazza del Castello, oggi coperta dalle case Morelli. Al momento non si vede altro che un tronco di torre, il cassero di pietra nella fossa esterna è coperto dal terreno. Dentro il tronco di torre che si estende sopra un rotondo baluardo in rovina[160], che fu edificato contro la prima porta che introduceva alla Rocca grande, vi è un piccolo locale per un inquilino. In questo stesso piccolo edificio si trova l’intercapedine per la saracinesca e pure il locale a fianco del ponte levatoio che era anch’esso fornito di bilancia e leve, le cui imposte si vedono pure esternamente nel tronco della torre.
Furono contemporaneamente rimesse a posto le mura e i baluardi alla cui spesa concorse anche la comunità e gli uomini di Castel S. Pietro.
Il novello arciprete, premuroso di convocare le sue pecorelle al pascolo spirituale, instette presso gli uomini del Comune perché ingrandissero la campana dell’arengo affinché col suo suono i lavoratori della campagna si sarebbero più facilmente adunati in Castello. Condiscese la Comunità ed alla spesa vi concorse Lisandro di Corno d’Alborro che poi fu detto della Campana e col tempo prese il cognome di Campana, dalla cui famiglia sono usciti uomini facinorosi e capitani. Il fonditore fu Bonacorso da Bologna uomo famoso nelle fusioni.
Bachello Tirtisino di Varignana, uomo facoltoso, fu assalito nei pressi della sua residenza e fu condotto entro una cava di macigni e qui spogliato di tutto, picchiato, denudato, legato strettamente con funi e lasciato come morto dai manigoldi. Fu ritrovato accidentalmente da dei ragazzi che. spaventati da un simile aspetto, avvisarono il Sindaco di quella Comunità. Alla fine fu liberato e riportato a casa.
Vedendosi egli per tanto in pericolo della vita emigrò da quel paese e si stabilì a Castel S. Pietro dove fu bene accolto dai paesani e dagli Agostiniani, nonché assistito nell’anima. Quindi, quando fece nell’ottobre testamento, si mostrò riconoscente lasciando alla compagnia di S. Bartolomeo ed all’ospitale di S. Caterina dei terreni. Questa notizia ci assicura ancora di più che la Compagnia di S. Caterina ebbe se non origine dagli Agostiniani locali almeno una maggiore consistenza con la unione ed incorporazione di questa sotto l’invocazione di S. Bartolomeo.
Giunto l’anno 1425, cessato finalmente tutte le tristi contingenze che impedivano il buon ordine, fu spedito per Podestà a Castel S. Pietro per il primo semestre Giacomo Ariosti e per il secondo Giovanni Dal Lino.
Il vescovo di Bologna Niccolò Albergati, stimando che ritardare l’uso della medicina peggiora la malattia e mette in pericolo la vita e vedendo che la più pericolosa corruzione nel suo gregge erano i rapporti tra i cattolici e gli ebrei, che non erano diversi tra loro nel vestire e nel comportarsi, sopra tutto nel contado dove erano i ghetti, rinnovò l’ordine di Innocenzo III che dovessero portare sul capello un nastro di color giallo segnale della loro sventura. Questo dispiacque molto ai nostri banchieri in Castel S. Pietro, capo dei quali era certo Sanacese che, vedendosi deriso, abbandonò questo luogo.
Erano stati fabbricati dalla pietà dei buoni cattolici alcuni locali per ospizio dei passeggeri. Il buon vescovo Albergati ordinò che in tali locali si ricevessero anche i bastardini e vi fossero le ruote accessibili al pubblico. Così fu fatto nel nostro nuovo ospizio di Castel S. Pietro.
Fu sfortunato il primo che dovette provarlo. Una notte del mese di aprile un certo Lazarello Serughi di Dozza si arrischiò a portare una fanciulla al luogo destinato. Non sapeva che la ruota, appena postovi un piccolo peso, dava un segnale al custode, che uscito in camicia cominciò a gridare ad alta voce: Dalli! Dalli!. Fuggì l’infelice Serughi ma si imbatté al ponte in villani che lo volevano fermare, per sfuggire si lanciò giù dal ponte e restò estinto.
Non si deve a questo punto passare sotto silenzio un grave misfatto. Narrano i ricordi della estinta famiglia del capitano Valerio Fabbri che Brainguerra Fabbri aveva contratto promessa di matrimonio con l’imolese Fulgeria di Ceruno, giovane di bell’aspetto. Si era però invaghito della stessa fanciulla Bonafiso dei Conti della Bordella, nobile della stessa città. Perché vedeva avvicinarsi il matrimonio, chiamò un giorno, alla fine di ottobre, il Fabbri e gli chiese di abbandonare la promessa. Brainguerra tentò di rifiutarsi ma inutilmente, Bonafiso dalla richiesta passò alla minaccia e dopo averlo chiuso nel luogo più nascosto della casa, diede mano ad un pugnale per ucciderlo. A questo punto Brainguerra si prestò ai voleri di Bonafiso che pretese pure un solenne giuramento. Posto in libertà mantenne la parola e rinunciò al matrimonio.
Tale fatto non piacque ai parenti di Fulgeria e, scoperta la ragione, accusarono Bonafiso al Duca di Milano Filippo Maria[161] che in questo tempo aveva in potere la città d’Imola. Questi, chiamato il Conte Bordella e verificata la soperchieria lo bandì dalla città. Successivamente si interposero comuni amici e si pacificarono le parti.
Ma il nobile imolese non mantenne la pace, trasportato dalla passione per la giovane e dalla voglia di vendetta, aspettò che fosse celebrato il matrimonio. Quindi il 23 dicembre, preso con un agguato il Brainguerra, lo portò al Corecchio poco distante dalla via romana ove non potessero essere udite le grida e gli fece cavare gli occhi. L’infelice Braiguerra sopravvisse per poco tempo e Fulgeria, addolorata per tanta crudeltà e la perdita dello sposo, si diede la morte pochi giorni dopo.
L’anno seguente 1426 fu Podestà Francesco Matuliani. Castellano della Rocca fu confermato dal papa Jannetto Papazzoni. Questi prevedendo subbuglio nella vicina Romagna attese a fare buone proviste di munizioni per qualunque accidente che potesse occorrere causato dai ribelli a S. Chiesa.
Intanto anche Imola era in agitazione. Filippo Maria Duca di Milano, che la teneva in potere per contrastare i veneziani affinché non si inoltrassero in queste parti, fece tutti li sforzi possibili perché non le fosse levata ma alla fine, conoscendo essergli malagevole il difenderla, la cedette al Papa sotto varie condizioni.
Questi incaricò il Card. Condulmer Legato di Bologna a prenderne possesso a nome della Chiesa. Lo stesso, in compagnia di Cristoforo Cattani di Castel S. Pietro detto Caseda per soprannome, andò il giorno 14 maggio ad impossessarsi formalmente di Imola, facendosi giurare da quel magistrato fedeltà a nome del Papa.
Avuta Imola sotto il governo del Legato di Bologna il mercato di Castel S. Pietro diventò più florido in ogni sorta di alimenti e merci e cessarono le inimicizie sul confine per le quali accadevano frequentemente scontri e atti criminosi.
Il fervore verso Dio stimolato dagli agostiniani locali come pure dal parroco coll’esempio e con la predicazione avevano commosso in questo tempo il cuore de paesani che, gareggiando fra di loro a beneficare gli indigenti, concorrevano numerosi nelle rispettive chiese a dare, con le offerte segni della loro pietà cristiana.
Fra gli altri si distinse Antonio Toni o Zoni, che mosso di un vivo animo verso Dio fece il 13 marzo 1427 testamento ed ordinò che fosse di nuovo costruito in questa arcipretale l’altare dedicato a S. Biagio e, per che fosse bene officiato, lo dotò di due pezze di terra poste nel comune di Castel S. Pietro, una detta la Rivulla e l’altra detta i Sentieri, coll’obbligo di diverse messe da celebrarsi dal rettore del medesimo altare, riservando a suoi eredi la nomina del rettore.
Furono Pretori di Castel S. Pietro nell’anno 1427 primo semestre Malatesta Beccadelli e per il S. S. Gaspare Lambertazzi. Fu pure in quest’anno confermato per castellano della Rocca grande del nostro castello Janetto Papazzoni.
Non volle essere da meno del Zoni nella pietà Polo Brento che, prima che accadesse in quest’anno la sua morte, fece testamento nel quale lasciò terreni alla Compagnia di S. Bartolomeo ed all’Ospitale di S. Caterina.
Raccontare tutte le opere pie fatte in questo luogo sarebbe troppo lungo. Ma mentre si facevano queste opere non mancarono turbolenze a causa delle divisioni che dalla città si diramavano anche nei castelli parteggiando chi per la Chiesa e chi per la libertà dal papa.
Andò sottosopra la quiete nel nostro Castello, non sapendo i terrazzani a qual partito appigliarsi ed ogni piccola cosa faceva ombra fra di loro. Stava il castellano Papazzoni in continuo timore e, temendo spie, venivano imprigionate le persone sospette di avversione alla chiesa. Molte famiglie perciò andarono a vivere nelle campagne fino a che non scoppiò il fermento che era nella città, fatto che non tardò molto.
1428 – 1419. Bologna si ribella alla Chiesa, i Canetoli si impadroniscono di Bologna e cacciano i Bentivoglio. Castello resta fedele alla Chiesa. L’assedio del San Severino e la difesa dei castellani. Premio ai castellani e rinnovo concessioni.
L’anno successivo 1428 Bologna si pose in libertà dal papa mediante Giovanni, Galeotto e Gaspare Canetoli, di una famiglia potentissima nella città. Questa, divisa in due partiti, uno per la chiesa e l’altro per il popolo, aveva preso le armi. Il Legato abbandonò la città e il partito canetolesco, vincitore In questo conflitto, andò a tutti i castelli a farsi giurare fedeltà e obbedienza.
Castel S. Pietro fu titubante a motivo che temeva gli fossero a poco a poco tolti i suoi privilegi. Per ovviare a questo rischio ricorse al governo, questi confermò il 16 febbraio il privilegio del mercato e fece rinnovare il decreto dei 16 Riformatori dell’anno 1410.
Luigi Sanseverino[162], cavaliere di ventura, essendo in Romagna, saputo della sollevazione di Bologna e della partenza del Legato fece sapere ai bolognesi che se avessero avuto bisogno del suo servizio militare era disponibile. Accettarono l’offerta e l’assoldarono. Il 3 agosto giunse a Castello con 900 cavalli quindi andò a Bologna ove ricevette il comando anche dei soldati bolognesi. Il 4 agosto il Senato invitò le fortezze e i castelli del territorio ad assoggettarsi alla città e quindi ad essere contro la Chiesa.
Tutte accettarono ad eccezione di Castelbolognese, Cento, la Pieve e Castel S. Pietro nei quali paesi si erano rifugiati i bentivoleschi nella cacciata fatta dai canetoleschi. A Castel S. Pietro venne uno dei capi dei Bentivoglio, Nicolò Cavazza. Ai bolognesi non interessò tanto il rifiuto di Cento e Castel bolognese quanto di Castel S. Pietro per essere luogo di frontiera dalla parte di Romagna, facile ad essere soccorso dagli ecclesiastici e difficile ai bolognesi riaverlo. Venendo il pericolo maggiore da quella parte, il nuovo governo se ne preoccupò e decise di prenderlo con le buone o con le cattive.
Intanto le famiglie e villani che erano sparsi nel territorio furono chiamati con le robe e le persone a rifugiarsi dai nemici entro il castello. Ciò fu fatto in tempo poiché il 10 agosto1428, Luigi Sanseverino con le sue genti d’arme mise il blocco al nostro Castello. Posero il campo al Borgo presso la chiesa dell’Annunziata nella via consolare. Nell’esercito erano capitani Lodovico Micheletti, Leonello Perugino, Riniero del Fresso ed Angiolo Ronconi[163] tutti uomini valorosi. Questi piantarono la batteria della loro bombarda di fronte alla porta maggiore del Castello. Cominciarono a batterla il giorno 11 dopo avere richiesto, al suono della trombetta l’ingresso che fu negato. Il fuoco cominciò al mattino e durò fino al mezzogiorno.
Al primo attacco sembrò rovinasse il mondo. Lo spavento e la confusione non permisero ai castellani di contrastare ed affacciarsi alle bombardiere laterali del cassero. Ai primi colpi furono abbattuti i merli sopra il muro della rocchetta che caddero internamente al Castello e i cui materiali però servirono di argine e ostacolo all’ingresso.
Il paesano Ugolino Balducci, vecchio ma bravo capitano, pratico di tali vicende e esperto negli affari militari, incoraggiò i paesani dicendo loro che il nemico era allo scoperto e più in pericolo di loro e che, se non avessero resistito, il nemico non avrebbe avuto pietà. Ordinò che i meno utili all’armi barricassero la strada maggiore del Castello con legni e qualunque altra cosa e portassero alle mura materiali e munizioni. Animati da ciò i terrazzani e fiduciosi del loro capitano, si prepararono, con i villani rifugiati, ad una salda difesa e all’assedio.
La torre intanto era guardata da sentinelle che non solo suonavano l’allarme con la campana ma controllavano dall’alto i movimenti dei nemici e li comunicavano ai difensori interni. Questi rispondevano colle spingarde e bombarde alla batteria nemica.
Furono distribuiti i compiti, Nicolò Cavazza bolognese attendeva al baluardo d’angolo inferiore a levante e Lisandro Campana di Castel S. Pietro attendeva all’altro ove è il portone di S. Francesco, al terzo era Galvano ed al quarto vi stavano i villani. Il castellano Papazzone attendeva alla Rocca. E siccome il fondamento principale delle fortezze è la fede e la costanza così tutti i castellani, di ogni età e sesso, gareggiavano fra di loro alla difesa. Alcuni dei nemici si arrischiarono fuori della trincea ma ne pagarono il fio col tiro delle spingarde.
Il nemico, vedendo di non potere far breccia nella rocca della porta, sebbene costruita da poco tempo, divise la batteria in due, una la pose al baluardo orientale e l’altra alla porta ma inutilmente. Il giorno 13 agosto ripigliò il bombardamento, fu vano quello dalla parte di levante, invece il baluardo occidentale, guardato da Lisandro Campana fu molto danneggiato, quantunque fosse aiutato dalle vicine rocche grande e piccola.
l nemico riuscì a rompere la palizzata ed avvicinarsi alla fossa ma Gregorio Colina, salito sulla torre, rivolse le spingarde, poste nei 4 angoli, tutte contro il nemico che già si avanzava rovesciandone molti nella fossa. Viste le difficoltà il Micheletti richiamò i suoi soldati.
Il pomeriggio Leonello da Perugia ed Angiolo Roncone mossero il campo e piantarono le trincee contro la mura del Castello fra la Rocca grande ed il suo baluardo e il 18 di nuovo si cominciò l’attacco al quale rispondeva la Rocca grande della quale ne era stato fatto capo il Balduzzi. Fu in questo momento che il Sanseverino usò la cavalleria con un attacco alla porta della rocca piccola ma Nicolò Cavazza e Raimondo Cattani, con gettito di macerie e perfino con fascine accese dalle donne, fece allontanare i cavalli che, spaventati dal fuoco, pericolarono in molti e lasciarono la vita nella fossa.
Sempre più adirati il Sanseverino e Lodovico Micheletti raddoppiarono i colpi di bombarda alle mura, che da ogni parte erano ormai sconquassate. Ma i terrazzani quanto maggiore era il pericolo, invece di intimorirsi, tanto più di ardore prendevano e i villani facevano ancora più gagliarda la difesa.
Fra le provvidenze che in questa emergenza prese il Balduzzi vi fu la proibizione di accendere alcun fuoco nelle case ma solo nella pubblica piazza, nelle case si poteva usare solo il carbone, questo per evitare segnali di eventuali traditori. Proibì pure, sotto pena di morte, il suono delle campane, escluse quelle delle Rocche controllate dal Papazzoni,.
Avvisi erano già andati al Papa della valida difesa che si faceva dai castelli fedeli alla Chiesa e del pericolo in cui era Castel S. Pietro. Mons. Capranica[164] che era nella Romagna esortò i nostri paesani a mantenersi forti per Santa Chiesa che ne sarebbero stati ricompensati, aggiungendo che era imminente il soccorso per cui poco restava da soffrire e che stavano per essere liberati dai vicini imolesi assoldati dallo stesso Capranica. Stanchi ma non avviliti i castellani e tutta la popolazione sperava vedere giungere presto il soccorso.
Vedendolo ritardato cominciarono a temere di inganno. La disperazione in mezzo al bollore dell’armi conduce spesso a precipitose decisioni. Tanto accadde nei nostri paesani che, essendo demoralizzati né vedendo arrivare alcun aiuto, pensarono in alcuni di attaccare il nemico e farsi strada con la fuga o con la vittoria per non perire vergognosamente. Il dovere di un buon capitano è l’essere coraggioso, prudente e comprensivo. Balduzzi lodò il coraggio di quelli che pensavano farsi strada coll’armi, si mostrò favorevole ma con prudenza. Gregorio Collina, il Campana, Nicolò Cavazza ed altri bravi paesani si consultarono sul modo di fare la sortita dal Castello.
Per ingannare il nemico avrebbero finto internamente una sommossa in modo che il nemico esterno corresse da quella parte pensando di avere un’occasione per la presa del Castello. Intanto, dalla parte opposta, al levante del Castello ove era sconquassata la mura, sarebbero usciti col massimo silenzio Bartolo Cattani giovine animoso più del padre e con esso Bittino Fabbri con 50 giovani villani dei più coraggiosi, per recarsi sulla vicina collina ove era la torre di Faciolo Cattani.
Questo fu fatto il 24 agosto nella notte precedente alla festa di S. Bartolomeo. Nella piazza di fronte alla rocca grande si levarono urla di Morte ai Bentivoglio! morte! morte! con rumore di armi, e fu creduta per vera la sollevazione popolare. Intanto i coraggiosi Bartolo Cattani e Bittino Fabbri uscivano coi 50 villani dalla parte di levante dietro al baluardo di mezzo ove era una posterla e salirono dietro la costa del Sillaro su la vedetta della torre Cattani ora detta Torre dei Moscatelli.
Qui si finse lo scoppio di una forte baruffa con urla di aiuto e soccorso. Si staccò allora un distaccamento di soldati dall’assedio alla rocca maggiore del Castello guidato da Leonello Perugino. Questi, caduto nell’agguato, fu fatto prigioniero con alcuni soldati mentre gli altri si dettero alla fuga.
Il resto degli assedianti sentendo gridare Viva la Chiesa! Chiesa! Chiesa! credendo che fosse arrivato il soccorso del Capranica, se ne andarono dalle loro posizioni.
I castellani vittoriosi tornarono in paese tutti gloriosi con le spoglie e le armi dei nemici fuggiti. Questo fatto lo riportiamo dalle memorie della famiglia Fabbri e dalle carte del Vanti.
I nostri paesani divennero ancora più contenti poiché avevano saputo della scomunica papale ai ribelli bolognesi e l’avvicinarsi 10.000 combattenti condotti dal valoroso Nicolò da Tolentino[165] e che in conseguenza il Sanseverino si era ritirato ad Idice.
Per non essere svergognato tentò egli nuove sorprese a Castel S. Pietro ed ai primi di settembre piantò un fortilizio nelle nostre vicine colline, per assalire comodamente il nostro Castello. Il Tolentino, intanto sopraggiunto andò al nuovo fortilizio scortato da nostri paesani, Qui scoppiò una forte baruffa in cui fu sconfitto il Sanseverino che si diede alla fuga. Furono fatti prigionieri i capitani con non pochi soldati, che furono mandati nella rocca d’Imola. Crediamo che questo fortilizio fosse stato fatto presso un podere detto la Collina, sul confine del nostro comune col comune di Liano, da dove si vedono comodamente i movimenti nel nostro Castello.
Questi si vedeva intanto a mal partito per i danni sofferti e molte famiglie emigrarono da esso. Ricorsero i capi del paese al Legato Capranica per averne il promesso ristoro e per evitare una totale spopolamento del paese che era imminente non concedendo l’opportuno ristoro mediante la concessione delle richieste.
Riconobbe il Legato quanto fossero giuste le richieste, non solo per conservare Castel S. Pietro in fede alla S. Chiesa, ma anche per invogliare gli altri popoli, perciò prese in considerazione le petizioni in forma di Capitoli fra le quali vi era quella di essere esentati da ogni superiorità di Bologna.
I Capitoli sono i seguenti, che furono poi anche confermati da Martino V nel seguente 1429:
I) Gli abitanti presenti e futuri di Castel S. Pietro e suo territorio siano in perpetuo immuni ed esenti da qualunque dazio e gabella, pesi reali e personali, eccetto l’obbligo di far la guardia al Castello, quanto ai dazi fu diminuita la paga al Dazio Sale.
II) Gli Uomini e Villa di Poggio siano sempre soggetti a Castel S. Pietro.
III) I possidenti di qualunque condizione ancorché forestieri siano tenuti al pagamento delle collette imposte e da imporsi per il Massaro ed uomini della Comunità di Castel S. Pietro, mentre molti per sottrarsi da questi aggravi erano andati a Bologna.
IV) Gli uomini di Sassuno, Monterenzio, Galegata e Casalechio de Conti, che non volevano essere subordinati a Castel S. Pietro debbano per sempre esserlo e concorrere come le altre Comunità alle spese per Castel S. Pietro.
V) Gli uomini di Castel S. Pietro possano senza dazio e gabelle condurre le loro derrate a Bologna.
VI) Non possano essere condannati a certe spese e che il loro Giudice fosse il Vicario e Podestà di Castel S. Pietro
VII) Al pagamento dei debiti residui sia accordata la dilazione di un quinquennio e così pure per altri debiti del Dazio Macina e bolette.
IX) Che ciascun Podestà che vorrà coprire la carica in Castel S. Pietro sia tenuto dare al Comune senza spesa una balestra grande a staffa col suo mulinello, ed oltre ciò anco un tarpone, che era una specie di mazza ma spianata che serve da offesa e difesa il cui valore sia almeno di lire quindici di Bologna altrimenti non possa avere il salario.
X) I ribelli banditi non possano essere nuovamente banditi senza il consenso della Comunità né accostarsi al Castello per trenta miglia.
XI) La Comunità di Castel S. Pietro possa edificare un molino ove le piaccia nel suo territorio liberamente senza alcuna licenza. Qui prima si macinava a forza di pistrini.
Infine era stabilito che gli uomini del Comune potessero fare gli Statuti ed altre cose più a minuto che in parte furono ammesse ed in parte corrette come si riscontra dall’originale registrato nella Bolla di Papa Eugenio IV.
Al governo di Bologna non dispiacque tanto la diminuzione del Dazio Sale a Castel S. Pietro quanto la indipendenza dalle autorità della città per la sindacatura civile e le condanne, poiché temeva che proseguendo su questo piano la città andava a perdere a poco a poco ogni diritto sopra il nostro Castello.
Cominciarono per tanto le Autorità bolognesi a cavillare e la pubblica rappresentanza ricorse con nuove suppliche a Martino V affinché colla sua autorità suprema avvalorasse le già ottenute grazie. Egli, sensibile alla fedeltà avuta a Santa Chiesa da queste genti, non meno che alle attenzioni avute nel 1410 allorché per la pestilenza soggiornava in casa del cap. Balduzzi, si prestò ampiamente alla conferma di quanto gli fu richiesto ed al chiarimento delle grazie concesse. Riscontriamo questo dal VIII regesto sotto la data 12 febbraio 1429 anno XII del suo pontificato in lettere testimoniali Dat. Rome apud S. Apostolos.
La fonte della Fegatella che era stata guastata ed interrata dalle truppe del Sanseverino e con immondizie resa inutilizzabile al bestiame, fu ripulita e rimessa in uso.
1429 – 1434, Si fa il canale per il mulino. Bologna contro volontà del Papa. Castello mostra devozione alla Chiesa. Floriano Sampieri torna allo Studium bolognese. Gattamelata prende Castello per la Chiesa. Bologna chiede aiuto al Visconti che manda Niccolò Piccinino che assedia e prende Castello. Bologna fa pace col Papa.
Nello stesso tempo la pubblica rappresentanza di Castel S. Pietro fece il progetto per un condotto d’acqua per il concesso molino delle granaglie. Fu questo fatto lungo il Sillaro alla sua parte di ponente, partendo da sopra la fontana Fegatella e arrivando fino all’incontro della strada che dalla porta di sotto scende al Sillaro. Qui fu fatto l’edificio del mulino che, da quanto si riscontra dalle carte antiche, fu ubicato ove ora è la pellacanaria[166]. Luogo opportuno per la difesa dalle incursioni nemiche e comodo agli abitanti del Castello e del Borgo. Il canale fu cominciato dopo avere ottenuto da Martino V la conferma degli accennati Capitoli. Si spesero in questo lavoro lire 377 come da una nota antica riportata nel libro primo dei Diversi nell’archivio comunitativo. Non ci indica però questa carta se la spesa sia per la fabbrica o per il canale.
Restava alla Comunità per la esecuzione dei suddetti Capitoli la elezione del Militem damnorum dator, cioè di un visitatore dei danni ricevuti. Però su questo punto ritroviamo solo di cero che la Comunità a capo d’anno eleggeva due soggetti della pubblica rappresentanza, la cui incombenza era di visitare col Ministrale le denunce di danni ricevuti, poi, secondo la loro perizia, il Podestà locale procedeva alla condanna tanto civile che criminale.
Le fazioni ed i partiti in Bologna e suo contado erano rimasti sopiti ma non estinti, quindi ripresero di nuovo ad agitarsi e si sentivano di risse e uccisioni nella città e sopra tutto nel contado.
Dalle memorie di certo Balotta da Corvara abbiamo che gli uomini di Fiagnano, provocati da quelli di Dozza a motivo dei confini, si scontrarono fra di loro molte volte. La peggiore fu quando i Serenari e Valloni di Dozza con alcuni dei Tordini di Castel S. Pietro, ebbero il coraggio di andare alle porte di Fiagnano ove in aiuto erano i Ceruni da Corvara. Seguì fra loro una mischia tale che, come dice la memoria, multos vulneraverunt per quod mortui fuerunt. La presa della porta di Fiagnano fu per tradimento dell’addetto alla porta certo Baletto che aprì il portello ed introdusse gli uomini di Dozza travestiti.
Si erano talmente diffusi i reati, le iniquità e le uccisioni a Bologna e nel contado che Dio stancato mandò una moria d’uomini e creature per cui perirono molte persone.
Non ostante tutto ciò gli uomini di Castel S. Pietro non tralasciarono di ripristinare la cinta del Castello e rifare quella parte che era sconquassata. La spesa non fu lieve perché nella ripartizione delle collette sui terreni la vediamo ancora nel Campione del 1492.
Alla fine di gennaio 1430 questo luogo fu funestato dalla morte dell’arciprete Don Gherardo Gherardi quindi il 27 febbraio il Sindaco e gli uomini del Comune presentarono al Capitolo di S. Pietro Don Nicolò Damiani di Firenze che era l’attuale cappellano. Il Camerlengo di quel Capitolo a nome de canonici lo accettò e lo presentò al vescovo Albergati che lo elesse per parroco, poco però gustò il nuovo incarico poiché dopo pochi mesi finì la sua vita.
Per la influenza ebbero la stessa sorte il cap. Ugolino Balducci, Andrea Cheli, Morello Morelli, Nicola de Nicoli, Verondo Salvetti e Cenzo Bombasari. Sebbene la morte colpisse più nella città che fuori non si arresero i turbolenti e cominciarono a scontrarsi fra di loro con tumulti e complotti quindi si propagarono i disordini anche nel contado.
L’origine fu nella divisione della città in due partiti, il primo fu di Battista Canetoli, Bartolomeo Zambeccari detto l’Abbate, Matteo Griffoni, Baldassare Canetoli ed altri. Il secondo partito fu per Antonio Bentivoglio che poi, vedendosi inferiore abbandonò prudentemente la città. Allora il partito canetolesco tentò per due volte la sollevazione e sottomissione della città. Nella prima furono uccisi molti amici dei Bentivoglio, ma molti emigrarono e non accadde la loro sottomissione, la seconda fu di invitare il popolo alla rivolta per sottrarsi al governo pontificio.
Il Legato, che era Lucido Conti, fingendo serenità, col pretesto dell’influenza partì improvvisamente dalla città senza che nessuno se ne accorgesse, lasciando per suo Vice Legato Giovanni Cassarelli che sentendosi anch’esso poco sicuro, abbandonò la città col pretesto di visitare le fortezze del territorio e le riparazioni che si facevano a Castel S. Pietro. Qui giunto incoraggiò i castellani a mantenersi forti nella obbedienza alla S. Chiesa che ne sarebbero stati contenti, poi passò a Imola e si avviò a Roma.
I Canetoli, accortisi della fuga del Legato si impadronirono del palazzo pubblico. Giunto il Legato a Roma convinse il Papa che se voleva mettere fine a tanti mali tanti mali era necessario avere l’assoluto dominio della città, tanto più che il contado era scontento dei Canetoli.
Il Papa allora fece sapere al Senato di volere egli l’assoluto dominio della città e territorio o altrimenti minacciava la guerra. Il Senato rispose fieramente che non avendo violato il trattato era pronto fargli resistenza.
Sdegnato Martino V di tale risposta ordinò che si mandasse l’armata contro i bolognesi. Fece commissario di guerra Giovanni Boschi, chierico di camera, e Giacomo Caldora[167] Generale delle armi alle cui genti si arruolarono i Bentivoglio con i loro partitanti. I Canetoli immediatamente, e con la massima sollecitudine si prepararono alla difesa fortificando le fortezze del contado sia di munizioni che di soldati.
A Castel S. Pietro fu subito spedito con un grosso presidio Matteo Griffoni il quale fece rimettere a posto i palancati rovinati e rassodare le porte e i ponti levatoi e costruire argini tanto internamente che esternamente. Non passò molto che nel mese di maggio si sentirono arrivare dalla Marca e Romagna le genti pontificie.
Essendo morto nel mese di maggio l’arciprete Don Nicolò Damiani, il 30 fu dai parrocchiani presentato Don Gerardo Fabbiani al Capitolo e il 9 giugno gli fu conferita la Chiesa dal vescovo.
Intanto Giacomo Caldora stava arrivando nel contado e i nostri paesani si aspettavano ad ogni momento di essere assaliti dall’esercito ecclesiastico che stava combattendo nei luoghi vicini e ne aveva già presi buona parte. Finalmente giunto il mese di luglio l’esercito ecclesiastico venne sopra Castel S. Pietro. Matteo Griffoni, sapendo di avere poche forze e che i paesani pendevano più per la Chiesa che per il regime di Bologna, abbandonò il paese.
Arrivato l’esercito pontificio gli furono aperte le porte e i suoi condottieri furono accolti con giubilo e applausi e condotti alla piazza e alla Rocca con alti evviva. Così era giusto fare anche per i recenti benefici ottenuti da Martino V. Quindi si mostrò Castel S. Pietro, come tutti gli altri castelli conquistati, pienamente devoto alla Chiesa. Ora restava da sottomettere solo la città che, non potendo reggere, cominciò a trattare la pace. Nominato per Legato Nicolò Acciapaccia venne a Castel S. Pietro per recarsi poi a Bologna, ma i bolognesi non erano disposti a riconoscere alcun Legato.
Mentre la trattativa si stava prolungando, il giorno 18 febbraio 1431 morì Martino V. Una tal morte rasserenò alquanto i bolognesi che pensarono, finché si faceva il nuovo Papa, di recuperare le fortezze perdute mentre, con truppe e milizia, cercavano di tenere il Caldora occupato, ma questi continuava a malmenare qua e là il contado.
Passato una gran parte di febbraio senza alcuna conclusione finalmente il giorno 3 marzo fu eletto Papa il card. Gabriele Condulmer col nome di Eugenio IV. Bologna che lo aveva avuto per due volte al governo della città, gli mandò ambasciatori col trattato di pace. Questa fu ottenuta con diversi Capitoli favorevoli anche al contado fra quali il Cap. XX confermava tutte le esenzioni concesse in precedenza alle Comunità e persone del contado in questi termini: Confirmamus et approbamus exempiones et alia concesse p. comune Bononie alicui Communitati et persone.
Al Cap. XVII accordò che fosse lecito a qualunque persona sia cittadina che del contado fabbricar pane da vendere pubblicamente senza pagamento di dazio e gabelle.
Fatta la pace e firmata le Capitolazioni, non volendo i bolognesi accettare per Legato Nicolò Acciapaccia, il Papa spedì a Bologna come governatore Giovanni Bosco. Quindi il Bosco passò a S. Giovanni in Persiceto ove era il Vescovo di Conturbia colle genti pontificie a informarlo della nomina. Ma il Conturbia non volle prestare fede dicendo che aveva diversi rincontri da Roma.
Gli uomini di Castel S. Pietro temendo che il nuovo papa non accettasse la Capitolazione del card. Capranica e di Martino V. ne chiesero la conferma. Questi non esitò e con sue lettere papali del 18 marzo 1431 confermò i privilegi concessi dal suo predecessore.
Il Conturbia venne a Castel S. Pietro e lo sollevò contro Bologna. Quindi il Bosco scrisse al Papa e, con le ampie facoltà che aveva avuto, decise di riprendere Castel S. Pietro quindi, adunati soldati a Bologna, li mandò ad assediare il nostro Castello. Vedendo i terrazzani che il Vescovo di Conturbia li aveva ingannati, senza più opporsi alle genti del Bosco il 19 giugno si arresero a condizione di essere perdonati.
Il Bentivoglio e gli altri fuorusciti, alleati col Conturbia, furono banditi. Parte si ritirarono nella Romagna e parte in Lombardia. Arrivò in seguito il 18 agosto un Bando che ordinava che nessun terrazzano ricoverasse o desse mano ai fuorusciti sotto pena della testa e confisca dei beni.
Tale Bando fu emanato perché i fiorentini erano ogni giorno nel contado e coi fuorusciti intendevano prendere Castel S. Pietro, perciò il Governatore Bosco spedì qui la truppa il 15 settembre e si ebbero scontri fino al 20.
I Bentivoglio che erano qui con gli altri fuorusciti e si erano fortificati nella rocca grande, vedendo di non potere lungamente resistere, vennero a patti. Fu convenuto che fossero rimessi in patria quelli che erano stati banditi, che il Consiglio dei 20, che era al posto dei 16 Riformatori, fosse controllato dai cittadini, come pure le porte della città.
Ciò approvato fu grande la consolazione della città e il 26 settembre si arrese il nostro Castello da cui partirono subito i fuorusciti bentivoleschi graziati. Per queste vicende furono demolite le case dei Cuzzani, Forni e Gherardi, perché tenevano la parte bentivolesca, ma il loro danno fu risarcito dagli stessi fuorusciti.
In mezzo a questi travagli non si intiepidì per niente il culto divino, poiché gli agostiniani di S. Bartolomeo facevano esercitare opere di pietà alla unione dei paesani eretta nella loro chiesa alla quale furono donate cento lire per accomodare il convento che aveva assai patito per le guerre.
In questo tempo insegnava a Ferrara Floriano da Castel S. Pietro[168]. Bologna sentiva bisogno di un tanto professore perciò, a petizione della pubblica scolaresca, fu richiamato dal Governatore alla città mediante Battista Magnani, nobile di grande autorità, il quale si adoprò in modo che Floriano venne a Bologna nel 1432. Egli si era là stabilito per evitare sospetti di faziosità per essere aderente ai Bentivoglio.
Il 6 aprile venne una tale e tanta brina nel contado che bruciò non solo tutte le biade ma anche le foglie delle viti e degli alberi e produsse un tale freddo che sembrava essere inverno.
Perché poi i villani di Castel S. Pietro di quando in quando danneggiavano con ruberie il territorio imolese, parte per bisogno di viveri, parte per avidità, gli imolesi maltrattati avanzarono ricorsi al Governatore di Bologna Santino Dandolo, che aveva sostituito Giovanni Bosco, affinché riparasse a tale disordine.
Nel gennaio 1433, non potendo colle sue sole forze reprimere gli autori delle scorrerie, anche perché erano spalleggiati dai Canetoli, concordò col Gattamelata[169], che era condottiero delle armi venete in Imola per Santa Chiesa, di introdurlo in Bologna e fermare l’audacia dei Canetoli dandogli la porta di S. Stefano. Ma Lodovico Canetoli corse alla porta dove non era ancora arrivato il Gattamelata e il 26 gennaio qui si fortificò. Avvisato per strada il Gattamelata ritornò indietro ed il 27 gennaio prese Castel S. Pietro poi, lasciato un buon presidio, ritornò a Imola. Il Governatore vedendosi in pericolo della vita la mattina del 28, con Delfino Gozzadini, fuggì a Castel S. Pietro.
Il Papa informato di tutti questi movimenti, richiamò Dandolo e mandò a Bologna per governatore Mario Condulmier vescovo di Avignone che di qui passando il primo aprile 1434, fu scortato dalle genti del paese e accompagnato fino a Bologna dove, incontrato dagli Anziani, fu onorevolmente condotto a Palazzo.
Appena preso il Governo, cominciò a pensare come introdurre il Gattamelata in città per sottometterla del tutto al Papa. Ciò venuto all’orecchio del Senato il 22 maggio riunì il Consiglio e determinò di esonerare di fatto il Governatore. Quindi il giorno seguente 23 maggio, armati alquanti cittadini, andarono al Palazzo ed ivi stettero sempre al suo fianco. Così niente poteva fare senza essere visto ed udito ed era come carcerato.
Il Gattamelata, che era a Castelfranco, fece sapere ai bolognesi che voleva parlare al Governatore, che se glielo avessero negato avrebbe preso gli altri castelli e scorso il contado. Il Senato ributtò l’ambasciata ed il Gattamelata senza perdere tempo venne a Castel S. Pietro il primo di giugno e mandò avanti un araldo in nome della Chiesa. Dette ad intendere a terrazzani che era stata fatta la pace e che voleva alloggiare un momento. Credettero la cosa verosimile vedendosi da lontano le bandiere pontificie spiegate. Perciò ebbe, per mezzo di Rinieri e Fabbri, l’ingresso nel castello e con tale stratagemma se ne impadronì.
Subito vi introdusse 300 fiorentini che erano stati assoldati dal Papa. Intesa il Senato la presa di Castel S. Pietro e che non solo vi erano in questo i fiorentini ma che il Gattamelata teneva nel Borgo molti cavalli, i bolognesi chiesero soccorso a Filippo Maria Visconti Duca di Milano.
Non tardò a soccorrerli poiché il 20 agosto mandò a Castel S. Pietro Nicolò Piccinino[170] che era nella Romagna con 2.500 cavalieri ed altrettanti fanti. Questi mise il blocco al paese e scorrendo nei dintorni non lasciava penetrare al Castello niente dalla Romagna.
Dall’altra parte faceva lo stesso il Gattamelata non lasciando portare a Bologna alcun genere di vivande e specialmente i grani e le castellate. Stavano pertanto le due armate l’una in sospetto dell’altra e ad ogni momento si aspettava un fatto d’arme ma nessuno si moveva dal suo campo.
Il Piccinino era superiore di genti ma allo scoperto, il Gattamelata inferiore di armati era però in una migliore posizione difensiva. Mentre così si stava in sospeso, i bolognesi, stancati dalle scorrerie che si facevano fino alle vicinanze dalla città, spedirono messi al Papa, che era a Firenze, per trattare un accordo.
Intanto il Piccinino, per allontanare il Gattamelata dalle sue posizioni, rischiava i suoi cavalli in aggressioni momentanee nei luoghi vicini che tenevano per la Chiesa. Si adoprò tanto che, senza che il Gattamelata se ne accorgesse, avvicinò il suo campo al Sillaro in faccia al nostro Castello. Quindi il 25 dopo avere appostata la sua artiglieria cominciò a bombardare e, avendolo fortemente battuto e fatto gran danno, il Gattamelata tolse il campo dal Borgo.
Dopo cinque giorni di bombardamento, il giorno 31, vedendo la malparata, i terrazzani cominciarono a bisbigliare e, fatto fra loro consiglio, decisero di trattare un accordo col Piccinino. Mandarono Andrea Rinieri e Marcello Pirazzolo al campo e conclusero di vendersi in questo modo: che i villani che si erano rifugiati in Castello pagassero 12.000 scudi, che il banchiere giudìo fosse saccheggiato e infine che i castellani dessero in mano del Piccinino il Vicario dei fiorentini.
Conclusa così il patto della resa, furono abbassate le armi ed introdotto il Piccinino in Castello. I 300 fanti fiorentini, furono tutti svaligiati, il Vicario fatto prigioniero e il banchiere ebreo fuggì e fu saccheggiato solo nei beni domestici.
Messo subito in difesa Castello, il Piccinino l’8 settembre partì per Bologna per consegnarlo al Senato. Questi, avuta in potere questa terra invece di trattarla umanamente, cominciò ad affliggerla nelle collette, nei dazi e specialmente nel Dazio Sale, volendolo qui venderlo come negli altri castelli. Infastidire i popoli con aggravi sopra i generi di prima necessità è lo stesso che spingerli alla rivolta. Questa popolazione di Castel S. Pietro, vedendo che gli si toglieva il privilegio di Martino V di avere il sale a due quattrini di meno la libbra, eccitò nella plebe e nei villani una commozione tale che mancò poco che il paese non si rivoltasse.
Furono però le famiglie più facoltose che la impedirono, cioè Fabbri, Nicoli, Ghirardacci, Rinieri e Salvietti persuadendo i mali intenzionati col prendere un pronto provvedimento contro i venditori di sale. Fatto Consiglio nella Terra, furono deputati come messi al nuovo Papa Lorenzo Dalla Serpa, Battista de Battisti, Nicola Fabbri e Rolando Colina che subito cavalcarono a Firenze. Là esposero al papa Eugenio IV il contrasto sui chirografi di Martino V sopra il Dazio Sale ed altre immunità ed egli confermò quanto aveva concesso il suo predecessore.
I bolognesi però non volevano convincersi della riconferma di Eugenio e non si acquietarono, ma anzi insistevano sempre più sui loro diritti di sovranità su Castello. Crescendo l’amarezza dei castellani, stava per scoppiare un gran disordine preparandosi i più coraggiosi ad armarsi.
I nostri messi immediatamente tornarono a Firenze dal Papa e gli fecero notare l’imminente pericolo di rivolta del paese, sul cui esempio avrebbero potuto procedere altri.
La partenza da Castel S. Pietro dei messi calmò in parte gli animi esacerbati, non deposero però le armi i malcontenti. Finalmente ritornarono in patria alla metà di gennaio 1435 con un chirografo apostolico in forma di Bolla incontrastabile che chiuse la bocca ai bolognesi e ne seguirono perciò grandi allegrezze[171].
Questo fatto contribuì a convincere i bolognesi a fare pace col papa e il territorio a sottoporsi maggiormente alla sua autorità. Quindi Eugenio nominò nuovo Legato di Bologna suo nipote Daniele Scotti che subito venne alla città conducendo con sé per Podestà Baldassare da Ossida, uomo crudele e tirannico.
I Canetoli temendo un qualche sinistro accidente, andarono in spontaneo esilio dalla città conducendo con sé altri amici.
1435 – 1441. Uccisione di Antonio Bentivoglio. Piccino occupa Castello per farsi pagare dal Papa. Castello delibera i suoi Statuti. Bologna si ribella al Papa. Castello è preso da Francesco Sforza , ripreso dal Piccinino. Annibale Bentivoglio rientra a Bologna che chiede la pace al Papa. Piccinino chiede di essere pagato.
Rientrò a Bologna, con partecipazione e volontà del Papa, Antonio Bentivoglio dopo 15 anni che ne era stato volontariamente assente. Nei primi di aprile 1435 cominciò a frequentare le udienze del Legato che gli mostrava benevolenza. Questi però 15 giorni dopo, durante una visita a Palazzo, lo fece prendere all’improvviso e, tappatagli la bocca, gli fece troncare il capo. Prima che si sapesse di questa morte fu fatto prigioniero anche Tommaso Zambeccari e fu fatto strangolare in una camera. Una così grande crudeltà commessa il 23 aprile provocò forte amarezza e ribrezzo nella nobiltà bolognese.
Il Papa si sentiva ormai sicuro della sottomissione di Bologna per la fuga dei Canetoli e per la morte dei due suddetti soggetti quindi, affinché i bolognesi non cambiassero idea, fece riedificare la fortezza di Galliera e riparare le fortezze del contado.
Intanto il Piccinino, che era nella Romagna, simulando di non curarsi di quello che accadeva a Bologna, d’improvviso corse a Castel Bolognese e Castel S. Pietro e se ne impadronì, poi fece sapere al Papa che se voleva questi castelli gli doveva dare 2.000 ducati che era la somma che gli dovevano i bolognesi per gli stipendi passati.
Il Papa, vedendo giusta la domanda, fece sborsare il primo dicembre il danaro, in seguito furono restituiti i due castelli ai bolognesi.
Per queste turbolenze non si aveva un momento di quiete e inoltre continuavano a crescere le gabelle e i dazi. Ricorsero di nuovo gli uomini di Castel S. Pietro al Papa ed egli, che commiserava la situazione del nostro Castello, si prestò a beneficarlo colla esenzione del pagamento della gabella per il sale per un anno come da chirografo dato in Firenze presso S. Maria Novella.
Giunto l’anno 1436 Papa Eugenio fece sapere ai bolognesi che voleva venire in città per confermarsi maggiormente nella signoria della stessa e infatti, come narrano tutti i nostri cronisti di Bologna, venne nel mese di aprile e rimase fino al 1438.
Data la presenza papale sembrò ai terrazzani di Castel S. Pietro di poter dare esecuzione a quanto previsto nella precedente Bolla. Al capitolo XII si concede che possano gli uomini di Castel S. Pietro formarsi gli Statuti e le regole, perciò furono determinate le misure per i terreni fissando la tornatura di Castel S. Pietro pari a cento tavole a diversità di quella di Bologna[172]. Oltre ciò decisero la forma dei mattoni da costruzione e delle tegole o siano coppi, forme che a Bologna furono incise ed impresse nella parete del Palazzo pubblico contro la fonte nella pubblica piazza. Così fu anche fatto dai nostri castellani e tali misure furono impresse e segnate, a vista di tutti, nella parete della pubblica Residenza locale ove ora è la piccola torre dell’orologio. Queste forme e misure furono poi distrutte quando fu costruita la torre, poco curandosi di un cosi bel monumento di autorità ed antichità. Furono pure tolte gli anelli per la tortura e la berlina.
Restava agli uomini della Comunità solo formare i loro Statuti e regole per il governo politico e pure questi furono fatti. Alla loro compilazione furono eletti otto del Consiglio che unirono le leggi scritte alle consuetudini del paese. Furono questi Galeotto Cheli, Biasio Balducci, Giovanni Rinieri, Antonio Fabbri, Francesco Dal Sarto, Pietro Battista, Nicola Nicoli e Bartolomeo Ruzo. Furono fatti all’uso di questi tempi ma con qualche appoggio legale e furono ultimati il 20 gennaio 1437 e quindi pubblicati.
Il Senato, che vide che le norme rispettavano le giuste e rette consuetudini e che Castello godeva della valida protezione del Papa non si interessò a questa vicenda, anzi mostrò considerazione del paese permettendo la pubblicazione a suono di araldo.
In questo anno 1437 il Papa, che era a Bologna con dodici cardinali nominò per Legato il cardinale Giovanni di Rupescissa (Jean de la Rochetaillée). Egli dopo alquanti mesi morì ed il Papa nominò suo nipote Daniele Scotti. Poi il papa dichiarò di volere dalla città e contado 30.000 ducati per fare un Concilio a Bologna per unire la chiesa greca alla latina.
Una tale imposizione spiacque a tutti. Le ingiuriose maniere dei funzionari attizzarono le antiche faville di libertà nel cuore dei bolognesi. Raffaele Foscari, Carlo Malvezzi e Gerardo Ramponi per vendicare la ingiusta morte dell’amico Bentivoglio non che per liberarsi da quell’aggravio che esacerbava anche il contado, presero l’occasione per sobillare gli animi.
Il Papa che aveva subodorato qualche cosa, si ritirò nel nuovo castello alla porta di Galliera, poi segretamente se ne andò a Ferrara. La sua partenza incoraggiò ancora di più i malcontenti della città e del contado. Fu invitato Filippo Maria Visconti Duca di Milano a mandare il suo esercito guidato da Nicolò Piccinino per farlo entrare a Bologna.
Annibale Bentivoglio[173]che si trovava al soldo di Micheletto Attendolo da Cotignola detto poi lo Sforza, condottiero di genti per Re Renato d’Angiò[174] contro il Re di Aragona[175] per occupare il Regno di Napoli, avvisato ed invitato a tornare a Bologna, abbandonò l’esercito e venne dalle parti di Romagna.
Non mancarono in questo periodo motivi per sedizioni e rivolte. A Castel S. Pietro non furono esenti da provocazioni nemmeno chi non parteggiava per una parte o l’altra. Pirro Zogoli, Zenone Adamanzio, Tono Dalzano e Goro Bendini uomini per loro natura turbolenti, che erano stati rimessi in patria, dopo essere stati banditi per i molti reati e delitti commessi, non potettero stare in quiete. Avendo sentito l’aumento del Dazio Sale con cui si doveva pagare la tassa di 30.000 ducati per il Concilio, protestavano sfacciatamente contro una tale gravezza.
Alle loro contestazioni si unirono i più poveri del paese e i villani. I buoni cittadini delle famiglie Fabbri, di Cristoforo e di Bittino, abitanti nel Borgo, dei Nardi e Salvetti si adoperarono per calmare i disordini che crescevano, ma furono presi in diffidenza. Il partito di Zogoli, senza più vergogna, cercava di attuare un loro disegno e mettere il paese in rivolta, ma non gli riuscì per la prudente condotta dei buoni paesani.
Ciò non ostante tentarono con questo fatto. Attesero che uno di loro comprasse di quel sale e poi andarono al Banco dove veniva riscossa la relativa tassa, gestito da Andreuccio Levoli, commissario della Camera, e, come fosse lui l’autore della gravezza, lo insultarono e alla sua risposta lo presero per la gola e lo strascinarono fuori dal banco.
Accorsero al rumore i buoni paesani per evitare un disordine in tutto il paese e liberarono il malmenato Andreuccio. Poi i Nardi con i Fabbri lo salvarono in casa loro in Borgo. Tale incidente provocò tuttavia il saccheggio di tutto il sale.
Sapendo gli autori dell’assalto che sarebbero stati oggetto di un forte castigo per cui ne sarebbe potuta andare anche la loro testa, cominciarono a camminare in gruppi. Il castellano della Rocca non fidandosi di questi tenne per molti giorni chiusa la porta interna al Castello, ricevendo solo gli interessati per il portello del ponte levatoio esterno.
Giunto l’anno 1438, non avendo più timore, i bolognesi si sollevarono e decisero di accettare per capo Annibale Bentivoglio, al quale fu scritto di affrettare la sua venuta. Intanto che si facevano questi maneggi fu assicurata la Rocca di Castelbolognese e quella di Castel S. Pietro.
Il Zogoli che, con Goro Bandini, desiderava vendicarsi di quelli che l’avevano fatto sloggiare dalla patria, ritenendo che per lo più si rifugiassero nelle vicine colline, cercava ogni modo per trovarli.
Di ciò avvisati Cechino Galvano e Nannino di Santino, si rifugiarono sul monte più alto di Corneta di Liano ove stettero fino a che tornò il Governo pontificio.
Questa terra di Corneta era posta sopra una alta collina alla destra del Sillaro, consisteva di sei fabbricati abitati da poche famiglie, aveva le sue mura intorno e la sua cisterna per l’acqua, l’ingresso era rivolto a nord come ora e vicino vi era un forte muro, indizio di una piccola rocchetta di cui si vedono ancora le vestigia. A quel tempo era un luogo forte per la sua posizione. C’era pure un altro villaggio più in basso che si chiamava Corneta di sotto.
La chiesa di S. Giacomo e Filippo presso il ponte sul Sillaro, che confinava coll’antico ospitale abbandonato, minacciava di rovinare. Fu riedificata dai fondamenti e ai primi di maggio vi si poté celebrare la messa. Il giorno della dedica con grande concorso di popolo venne un vento impetuoso che fece volare via le tegole e furono colpite diverse persone. Seguì una fortissima pioggia sul monte che, producendo una piena assai impetuosa, fece salire le acque sopra il suolo inferiore all’ospitale, ove si trovavano pezzi di selciato romano, e avvenne una vistosa alluvione cosi da quel giorno l’ospitale fu totalmente abbandonato.
I frati di S. Bartolomeo, governati dal priore Frate Orazio della famiglia Fabbri, il 24 agosto mentre stavano facendo loro festa, ebbero un incendio nella chiesa con molti danni. Fu riparata dalle famiglie Fabbri del Borgo e del Castello. Quei frati in compenso donarono a queste famiglie il comodo della sepoltura nella loro chiesa.
Ormai erano stanchi i bolognesi delle prepotenze e crudeltà dell’Ossida e prevedendo il ritorno del Bentivoglio, scesero in piazza e fecero fuggire i governatori pontifici. Furono anche soppresse le altre autorità e fu fatta una nuova magistratura di 10 savi chiamata Balìa. Saputo ciò Annibale Bentivoglio affrettò il ritorno e al principio di settembre venne dalla Romagna a Castel S. Pietro dove era atteso dai suoi sostenitori. Fu qui ricevuto da Ferrabosco e Benvenuto Scaramuzza uomini d’arme di Bologna oltre a tanti altri. Fu riverito dai paesani per signore di Bologna e dal Zogoli e dal Nardi fu accompagnato alla città.
Quest’anno si fecero due illustri matrimoni, cioè di Giovanna di Tomaso Cattanei di Castel S. Pietro con Tomaso degli Azzoguidi di Bologna, e di Taddea di Riniero Cattanei di Castel S. Pietro con Muzio di Nicolò Marescalchi.
L’anno 1439 fu Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Alessandro del sig. Graziolo Accarisi e per il secondo semestre Cristoforo Camaro.
Il 27 aprile Guido Antonio Manfredi [176]signore di Faenza prese Imola che gli era stata donata da Filippo Maria Duca di Milano. Per ricambiare Manfredi si unì al duca con 500 cavalli. Ai Malatesta di Rimini ciò non piacque e intimarono guerra ai Manfredi. Il Conte Francesco Sforza[177] di Cotignola si alleò con i Malatesta e coll’armi investì la bassa Romagna e, dopo aver preso Mordano, passò nel bolognese.
Nel seguente maggio pose il campo sotto Castel S. Pietro e ne tentò la presa, non riuscì e, messo il blocco, si mise a scorrere la campagna danneggiando le messi. Il 3 giugno passò ai borghi della Quaderna con 400 cavalli ed altrettanti fanti. Avendo ripreso l’assedio a Castello convenne agli abitanti cedere alla forza.
Il figlio di Nicolò Piccinino, Francesco[178], che con le truppe del Duca di Milano era a Bologna, sentendo avvicinarsi alla città lo Sforza, uscì colle sue genti per incontrarlo e venire allo scontro ma lo Sforza, sentendosi inferiore, lo evitò ed evacuò subito Castel S. Pietro. Qui venne Nicolò con molta gente, vi lasciò un buon presidio e vi stette fino all’autunno. Il 17 settembre, richiamate le truppe, spedì qui per commissariò Giacomo Dal Lino perché preparasse gli alloggiamenti per Merigo da San Severino[179] condottiero di genti.
In questi tempi torbidi divennero più coraggiosi i facinorosi, i tiepidi nel culto si raffreddarono ancora di più, il rispetto agli ecclesiastici fu dimenticato e solo regnavano le vendette. L’interesse si anteponeva alla equità e alla carità del prossimo e le autorità erano instabili e fatte partigiane. Il partito dei Zogoli, sospettando dei Forni, uccise uno dei loro, Tideo.
Nel Borgo un certo Nonno Salvigni di Casola Valsenio, che si era stizzito con frate Lorenzo di S. Bartolomeo per un contratto di viveri, diede mano ad una ronca per colpirlo. Il frate fuggì nella vicina chiesa di S. Pietro inseguito dal malfattore che non ebbe rispetto alla chiesa e lo ferì mortalmente. Poi ferì ancora molta altra gente che era giunta per fermarlo. Alla fine, frenato il suo impeto a forza di sassi, restò vittima del furore popolare sulla piazza di quella chiesa. Molti altri accidenti si potrebbero raccontare che, essendo di minore gravità, omettiamo.
Alcuni cittadini di Bologna possedevano in questo Castello e Borgo case ed abitazioni vuote. Perciò, dovendo alloggiare genti d’arme, i Massari e gli uomini del Comune ne approfittavano per alloggiarvi i militari e così sollevare dagli incomodi gli altri paesani. Questo anche perché fra tali possidenti vi erano famiglie emigrate dal paese in occasione delle guerre e delle lotte tra i partiti.
Quindi i casamenti erano per lo più danneggiati dalla presenza del militare e perciò fu fatto dai proprietari ricorso al Governo di Bologna. Questi provvide a tanto disordine il 22 gennaio 1440 prevedendo una multa al Massaro ed altri ufficiali di Castel S. Pietro di lire cinquanta per ogni volta e per ogni casa.
Furono poi Podestà di Castel S. Pietro in questo anno per il primo semestre Gabriele Lugari e per il secondo semestre Antonio de Gibaldini.
Il Duca di Milano, per mantenere i Bentivoglio a Bologna si alleò coi Savoja, col Duca di Ferrara, di Mantova, del Monferrato e i fiorentini, chiamando nella Lega anche i veneziani, questi però non si vollero unire, allora Francesco Sforza che era al loro servizio si licenziò e si unì con Nicolò Piccinino che era il Generale della Lega.
Il Papa che era di già passato da Ferrara a Firenze senza avere potuto fare nulla per il proposto Concilio[180], dispiacendogli molto la perdita di Bologna, si mosse per riaverla. Spedì perciò il capitano Baldaccio d’Anghiari[181]capitano con 2.000 fanti nel bolognese a travagliare questi popoli dalla parte della Romagna. I bolognesi si prepararono subito alla difesa fortificando tutti i castelli. A Castel S. Pietro mandarono munizioni da bocca e da guerra e stimolarono i terrazzani alla difesa, assicurandoli di essere remunerati nel loro valore. Il commissario Giacomo Dal Lino, introdusse tutti i grani possibili entro la Rocca, poi ordinò con sua Grida che tutti i villani introducessero la loro roba e bestie entro il Castello affinché il nemico vicino non li depredasse.
Restava il Borgo alla scoperta, ma pure a questo vi si provvide. Fu tagliata la via romana e, con un terrapieno all’ingresso dalla parte di levante, vi fu fatto uno steccato ad uso di fortilizio cosi ché se il nemico voleva di qui avanzare doveva in prima rompere questa fortificazione. Tutte le altre strade attorno al Castello e Borgo furono barricate con ripari di terreno ed altre distrutte.
Il 7 gennaio 1441 si insediò come Podestà Tomaso Agochi e la prima cosa che fece fu quella di chiamare a sé tutti i sindaci delle Comunità soggette a questo suo Vicariato e farsi giurare fedeltà a Bologna nelle presenti circostanze di guerra.
Intanto Balduccio d’Anghiari, discendendo dal fiorentino, venne nella primavera negli intorni di Castel S. Pietro colle sue truppe e vi pose il blocco. Quindi tentò di avere il Castello nelle mani mediante trattativa. Mentre si trattava venne scoperto un complotto di Goro Bandini, Bartolomeo di Raniero e un certo Pietro per introdurre il nemico. Furono scoperti, condotti a Bologna e subito condannati alla tenaglia e alla mannaia. Mentre stava per essere eseguita la sentenza arrivarono lettere dai Manfredi per salvarli, ma solo a Pietro fu salvata la vita.
Nel mese di aprile di quest’anno finì la vita il famoso nostro Floriano da Castel S. Pietro detto poi da San Pietro e fu sepolto in S. Domenico di Bologna.
Divenuti stanchi i bolognesi della guerra, pensarono rimettersi sotto il Papa e resero note le loro intenzioni. Però Castel S. Pietro con altre fortezze del contado e le porte della città erano in mano del Piccinino, così il Senato mandò Gaspare Malvezzi e Givi di Manzolino come ambasciatori il 13 novembre per accordarsi con esso, non essendo il Senato più contento di restare nelle sue mani.
Il Piccinino rispose che voleva 15 mila ducati in tre rate ed in tre anni, che avrebbe subito lasciato in libertà la città e il contado ad esclusione però di Castel S. Pietro, Castel bolognese, Cento, la Pieve, Castel franco, Crevalcore e S. Giovanni fino al termine del pagamento. Il Senato accettò le condizioni e il 21 novembre 1441 furono stabiliti i patti. In seguito il Piccinino mise la città in libertà e pose per governatore dei su detti castelli il Conte Luigi Dal Verme[182], che di mano in mano risiedette in essi a secondo il bisogno.
1442 – 1445. Francesco Piccinino imprigiona Annibale Bentivoglio che, liberato, diventa Signore di Bologna. Castello è occupato dai Manfredi, liberato dal Bentivoglio. I Canetoli uccidono il Bentivoglio.
Passando all’anno 1442 sappiamo che il Podestà fu Pietro Campanazzi.
Seguita la pace col Piccinino. questi rispettò tutti i suoi obblighi. Ma ciò non piacque a suo figlio Francesco Piccinino, egli volle rimanere a Bologna alla custodia della città avendo contro il volere dei cittadini. Temendo questa ostilità, a tradimento e senza alcun motivo fece prigionieri Annibale Bentivoglio, Achille e Gaspare Malvezzi. Mandò il primo nella Rocca di Varano nel parmense e gli altri due, uno nella Rocca del Pellegrino e l’altro a Val di Taro. Ma poi Galeazzo e Tideo Marescotti con altri liberarono il Bentivoglio e segretamente l’introdussero in città ove stette per un poco nascosto.
Intanto Francesco Piccinino continuava a tiranneggiare la città avendo per suo governatore Fantino adducendo che egli non voleva dimetterne il governo senza l’ordine del Duca, commetteva perciò ogni sorta di s soprusi, ingiustizie, estorsioni e malefici per cui sembrava ai bolognesi un ora mille anni di pena ed anelavano alla rivolta.
Alla metà di gennaio il nuovo Podestà di Castel S. Pietro Pietro Campanazzi, volendo egli seguire l’uso introdotto dal suo predecessore, mandò alle Comunità soggette il proclama per cui i rispettivi sindaci dovessero presentarsi per giurare di osservare la fedeltà e l’osservanza delle leggi. Era troppo necessario in questi tempi confermare quest’ordine.
Essendo state frequenti le nebbie e le brinate in questo anno, il gualdo, che era il maggior oggetto di rendita nel comune di Castel S. Pietro, andò a male e fu scarsa la raccolta.
La truppa del Dal Verme che si trovava di guarnigione a Castel S. Pietro, molestava tutta la campagna né vi erano frutti e né prodotti che fossero salvi. Avvenne che due temerari soldati usciti dal Castello si portarono nella collina dove erano vigneti, (che noi supponiamo al Dozzo) e qui guastando e derubando le uve vennero a questione col vignaiolo. Essi lo assalirono e lo percossero in modo che restò tramortito. Altri villani poco distanti, credendolo morto, fecero un agguato ai soldati, mentre se ne tornavano, e li ammazzarono. Il capitano, non potendone scoprire gli autori pose una taglia di 100 fiorini d’oro a chi avesse denunciato ma non ebbe la possibilità di saperlo, poiché erano troppo concordi i paesani malcontenti della truppa che giornalmente derubava alla campagna e percuoteva anche le fanciulle che non volevano acconsentire.
L’anno seguente 1443 Fantini, governatore di Bologna per Francesco Piccinino, vedendosi poco sicuro decise, per assicurarsi la vita, di fuggire a Castel S. Pietro.
Il Dal Verme trovandosi a Castel S. Pietro con 400 cavalli e duemila pedoni presidiava il nostro Castello con la maggiore oculatezza possibile perché aveva saputo della liberazione di Annibale Bentivoglio dalle carceri della Rocca di Varano.
Improvvisamente Annibale Bentivoglio si presentò al popolo, stanco della schiavitù del Piccinino, con seguito di nobili e suoi partigiani e da quelli del Marescotti. Quindi corse alla piazza con un grande seguito e qui, preso il Palazzo, imprigionò il Piccinino che, legato con funi, fu esposto al popolo sopra la ringhiera ove lo fece stare come spettacolo alla gente ammutinata, gente che gridava: Ammazza! ammazza il tiranno!
Non condiscese il Bentivoglio all’impeto popolare, perché voleva la liberazione degli altri prigionieri: Achille e Gaspare Malvezzi, Baldassarre Canetoli e altri buoni cittadini, e in questo modo acquietò il tumulto popolare e successivamente avvenne lo scambio e rimpatriarono i prigionieri.
I castellani, infastiditi anch’essi dalla truppa che da lungo tempo li mortificava, non pensavano ad altro che alla liberazione ed attendevano il momento per fare una insorgenza, avendo già occultamente spedito Simone Rondoni e Polo de Fabbri a Bologna. Ma non potettero effettuare il loro disegno perché Guido Antonio Manfredi signore di Faenza, saputa la sollevazione di Bologna, venne l’8 giugno a Castel S. Pietro con molte genti.
Nello scorso maggio cadde tanta neve e con tanto impeto che fece un gran danno alla campagna. Gli uccelli caddero morti e perfino le rondini. Gli alberi e sopra tutto le querce furono spezzate e sradicate in diversi luoghi. I legnami, in queste critiche circostanze, servirono poi di ristoro nel nostro Castello ove ne furono introdotti centinaia di carri.
Castel S. Pietro intanto era circondato dalle genti del Manfredi che aveva occupato le vicine alture e tutta la pianura dalla parte di Romagna. Questi fece intendere ai castellani che, una volta che Luigi Dal Verme se ne fosse andato dal Castello, voleva entrare o a patti o a forza, questo per trattare la liberazione del Piccinino dalle carceri di Bologna. Non potettero i castellani ostacolare una forza così imponente non avendo chi li aiutasse, onde cedettero alla domanda del Manfredi salve le sostanze e le persone. Furono quindi introdotte le guarnigioni faentine. Su questo esempio fecero lo stesso gli altri castelli del contado meno forti di Castel S. Pietro.
Creati i nuovi magistrati a Bologna, si cominciò a pensare di riavere le fortezze. Nel numero di valorosi capitani assoldati vi fu Cristoforo Casavoda da Castel S. Pietro, detto dopo de’ Capitani.
Il Senato per mantenere la città libera cercò alleanze. Mandò Battista de’ Cattani di Castel S. Pietro
ambasciatore alla Signoria di Venezia e altri a Firenze. Ne riportarono l’alleanza per cinque anni per la qual cosa i fiorentini mandarono Simonetto Dall’Aquila e gli altri Gottifredo, il primo aveva 500 cavalli e 200 fanti e l’altro 500 cavalli e 800 fanti. Questi passando segretamente da Bologna andò nell’imolese e lo pose a sacco poi se ne tornò alla città. Simonetto fece lo stesso sopra il territorio di Castel S. Pietro perché era tenuto dal Manfredi. I terrazzani furono sommamente dispiaciuti e scrissero a Bologna che gli mandasse gente in quantità che le avrebbero consegnata la Terra.
Il Senato accettò e dette l’incarico ad Annibale. Questi, unitosi segretamente con molti amici, uscì di notte dalla città e nel far del giorno 18 agosto, arrivato a Castel S. Pietro, colse inaspettatamente i soldati del Piccinino e del Manfredi che erano in tutto 200 lance. Iniziato lo scontro, uscirono i castellani in aiuto e, assalendo alle spalle il nemico, fecero più male che le genti del Bentivoglio. Dopo una sanguinosa battaglia restò vincitore Annibale, uccidendo parte dei nemici e cacciando gli altri nella Romagna, fece poi anche un gran bottino.
Restavano solo le Rocche del Castello da prendersi onde i paesani correndo con accette alle porte le presero alla disperata. Domenico Tedeschi e Fantone Zogi assalirono il custode del carcere che voleva fare resistenza, fu fermato e tostamente scannato da questi due coraggiosi terrazzani. Fu quindi liberato Pietro Navarino che era imprigionato nella Rocca grande ed era guardato strettamente per conto di Luigi Dal Verme.
Liberato Castel S. Pietro fu tostamente presidiato il nostro Castello dai bolognesi con molti soldati. Successivamente il Senato destinò per castellano a questo luogo Ridolfo da Gesso uomo fido e valoroso. Dovendosi poi fare l’anno 1444 il nuovo sorteggio dei cittadini per gli uffici utili della città e del contado, riconosciuto l’impegno del posto di Castel S. Pietro, pensò il Senato di aumentare il salario al nuovo Vicario.
Aveva Pietro Novarino il suo convoglio in Castel S. Pietro, temendo di essere depredato ricorse al Senato che il giorno 28 gennaio ordinò non solo che fosse difesa la persona ma anche ordinò di lasciare stare né impedire in nessun modo gli uomini che avevano convoglio negli alloggiamenti del Navarino
Fu tanta la neve che cadde in questo mese che venne alta quattro piedi onde convenne puntellare le case e tuttavia molte caddero sebbene puntellate.
Cristoforo Casavoda da Castel S. Pietro, assoldato da Bologna fino dal 16 luglio scorso in cui fu preso a servizio con 60 uomini, era creditore non avendo potuto avere il soldo pattuito. Ricorse al Senato con animo di dimettere la sua carica di capitano se non veniva saldato, fu immediatamente il primo febbraio saldato e così proseguì nell’incarico.
Gli uomini della Compagnia di S. Caterina non avevano regole di autogoverno e a volte avvenivano tra loro dei disordini. Il Vescovo quindi dette loro delle regole ed uno statuto. Il luogo delle loro riunioni era per lo più S. Bartolomeo oppure la parrocchiale. Avendo la direzione dell’Ospitale dei Viandanti fu poi chiamata: La Compagnia dello Spedale.
Riscontriamo nell’Archivio segreto del Senato carte su lavori fatti quest’anno intorno e presso la parrocchiale, fatti fare dal Comune ai muratori Giacomo della Croce da Imola e Bartolomeo Dal Pozzo. Crediamo che questo lavoro fosse l’ambiente che servì poi per cappella ed oratorio della sopradetta Compagnia e che serve ora da sagrestia alla parrocchia.
Le abbondanti nevi cadute nello scorso gennaio avevano devastato la chiusa al nuovo mulino recentemente fatto dagli uomini del Comune. Essendosi fino a giugno differita la riparazione e quindi non potendosi macinare, accaddero forti proteste nel paese contro la pubblica rappresentanza.
Le conventicole promosse da Marco Bendini senior e dai Samachini facevano temere disordini. Testa Gozzadini che era castellano della rocca piccola ebbe non poco da fare per calmare le inquietudini, fece constatare la irragionevolezza dei reclami, che venivano rivolti contro i Ghirardacci e i Balducci. Questi facevano sempre i verbali nelle pubbliche assemblee, coadiuvati dai Zopi, Fabbri e Mazza, così che risultavano riportate solo le loro parole e non quelle degli altri. Perciò i Bendini e i Samachini, con anche i Rondoni, cercavano sempre di contestarli non vedendo mai prese in considerazione le loro proposte.
Il Gozzadini temendo disordini ed essendo stata spogliata la rocca di gran parte delle armi da fuoco, fece richiesta al Senato di esserne di nuovo fornita come fu fatto come si riscontra nei libri delle deliberazioni senatorie: 1444, 12 giugno. Si diano (…) de nostro ordine sex decim schiopettorum compratorum et positum partim in Roca Castri S. Petri et partim in Roca Castri bolognesi.
Annibale Bentivoglio che si faceva molto amare da suoi cittadini, fu preso in invidia dai Canetoli, che cominciarono a tramare contro di lui. Egli si comportava molto bene verso di loro, ma questo sembrava essergli più nocivo che favorevole. Cominciò perciò a stare in guardia e, temendo rivolte nel popolo, fece provviste di munizioni di ogni fortezza del contado.
Poi per mantener sempre più l’affetto de cittadini, sapendo che chi possedevano stabili nei castelli di Cento, Pieve, Castel S. Pietro, Medicina e S. Giovanni veniva tassato come i locali, decise che venissero esentati. Così l’8 febbraio fu decretato dal Consiglio generale dei 600 che i nobili e i cittadini di Bologna dimoranti nella città non dovessero pagare quelle tasse locali.
Questo non sottrasse lo sventurato Bentivoglio dall’odio dei Canetoli anzi aumentò l’accanimento e pochi mesi dopo, nel seguente anno 1445, fu proditoriamente ucciso.
La Compagnia di S. Caterina, ottenute le sue regole dal vescovato, il 23 maggio, per decreto del vicario del vescovo, fu associata alla parrocchiale e cominciò ad officiare ed elesse un cappellano che ebbe il titolo di beneficiato sotto l’obbligo di diverse messe. Però l’entrata di soli dieci fiorini per le messe non permetteva alla Compagnia di assumere un cappellano perciò ricorse al Vicario che risolse il problema unendo la cappellania alla parrocchiale.
In questo anno Bologna, sempre pronta alla sedizione, cambiò governo come conseguenza dell’ostilità e della lotta dei Canetoli contro i Bentivoglio. Baldassarre Canetoli, uomo di grande coraggio, decise di portare a conclusione il conflitto. Preparò un agguato ad Annibale e lo uccise.
Il misfatto fu commesso il 24 giugno 1445. Così viene descritto da un diarista coevo: Battista Canetoli invidioso con altri di sua casa delle grandezze di Annibale, per vendicarsi de Marescotti, fecero questa trama. Avendo Francesco Ghiselieri trattenuto un di lui putto natoli due mesi prima invitò Annibale Bentivoglio a tenerlo al S. Fonte. Tenuto che ebbe il bambino al battesimo il Ghiselieri invitò il novo Compare a visitare la Comare alla propria casa (…). Appressatasi a questa, si scopersero Baldassarre e Bertozzo Canetoli armati onde Annibale, vedendo che si avventavano contro di esso volle dar mano alla spada ma trattenuto dal traditore Ghiselieri, fu in quell’istante con molte pugnalate ucciso l’infelice Annibale(…). Sortirono in quell’istante dalla casa del Ghiselieri 25 armati in ajuto.
Seguito questo fatto fu sparata una spingarda per dar segno che si unissero molti altri nascosti per ammazzare tutti li Marescotti cioè Giovanni, Luigi, Galeazzo ed Antenore presso la chiesa delle monache di S. Giovanni Battista dove si faceva la festa. Furono tutti assaliti e, fuggendosi solo Galeazzo, li altri suoi fratelli restarono vittime della crudeltà de Canetoli.
Melchiorre Marzoli che era delli Anziani, che per caso era a Palazzo, armò tosto la piazza. Galeazzo Marescotti, che era riuscito scampare, unitosi a suoi amici, perseguitando i Canetoli, ne uccisero in tal giorno cento fra quali il traditore Ghiselieri e Baltozzo Canetoli. Battista si salvò in una casa ma ritrovato fu posto su di un carro, tanagliato e condotto in piazza ed ivi ammazzato, levatoli il cuore ed il fegato fu questo portato ove fu tradito il Bentivoglio ed ivi inchiodato e ben guardato da sentinelle acciò servisse di esempio a malfattori. Il resto del suo corpo fu arso e quel che non consumarono le fiamme fu dato ai cani. Furono per ciò saccheggiate 50 case della fazione Canetola. Quelle però de Canetoli che erano di rimpetto a SS. Gervasio e Protasio con quella del Ghiselieri furono abbruciate ed atterrate.
1445 – 1449. Chiamato Sante Bentivoglio, zio di Giovanni figlio di Annibale. Dedizione di Bologna alla Chiesa, Bolla di Nicolò V. Rivolta dei Pepoli. Fuorusciti occupano Castello.
I Canetoli che avevano chiamato in soccorso il Duca di Milano per il giorno 29, avendo avuta troppa fretta non realizzarono il loro progetto. Ciò non ostante il Duca tentò la presa di Bologna, fintanto che la città era divisa in due fazioni, per darla poi al Papa. Infatti, col consenso dello stesso Papa, Taliano Forlani condottiere dell’armi ducali passò in Romagna con 1500 cavalli e 500 fanti.
Giunse il 17 luglio a Castel S. Pietro e si mise a fare ruberie nella campagna. Quando la guarnigione, con molti dei più bravi paesani uscì per contrastare le scorrerie, assalì il Castello e se ne impadronì coi partigiani dei Canetoli. Gli altri castelli impauriti da queste strane vicende si arresero senza contrasto.
Pietro Dalbambo di Castel S. Pietro, che era castellano nella rocca piccola, cedette alla forza e, col patto di essere fedele ai nuovi conquistatori con i suoi uomini, fu lasciato alla custodia della stessa rocchetta e porta del Castello dal quale nessuno lasciava uscire né entrare se non con i dovuti lasciapassare.
Quest’anno fu anticipata la vendemmia per evitare il devastamento delle truppe.
Il Senato che, pur continuando a pagare il Dal Bambo come castellano della rocca piccola, temeva per la fedeltà di Castel S. Pietro, spedì qui Lodovico Malvezzi con una scorta e fu ordinato al Massaro che gli fornisse tutto il necessario di biada, fieno e viveri.
Mentre si operavano tutte queste cose il Duca di Milano mandò in soccorso dei fuorusciti dalla parte della Lombardia il Conte Piero Sanseverino con 5.000 uomini e pose l’assedio a Bologna. I bolognesi scrissero ai fiorentini che gli mandassero Simonetto Dall’Aquila, prode guerriero, con 500 cavalli e 200 fanti. Il Conte intimorito abbandonò l’assedio.
Essendo piuttosto stanchi i bolognesi di guerreggiare, più per necessità che per voglia, cominciarono a trattare col Papa. Intanto il Duca di Milano pensava, per maggior conforto dei fuorusciti di Bologna, di spedire una nuova armata nel successivo anno 1446.
Perché nelle presenti circostanze fosse governato a dovere Castel S. Pietro da un soggetto di vaglia, il Senato elesse come commissario Lodovico Bianchi uomo di gran reputazione ed onestà.
Nel principio del 1446 il Duca di Milano mandò a Bologna, per aiuto dei fuorusciti, Guglielmo da Monferrato e Bartolomeo da Bergamo con truppa fresca per sottomettere la città, al cui governo aspirava, lusingato dalla fazione canetolesca.
I bolognesi per questo non si perdettero d’animo e trattando la loro sottomissione al Papa fortificarono le loro fortezze e di uomini e di rifornimenti poi, avendo al loro soldo il Sanseverino, lo spedirono alla visita della frontiera con la Romagna.
Venne perciò all’entrare di aprile a Castel S. Pietro Boezio Gozzadini in rivista degli uomini d’arme e visitato il tutto, passò a Medicina.
Sebbene ci fossero nel nostro Castello soldati pagati per la guardia, non mancavano le turbolenze e le divisioni di partito. Avendo Francesco Dal Sarto, Antonio Comello e Antonio Fiegna invitato Lascarino e Bellone Dalle Balle, partigiani dei Canetoli ad andare con loro al confine dell’imolese per trattare affari, furono presi in sospetto da Testa e Marco Frassini. Ritornati in paese furono affrontati col nome di traditori al che, replicando furiosamente, si venne alle mani.
Morello da Pavia intervenne e li riparò in una sua casa nel Borgo sulla via romana per salvarli dalla furia popolare che, arrabbiata, la mise fuoco. Crescendo le fiamme, Ercole dal Bruno, fingendosi nemico degli assediati, li fece uscire dal retro della casa da cui, valicando la fossa del Borgo, si nascosero nei vicini seminati e così salvarono la vita. Era questa casa posta presso la riva della fossa che ancora a quei tempi esisteva. Tale casetta consumata dal fuoco non fu più ricostruita.
Eseguirono questo incendio i tre colleghi suddetti anche perché non c’era alcun commissario in paese che potesse porre freno alla loro tracotanza, avendo abbandonato il suo ministero Lodovico Bianchi. Una tanta cattiveria amareggiò il parentado dei fuggitivi e i loro aderenti, per cui ne seguirono nel tempo risse ed uccisioni.
Questo atto criminale colpì tanto il Governo per modo che gli incendiari, rimanendo banditi per il taglio della mannaia, spatriarono. Il Senato poi provvide per un egregio commissario fornendolo di amplissime facoltà e fu Vezzolo Malvezzi nominato il primo giugno.
Lodovico Bianchi che aveva servito come Commissario di Castel S. Pietro ed aveva pure servito il Senato per approvvigionare il territorio, per gli alloggi ed altro occorrente alle truppe dal Savena fino ai nostri confini di Romagna come pure nelle superiori montagne, fu indennizzato dal Senato a ragione di sei scudi mensili per il tempo che aveva servito.
Perché poi gli uomini della pubblica rappresentanza si intromettevano nella riscossione dei dazi pubblici e collette per controllare la parte di loro spettanza, Pietro Dal Bambo, castellano della Rocca, pretendeva che non dovessero immischiarsi in tali affari. Fu presentato un ricorso al Governo con tali lagnanze che facevano temere di una insurrezione. Quindi, per ovviare a scandali, il Senato scrisse al castellano che non si occupasse se non di affari della Rocca. Eccone il testo: 2 augusti. Fuit scriptus Castellano Roche Castri S. Petri quod non impediat in aliquo modo Homines d. Terre ne se intromittant in aliquibus Datiis et aliis non pertinentibus directe ad custodia d. Rocha.
L’erario pubblico di Bologna si trovava esausto e quindi prese in prestito lire 1.092 da Nicolò Ajmerici, l. 600 da Budrio e l. 888 dal comune di Castel S. Pietro più altre l. 309 per pagare i creditori Simone e Giacomo Calderini. Furono poi rimborsati nelle tasse ordinarie.
Pietro Rondoni e Giovanni Zoppi di Castel S. Pietro possedevano nella Romagna terreni e per potere avere i loro prodotti dovevano chiedere un salvacondotto ai nemici che alloggiavano nell’imolese. Per non esser poi riconosciuti sospetti e processati chiesero licenza al Senato di Bologna di potere chiedere tale salvacondotto per vendemmiare e condurre l’uva a Bologna. Conosciuta la domanda giusta ed utile il 26 agosto gli fu concesso.
Si stava in continuo sospetto da parte dei bolognesi ma anche dei nostri castellani di improvvise aggressioni dal vicino nemico. Perciò all’avanzarsi della stagione si accrebbero le guardie nei posti di frontiera. Alla chiesa di S. Giacomo vi erano sei uomini che in tempo di notte tenevano un alto fuoco per scorgere da lontano il nemico. Però una sera arrivarono 20 cavalieri nemici che dispersero le guardie e bruciarono con lo stesso fuoco la chiesa.
Avvicinandosi la fine dell’anno il Senato pensò di provvedere i castelli di nuovi ufficiali, fu quindi il 14 dicembre 1446 eletto per commissario di Castel S. Pietro il dott. Giovanni Inglesio Tomari.
Agli uomini di Castel S. Pietro restava da fare la elezione del nuovo Massaro per l’anno 1447. Fu estratto Magnano de Magnani. Questi però a alcuni non piaceva e nacquero risse formidabili e scandali nell’assemblea tenutasi il 22 dicembre e poco mancò che il paese non divenisse un macello se non vi avesse messo mano Vezzolo Malvezzi colla sua autorità di Commissario.
Fu, in seguito della seria altercazione, portato il fatto al Senato che temendo una rivolta del paese tanto più che era in vicinanza del nemico, elesse quattro cittadini e li spedì a Castel S. Pietro che, usate le più dolci maniere con i più arrabbiati, composero tutto e confermarono di autorità Magnano per Massaro del solo primo semestre.
Proseguiva la trattativa col papa mediante Antonio Ranucci, ma senza risultati. Continuava ancora il Duca di Milano a disturbare i bolognesi ma con poche genti, quindi essendo restati solo i Canetoli con 700 armati, assistiti da Alberto Pio signore di Carpi, i bolognesi pensarono di assoldare Francesco Sforza di Cotignola colla speranza di liberare il territorio dai nemici, ma inutilmente poiché crescevano i disordini.
Due anni fa gli uomini della Comune di Castel S. Pietro avevano, per ordine del Senato, somministrato a Lodovico Malvezzi e sua scorta ogni sorta di viveri così ché ne era in credito la cassa comunitativa di l. 116. Fu fatta richiesta al Governo per il rimborso e il 18 gennaio il Senato decretò così: (…) onde oggi avendo ricorso si ordina di defalcare a d. uomini per il Dazio del Sale levato e che leveranno per d. somma.
Il 23 febbraio 1447 morì Papa Eugenio IV dopo sedici anni di papato e sessantaquattro di vita. Il 13 agosto vi tenne dietro Filippo Maria Duca di Milano disturbatore della pace dei bolognesi e fomentatore dei fuorusciti.
I cardinali radunati in Conclave elessero il 5 marzo Tomaso da Sarzana che fu già vescovo di Bologna, che assunse il nome di Nicolò V, questi era ottimo teologo, di che ne diede saggio nei Concili di Ferrara e Firenze. Fu di umili natali.
Il Senato di Bologna mandò subito ambasciatori al nuovo papa fra i quali Battista figlio del famoso Floriano da Castel S. Pietro. Si adoperarono tanto che si decise la dedizione di Bologna alla Chiesa e nel maggio furono fatti molti Capitoli, che furono poi nel seguente agosto 1447 confermati per Bolla.
Fatta tale pace se ne diedero, tanto nella città che nei castelli, testimonianze pubbliche con luminarie, suoni di tamburi e trombe, indi si spiegarono le bandiere ecclesiastiche. Giovanni Fabbri che era il sindaco attuale della Comunità, come narrano le memorie di questa famiglia, avendo avuto un buon raccolto fece pane per i poveri e per i passeggeri che si fermavano al nuovo ospitale.
Gli ebrei abitavano in questo paese da molto tempo, tanto che non se ne ha precisa memoria se non nel 1376 come si scrisse. Tenevano qui banco onde, se volevano abitare qui e dare ad usura, occorreva facessero patti con la Comunità. In questo tempo, volendovi abitare un certo giudeo Isacco da Modena, fu necessario convenire certi patti a rogito pubblico, patti che furono stipulati il 15 agosto da Giovanni Fabbri Sindaco della Comunità.
La setta ebraica poteva essere un pericolo per nostra religione a motivo non solo di contrattare ma di conversare continuamente coi cristiani, coabitando nelle stesse case in questo paese. Quindi la Comunità destinò un locale appartato nel Borgo sopra i terragli interni lungo la via consolare, alla destra andando verso Bologna dalla parte di occidente. Qui fu fabbricata una comoda abitazione che fu poi chiamata il Ghetto che, ai tempi presenti del 1801, conserva indelebile il suo nome. Qui si chiudevano come in un serraglio e se ne vedono tuttora i portoni e i locali per più di una famiglia. Il P. Vanti riferisce che a suoi giorni vi si leggeva sopra la porta la seguente scritta: Judeorum contubernium con altre lettere e parole ebraiche da esso non annotate.
Nell’anno 1448 il papa mandò a Bologna come governatore Astorre Agnese, furono ripristinate le autorità abolite e reintegrate quelle sospese. La chiesa bolognese fu provvista del suo pastore nella persona di Filippo Calandrini. Furono recuperate i castelli che erano in mano dei fuorusciti da Nestore Manfredi signore di Faenza che ora era stato assoldato dai bolognesi.
Fu preso Bettozzo Canetoli, che aveva ucciso lo sventurato Annibale Bentivoglio. Fu condotto alla città, ucciso ed appeso per un piede alla colonna presso cui era avvenuto l’omicidio del Bentivoglio.
Proseguendo a ripulire il contado furono presi sul confine imolese Ansarino Dalzano e Jacone Bandini con altri loro aderenti. Condotti in patria furono strangolati avanti le loro abitazioni. Lippo Leali con due suoi compagni, furono banditi in perpetuo sotto pena della testa dal contado per trenta miglia.
Al Governatore Agnese sembrava di essere poco stimato a Bologna mentre c’era grande riverenza verso il Bentivoglio, quindi decise di abbandonare la città e lasciare per suo luogotenente Antonio Arconato. Questi non potendo anch’esso governare liberamente per rispetto al partito bentivolesco, andò a Roma e restò Bologna senza il ministro pontificio e alla volontà di Sante Bentivoglio[183], tutore di Giovanni Bentivoglio, fanciullo di 3 anni, figlio dell’ucciso Annibale.
In questo tempo Don Gherardo Fabbiani, sentendosi poco sicuro per certi contrasti avuti coi i Muzza e i Fabbri di Castel S. Pietro decise di rinunciare alla cura di questa arcipretale senza informare la comunità. Andò poi il 14 gennaio 1449 al capitolo di S. Pietro e propose Don Pietro Mingoli che ebbe l’approvazione. I canonici presentarono, senza più cercar altro, la scelta al Vescovo e Vicario colla dichiarazione di fare tale presentazione senza pregiudizio della Comunità per questa sola volta. Questo sottomano dispiacque tantissimo alla università di Castel S. Pietro che non mancò di angustiare il nuovo arciprete, che vedendosi mal sofferto si accorò tanto che sopravvisse poco alla carica.
Francesco Zoni, rispettando le disposizioni del padre Bartolomeo, assegnò in dote all’altare di S. Biagio eretto nella parrocchiale alcune tornature di terra, affinché fossero celebrate alquante messe.
Il 21 febbraio fu provveduta la rocca grande di castellano e fu Giovanni Dal Verde che prestò il giuramento di fedeltà. Saputo l’abbandono della città di Bologna fatto dal luogotenente Arconato, il 22 febbraio Nicolò V nominò Legato suo fratello Filippo da Sarzana.
I bolognesi, che ricordavano il buon governo di Annibale Bentivoglio, volevano bene al suo figliolo Giovanni che aveva appena tre anni. A sua protezione avevano chiamato da Firenze suo zio Sante, figlio bastardo di Ercole Bentivoglio[184].
Egli venne ma, avvelenato dalla passione di farsi signore della città, si comportò in modo da provocare la sua rovina. Infatti, vedendosi da tutti riverito, abusò del suo potere proteggendo i malvagi. Sotto il suo comando non si sentivano altro che risse, omicidi e malefici dei suoi protetti. Il Legato non potendo perciò più tollerare la condotta di Sante e gli abusi che ne derivavano avvisò il Papa. Questi rimproverò amorevolmente i bolognesi bentivoleschi, ma le paterne ammonizioni non furono ascoltate e il Legato, col pretesto di fuggire la peste che affliggeva la città, fuggì a Spoleto ove era il Papa. Restò quindi la città di Bologna alla discrezione di Sante.
Veduto ciò alcuni buoni cittadini fra quali Alberto e Nicolò Masotti, Giovanni Fantuzzi, Nanne e Francesco Vizani e Romeo Pepoli, si riunirono segretamente e decisero di tentare la liberazione della patria dalle mani di Sante. Poi Romeo Pepoli riunì a casa sua altri gentil uomini decisi a cacciare Sante dalla città. Usando lo stesso pretesto del Legato di fuggire la peste alla fine di giugno vennero a Castel S. Pietro, luogo fortissimo per la sua ubicazione, per la solidità delle rocche, per le guarnigioni e per essere a portata della Romagna, da cui ricevere aiuti.
Inoltre qui risiedeva come Podestà Fabbrino Montacheti uomo fidato e loro amico sincero e si poteva sperare soccorso da Carlo da Campobasso, Vicerè di Napoli, che si trovava in Romagna con un grande esercito. Infine avrebbero avuto l’aiuto dei paesani mal sofferenti delle imposizioni di Sante.
Giovanni Fantuzzi che aveva trovato a Castello Giovanni di Agostino Purgatore detto il Mosca, capitano della porta di strada Maggiore, trattò con lui di avere libero accesso alla porta. Il Mosca ciò convenuto partì coi suoi figli ed andò a Bologna essendo stato avvertito di ricevere il Vicerè di Napoli in città se arrivasse. Ma uno dei suoi soldati, che aveva sentito tutto, lo tradì. Preso e torturato coi suoi compagni, raccontò tutto.
Il Bentivoglio, inteso che Romeo e Giovanni Fantuzzi con gli altri gentiluomini volevano introdurre Carlo da Campobasso, Viceré di Napoli, a Bologna e cacciare lo stesso Bentivoglio, si adoperò perché il Senato assoldasse Astorre Manfredi di Faenza[185] con 600 cavalli. Poi fece decapitare in piazza il Mosca coi suoi seguaci. Ciò fatto il Senato proscrisse come ribelli i Pepoli e i Fantuzzi e saccheggiò e bruciò le loro case. Lo stesso accadde anche a quella che aveva a Bologna Jacomo Muzza da Castel S. Pietro, detto Jacomazzo, uomo facinoroso d’arme del Duca di Milano, che si era collegato con essi. Furono pure proclamati ribelli della patria e decaduti dalla cittadinanza tutti gli altri aderenti a questo partito.
Dopo ciò fu mandato a Castel S. Pietro Carlo Malvezzi con buona scorta d’uomini a fare sapere ai congiurati, da parte di Sante Bentivoglio e del Senato, che in termine di un ora dovessero andare via lasciando libero il Castello e le rocche sotto pena della vita. Carlo si presentò alla porta del Castello e così parlò a Romeo ed agli altri:
Se non fosse officio giusto e dovuto ad ogni uomo, di lasciare il proprio commodo per li amici e per la patria, io non verrei al presente innanzi a voi gentiluomini ad esporvi la commissione datami da miei concittadini,(…) Ma poiché è cosa tanto chiara quanto la luce del sole che il bene della patria deve essere amato sopra ogni cosa umana, perciò mi avrete per iscusato se io, che per parentado con molti di voi sono congiunto e che lungo tempo vi ho favorito, venga ora a fare l’opposto ed a dirvi per parte del Senato e del Bentivoglio che abbandoniate questo loco e lasciate il governo del med. e la signoria a chi di ragione si spetta. Vi deggio fare intendere ancora che si è consultato in quel palazzo dove rissiedono le autorità che dipartiate subito da questa terra.
Non sono mancati di quelli e non pochi, che abbiano detto non già che vi dipartiate sicuri da questo loco, ma che sopportiate ancora quella pena che si conviene a chi tiene l’altrui robba e le altrui dignità oppresse. Ma la più parte di quei cittadini, rivolti alla clemenza verso di voi, hanno concluso che se vi partirete di qui e consegnerete nelle mani de commissari della città codesto Castello e le fortezze sarete accompagnati fuori sicuramente, porterete seco le vostre robbe e mantenerete le vostre familie e sostanze illese come per l’avvanti,. Fin qui si estende la commissione della mia ambasceria. Come amico vostro poi mi offro garante e pronto a mettervi la vita per scudo a tutti li insulti e pericoli che vi potessero accadere purché dal canto vostro non si manchi a nulla. (…) Il mantenere le facoltà paterne e la vita soprattutto dolcissima è cosa degna di onore, è cosa da uomo prudente, ma il perderla con vergogna, come potrebbe accadervi sarà per voi inutile il pentimento di esservi procacciato un male che Dio voglia non vi incontri.
I cittadini e i nobili risero di un tale ragionamento, ma poiché conveniva dare una adeguata risposta, Romeo Pepoli come uomo coraggioso ed eloquente rispose:
Converebbe o cittadino Malvezzi certamente avere più tempo a dirlo contro, oppure di essere di tanto acuto ingegno come voi, ma io privo dell’uno e dell’altro, a nome anco di questi gentiluomini ed amici, rispondo che fin qui abbiamo aderito al Governo passato fintanto che è stato maneggiato onestamente ed utilmente al pubblico ed al privato ed a tutti ne è piaciuta le libertà. Ma qual novo accidente interviene che vogliasi ora sacrificare la patria e tutti al piacere di un solo? Si pensa forse colle minaccie troncare li nostri dissegni? Nò certamente.(…) Manca forse il coraggio per sostenere l’impresa a cui ci siamo aggregati? Non credereste giammai che questi miei coleghi ed altri che a noi si uniranno siano per arrendersi alle vostre comminatorie. Siamo bene tutti ammirati del vostro messaggio e di chi ve lo ha imposto col pretendere mediante un vile comando di farci abbandonare con disdoro questa nostra Terra e sue fortezze delle quali ne siamo tutti egualmente padroni. Che perché pensando noi tutti di potere stare in Castel S. Pietro, come ogni altro buon cittadino, siamo rissoluti e di animo costante di qui non volere partire se non cacciati a forza e coll’armi impugnate. Noi tutti con questa fida e prode nazione di Castel S. Pietro, stancata dalle gravezze indebite e da tant’altre infinite angustie che l’opprimono, attendiamo il momento di vedere scosso quel giogo che ha oppresso finora e di vedere a tutta prova l’animo coraggioso di chi tanto vi ha commissionato”.
Un tale ardente risposta animò tanto i gentiluomini che i castellani che si erano affollati ad ascoltare la risposta, che riscosse un plauso universale e il popolo si animò a fare la più valida difesa possibile.
Fu quindi chiusa la porta del Castello e suonata la tromba, poi Romeo fece spiegare la bandiera della Chiesa e collocarla in entrambe le torri delle rocche, affinché anche da lontano ognuno la potesse vedere.
Ritornato il Malvezzi a Bologna riferì il tutto a Sante e al Reggimento che sdegnato dichiarò anche Castel S. Pietro ribelle.
Giacomazzo ed Ermete Muzza di Castel S. Pietro spiegando la bandiera e gridando: Viva la Chiesa e moja il mal governo! fecero prendere al Pepoli il solenne possesso della Terra. Questi poi, entrando nelle rocche, nominò per castellani Giovanni Caretti e Giovanni Dal Verde ai quali le consegnò facendosi giurare fedeltà.
Romeo scrisse a vari suoi amici che venissero a soccorrerlo con armi e forze. Non perdette tempo ancora a fortificare il Castello, rinnovò i palancati ove erano deboli, fece alzate di terra ai capi strade che portavano alla rocca grande, ordinò ai villani che si ritirassero con le robe e le famiglie nel Castello. Invitò poi i Canetoli, i Ghiselieri ed altri fuorusciti che erano nella Romagna ad associarsi. Scrisse inoltre al Papa di quanto accadeva e che ciò era per liberare la patria dalle mani bentivolesche e da altri che la tiranneggiavano, con animo di ridurla all’obbedienza di S. Chiesa con l’intento di consegnar tutto al Legato quando fosse venuto.
1449 – 1450. Astorre Manfredi assedia Castello. Re di Napoli in aiuto agli assediati. Battaglia tra Manfredi e Lodovico Gonzaga alla Riccardina. Bologna tratta col Papa.
Il Bentivoglio col Senato, temendo ancora della città, chiamò Astorre Manfredi signore di Faenza che venne con molta gente e fu spedito, con Achille Malvezzi per commissario, in campo a Castel S. Pietro, con molti fanti e con la bombarda grossa. Questa fu subito drizzata dalla parte di ponente contro le mura del Castello al disotto della rocca grande. Si cominciò quindi a bombardare il muro e si fecero vari tentativi per avere il Castello, ma era tanto guarnito e così bravamente difeso che ogni prova riusciva vana. Finalmente, avendo atterrato un buon pezzo di mura, ove ora si estendono gli orti dell’eredità Calderini, dei Bergami e Toschi fino presso al bastione dell’angolo inferiore, si prepararono per dare l’assalto.
Il Pepoli, cercando di guadagnare tempo, mandò fuori Domenico Toschi, Cosmo Serga, Ermete Mazza e Giovanni Rondoni che fecero credere di essere fuggiti di nascosto e che volessero trattare con Sante e il Senato. Chiesero di andare in città ma, come voleva Romeo, non si arrivò ad alcun accordo.
Nanne Vizani erano andate da Alfonso Re di Napoli, che stava guerreggiando contro i fiorentini a pregarlo di soccorrere i bolognesi fuorusciti che erano in gran pericolo. Quel Re era molto liberale e desideroso di servire il papa, ascoltò Nanne e lo inviò con lettere in Romagna da Carlo da Campobasso suo Viceré, questi mandò col Vizani alcune compagnie al Pepoli in difesa di Castel S. Pietro.
Il Bentivoglio, temendo il malcontento popolare, procurò una tregua e il papa mandò a Bologna Giacomo Vanucci a trattare la pace. Nello stesso tempo il Papa si unì col Duca di Urbino[186] con l’intenzione di mandarlo alla volta di Castel S. Pietro e a liberare Medicina dai ladri e banditi che infestavano quel paese e là si rifugiavano.
Il Papa poi spedì al Senato bolognese Francesco Luiverta facendo sapere che voleva assolutamente la liberazione di Castel S. Pietro e dei fuorusciti che in quello soggiornavano.
Il Senato che conosceva benissimo quanto ragione aveva il papa, accolse bene l’inviato e, per mostrargli il gradimento, gli regalò dodici braccia di panno scarlatto.
Ma la faccenda non si concludeva e i fuorusciti facevano scaramucce qua e là per alleggerire l’assedio fintanto che fosse arrivato un nuovo soccorso. Per questo motivo il Manfredi levò il campo da Castel S. Pietro e andato a Medicina trattò coi medicinesi e i fuorusciti che si tenevano quella Terra e fu stipolato l’accordo il 21 ottobre 1449.
Avuta in suo potere Medicina il Manfredi ritornò a Castel S. Pietro con ordine del Senato a continuare l’assedio. In tale occasione il Senato ordinò che le spingarde che erano a Medicina fossero date al Manfredi. Si era ammalato in queste circostanze a Castel S. Pietro Lodovico Lodi e, premendo al Senato, fu concesso a Galeotto Regosia, celebre dottore e maestro nella arte medica, di abbandonando la città per poterlo qui curare.
Mentre il Manfredi era intorno a Castel S. Pietro, arrivò il Viceré di Napoli con tutto l’esercito e mandò avanti un araldo a sfidarlo a battaglia. Manfredi temendo la peggio, si ritirò a S. Lazzaro poco distante da Bologna. Il Viceré avvisò Lodovico Gonzaga[187] signore di Mantova che prontamente venisse verso Castel S. Pietro in soccorso degli assediati e che provvedesse a sbaragliare le truppe di Nestore Manfredi. Avuto l’avviso il Gonzaga iniziò il suo viaggio con 3.000 cavalli e 2.000 fanti verso il bolognese.
Il Manfredi intanto era tornato all’assedio di Castello. Il Viceré decise di arrivare allo scontro e per meglio assicurarsi la vittoria aspettò il Gonzaga. Si incontrarono a Medicina e trattarono il modo di liberare Castel S. Pietro come infatti avvenne. Giunto il Gonzaga alla Ricardina sul Medesano, trovati i soldati del Manfredi, si attaccò una fiera battaglia, restò sconfitto Nestore e quindi fu liberato Castel S. Pietro e i fuorusciti che c’erano dentro.
Il Senato di Bologna avendo inteso la rotta, cominciò a trattare col pontefice l’obbedienza, accettata la quale il Viceré tornò in Romagna ed il Gonzaga a Mantova.
I fuorusciti furono di queste famiglie ed il fiore della nobiltà di Bologna: Pepoli, Canetoli, Ghiselieri, Fantuzzi, Isolani, Vizani, Rangoni, Lignani, Anticonti, Usberti, Felicini, Albergati, Conte di Panico, Muselli, Mazovillani, Mondini, Olivieri, Bonfigli, Cuzzani, Gombruti, De Campeggii, Boccaferri, Melini, Muzzarelli, Cazzetti, Da Villanova, Ambrosini, Pizzani, Bombaci, Berri, Alberici, Cortellini, Piatesi, Monteceneri, Guastavillani, Vitali, Conti, Leprosetti, Giovanetti ed altri moltissimi.
Stabilita la soggezione a S. Chiesa, il Papa mandò a Bologna l’anno 1450 per Legato Bessarione Niceno cardinale di nazione greca, uomo di grande dottrina e segnalata prudenza con l’autorità d’accomodare tutte le cose di Bologna, come difatti fece.
Restava solo Castel S. Pietro che era tenuto da Romeo Pepoli in guarnigione per la Chiesa e non lo voleva restituire. Il Senato scrisse al Papa che gli sembrava cosa indebita non riaverlo. Il papa rispose che tanto Castel S. Pietro che Crevalcore li teneva il suo Legato per evitare probabili pericoli. Poi spedì un Breve al Legato, diretto a Romeo Pepoli e Giovanni Fantuzzi, col quale avvisava che partissero e lasciassero il Castello in mano del Legato.
Questi usando della sua prudenza, aspettò a dargli esecuzione il 20 marzo spedendolo, mediante un chierico di camera, a Romeo Pepoli e Giovanni Fantuzzi. Questi, letto il Breve, tosto lo cedettero al commissario che fu Giovanni Andrea Medavia. Romeo Pepoli con gli altri fuorusciti fu poi mandato via sotto gravissime pene e censure e il 6 aprile partirono tutti.
Romeo andò a Lugo, il Fantuzzi a Ravenna dove mise casa, Albertini fece lo stesso in Cesena e così di altri in diversi luoghi, escluso Giuseppe Mondini che per essere infermo restò qui col permesso del commissario il che fu motivo di radicare quivi la famiglia,
Il 16 maggio l’accennato chierico consegnò poi il Castello e la Rocca in potere al Senato ove il 21 fu spedito per Commissario e Vicario Virgilio Malvezzi.
Questa nomina di un partitante bentivolesco spiacque molto ai castellani onde, intendendola male, mormoravano. Il nuovo Legato avvisato di questo scrisse e comandò alla università del Castello sotto gravissime pene di doversi prestare quietamente agli ordini.
Queste cose ed altre che vennero in seguito posero anche Crevalcore in questione, onde il Senato mandò ambasciatori al Papa tanto più che il Legato, prevedendo disordini, si riprese il governo di Castel S. Pietro e Crevalcore facendo in essi inalberare nuovamente l’armi e bandiere della Chiesa.
Il Papa dopo avere ordinato ai fuorusciti la evacuazione di Castel S. Pietro, ordinò anche ai bolognesi ogni rispetto possibile alle loro famiglie che ebbero il permesso di riportare le proprie robe in città, come dal presente permesso: Salvacondotto a favore della nobile e generosa signora Elisabetta consorte dell’esimio Dott. Romolo Pepoli con cinque ragazze con un putto suoi figli e parte nipoti, come pure alla figlia Costanza moglie già di Testa Gozzadini con nipote del sig. Ludovico Favari, una serva ed una schiava con un familio, di potere venire dalla Terra di Castel S. Pietro in Bologna con 4 carra .
Pietro Dalbambo di Castel S. Pietro, per i suoi servizi prestati al Senato nella scorsa rivoluzione, fu rimborsato delle sue spese e di quelle dei settantacinque uomini che aveva al suo servizio.
Il Papa dopo avere ascoltato gli ambasciatori bolognesi sopra la restituzione di Castel S. Pietro e Crevalcore, passati alcuni giorni, rispose al Senato che al momento si dovessero restituire questi castelli ma dovessero lasciarsi nelle mani del Legato ponendovi per Governatori persone non sospette. Poi, a tempo opportuno, calmati e raffreddati i bollori, li avrebbe restituiti alla città.
Quando le truppe del Manfredi assediavano Castel S. Pietro, devastarono le campagne facendo moltissimi danni sia alle proprietà dei castellani che dei cittadini bolognesi. Tra queste il Conte Anteo Nobili che ricorse al Senato e al Legato per essere risarcito, come fu.
Su questo esempio ricorsero anche gli uomini di Castello. Il Legato ritenne la richiesta giusta ma fece presente la impossibilità dell’erario pubblico di rifondere i danni patiti. Chiamò a i capi del paese e chiese loro come fare per soddisfarli. Gli uomini del Comune, convocata una assemblea generale nella piazza pubblica, fecero presente da una parte la buona disposizione del Legato e dall’altra l’impotenza pecuniaria nelle presenti circostanze. Fu deciso di chiedere la conferma delle immunità dei dazi e gabelle per i giorni di mercato e di tutto quanto era contenuto nel decreto dei 16 Riformatori del 1416, poiché si vedeva che si voleva trascurare questo privilegio che era l’unico sostentamento del paese.
Nella elezione degli Uffici Utili del contado era stato estratto come Vicario di Castel S. Pietro per il seguente 1451 Pietro Campanazzi, fu però il 12 gennaio 1451 eletto come castellano di Castel bolognese, ma poiché non poteva avere due uffici pubblici optò per Castello.
A seguito delle disposizioni del Legato gli odierni Difensori all’Avere fecero fare la copia di quel documento e il 20 maggio lo presentarono a Bessarione, che il 21 maggio 1451 lo approvò solennemente. Tale decreto fu poi per ordine del Legato riposto anche nell’Archivio del Senato. Fu quindi pubblicato ed esposto anche alle Comunità del Vicariato affinché non avesse motivo di nuove insubordinazioni al Vicario di Castel S. Pietro essendo in quello tutto regolato.
1451 – 1456. Intervento sulle opere di difesa del Fioravanti, costruzione dei torrioni a est. Il Turco prende Costantinopoli. Matrimonio tra Sante Bentivoglio e Lucrezia Sforza, regali dei castellani. Passaggio della cometa di Halley.
I castellani erano diventati così audaci che non avevano timore di mettere mano alle armi per cose da nulla ed anche nella stessa città di Bologna. Fra i molti esempi che potremmo riportare ne raccontiamo uno.
Trovandosi in Bologna il paesano Baldassare dalle Rote ebbe un affare con il macellaio Giovanni Pennazzi. Avuta una divergenza sopra certi conteggi Baldassarre chiese indietro i soldi pagati. Il Pennazzi rifiutò essendo ormai state stracciate le carte. Il Baldassarre adirato, avendo al fianco la sciabola, la sguainò. Il macellaio reagì assistito dai suoi colleghi con armi da taglio, ma nessuno riusciva a fermare l’ira e il furore di Baldassarre. Accorse al rumore il Conte Antonio Pepoli che restò pure ferito. Finalmente spartita la baruffa il Conte Antonio condusse a casa sua Baldassarre, che fu poi catturato e condannato al bando. Ma Baldassarre fu uno di quelli che albergò a Castel S. Pietro il Pepoli ed era della sua fazione. Romeo, si interpose per l’accomodamento della condanna e con la pace si accomodò il tutto facendo apparire al Senato ingiusta la sentenza emessa dal Podestà, come appare dal seguente documento:
1451 10 lulio. Constandoci per relazione delli spettabili uomini ed esimi Dott. di Leggi sig. Scipione de Gozzadini Cavaliere e Conte sig. Gaspare Ringhieri a quali fu concesso di informarsi e rifferire circa Baldassarre di Girolamo dalle Rote da Castel S. Pietro inijusta et iniqua per D. Cecilia de Spoleto hunc potestatem Bononie, che sia liberato da qualunque pena come al d. bando quale era colla condanna delle forche perché d. Baldassarre venuto a rumore con certo Giovanni de Penazzi beccaro di Bologna ed ivi abitante ad alcune parole per occasione di certo lacerato libro di conteggi, d. Baldassarre, animo irato posuit manam ad coltellinum, quod habebat ad latus et ipsa evaginata incepit a menare contra ipsum Joannem animo ipsum vulnerandi et Antonium de Pepuli Bononie civis voluit se intromittere et ipso dividere, Antonium vulneravit cum puncta et ferro ipsius coltelle in manu cum sanguinis effusione. Che sia cancellato dal bando, avendo ottenuta la pace da d. Antonio, tam reale che personale, nec non provixionem.
Morto l’arciprete Don Pietro Mengoli divenne questa chiesa vacante e, essendo discordi gli uomini di Castel S. Pietro nella elezione del nuovo parroco, i Canonici di S. Pietro conferirono il 9 agosto la chiesa a Don Giovanni da Imola. Giustificandosi i Canonici di averlo fatto per questa sol volta perché non fosse lesa la Chiesa.
Casalecchio dei Conti non voleva ubbidire alle disposizioni del Senato sulla sua subordinazione a Castel S. Pietro. Questi vi mandò molti guastatori a distruggerlo. Si cominciò il 12 ottobre. Molti oppidani tentarono di resistere ma vi lasciarono la vita. In seguito fu totalmente distrutto, nulla lasciandovi intatto che la porta di levante e la chiesa. I più prudenti si dettero alla fuga, alcune di quelle famiglie si ritirarono a Varignana, altre nei vicini castelli. A Castel S. Pietro vennero alcuni dei Ferlini, dei Bondi, i Giappi, i Baroncini e i dalla Costa.
L’anno 1452 entrò Vicario di Castel S. Pietro Tomaso Agochi. Il suo primo pensiero fu di costruire il nuovo mulino per grani in un luogo più sicuro e comodo dell’altro che era stato distrutto dalle truppe di Nestore Manfredi. Fu allungato il canale lungo la riva fronteggiante il Borgo fino alla via consolare ove esiste tuttora un mulino. L’opera non fu fatta a spese dell’erario comunale perché esausto ma con prestiti degli uomini componenti la pubblica rappresentanza. Il Vanti riferisce avere ciò letto nei ricordi di Isonio Buldrini abitante nel Borgo da cui poi prese anche il nome la vicina adiacenza denominata la Buldrina.
La fonte della Fegatella che era stata devastata e resa inservibile fu purgata e rimesso il pozzo.
Avendo ottenuta la conferma dei suoi privilegi dal card. Legato Bessarione e cominciandosi a godere la pace iniziarono a farsi nel Borgo nuovamente più floridi i mercati di ogni tipo di merci. Le più abbondanti però erano il gualdo, i grani e i bestiami. I gualdi erano il maggior provento di questo territorio nel quale erano molti piccoli mulini e serbatoi sparsi qua e là, perciò si vedono ancora molte macine in questi intorni nelle case rustiche ed anche in Castello.
Il nuovo arciprete Don Giovanni da Imola sapendo che la sua nomina, fatta dal Capitolo senza che la Comunità vi avesse avuto mano, non era stata bene accettata, cercò con altri mezzi di procurarsi l’amore popolare. Decise di usare la prodigalità e le buone maniere. Non c’era povero che uscisse dalla sua casa scontento. Diceva che dispensare elemosine rendeva più copiosa la partecipazione alle messe, che a un parroco conveniva di più impoverirsi piuttosto che i poveri andassero via da casa sua senza soccorso. Comportandosi In tal modo diventò in breve la persona più amata nel paese.
Riuscì pure a convincere la Comunità a circondare il cimitero con un muro e a riparare la canonica che aveva patito nei passati disordini. Intanto, cominciando a sentirsi movimenti di armi del Turco contro la Cristianità, egli subito indusse il suo gregge a fare penitenze.
Passando al governo temporale, essendo il nostro Castello molto danneggiato nelle mura, che erano in parte pure aperte per le brecce fatte negli ultimi assedi, il Senato cominciò a fare riparare quelle danneggiate ed a ricostruire quelle demolite dove bisognavano, il tutto a spese del Vicariato.
Il Senato si occupò di mandare gli ingegneri, che furono Aristotile Fioravanti[188] con altri che ci tacciano le memorie, e delle riparazioni alla Rocca. Alle mura dalla parte di levante, ridotta a tre tratti rettilinei, vi aggiunsero tre bellissimi torrioni dei quali uno solamente esiste ancora ed è quello che fa angolo nella parte inferiore del Castello a est. Ora è utilizzato come ovile. Da lavori interni ognuno può riconoscere la maestria di questo uomo che per la sua eccellenza fu poi chiamato in Ungheria dove fabbricò sopra il Danubio un bellissimo ponte.
Gli altri due torrioni, più piccoli, furono costruiti uno presso il portone di S. Francesco e l’altro più su nell’angolo dell’orto Locatelli del quale ora non rimane sulle mura rifatta dal Locatelli che un resto di un cordone, simile agli altri cordoni del citato torrione angolare. La sua estensione si può rilevare sul suolo esterno ove l’erba non ricresce. Fu questo torazzo totalmente demolito nel 1600 e fino a giorni nostri si sono veduti nella riva della fossa pubblica grandi massi di quella rovina.
Durarono i lavori fino alla fine del 1454 poi Il Fioravanti, veduta completata l’opera, partì nel 1445 alla volta dell’Ungheria[189].
Ricorrendo la festa di S. Bartolomeo i nostri agostiniani di Castel S. Pietro fecero un devoto triduo al santo Apostolo titolare della loro chiesa per implorare la divina Misericordia per i grandi progressi che faceva l’ottomano verso Costantinopoli. Era priore del convento Giacobello Ghirardacci che, bravo nelle lettere e nella pietà, fece orazioni per tre giorni con eloquenti e edificanti sermoni.
Giacomo Del Bello per i suoi servigi ottimamente prestati sia al governo di Bologna che alla S. Chiesa, per la quale era condottiero di 55 fanti, aveva ottenuto una esenzione dai dazi di Bologna. I dazieri però avevano cominciato ad opporsi. Egli ricorse al Senato per la conferma che ebbe il 14 dicembre cui seguì l’ordine ai dazieri delle moline e del vino della città e territorio.
Avendo poi terminato il suo ministero di Vicario di Castel S. Pietro Tomaso Apochi, non potendo avere il suo salario dagli uomini della Terra di Castel S. Pietro, ricorse al Senato il quale subito emanò il seguente ordine: 1452 15 X.bre, Ordine che si paghi a Tomaso Agochi cittadino di Bologna e Vicario scaduto della Terra di Castel S. Pietro con salario di l. 12 il mese, cioè del salario che pagano li uomini di d. Terra l. 24 per salario dei mesi di maggio e giugno scorso.
Nell’anno 1453 fu per il primo semestre eletto Vicario di Castel S. Pietro Carlo Bargellini.
La Comunità di Castel S. Pietro aveva versato alla Camera di Bologna una buona somma per la tassa dei bovini e dei terreni, una parte di questa (820 lire) doveva servire per pagare Cristoforo Ariosti che poi non era stato pagato. Essendoci un estremo bisogno di riparare la rocca piccola fu decretato dal Senato, su relazione dei rispettabili cavalieri e senatori Sante Bentivoglio e Virgilio Malvezzi, di destinare una parte di quella cifra (300 lire) per la riparazione della rocca. Nella primavera seguente si cominciò a metter mano alla fabbrica della rocca piccola che fu portata a quell’aspetto che ora si vede presso la torre del castello
Essendo poi stato molto danneggiato Melchione Azoguidi cittadino di Bologna dalle genti di Nicolò Piccinino negli anni andati ricorse al Senato per l’indennizzo di un suo fondo detto il Dozzo per il quale ottenne un decreto di immunità dalle collette e, essendo questo decreto poco osservato, fece istanza perché fosse confermato e lo ottenne.
La quiete raggiunta a Bologna e in tutta l’Italia non poté essere gustata perché Maometto II figlio di Murad II Imperatore dei Turchi il 29 maggio 1453[190] aveva preso Costantinopoli ove fece un orrendo massacro dell’Imperatore Costantino Paleologo e di tutta la nobiltà. La minaccia di quel crudelissimo turco mise in grande spavento il resto della cristianità tanto che il Papa diede in malattia, da cui guarì ma per poco tempo.
Perché gli uomini di Liano sopportavano di malavoglia la soggezione al Vicario di Castel S. Pietro e cercavano di impedirlo e ostacolarlo nella giurisdizione, accadevano spesso risse e baruffe.
Fra le altre cose che pretendevano vi era quella di estendersi sopra il territorio di Castel S. Pietro nella parte superiore ed oltrepassare la via della Torre de Cattani ora Moscatelli per la qual cosa fu fatto ricorso al Senato.
Questi prevedendo che, protraendosi la questione nel tribunale, sarebbero continuate ancora gli atti criminosi oltre al dispendio vicendevole di danaro, decise di fare risolvere la questione a due arbitri che furono Carlo di Giovanni Malvezzi e Virgilio di Gaspare Malvezzi i quali, esaminate le rispettive ragioni, pronunciarono il loro lodo cioè che si dovesse stare nella decisione fatta dagli agrimensori pubblici i 29 aprile 1300. In seguito i lianesi rimasero per lungo tempo tranquilli.
Alessandro Sassoni, eletto Podestà di Castel S. Pietro per l’anno 1454, conoscendo il bisogno che aveva di riparazioni la rocca grande, fece fare i lavori e fu subito pagato. Non sappiamo né la spesa, né la natura della riparazione. Fra i fanti stipendiati e presi al soldo dal Senato troviamo Battista Soldini da Castel S. Pietro al quale, e al suo gruppo, le paghe dovevano iniziare dal 15 febbraio.
La Camera di Bologna aveva preso in prestito 6.290 lire per pagare gli stipendi e 400 lire per la riparazione delle rocche di Castel S. Pietro. Il Senato decretò il 16 ottobre di pagare subito nell’aprile 1454 chi aveva fatto il prestito, che fra gli altri furono i Bargellini, i Felicini, i Lugari, gli Ingrati e gli Orsi.
Il 19 maggio 1454 fu celebrato a Bologna il matrimonio tra Sante Bentivoglio e Ginevra[191] figlia dodicenne di Alessandro Sforza. Furono perciò fatti grandi festeggiamenti nella città ai quali concorsero tutti i comuni del contado con offerte. La Comunità di Castel S. Pietro regalò una vassella di squisito vino di questi nostri vigneti sopra il quartiere del Dozzo, della cui qualità se ne parlò fin dal principio di questo nostro scritto. La sposa il 9 maggio fu incontrata a Castel S. Pietro, dove ebbe i primi onori di Bologna, da molti nobili e gentil donne.
Nicolò V sentendo le crudeltà che commetteva il tiranno turco Mehmet a Costantinopoli e nelle altre città e che, con le più impure delle sporchezze maomettane, contaminava i Sacri Tempi e si inoltrava anche negli altri stati cattolici, non potette nascondere il suo rammarico. Inquieto d’animo, spossato di forze, colpito dalla podagra e essendogli sopraggiunta una forte febbre, durò poco a sopravvivere.
Il Legato, deputò Boezio Gozzadini li 25 giugno per Vicario di Castel S. Pietro. Questi si fece distinguere per le sue protezioni ai castellani infatti maneggiò presso il Senato perché fosse condonato a Castello il debito di 150 lire al Dazio Molino.
Il 24 marzo 1455 morì papa Nicolò V. Il 18 aprile fu eletto Papa Alfonso Borgia di nazione spagnola col nome di Calisto III. Appena creato Papa dichiarò Legato di Bologna Giovanni Lodovico Milani vescovo di Valenza, di lui nipote che il 29 giugno venne a Bologna.
Circa a metà di giugno si alzò un vento da nord-est che portò un freddo tale e neve che ognuno si vestì con gli abiti invernali e stava accanto al fuoco. La neve fece grandissimi danni tanto che i raccolti andarono a male, quasi tutte le viti si schiantarono, gli alberi e i castagni furono distrutti.
Poiché il turco continuava ad avanzare, il papa bandì una crociata contro gli infedeli. Fu pubblicata a Bologna in S. Petronio da certo Fra Paolo agostiniano, con tanta facondia che furono tantissimi i cittadini che volontariamente si offersero. A Castel S. Pietro fu commissionata la pubblicazione al parroco, che sapendosi insufficiente invitò a predicarla fra Giacobello Ghirardacci.
I terremoti col loro spavento ammorbidivano i cuori più duri, inducevano i paesani a pacificarsi o ancora spingeva taluni ad andare alle armi. Racconta il Vanti che un Antonio Fabbri con dodici uomini di Castello a proprie spese andarono in campo. Dietro a questi molti altri si assoldarono sotto capitani imolesi e bolognesi ed andarono poi a Mantova ove si faceva l’adunata dell’esercito.
Poiché in città scarseggiavano i grani, temendo che fossero incettati e nascosti a Castello, il Senato mandò dei controllori che furono Nicolò da Castel S. Pietro, Lodovico Boccaferro, Giovanni Gabrielli e Voradino Bonetti con facoltà di vedere e ricercare i grani esistenti a Castel S. Pietro per trasferirli in città. Questa visita partorì bisbiglio nella popolazione e timore di carestia, si presero perciò gli opportuni provvedimenti per quietare la città e il contado.
In seguito all’elezione fatta dal Senato di Aldrovandino Malvezzi per castellano, questi venne nel gennaio 1456 a prendere il possesso della Rocchetta.
Una stella cometa[192] di straordinaria grandezza che illuminava il mondo, pronosticando un evento funesto, impauriva e spingeva alla devozione le genti che ricorrevano a Dio con orazioni e elemosine alla povertà e ai luoghi pii. Molti poi passarono alla penitenza e al convento.
Suor Caterina Vigri[193], che fu poi santa, preparò un sacro ritiro, quasi un hortus conclusus alle spose del Signore, che dette la possibilità a molte devote fanciulle condurvi una santa vita in penitenza. Fra queste vi fu Francesca Mondini di Castel S. Pietro figlia di quel Giuseppe Mondini che anni or sono fu uno dei seguaci banditi di Romeo Pepoli che, non potendo per malattia sloggiare da Castel S. Pietro, radicò in esso il suo casato che fino al 1793 si è qui sempre mantenuto.
Questa tenera vergine innamoratasi delle virtù di Suor Caterina ebbe la accettazione, alla quale tanto aspirava, a quel Sacro Ritiro ove visse santamente come abbiamo scritto nei nostri Elogi alli uomini e donne di S. Vita stampati in Imola per lo stampatore Giovanni Dal Monte l’anno 1801.
Allo spaventoso pronostico della stella cometa si aggiunsero i terribili terremoti, che sembrava crollasse il mondo, le malattie pestilenziali, la penuria dei viveri e le aggressioni del turco così che crescevano i lamenti e il cordoglio dei cristiani. Allora papa Calisto ricorse alla gran Madre di Misericordia Maria Vergine SS.ma ed ordinò per Breve apostolico che in tutto il Cristianesimo alle ore del mezzo giorno, avvisato il popolo col suono delle campane, si recitasse l’Angelica Salutazione.
Successivamente ordinò e comandò che ogni prima domenica del mese si facesse in ogni parrocchiale la processione dell’Augustissimo Sacramento. A Castel S. Pietro si cominciò il suono della Angelica Salutazione il 15 agosto, Quanto poi alla processione del Santissimo fu differita all’anno venturo.
Fra il vescovo d’Imola ed il Senato di Bologna c’erano dissidi sopra questo nostro Sillaro onde ne erano nate liti e baruffe fra gli uomini del bolognese e quelli dell’imolese dalle parti di Sesto. Per evitare maggiori sconcerti l’8 ottobre gli Anziani scrissero al vescovo d’Imola che mandasse i suoi delegati a Castel S. Pietro per trattare l’affare. Non aderì il vescovo alla richiesta e, essendo venuti a Castel S. Pietro, i deputati bolognesi restarono delusi. Fu quindi differita la discussione dell’affare ad altra giornata da fissarsi.
1457 – 1464. Passaggio dei partecipanti al Concilio di Mantova contro il Turco. Problemi provocati da uomini litigiosi. Morte di Sante Bentivoglio. Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, sposa Ginevra Sforza. Regali dei castellani.
La prima processione in esecuzione del decreto pontificio fu fatta il giorno 3 gennaio 1457, alla quale vi intervennero anche i frati agostiniani del paese e tutto il Corpo della Comunità il cui capo pro tempore fu in avvenire chiamato Priore. Vi intervennero pure la Compagnia di S. Caterina che cominciò in questo tempo, per distinguersi, ad usare la sua insegna con la sua Santa tutelare.
Proseguendo la pestilenza a colpire la città e il contado morirono molti uomini di valore come Battista da Castel S. Pietro e Gaspare Ringhiera, ambi dottori di grande ingegno e membri dei 16 Riformatori della città, che furono sepolti in S. Domenico
In queste lacrimevoli circostanze il sommo pontefice non lesinava gli aiuti spirituali, dispensava perciò a chi ne chiedeva amplissime indulgenze. Una fu diretta a questi Padri Eremitani di Sant’Agostino di Castel S. Pietro diretta da frate Adeodato in cui concedeva indulgenza plenaria di anni 100 ai visitatori della chiesa di S. Bartolomeo colla recita di cinque Pater ed Ave e un de profundis per quelli morti per la peste.
Il 6 agosto 1458 papa Calisto morì compianto da tutti.
Il 23 agosto venne un terribile temporale con venti impetuosi che fecero cadere molte case nei luoghi esposti e pericolarono anche delle persone. Una famiglia dei Zanoli a Castel d’Alboro restò sotto le rovine che presero fuoco e restò tutta incenerita. I camini delle case crollarono nelle nostre colline e nel Castello alquanti merli nei torrazzi.
Il 29 agosto fu assunto al pontificato Enea Piccolomini di Siena col nome di Pio II.
Riferisce l’Alidosio nei suoi Dottori che in questo tempo si distingueva nel pubblico Liceo di Bologna Francesco di Bartolomeo Facci da Castel S. Pietro. Io credo che il cognome di questo chiaro filosofo sia errato, perché questa famiglia di Facci in nessuna epoca risulta nel nostro Castello, per quante carte abbiamo esaminato. Crediamo che si dovesse dire Fucci e non Facci e la lettera u sia stata cambiata dallo stampatore in quella della a che nulla c’è di più facile. Il casato Fucci lo troviamo ricordato in questi tempi ed anche prima del 1458. A noi comunque basta che questo soggetto sia nell’elenco degli uomini illustri di Castel S. Pietro. Durò questo Lettore nel suo impiego fino al 1461.
Antonio da Lojano aveva nel comune di Castel S. Pietro dei terreni fronteggianti il corso della Gajana e desiderando edificarvi un mulino da grani, chiese in accordo con la Comunità di Castel S. Pietro il permesso al Legato ed al Senato. Il Senato visto il consenso della Comunità e del Legato approvò il 28 giugno 1458.
La Confraternita dei Crociferi[194] aveva una casuccia nel Borgo di Castel S. Pietro, ove si albergavano i viandanti, che aveva molto patito nelle guerre passate. Quindi ne domandavano un qualche sollievo al Senato e al Legato i quali, riconosciuta l’indigenza, assentirono.
Questa casuccia serviva da albergo ai viandanti e perciò fu unita all’Ospitale dei Pellegrini quando fu soppressa la confraternita dei Crociferi che era antichissima e il cui impegno era albergare i pellegrini.
Chi fossero gli ufficiali di Castel S. Pietro nell’anno 1459 ce lo nascondono le tenebre della antichità e lo sconvolgimento degli archivi.
Il defunto pontefice Calisto III aveva lasciato, dopo la sua morte, 115.000 scudi nelle casse del papato per fare la guerra al Turco. Il nuovo pontefice Pio II volendo eseguire tale intenzione fece convocare un Concilio per attuarla. Decretò che si facesse a Mantova. Fece sapere a tutti li Principi d’Italia questa sua intenzione invitandoli ad una Lega. Essi aderirono. Successivamente il Papa nella primavera avanzata partì da Roma e venne alla volta di Bologna per la Romagna.
I bolognesi avvisati dell’arrivo vennero la sera del 8 maggio a Castel S. Pietro contemporaneamente a mille cavalli di Galeazzo Maria Sforza[195], figlio del Duca di Milano, e furono alloggiati nel Castello e Borgo. La nobiltà fu alloggiata nelle case migliori dei Rondoni, Salvetti, Battisti, Balduzzi, Dalla Serpe, Zopi, Forni, Fabbri, Ghirardacci, Antonelli, Cheli, Morelli, Nicoli, Samachini, Dalle Robe, Leali, Bambo ed altre famiglie che sarebbe lungo l’elenco e che per essere di minor lustro le passiamo sotto silenzio.
La mattina seguente venne il Duca Galeazzo colla sua comitiva riccamente vestita ed aveva 2.000 fanti tutti bene armati. La sua comitiva era di 380 persone riccamente vestite.
Arrivò il Pontefice a mezza mattina accompagnato da tutti i principali nobili di Romagna e con i Confalonieri d’Imola. All’apparire sul ponte del Sillaro fu salutato collo scoppio della grossa bombarda che era stata portata a questo scopo sul terraglio a levante del Castello. Si diede poi il segnale alle torri delle rocche. Il popolo, arrivato dalle vicine colline e dalla pianura, copriva le strade come un torrente.
Il Papa era preceduto da uno grande stuolo di vescovi, esso poi, seduto sopra una candida chinea, era preceduto dal tabernacolo con l’Augustissimo Sacramento, chiuso e circondato di lumi sotto un baldacchino cremisi portato da palafrenieri e chierici di camera. Seguivano i cardinali tutti a cavallo, in fine vi erano tre cavalieri su tre cavalli bardati con i colori del Pontefice, ciascuno di loro portava una bandiera spiegata. Nella prima c’era una croce d’oro, nella seconda le chiavi incrociate, antica insegna della Chiesa, e nella terza bandiera c’erano cinque mezze lune incastrate entro una croce, stemma della famiglia Piccolomini.
In ogni luogo dove passava dava la benedizione. Fermatosi nel Borgo, rivoltosi al Castello, consolò tutta la popolazione colla benedizione papale alla quale seguì uno strepito di bombarde ed una acclamazione di voci che assordavano l’aria. Sebbene il tempo indicasse pioggia, volle partire e andare alla città, giunto nelle sue vicinanze venne una dirottissima pioggia colla quale entrò a Bologna.
Rimase 6 giorni poi se ne andò a Mantova, con sé aveva una truppa condotta da Giovanni da Tolentino[196] che nel suo ritorno, con una grande comitiva si fermò al nostro Castello.
La Rocca di Castel S. Pietro abbisognava di riparazione nelle porte. Fu subito riparata da Paolo Zardi che pagò pure un pranzo al Tolentino quando di qui partì colla sua comitiva. Ciò risulta da un pagamento allo Zardi fatto il 16 maggio dell’anno successivo 1460. Non sappiamo quale fosse il suo ufficio.
Erano tali le assurdità nell’assegnazione delle cariche di Castellani, Vicari e Podestà, che si facevano ogni anno poiché queste cariche, e alcuni simili offici della città, si davano alle persone che avevano più protezioni o aveva maggiore seguito di parenti o amici. Quindi il Senato per ovviare a tali cattive abitudini decretò il 16 maggio 1460 che per l’avvenire si facessero le imborsazioni di tutti i magistrati ed Uffici Utili. Piacque tanto al popolo questa decisione che permise in futuro di evitare favoreggiamenti, partiti e fazioni.
Lodovico Malvezzi, che era al soldo dei veneziani, volendo passare nella Romagna per andare al soldo pontificio, chiese licenza al Senato del transito per il contado di Bologna con 800 cavalli. il Senato glielo accordò ma, poiché temeva di un qualche tranello, guarnì Castel S. Pietro di 200 fanti ed altrettanti cavalli ed ingiunse ai terrazzani di stare ad occhi aperti.
Il Senato fece pure riattare intorno alla rocca le mura ove erano danneggiate e si spesero l. 200. Presiedettero a questo lavoro Virgilio Malvezzi e Nicolino Poeti, il pagamento della somma fu preso dalla cassa dei Dazieri delle Moline.
Avendo avuto sentore che alcune comunità subordinate al Vicario di Castel S. Pietro avevano idea di sottrarsi alla sua ubbidienza portando come pretesto il nuovo modo di nomina degli ufficiali come innovazione e modifica degli Statuti. La Comunità di Castel S. Pietro ricorse al Senato per la conferma del decreto fatto l’anno 1416, tante volte confermato e ratificato affinché venisse di nuovo reiterato e fossero confermati gli Statuti della Comunità.
Il Senato si prestò alla giusta domanda e il 13 dicembre 1460, dopo avere confermati gli Statuti approvati dal card. Bessarione, reiterò lo stesso decreto del 1416, ratificando altresì il mandato del Cardinale con tutti gli atti successivi.
Non sappiamo chi fosse il Podestà, estratto col nuovo metodo, per l’anno 1461.
Abbiamo però trovato che, forse anche in assenza del superiore locale, fu ascesa e scalata la mura del Castello da dei fuorusciti e riteniamo che capo di questi fosse Benedetto Denti poiché, essendo giovinastro coraggioso, voleva liberare dal carcere Bolognino Bolognini. Già lo aveva tentato più volte cercando di abbattere le porte del carcere ma Invano.
Quindi come detto, il Denti, per liberare il suo grande amico Bolognino, unitosi con altri fuorusciti paesani e forestieri ascese le mura del Castello ma scoperti, fuggirono per la stessa parte scalata. Ne fu fatto rapporto al Governo e furono condannati a morte ma poi, interposti protettori, fu commutata la pena afflittiva in pena pecuniaria. Furono condannati a 500 lire per ciascuno e, come fuorusciti, assolti. La condanna poi fu ridotta ad ognuno a soldi 50 alla Camera tra un mese, salvo 2 lire per la fabbrica di S. Petronio. Fu poi prorogato il tempo per il pagamento a tutto agosto. Non c’era da meravigliarsi se succedevano tali crimini e anche altri di maggior rilevanza.
Il Legato Angelo Capranica era partito dalla legazione di Bologna circa la metà dell’anno scorso. Era rimasto il suo Vicelegato e Luogotenente Giovanni Venturelli, che poco o nulla si curava dei malviventi e quindi bastava loro avere la protezione dei nobili per divenire insolenti all’eccesso.
Alcuni uomini del territorio di Castel S. Pietro avevano commesso risse, grassazioni, insulti, tumulti ed ammutinamenti fino dall’anno scorso. Fu fatto ricorso al Vice Legato, questi emanò il 9 marzo 1461 una dura ordinanza perché le autorità locali intervengano.
Non per questo si avvilirono gli spiriti dei turbolenti anzi, fatti più audaci, commisero altre risse e crimini per cui il Senato ordinò al Podestà una nuova inquisizione contro i delinquenti in questo modo: 15 aprile. Ordini al Podestà e suoi Giudici e Curia. (…)che i condannati debbano pagare lire 10 pro omni centenario oltre a lire 2 pro omni centenario alla fabbrica di S. Petronio di Bologna e niente più e ciò per giusta causa. Cioè solo 12 lire ogni cento di condanna. Il resto gli viene graziosamente condonato purché entro un mese paghino, altrimenti siano condannati conforme porta la giustizia.
Perché dispiaceva agli inquisiti e condannati che restasse registrata la sentenza, se veniva archiviata, poiché era denigrato il loro buon nome fecero istanza che si sospendesse la archiviazione.
Gli anziani accolsero la richiesta e il 5 giugno ordinarono al Podestà e sua corte che debba suspendere dalla incamerazione o sia archiviare le sentenze condamnatorie da esso pronunciate contro li uomini di Castel S. Pietro.
Conviene in questo caso credere che i processati adempissero puntualmente alle determinazioni e si adattassero a questa economica giustizia, poiché non trovandosi la archiviazione di questa sentenza è chiaro che fu tolta e quindi siamo al buio dei fatti avvenuti e dei nomi.
Non ostante questi interventi non si calmarono gli animi bellicosi non solo di Castel S. Pietro, ma anche di Castel Bolognese luogo più facinoroso del nostro per essere lontano alle autorità superiori e per essere quegli individui un miscuglio di faentini ed imolesi non che dei paesani dei castelli vicini, produttori di armigeri. Ciò è vero perché in quel paese si viveva irregolarmente sulla criminosità tanto che non si poteva porre alcun freno.
Al solito la rocca grande aveva bisogno di riparazioni e il Senato incaricò il 20 agosto 1461 i commissari Marescotti, Malvezzi e Poeti a far riparare la Roca di Castel S. Pietro colli danari da esiggersi dalli sud. malfattori fatta però la relazione al Legato quanto sia la spesa necessaria. Li Malfattori erano quelli che scalarono le mura.
Nello scorso mese di luglio accadde a Castello una notevole rissa fra Giovanni Muzzoli e Gaspare Pirazzoli per cui si erano create due fazioni. Poi fu fatta tra loro una tregua con il fine di pacificarsi. Ma la tregua fu rotta e in una mischia restò ferito mortalmente Pietro Muzzoli, fratello di Giovanni che, coll’aiuto di Lodovico Nardi, riuscì a fuggire ai malfattori Gaspare Pirazzoli e Domenico Bellini e dal Castello. In seguito a ciò andò sottosopra quasi tutto il paese.
Fu quindi fatta relazione al Governo e al Legato che ritenne che il fatto non fosse così grave per la rottura della pace ma che comunque fosse applicata una pena di 500 ducati d’oro.
Desiderosi gli uomini di Castel S. Pietro di sempre più avvalorare l’osservanza dei loro Statuti ricorsero al Senato per una nuova conferma. Aderì al ricorso e il giorno 23 dicembre 1461 ne fece la approvazione confermando tutti i punti.
Essendopoi stato estratto per Commissario di Castel S. Pietro dalla Borsa degli Uffici Utili della città di Bologna e suo contado Sigismondo Aldrovandi per l’anno avvenire 1462, il medesimo occupò la carica ai primi di gennaio.
Avendo bisogno il ponte d’Idice di interventi, il Senato il 5 gennaio 1462 incaricò Achille Malvezzi e Carlo Bianchetti di imporre una coletta di l. 50 alla Comunità di Castel S. Pietro e del suo Vicariato.
Essendo stata incassata dall’Erario de Malefici 500 scudi d’oro perla condanna inflitta a Gaspare Pirazzoli e Domenico Bellini per la rottura della pace a Castello, l’11 giugno il Senato ordinò che fossero impiegati per riattare le porte della città.
Poiché gli uffici utili della città e del contado si estraevano ogni sei mesi e quindi i funzionari spesso non riuscivano a terminare le cause creando sconcerto tra i litiganti e perdendo tempo inutilmente, il Senato ordinò che da ora in avanti le cariche durassero un anno.
Erano venuti in discordia Astorre Manfredi signore di Faenza con Taddeo Alidosi signore di Imola per modo che erano seguite ostilità tra loro. Il Senato di Bologna, temendo qualche irruzione verso Castel S. Pietro, spedì qui Giovanni Malvezzi a visitare le fortificazioni e a fare altre indagini e, trovato il tutto in quiete, se ne ritornò alla città. La sua permanenza fu in agosto per pochi giorni.
Il 16 dicembre 1462 venne estratto per Podestà di Castel S. Pietro per l’anno 1463 Francesco Sibaldini che ai primi di gennaio prese possesso della sua carica. Questi era malvisto da Bolognino Bolognini per ciò che era accaduto al fratello, come abbiamo narrato, quindi meditava sempre come vendicarsi, tanto più che si vedeva sempre tenuto d’occhio dal Sibaldini.
Il Bolognino, essendo andato a comprare del sale trovò il modo di litigare col venditore e contestargli la vendita. Si creò cosi l’occasione per presentarsi davanti al Sibaldini come giudice.
Occorre sapere che nei Capitoli dei Dazi del 17 dicembre 1460 e segnatamente del sale fu convenuto che al Comune di Castel S. Pietro si dovessero dare 110 corbe-sale toccando ad ogni testa 2 quartiroli di consumo l’anno ed il daziere fosse obbligato a darlo al prezzo di 9 quattrini, ciò allo scopo che non si commettesse contrabbando.
Le persone della università di Castel S. Pietro furono calcolate in 880 quindi secondo il calcolo di 2 quartiroli per testa a quattrini 9 la libbra veniva a pagare Castel S. Pietro all’anno lire 280 di moneta nostrale di paoli 10 per scudo.
Bolognino avendo comprato la sua parte di sale destinato al paese, nel portarselo via calò il peso, poi giunto ad una bottega lo fece ripesare mostrando che mancava almeno una mezza libbra.
Ricorse subito al Podestà Sibaldini per avere giustizia. Fu chiamato in giudizio il venditore che rifiutò di rifondere la parte mancante tanto più che il peso era stato fatto con una bilancia a peso e contrappeso. Crebbe la contesa e Bolognino gettò il sale in faccia al venditore chiamandolo ladro e frodatore.
Il venditore, che si chiamava Gorro Zabarella, risentendosi non solo della imputazione ma anche della offesa fattagli col gettito del sale, scagliò una furia di pugni al Bolognino che, preso un coltelletto, menò vari colpi al Zabarella. Quando il Sibaldini si intromise nella mischia per dividerli il Bolognino credette arrivato il tempo opportuno per vendicarsi e fingendo di voler colpire lo Zabarella lanciò un colpo alla gola del paciere. Restò ferito il Sibaldini in faccia. Il Bolognino si dette alla fuga ma giunto alla porta del Castello il guardiano tentò di fermarlo ma fu ferito e quindi il Bolognino ebbe libera la via alla fuga.
Giacomello Degnitti abitante nel Borgo aveva avuta distrutta dai fuorusciti imolesi una sua casa nel quartiere della Lama in luogo detto Piombarolo. Chiese un ristoro alla Comunità nel pagamento delle Colette straordinarie. Si oppose Zanone Topi, si creò quindi rumore nel paese per cui furono entrambi banditi.
Per il matrimonio fra Lucrezia figlia di Cecco Ordelaffi, signore di Forlì, e Pirro Marsigli di Bologna furono fatti grandi apparati. La sposa giunse a Castel S. Pietro accompagnata da molte gentil donne forlivesi ed ottanta cavalli e qui incontrò le tante gentil donne bolognesi giunte a riceverla, fu complimentata secondo la di lei condizione. Il giorno 5 giugno fu introdotta in casa di Morello Morelli ove andarono ad ossequiarla le principali spose del paese che furono Lucrezia Silvetti, Angiolina Fioravanti, Flaminia Comelli, Copina Morelli ed Antonia Fabbri con Lenina dalla Mazza. Terminato l’incontro partì sull’ora fresca per Bologna. Il plauso popolare fu grande poiché fu alimentato con generosità dalla novella sposa.
Il 31 luglio 1463 venne una grossa tempesta, che rovinò tutte le campagne del contado e produsse una pestilenziale influenza che colpì molte famiglie che tante restarono estinte. Il Vanti racconta di tre delle più chiare di Castel S. Pietro e furono i Lenzi, i Corniani e i Cereti.
Una masnada di fuorusciti d’Imola si era rifugiata in una boscaglia del territorio di Castel S. Pietro. Non vi era iniquità che non commettessero. Gli stupri, le rappresaglie e le ruberie erano quotidiane.
Per porvi rimedio Jacono Zupoli con Gigliolo Campana, a capo alquanti paesani, si accordarono coi villani che abitavano poco lontani dal covo per far uscire i malfattori. Il 27 agosto dettero fuoco ad un vicino casolare poi mandarono alcuni ragazzi a chiedergli aiuto per spegnere il fuoco. Corsero fuori incautamente alcuni di loro e, mentre erano impegnati a spegnere l’incendio, Jacono e Gigliolo assieme a quei villani li fecero prigionieri. Poi andarono alla boscaglia ove erano gli altri che, ignari di quanto successo ai loro amici, stavano preparando il mangiare. Li circondarono e si venne ad una fiera baruffa nella quale i fuorusciti non riuscirono a resistere e quindi si dettero alla fuga. Così fu liberato il quartiere e poi fu tagliata tutta la boscaglia per levare il nascondiglio ai malfattori.
Il 3 settembre venne un furioso temporale misto a grandine e lampi, cadde una saetta nel fienile dei frati di S. Bartolomeo contiguo al convento. Accorse gente in aiuto e restò vittima delle fiamme frate Giovanni Luelli da Bologna e restarono soffocati dal fumo i muratori Bindino Bindini e Lucio Astorri. Il fetore che accompagnò il fulmine fece abbandonare per alcuni giorni il convento ai frati e le abitazioni alle famiglie vicine. Per riparare il danno i frati ricorsero alla Comunità la quale dette 50 lire e i legnami che erano restati nella costruzione del molino.
Il primo ottobre 1463 Morì Sante Bentivoglio signore di Bologna[197].
Allo fine di novembre, essendo venuti nel Borgo a questione Paolo Toschi e Antonio Graldi con Pasquale Pasquali tutti di Castel S. Pietro a motivo di un certo contratto, questi vennero alle mani. Crebbe talmente il rumore che si sollevò tutto il Borgo. Il Massaro dovette chiamar popolo col suono della campana pubblica. Accorrendo la gente, Pasquale Pasquali riuscì, aiutato da alcune donnicciole, a fuggire dalle mani dei due suoi avversari. Dirigendosi verso una sua casa nel comune di Casalecchio in compagnia di altri villani, insultò acremente gli uomini di Castel S. Pietro. Questi si misero ad inseguirli per la via romana. Vedendo ciò i villani deviarono e, salendo la collina attraverso i boschi, arrivarono sicuri alle loro abitazioni.
Gli uomini di Castel S. Pietro però non avevano dimenticato, perciò aspettata la notte della vigilia di Natale, adunatisi in buon numero, si nascosero poco distanti dalla chiesa di Casalecchio, alla quale doveva andare il Pasquali. Quando arrivò al luogo dell’agguato fu preso e con un laccio al collo fu condotto a Castel S. Pietro alle carceri. Il Pasquali aveva commesso altri reati per i quali il Podestà di Castel S. Pietro lo aveva processato. Fu di nuovo processato dal nuovo Podestà così: 1464. 12 genaro. Antonio Pasquali carcerato nelle carceri di Castel S. Pietro, esendo bandito, avendo rotte le carceri fu esiliato in perpetuo dallo Stato. Secondo questa sentenza, conviene credere che costui fosse un uomo tristo.
Il 4 gennaio 1464 furono confermati i Capitoli fra gli uomini di Castel S. Pietro e l’ebreo Bonaventura Dattili di Pesaro a rogito del notaio Tomaso Mengoli di Liano.
Lorenzo Acciajoli fiorentino fu nominato come nuovo Vice Legato. Riformò molte cose in accordo col Senato. A Castel S. Pietro, essendo le carceri per i malfattori poco sicure, le fece fortificare con la duplicazione delle porte.
Nel Mese di maggio Giovanni Bentivoglio sposò, con licenza apostolica, Ginevra Sforza vedova del defunto Sante Bentivoglio
A questo sposalizio le comunità del contado bolognese espressero i segni del loro giubilo con offerte e regali al Bentivoglio. La Comunità di Castel S. Pietro presentò una vassella di prelibato e squisito vino dei vicini vigneti. Zola da Castel S. Pietro, che aveva molto affetto per i Bentivoglio, donò venti coppie di capponi ben pasciuti. La Comunità di Castel S. Pietro riscosse grande plauso per la delicatezza del vino.
Nella fine di luglio un certo Benolo, forse offuscato dal vino, aveva insolentito gravemente un corriere pontificio che da Roma veniva con dispacci diretti al Senato. Fu questi perciò chiamato a difendersi sotto pena della testa. Non essendo voluto comparire e trovandosi entro il confine del nostro territorio, fu preso e subito impiccato ad un albero sul confine.
Le discordie nelle quali era immersa la maggior parte dell’Europa, aveva spinto il Gran Turco a muovere di nuovo le armi contro la Cristianità. Questo svegliò i principi cristiani e li spinse a prendere l’armi per la difesa del Cristianesimo.
Papa Pio II che si trovava in Ancona adunò un poderoso esercito per andare contro il comune nemico, ma preso da grave malattia il giorno 14 agosto 1464 finì la vita. Il 30 dello stesso mese fu eletto pontefice il card. Pietro Barbo, veneziano nipote di Eugenio IV, che assunse il nome di Paolo II.
Avuta la notizia della elezione del nuovo Pontefice si dettero ovunque segni di allegrezza. A Castel S. Pietro ci fu invece tristezza poiché, facendosi un gran fuoco nella piazza di Saragozza, che ora noi diciamo di S. Francesco, le faville del fuoco incendiarono la casa dei Cheli e dei Battisti.
Erano di nuovo tornate in discordia fra di loro Faenza ed Imola ed erano seguite ostilità. Il Senato pensò di fornire di munizioni le rocche di Castel S. Pietro e Castel Bolognese. Troviamo quindi la seguente disposizione: 1464, 10 Decembre. Si ordina a Francesco della Sega Massarolo delle munizioni del Comune di Bologna che dia e consegni N. ventiduemila e quattrocento polveri da bombarda a Carlo Bianchetti e a Christoforo Delli Ariosti per mandarli a fornire la Roca di Castel S. Pietro. Inoltre fece il Senato il seguente comando alla stessa data: Comandiamo a te Christone Dalpuozo che della polvere da Bombarda del Comune di Bologna che è appresso di te debbi dare a Carlo Bianchetti ed a Cristoforo Delli Ariosti libre 245 per la roca di Castel S. Pietro e libre 131 per la roca di Castel Bolognese.
Da questi documenti si vede quanto premeva Castel S. Pietro al Senato. Si deduce anche che doveva essere a questi tempi ben fornito di artiglieria, lo indicano ancora le bombardiere aperte nei torrazzi e la quantità di munizioni occorrenti.
1465- 1472. Risse e disordini nelle feste del paese. Battaglia della Riccardina tra Venezia e fuorusciti fiorentini contro Medici, Sforza e Bentivoglio. Ricostruzione Chiesa di Casalecchio. Varie incursioni degli imolesi. Rissa al Corso dell’Oca. Merci franche da Casale al mercato di Castello.
Essendoci nell’anno 1465 penuria di viveri, il popolo cominciava a protestare contro il Governo. Il Papa, cui premeva la quiete di Bologna, spedì subito per Legato il Cardinale Angelo Capranica. Successivamente, essendo stati confermati i Capitoli fra la S. Sede e Bologna che erano stati fatti da Nicola V, ordinò che non più il governo di Bologna fosse di 16 individui ma bensì di 21, che durasse a vita e che il loro capo dovesse essere Giovanni II Bentivoglio. Con ciò gli fu aperta la strada a farsi Principe avendo anche la facoltà di usare due voti nelle decisioni. Ciò eseguito il Bentivoglio nominò i 20 Senatori. Ognuno si può immaginare come fu fatta la nomina.
La città e il contado vivevano tranquillamente. In ogni luogo si restauravano e riparavano i fabbricati e pure si facevano feste nelle quali in alcuni luoghi però nacquero scompigli.
La chiesa di S. Pietro in questo Borgo di Castel S. Pietro che era sconsacrata, per essere stata profanata dalle irruzioni dei nemici e usata dai fuorusciti, fu riparata e resa adatta a santificare le feste.
Il 29 giugno 1465 fu ribenedetta dal parroco Don Giovanni da Imola che a questa funzione vi volle aggiungere anche la processione del SS.mo Sacramento. Mentre lo si riportava, con molti lumi, alla parrocchiale fu ricevuto con lo sparo delle colubrine della rocca piccola, una delle quali per la troppa carica uccise il bombardiere Zanotto de’ Topi e ferì molte altre persone.
I torrazzi del Castello che erano danneggiati e sgretolati in alcune parti furono riparati e così pure le mura. In questo tempo si abolì l’uso di seppellire i defunti del Borgo nell’intorno della chiesa di S. Pietro. Infatti quel cimitero era senza difesa e così alcuni cani poterono disseppellire un corpo umano e divorarlo.
Il 24 agosto, festa di S. Bartolomeo, mentre si gareggiava nel gioco del Corso all’Oca, ci fu una lite tra i castellani e i borghesani che vennero fra loro alle mani ed alcuni rimasero mortalmente feriti.
Un simile scompiglio accade il 29 a Castelguelfo. Mentre si faceva la festa di S. Giovanni Battista, tutelare della chiesa di quel castelluccio, ci fu una rissa nella quale era intervenuto il paesano Giulio Tedeschi, detto Salamandra, con altri suoi colleghi. Alla fine questi furono arrestati e rinchiusi entro il castello. Il Salamandra però, strappata di mano l’arma ad una guardia, si fece strada fino alla porta e così poté, con Giulio da Corneta e Polo Bonora di Castel S. Pietro, fuggire.
Tale disordine spiacque molto a Virgilio Malvezzi, che era Conte di quel luogo e Vicario di Castel S. Pietro. Egli, per benevolenza verso entrambi i comuni, non volle fare rigorosa giustizia ma bandì da Castel Guelfo i tre uomini di Castel S. Pietro per 10 anni.
Gli uomini di Castel Guelfo tuttavia non arrischiavano a venire ai mercati di Castello per timore di un qualche rappresaglia. Comunque poi il 20 dicembre 1465, fu fatta la pace fra gli uni e gli altri .
Nell’anno 1466 ricominciarono a farsi vive le fazioni e i partiti coi loro scontri. Per evitare i quali molte famiglie sloggiavano dai castelli per cercare quiete nella città. Tra le famiglie troviamo quella dei Samachini, così detta per soprannome, originata da Pietro Neri, che ottenne la cittadinanza di Bologna come si trova nel seguente documento: 1466. 21 maggio furono fatti cittadini di Bologna li seguenti di Castel S. Pietro, Melchione Notaio, Antonio tentore, Nerio pellacane, Andrea e Domenico calzolari tutti fratelli e figli di Pietro Neri alias Samachini della terra di Castel S. Pietro colla condizione che non possino essere ammessi alli Uffici utili, ma solo li suoi dipendenti.
In un altro documento dello stesso anno è notato un Ser Pietro Paolini di Castel S. Pietro Notaio. L’avere più di un notaio questo luogo dimostra che era piazza da contratti e la sua importanza e notorietà
La chiesa parrocchiale, che fino a questo tempo era stata senza sepolcri sotterranei all’interno, iniziò ad averne con Baldassarre Rota che si fece un avello colla inscrizione sopra Baltassar Rota, sibi suique 1466, come troviamo nelle carte dell’archivio.
Chiamato il Legato Capranica a Roma per importanti affari dal pontefice, fu lasciato a Bologna come suo Luogotenente e Governatore nell’anno 1467 Giovan Battista Savetti .
La pestilenza, cominciata dal 1464, serpeggiava ancora qua e là e facendo gran danno. Morirono più le persone anziane che i giovani sia nella città che nel territorio. Fu terribilissima, come raccontano gli storici di quei tempi, a Castel S. Pietro, Budrio e S. Giorgio di Piano all’inizio della primavera onde le tre comunità restarono presso che prive di abitanti. Dopo questa sventura troviamo il paese mancante di questi cognomi Blavatini, Preti, Chini, Barbelli, Vitali, Nardi e Zampolini.
Piero de’ Medici[198], preso il governo di Firenze, cacciò gli avversari. Questi ricorsero ai veneziani che spedirono molte genti al comando di Bartolomeo Colleoni da Bergamo[199] per rimetterli in città. Piero scrisse ai bolognesi e al Re di Napoli per avere soccorso. Bologna assentì e assoldò il Conte di Urbino Federico da Montefeltro e il cavaliere Orsino[200] conduttore delle genti del Duca di Milano.
Questi nella fine di marzo radunarono le loro genti a Castel S. Pietro in numero di 13.000 combattenti. Alla fine di aprile andarono nel territorio di Faenza, danneggiando tutto quel paese nel frumento e nelle biade perché Astorre Manfredi signore di Faenza aveva ingannato la Lega bolognese. Il 3 maggio andarono a Solarolo facendovi molti danni e poi il 13 vennero a Castel S. Pietro. Il 17 andarono ad Idice per maggiore sicurezza temendo il Colleoni che stava arrivando. Il Legato, che temeva per Castel S. Pietro, deputò Giovanni Malvezzi come commissario per fortificarlo e fare ostacolo al Bergamasco.
I soldati veneziani, tenendo la parte del Medesano, si erano accampati alla Riccardina. I coalizzati bolognesi, venendo da Castel S. Pietro con molta truppa, andarono incontro al bergamasco e il 25 luglio, attaccata una fiera battaglia, fu sbaragliato[201]. Nello scontro furono usati certi piccoli pezzi di artiglieria ed alquanti archibugi mentre prima si usavano solo batterie di pezzi grandi
Ottenuta questa vittoria, perché Astorre Manfredi si era fortificato in Faenza, il Senato spedì, il mese di settembre, il Montefeltro colla bombarda grossa sotto Faenza. Non si poté effettuar l’assedio per la continua e dirotta pioggia che li fece ritornare e trattenere a Castel S. Pietro dove poi rimase a causa dell’inverno che si avanzava.
Alla fine del settembre morì di male pestilenziale l’arciprete Don Giovanni da Imola arciprete. Tardando la Comunità a presentare la nomina, il Capitolo di S. Pietro nominò il 2 novembre Don Francesco Rossini alias Orsini con dichiarazione di non pregiudicare alla Comunità le venture nomine. Infatti ad essa spettava lo Jus presentandi mentre al Capitolo lo Jus nominandi. Tanto dispiacque questo alla università di Castel S. Pietro e di qui cominciarono nuove ostilità al parroco e mormorii nel paese.
Il 4 dicembre Giacomo Sibaldini fu eletto dal Senato per castellano della Rocca di Castel S. Pietro per i prossimi tre anni ad incominciare il primo gennaio 1468 e Gabriello Ingresio de’ Tomasi fu eletto castellano della rocca piccola per anni tre incominciati dal presente anno 1467.
Era uso che il Confaloniere della città fosse uno fuori del ceto senatorio. Quest’anno fu decretato che per l’avvenire dovesse essere uno del ceto senatorio. Tutto ciò fu una manovra di Giovanni Bentivoglio. I cittadini però la presero a male vedendo concentrata nel solo 21 Riformatori questa carica, di cui non era più partecipe la cittadinanza.
L’anno 1468 il Senato per assicurare di più la città assoldò Antonio Trotti di Alessandria e Giacomo Rossi di Parma.
Il papa che vedeva crescere la ostilità fra i suoi sudditi e gli stranieri si interpose per la pace ma, mentre che su questa si discuteva, non cessavano le baruffe e le aggressioni.
Gli uomini di Castel S. Pietro erano molto insoddisfatti del sotterfugio fatto dal Capitolo di S. Pietro nella elezione del nuovo parroco. Quando il parroco chiese fossero riparate le porte della sua abitazione e quelle del campanile, che erano in condizioni tali da non impedire un facile ingresso ai ladri, la Comunità non volle mai prestarsi a ripararle. Così il giorno 5 gennaio di nottetempo Irondio Fontanella con un certo Malaguti si introdusse in casa del parroco e la svaligiò. A questo punto, anche perché le richieste non erano state solo verbali, si decise per le riparazioni delle porte rotte lasciando però al parroco il danno del furto.
Quanto al campanile il male minore erano le immondizie, ma poi la notte precedente la festa di S. Biagio, beneficio da pochi anni eretto nella parrocchiale, furono forzate le porte e levati i battagli alle campane, così che non si poté sentirne per alquanti giorni il suono. Poco dopo fu catturato Irondio che fu punito con la pena della tortura.
Casalecchio de Conti, come si disse, era stato distrutto e danneggiata anche la chiesa. Il proprietario Paolo Conti, da cui quel casale prese il nome, dispiacendogli lo stato in cui si trovava quella chiesa, dedicata a S. Michele, fece fabbricare la cappella maggiore. Ciò lo sappiamo non solo dalle carte antiche e dai rogiti ma anche da documento più duraturo ed è lo stemma che usavano allora i Conti padroni di quel castelluccio, rappresentante un animale rampante, simbolo di signoria e grandezza, colla seguente scritta a lettere romane che noi qui riportiamo:
Paulo de Conte
De Conti da Casa
lechio fece fare
Questa Capella
dell’anno 1468.
Questo castelluccio non fu mai più riportato al precedente aspetto e importanza.
Da un resto di quell’antico fabbricato e dalle vestigia che si vedono si rileva che questo piccolo casale aveva la sua porta, mentre tutt’ora vediamo esistere un antico voltone che dava a quell’abitato a fianco del quale doveva esservi una discreta fortificazione. Rimastovi il puro abitato padronale, fu il suolo di quella trasformato in orto nel 1538. Ne abbiamo prova dalla descrizione della scritta scolpita ed esistente sotto il voltone che qui riportiamo,
D. O. M.
Tempora ne Comitum consumant nobile Nomen
Hos Hortes fecit quos spectas Concta Jacobus
Anno Virginei partus MDXXXVIII
Questa famiglia di Conti poi si è diramata in più rami. Due si domiciliarono a Castel S. Pietro, gli altri con la replica degli stessi nomi di Paolo e Giacomo, si sparsero nelle superiori montagne.
La chiesa accennata non esiste più ma c’è ne è un’altra più bella fatta sotto il governo del sacerdote Don Bubelli.
Intanto Castel S. Pietro sentiva il bisogno di riavere in patria i suoi fuorusciti e i più coraggiosi soprattutto nelle presenti circostanze in cui c’era al confine Guidaccio Manfredi[202] signore di Imola e figlio di Taddeo Manfredi signore di Faenza. Questi si erano coalizzati coi fiorentini fuorusciti contro la lega che esisteva tra Bolognesi e Piero de’ Medici.
Furono perciò richiamati Zanone Denti, Flisco Zambella, Zano de Zani, Pietro Gadone e Pippo Marsigli. Questi soggetti dettero subito le dovute prove alla popolazione. Non passava mese non che settimana in cui non ci fossero nel territorio di Castel S. Pietro scorrerie degli imolesi. Ma quando erano in pochi, Zanone gli faceva agguati o per lo meno gli dava coi suoi compagni la caccia.
Sappiamo da alcune memorie di Dozza che nel maggio 1468 Guidaccio aveva messo alcuni soldati a Dozza a guardia dei vicini castelli del bolognese. Questi arrischiarono di venire al confine a predare. Si incontrarono con alcuni di Castel S. Pietro fra quali Jodano da Corneta e Giovanni Bonora da Castel S. Pietro che erano con altri imboscati al Macchione. Si venne alle mani e nella baruffa furono eguali le perdite poiché quelli della guarnigione dozzese perdettero due cavalli e quelli di Castel S. Pietro alquanti bestiami minuti e ognuno si portò il bottino ai propri alloggiamenti.
Gli uomini d’Imola erano molto arrabbiati per non avere potuto battere i nostri e anzi, con loro vergogna, aver perso i cavalli. Guidaccio mandò di nuovo una truppa d’imolesi che giunti alla pianura sotto strada presero prigionieri alcuni villani che lavoravano la terra, svaligiarono le case al Cereto ed ai confini e condussero a Imola le persone, le robe e i bestiami.
Fu fatta la relazione al Senato affinché provvedesse. Intanto erano divenuti frequenti anche altri crimini degli imolesi fino al ponte sul Sillaro. Il Senato perciò in dicembre incaricò Giovanni Bentivoglio, Paolo Volta, Galeazzo Marescotti e Virgilio Malvezzi di prendere la vendetta e fare tutto ciò che avessero creduto contro Guidaccio e gli imolesi.
Venuti a Castel S. Pietro fecero intendere a Guidaccio che restituisse i prigionieri e tutto ciò che avevano portato via altrimenti avrebbero dichiarato guerra. Guidaccio vedendosi inferiore di forze, pur di malavoglia restituì tutti e tutto. Nel successivo anno 1469 si pacificarono i Manfredi con i bolognesi.
Fin dall’anno 1467 si erano fatte non poche spese ad ambedue le Rocche di Castel S. Pietro le quali non erano ancora state soddisfatte. Gli uomini di Castel S. Pietro ricorsero al Legato perché con la sua autorità convincesse il Senato a pagarle. Egli vedendo che non avveniva ordinò il 17 febbraio 1469 che fossero immediatamente pagate.
Su questo esempio anche Gaspare Rondoni ed Oliviero Calanchi ricorsero anch’essi per il pagamento dei loro lavori alla Rocca grande, l’ottennero 15 marzo cioè: Che si paghino a Magistro Gaspare de Rondoni da Castel S. Pietro et ad Oliverio de Bartolomeo Calanchi magistri legnaminis per parte di loro mercede dovutale per la riparazione e lavorieri da loro fatti in Roca Magna Castri S. Petri.
Intanto seguì, con la mediazione del Papa, la pace fra Piero de’ Medici e i fuorusciti ed ognuno ritirò le armi. Tristano Sforza, che era degli alleati con i bolognesi, sciolto dal soldo venne nel dì primo settembre a Castel S. Pietro accompagnato da Alessandro Poeti con tre cavalli dove stette per tre giorni.
L’autorità e il seguito del Bentivoglio a Bologna cresceva che ormai veniva riverito e considerato come principe. Il Governatore vedendo che non poteva guidare la città come conveniva, partì l’anno seguente per Roma ed il Papa deputò subito per Legato Francesco Gonzaga.
Zanone Denti, benché richiamato in patria gli era rimasta la condanna al taglio della testa. Fu assolto, dal reato del 1462, il 2 gennaio 1470 dietro pagamento di 23 lire.
Il 9 gennaio 1470 furono riconfermati i capitoli fra gli ebrei Bonaventura ed Ughetto e gli uomini di Castel S. Pietro con la condizione aggiunta che non potessero far credito nei giorni festivi della Chiesa.
Giovanni Bentivoglio vedendo gli abusi che commettevano i commissari e i giusdicenti nelle ore destinate a rendere giustizia, pensando che si rendeva a capriccio e senza pubblico, ordinò che agli uffici dei giusdicenti si dovesse tenere presso le porte una campanella per far sapere quando si esercitava la giustizia. Ciò fu eseguito nelle principali Terre e Vicariati. Budrio, Castel Bolognese, Castel Guelfo e Castel S. Pietro ubbidirono all’ordine. Avvenne che a Castel S. Pietro in tempo notturno si sentisse poi, per scherno, spesso il suono della campanella. Fu perciò levata e collocata fuori della finestra del giusdicente, così fu tolto il trastullo ai poco rispettosi della autorità. Restarono bensì in essere quelle di Castel Bolognese e Castel Guelfo come tuttora si vedono.
Quest’anno la grande aridità del tempo e le successive eccessive piogge produssero frequenti e spaventevoli terremoti in ogni dove con crollo di edifici. La torre antica di Facciolo Cattani più volte ricostruita e restaurata patì molto. Pure le torri di Virgilio Corniani e di Rondone Rondoni in Castello crollarono, nel Borgo si scoprì la chiesa di S. Pietro e restò così alquanto tempo finché fu fatta riparare dall’abbazia di S. Stefano.
Non ostante tale spaventoso flagello non si acquietavano i rissanti. Il giorno 24 agosto un certo Palanca venne a parole con Marco Andrini a motivo del Corso dell’Oca. Seguirono tante botte tra l’uno e l’altro. Il primo appena poté fuggì in chiesa inseguito dal secondo, ferito da coltello, con gran seguito di parenti. Lasciò l’infelice Palanca la vita in chiesa. L’arciprete volendo chiudere le porte si prese anch’esso insulti. Al suono della campana fu inseguito l’omicida questi, fattosi largo fino alle mura verso il fiume, riuscì a saltarla ed imboscarsi nella vicina collina. Qui rimase fino alla mattina seguente non essendo potuto andare oltre per perdita di sangue. Fu arrestato e dopo tre giorni morì.
Il Bentivoglio avvisato di tanto rumore, volle che l’Andrini sebbene morto servisse di esempio ai malfattori e lo fece appendere per il collo alla finestra del giusdicente. Ai frati di S. Bartolomeo fu proibito dare per l’avvenire al popolo un tale divertimento senza licenza del Governo.
Suor Francesca Mondini di Castel S. Pietro fu in questo tempo fatta abbadessa del suo convento del Corpus Domini, ove era dalle sue compagne tenuta in stima di santa.
L’anno seguente 1471 fu Podestà per il primo semestre Alessandro Poeti.
L’ospitale di S. Giacomo e Filippo al ponte Sillaro era da anni inabitabile non tanto per aver trascurato la manutenzione quanto per la sua antichità e per i terremoti passati. Fatta istanza al Vicario vescovile, fu assegnato coi terreni alla parrocchia di S. Sigismondo di Bologna che era retta in quel tempo da Don Lorenzo Pisi. I beni sottoposti a questo ospitale ora si godono in enfiteusi dai successori di Vincenzo e Lodovico Mondini.
Raccontano le memorie di questa famiglia che accadde nell’ospitale la morte di un pellegrino. Il gestore dell’ospitale che era un certo Nerio dal Bambo non aveva voluto, col danaro ritrovato al defunto, fare il rito funebre. Arrivarono alcuni di Macerata a chiederne le sue carte e il certificato di morte. Avendole rifiutate il Bambo, quelli di notte tempo scavarono una profonda fossa, presso il cadavere dell’estinto e poi con destrezza afferrarono il Bambo e colla bocca turata lo seppellirono nella buca, lasciandogli solo il capo, fuori dove stette fino a giorno.
L’imolese Nino Cabruzzi, essendosi fatto capo di altri fuorusciti ed assassini, faceva assalti alle persone ed erano anche poco sicuri i villani che lavoravano in campagna. Era tanto ardito che veniva con gli armati fino al ponte. Il commissario Alessandro Volta, il 27 maggio, lo fece inseguire da alquanti coraggiosi paesani. Il Cabruzzi, vedendoli arrivare, si ritirò ma arrivarono i villani da vicini campi e fu fermato e fatto prigioniero. Fu poi condotto, con due suoi compagni, nella rocca piccola del Castello quindi spedito a Bologna.
Il Senato, avvisato che dalla Romagna veniva Alessandro Sforza[203] con compagnia per andarsene a Milano, incaricò il Conte Andrea Bentivoglio ad incontrarlo a Castel S. Pietro. Venne pure Piero Malvezzi. Lo Sforza fu accolto nella Rocca del castello il 19 giugno e qui onorevolmente trattato.
Il 25 luglio 1471 Paolo II morì in Roma di mal di gotta. Il 9 agosto fu eletto Papa il card. Francesco Della Rovere col nome di Sisto IV.
Il convento degli Agostiniani che aveva patito per i terremoti fu riparato con sovvenzione della Comunità. Nello stesso modo fecero i borghesani per la chiesa della Annunziata.
L’anno 1472 fu copioso di nevi e piogge che, gonfiando i torrenti, danneggiarono le fronteggianti campagne. Si ha dalle memorie Vanti che il Sillaro all’inizio di gennaio, per lo scioglimento delle nevi causato da un forte scirocco, produsse all’improvviso una tremenda piena che rovesciò un lungo tratto di sponda del ponte della via romana.
Princivalle e Nicolò Pio signori di Carpi[204], erano stati cacciati in una rivolta da quella città. Per mettere in sicuro la loro vita, avendo amicizia con le famiglie Fabbri, Campana e Muzza di Castel S. Pietro, si rifugiarono qui. Alla fine di gennaio, preso fiato, cominciarono a tramare per poter tornare in patria.
Il Duca di Ferrara[205], loro rivale, saputo questo, si impegnò con Giovanni Bentivoglio perché li facesse sloggiare da Castel S. Pietro. Ottenne il suo obiettivo poiché il 13 aprile il Senato decretò la loro partenza da Castel S. Pietro. Partiranno alla fine di aprile.
Il bolognese Antonio Saraceno, amico del commissario del Castello Sigismondo Aldrovandi, si trovava qui ove aveva fatto amicizia con la famiglia Balduzzi. Un giorno andando a caccia incontrò una giovinetta e, presala, la stuprò. Fu ritrovato ed accusato al commissario che, benché fosse suo amico, ne ordinò l’arresto e lo spedì immediatamente a Bologna. Chi fosse la stuprata le carte non ce lo raccontano, solo in questi termini ci raccontano il fatto, 20 aprile. Antonio Saraceno violò una donnetta in Castel S. Pietro, fu arrestato e spedito a Bologna.
Nel maggio dello scorso anno erano passati alquanti pedoni che seguivano Alessandro Sforza Duca di Milano e avevano fatto tappa qui. Dato che c’era amicizia fra lo Sforza e Bentivoglio, fu ordinato di pagare a Francesco Petri, oste nel Borgo, la sussistenza in questi termini: 1472. Giugno. Si paghino a Francesco Petri oste di Castel S. Pietro la spesa per certi pedoni del Duca di Milano.
Accade in questo tempo che i dazieri intendevano riscuotere le gabelle e dazi sopra le robe che da Casalfiumanese si portavano al mercato di Castel S. Pietro. Essendo questo fatto ritenuto un’angheria si ricorse al Senato e al Legato che, riconoscendo iniqua la pretesa, ordinarono che per l’avvenire potessero trasportarsi al mercato di Castel S. Pietro franche le merci di Casale.
Così da allora si cominciò a portare liberamente il pane e gli altri commestibili da quei popoli al nostro Castello e quindi il mercato diventò più florido di ogni altro luogo.
1473 – 1482. Ripristinata l’antica cerimonia di insediamento del Vicario. Galeazzo Sforza si impadronisce di Imola. Storia della donna stuprata dal Vicario Antonio Saraceno. Nuove scorrerie imolesi. Fissazione confini tra imolese e bolognese.
Chi fossero gli ufficiali di Castel S. Pietro nel 1473 le carte non ce lo manifestano.
La famiglia di Cosma Serpa, fondò l’8 maggio nella chiesa arcipretale di Castel S. Pietro un suo altare, juspatronato Serpa, e un beneficio laicale a rogito di Nicolò Beraldi, sotto la invocazione di S. Lorenzo. Era questo sul lato sinistro della chiesa ove ora è l’altare di S. Antonio Abate. Fu poi tale beneficio incorporato colla sua dote negli altri beni spettanti la chiesa.
Lodovico Malchiavelli che fu padre di Don Aldrovando parroco della chiesa di S. Vitale ed Agricola di Bologna, aveva trasportato a Castel S. Pietro un carico di polvere per uso delle rocche e lo aveva lasciato incautamente in casa, in via Framella, su una sedia. Un suo fanciullo, in assenza del padre, ne aveva preso alcuni grani e si divertiva metterli nel fuoco per vedere le scintille. Al ritorno del padre, per timore di essere scoperto, gettò la parte rimasta nel fuoco. Questa scoppiò e incendiò tutta la polvere e fece crollare tutta la casa. Per tale scoppio, che danneggiò anche l’edificio vicino, sembrò rovinasse tutta quella parte del castello. Corsero tutti così si trovò l’infelice fanciullo ustionato e fu subito salvato.
L’invenzione della polvere da sparo e della artiglieria è del monaco tedesco Bartolomeo il Nero[206] Alcuni lo mettono nel 1330 altri nel 1354 ed altri nel 1380. Io mi attengo alla ultima data poiché allora furono costruite le mura di Castel S. Pietro con baluardi con aperture per i cannoni (cannoniere). Questo si può vedere nel torresotto angolare del nostro castello, detto Locatelli, unico testimonio della prima mura che circondava nel 1398 il nostro Castello.
I portoghesi, trovarono nel reame di Pegù[207] dei pezzi di artiglieria che i cinesi vi avevano portato cento anni prima. I cinesi attribuiscono tale invenzione ad uno spirito maligno che l’insegnò al loro primo Re chiamato Vitai per difendersi contro i tartari più di mille anni avanti Cristo.
E chi non sa, che il cannone e le bombarde hanno reso deboli tutte le fortezze, che gli antichi ritenevano inespugnabili. Sono cambiate tutte le antiche forme degli assedi e delle battaglie. La guerra, che in passato non si faceva se non col ferro, oggidì non si fa se non col fuoco.
Giovanni Bentivoglio aveva ordinato che si rinnovasse l’uso antico dei Vicari e che, oltre le garanzie del loro retto ministero, dovessero ricevere le solennità prescritte dagli Statuti. Lodovico Crescenti, nominato Vicario a Castel S. Pietro, all’inizio del 1474 fu ricevuto solennemente alla porta del Castello dalla pubblica rappresentanza e dal notaio ser Andrea Ghirardacci che ricevette il giuramento fidem observari Populo et Comuni Bon. (..) Jus et justitiam recto ministrare. Poi ricevuto in mano lo stendardo pubblico della Comunità, e da esso ripassato al suo messo, fu accompagnato alla residenza.
In quest’anno Papa Paolo volendo mostrare la sua amorevolezza al Bentivoglio gli concesse che, dopo sua morte, suo successore fosse il figlio Annibale. Così la famiglia Bentivoglio si consolidò alla Signoria di Bologna. Il Bentivoglio per mostrare a Dio e alla città la sua contentezza, in occasione delle rogazioni della B. V. di S. Luca per la festa dell’Ascensione, le andò incontro solennemente alla porta della città. Su tale esempio nel tempo fecero lo stesso le comunità del contado.
Essendo sorte discordie fra Taddeo Manfredi signore di Faenza e suo figlio Guidaccio signore di Imola, Galeazzo Sforza Duca di Milano approfittò di tale occasione per cominciare ad impadronirsi della Romagna. Quindi fattosi aderenti in Imola, venne con soldati a Castel S. Pietro e, con l’aiuto interno alla città, se ne impadronì e cacciò Guidaccio. In seguito la diede in dote a Madama Caterina Sforza[208] sua figlia naturale maritata col Conte Girolamo Riario[209].
Per questi cambiamenti gli uomini di Castel S. Pietro stavano in continuo sospetto, avendo la guerra vicino, tanto più che i castelli dell’Imolese si erano sollevati a favore dello Sforza. Ciò temendo il Bentivoglio guarnì Castel S. Pietro di uomini e di munizioni d’ogni tipo.
Intanto fu estratto per Vicario di Castel S. Pietro per il secondo semestre 1474 Antonio Saraceno.
Non sembrò vera una tale estrazione al Saraceno per venire a vendicarsi dell’affronto subito di essere condotto arrestato a Bologna per la faccenda della donna violata due anni fa. Questi appena giunto a Castello e preso il possesso della sua carica si preparò ad insidiare la donna ormai sposata per prendersi la rivincita. Non riuscendogli con le buone ricorse alla crudeltà. Fece imprigionare suo marito, per nome Cola Tristani, con l’accusa di sapere che aveva partecipato nel levare la campanella dell’udienza. Fu accusato di delitto di lesa autorità e lo costrinse a giustificarsi. La donna ricorse alle preghiere per la libertà del marito innocente.
E come replicò il Saraceno? tu preghi chi così poco vuole ed è soggetto alle tue ripulse? cediti a me che io ti ricedo il marito, egli è mio prigioniero ed io son tuo prigioniero. Sta in tuo potere liberare entrambi. Restò ella confusa fra la vergogna di perdere l’onore e lo spavento per la sorte del marito e se ne partì disperata. Dopo tre giorni tornò dal Saraceno, di nuovo lo pregò ma lo trovò furioso, rinnovò le lacrime per lo sposo. Infine quello sembrò commuoversi e disse alla donna che si andasse a prendere il marito al carcere né più lo disturbasse essendo stato abbastanza annoiato.
Volò felice la donna al carcere, aperta la porta della cella, trovò strangolato il marito. Gli si gettò sopra con grida spaventevoli e protestò la crudeltà del Saraceno, inumano individuo. Venne consigliata di ricorrere al Bentivoglio, protettore della canaglia.
Accettò il consiglio e corse dal Bentivoglio che, sentendo un cosi barbaro comportamento chiamò il Saraceno. Egli ubbidì e, trovando la donna presente, arrossì e, dopo non aver potuto negare tanta crudeltà, inginocchiato davanti al Bentivoglio, gli domandò perdono. Fece lo stesso con la donna che chiedeva giustizia. Lei negò il perdono, il Saraceno si offrì compensare la sua perdita collo sborso di 2.000 ducati. Ella, consigliata dagli astanti, alla fine accettò. L’accordo fu fatto il 23 novembre 1474 come ricordano le memorie Fabbri. Il Saraceno fu bandito da Castel S. Pietro. Il Legato udito il fatto non poté che risentirsi.
La siccità e la scarsa raccolta provocò problemi nella popolazione e si fecero ovunque orazioni.
Il 6 gennaio 1475 Antonio Lini nuovo Podestà o sia Vicario e Commissario fece la sua solenne entrata in Castello nel modo che fece il suo predecessore.
L’anno 1475, che avrebbe dovuto essere tutto dedicato alla devozione, fu dedicato a tutto il contrario. Nascevano disordini in tutta l’Italia e in Europa. Non c’era principe che, con sfrenata avidità, non cercasse di ingrandirsi con le terre e i beni altrui e con le ruberie nelle campagne. Soffrivano per ciò tutte le città e tutti i paesi Si facevano ovunque rigorose guardie ed ognuno cercava di far crescere il proprio partito.
Il 20 gennaio il Senato deputò alquanti soggetti per controllare lo stato delle mura, delle fortezze e delle rocche nel contado con facoltà che facessero tutto ciò che avessero creduto a spesa degli uomini dei rispettivi castelli e quanto alle rocche si riparassero a spese della Camera. Per Castel S. Pietro furono deputati Lodovico Caccialupi e Virgilio Malvezzi, che pensarono anche a Liano, Scipione Gozzadini per Frassineto e Carlo Antonio Fantuzzi per Varignana, Ozzano e Castel de Britti.
Giovanni Bentivoglio cercava sempre di procurarsi le grazie di quelle famiglie che potevano fargli ombra e trattava con molta benevolenza quelle che potevano dargli aiuto, quindi ora con una grazia ora con un favore ora con onori riconosceva i meritevoli. Il 18 febbraio, nella sua cappella in S. Giacomo, fece Cavaliere aurato Lodovico Cattani premendole la famiglia Cattani di Castel S. Pietro sia per la parentela che aveva in città sia per il grande seguito in Castel S. Pietro,
Poiché gli uomini delle comunità soggette si adattavano male alle collette per mantenere le fortificazioni, il Senato il 18 aprile dispose che le comunità soggette al Vicariato di Castel S. Pietro concorressero alla manutenzione delle difese della loro Matrice e Capoluogo.
Intanto gli imolesi non stavano fermi, tanto in pianura che nella collina facevano aggressioni, scorrerie e bottino di robe, bestiami e persone con imboscate alle quali seguivano baruffe. Fra queste riportiamo una lasciataci scritta dal padre Vanti.
Alcuni nostri villani sul finire di giugno erano andati a mietere al confine con Castelguelfo. Un gruppo di imolesi prima aspettarono che i mietitori avessero deposto le falci e si fossero adunati a mangiare poi li assalirono in modo che, non potendo difendersi essendo disarmati, furono tutti fatti prigionieri e maltrattati per aver voluto tuttavia resistere.
Arrivata la notizia a Castello, Marsilio Cattani e Zanone Denti con altri corsero ad intercettarli. Li incontrarono al rio Sabbioso mentre conducevano via i prigionieri. Qui si accese una furiosa scaramuccia e ci furono feriti da una parte e dall’altra. Brunoro, il capo di quella incursione, fu circondato e si arrese riscuotendo dai mietitori quante percosse poté sopportare. Poi lo legarono ad un albero lasciandolo così esposto agli alti raggi del sole.
Gli altri suoi compagni, che sapevano essere di forza inferiore, fuggirono per le campagne e giunti in un luogo detto la Balestriera, fondo rurale di Vincenzo Belestrieri di Dozza, si fermarono fino all’imbrunire e partendo lo incendiarono senza rispetto per il proprietario romagnolo.
Baldo Zangolini e Florentino Fiorentini di Castel S. Pietro, coi suoi compagni inseguirono gli altri imolesi fuggiaschi e raggiuntone alquanti dispersi, tolsero loro i cavalli e se li portarono alle proprie case.
Gli imolesi non presero bene il fatto. Crebbe l’odio e con scorrerie, stragi ed uccisioni vennero fino al ponte sopra il Sillaro. Il Senato di Bologna, vedendo a rischio Castel S. Pietro, mandò alquanti uomini d’arme in guarnigione al Borgo ed al Castello. Quindi si facevano scorrerie da una parte e l’altra con incendi, stragi, rapine ed uccisioni e gravi danni a vicenda. I viandanti erano poco sicuri, le strade e le campagne erano occupate da soldati, le devastazioni erano frequentissime onde per assicurare i lavoratori e loro sostanze furono fatti rifugiare in Castello.
Tutti questi fatti dispiacquero molto al Papa Sisto IV, che spedì in queste parti Angiolo, vescovo prenestino, assieme col card. Legato Francesco Gonzaga e il cardinale Filippo Calandrino a comporre le differenze con facoltà a tutti e tre di visitare, riferire e proporre al Papa la composizione. Nella pace stipulata il 30 agosto 1475, furono anche fissati i confini fra imolesi e bolognesi che dovevano cominciare dalla via del Medesano col fiume Sillaro e da Castel Guelfo sino al rio del Corleto verso il castello di Dozza. Il tutto contenuto nel chirografo papale dal quale si può rilevare quale sia il confine fra la legazione di Bologna e la Romagna.
Fu pubblicato questo atto tanto nella città, alle porte della chiesa di S. Pietro, a quella di S. Petronio e al palazzo pubblico, quanto a Castel S. Pietro come a Medicina per essere queste comunità limitrofe alla legazione di Romagna.
Nelle passate contingenze gli uomini di Castel S. Pietro avevano per rappresaglia portato via animali e robe agli imolesi. Questi fecero istanza al Papa perché in vigore del trattato facesse restituire tutto. Il Papa il 13 settembre ordinò che gli imolesi fossero risarciti. I bolognesi furono restii a ubbidire a tale ordine onde il Papa il 12 novembre, per Bolla sotto rigorose pene, ordinò la esecuzione degli accordi e impose silenzio ai bolognesi. In seguito fu tutto restituito.
Chi fosse Podestà del primo semestre 1476 non si trova nel registro delle Estrazioni degli uffici per Castel S. Pietro.
Terminate le questioni sopra l’affare dei confini con gli imolesi ed essendo morto il vescovo di Bologna il Papa, che aveva a cuore la quiete della diocesi bolognese, vide quanto era amato il Legato Francesco Gonzaga, secondogenito di Lodovico Marchese di Mantova, e quindi nell’anno 1476 lo nominò per Vescovo di Bologna.
Era questi illustre non tanto per i suoi natali quanto per la magnanimità d’animo. Diceva che conveniva ad un principe ricco impoverirsi più che lasciare partire dalla sua presenza il bisognevole senza soccorso. Appena ricevuta la carica cominciò a sradicare gli abusi che per avidità di guadagno si erano introdotti anche nelle spese per le cerimonie religiose. Le famiglie erano ormai più spaventate per le spese dei funerali che per la stessa morte dei loro cari. Ridusse quindi per tutta la diocesi le tasse e le pompe.
Ne approfittarono subito gli uomini di Castel S. Pietro per sottrarsi alla esosità parrocchiale nel suono delle campane pubbliche delle quali il parroco ne pretendeva l’assoluto dominio, sebbene, con la torre, fossero mantenute dalla popolazione. Questo perché ne ritraeva un utile che a rigore non poteva percepire essendo un bene pubblico. Gli stessi giudei consideravano ciò una chiara usura.
Il buon Gonzaga provvide in modo che il povero all’occasione della morte non pagasse che il campanaro e lo stesso concesse ai componenti la Municipalità per il servizio che prestavano al popolo. Questo uso continuò fino a tutto il 1500 tra liti e questioni legali nel tribunale vescovile a causa della sempre rinnovata avidità dei parroci.
Era nato in questo tempo un rancore mortale tra Pier Antonio Dalla Muzza e Pellegrino Dal Bambo e si fecero da una parte e dall’altra armamenti. Col primo stavano Giacomo Dalforno, Bartolomeo Comelli, Rondone Rondoni e altri, col secondo Gnetto Gnetti ed altri. Venuti ad uno scontro armato restò ucciso il Muzza, i suoi aggressori furono banditi con la pena del taglio della testa e i loro beni confiscati. Poco dopo anche il Gnetti fu bandito per avere ucciso un certo Polesetto. Per questi delitti il popolo era sempre più sfiduciato e il Legato non poteva intervenire perché questi individui violenti erano protetti dal Bentivoglio.
Fu poi restaurata la Rocca grande sotto la direzione di Virgilio Malvezzi, per riparare i danni avuti dalle ultime ostilità con gli imolesi. La spesa fu di 250 lire pagate il 19 agosto 1476.
Il 16 dicembre fu estratto per Podestà e Commissario di Castel S. Pietro Brunezio Dini. Questi venne a Castel S. Pietro il primo gennaio 1477 e prese il possesso del suo incarico con le accennate solennità.
Il vescovo Gonzaga venne a Castel S. Pietro alla fine di aprile 1477. Fatte le opportune visite esortò il popolo, avendo egli diminuite le spese per i funerali, a erogare il risparmio in elemosine ai poveri miserabili ed al suffragio ai defunti.
Si usava allora in ogni luogo di campagna dalla famiglia del defunto donare focacce e legumi cotti in occasione dei funerali. Si rinnovavano i ricordi dei riti ateniesi e romani in suffragio alle anime dei loro trapassati. Tali superstizioni sopra i legumi, convertiti in minestre per i miserabili, furono abolite poi nel bolognese dal card. Gabriele Galeotti vescovo di Bologna. Podestà di Castel S. Pietro per il S.S. fu Roberto Toresani.
Non potendo la Comunità di Castel S. Pietro più oltre progredire nei debiti allodiali, le convenne privarsi di beni stabili che godeva allodialmente per soddisfarli col rimborso grezzo. Quali fossero né siamo all’oscuro per essere spogliato l’archivio, ritroviamo però nell’atto della vendita che si alienò un pezzo di terreno denominato Campo Marzio, che fu venduto a Francesco Fucci.
Per il primo semestre dell’anno successivo 1478 fu estratto Rizzaldo Ariosti, che all’inizio di gennaio, con le solite formalità, prese il possesso della sua carica. Vi successe Simone Branchetti.
I castellani delle Rocche non potevano assentarsi dal loro incarico se non con una deliberazione del Senato, così che era vietato anche solo per pochi giorni. Il 17 marzo il castellano della Rocca di Castel S. Pietro aveva bisogno di allontanarsi per urgenti affari, chiese al Senato la licenza di andare a Bologna e gli fu accordata per solo dieci giorni e non di più.
In occasione delle ostilità passate con gli imolesi, gli uomini di Castel S. Pietro avevano fatto, per meglio assicurare la rocca grande, alcuni lavori dentro e fuori (certi rivolini fatti dinanzi e fuori della Roca di Castel S. Pietro) con la spesa di 147 lire. Ricorsero poi al Senato per il compenso, perciò il 26 giugno i Riformatori ordinarono che si compensassero le 147 lire nel Dazio del Sale
Nel gennaio 1479 fu eletto dai Riformatori Bente di Battista Bentivoglio castellano della Rocca di Castel S. Pietro per tre anni con l’obbligo di custodirla diligentemente.
La Comunità essendo ancora senza denaro a causa delle vicende passate fu in necessità di fare altre alienazioni di terreni a Linetto Gnitti e a Giovanni Marescalchi.
Il Re Ferrante di Napoli[210], in guerra con i fiorentini, scrisse al Senato che si compiacesse di preparargli l’alloggio per 600 cavalieri. Il Senato, che faceva solo quello che voleva il Bentivoglio, si scusò dicendo che essendoci la pestilenza in città e nel contado non poteva soddisfarlo. Poi di nascosto scrisse alla Duchessa di Milano[211] avvisandola di quanto accadeva.
La Duchessa di Milano poi per rassicurare in qualche modo i bolognesi spedì 600 cavalieri per la difesa della città ed altri per la difesa del contado dei quali ne fu spedita una banda a Castel S. Pietro.
Il Papa che parteggiava per il Re di Napoli, scrisse al Senato che voleva fosse accontentato il Re. I bolognesi spedirono ambasciatori al Papa per scusarsi, questi non volle nemmeno ascoltare l’ambasciata, anzi fece intendere agli inviati che se ne andassero. A Bologna ne nacquero amarezze, così il Papa ordinò al Legato di stare accorto. Egli pensò di mettere i più fedeli alla Chiesa nei luoghi di maggior importanza per assicurarsi da qualche rivolta. Il 4 novembre deputò per commissario della Rocca grande di Castel S. Pietro Antonio Castelli. Oltre ciò fece anche riparare le fortificazioni esterne del castello. Il ponte sopra il Sillaro, che era danneggiato dalla parte del Castello, fu riparato.
Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro Battista Belliosi per il primo semestre dell’anno seguente 1480. Questi intraprese il suo ufficio, con la solita solennità, solo il 9 gennaio.
Siamo in quest’anno 1480 scarsissimi di notizie e memorie quindi poco possiamo riferire. Non sappiamo il motivo per cui fosse guastata la fonte pubblica della Fegatella. Le carte comunitative non ci indicano altro che la spesa dovuta a certo Mastro della Branca per la riparazione dei danni.
Il Legato fece capire con gentilezza al Senato che la Rocca grande di Castel S. Pietro aveva bisogno di alcuni rifacimenti. Il Senato accolse bene il modo della richiesta e affidò i lavori a Virgilio Malvezzi, uomo pratico nelle cose di guerra, il quale, non solo fece quanto il Legato desiderava, ma vi pose anche la sua cura ed assistenza personale. Non sappiamo quali fossero i lavori, conosciamo solo che furono pagati il 28 novembre 1480.
Queste continue spese venivano poi caricate nelle tasse che pagavano i paesani di Castel S. Pietro e delle comunità del suo vicariato. Essendosi stancati di così frequenti pagamenti, alcuni si misero in testa di resistere agli esattori. Quindi accadde che la famiglia dei Morandi e dei Costa di Liano si opposero, altri li imitarono e furono i Conti, i Simbeni ed altri di Castel S. Pietro. Quando l’esattore di Bologna Giovanni Ravasini venne per effettuare la riscossione non poté farla anzi fu, a rumore di popolo, cacciato.
Il Senato ed il Legato, procedendo in pieno accordo, spedirono a Castello molti guastatori con l’ordine di demolire subito le case dei contestatori, purché non fossero della chiesa e di cittadini di Bologna e che il Massaro li dovesse assistere e non impedirli. Inoltre che i delinquenti fossero banditi con la pena del taglio della testa.
Nel 1481 crescendo il bisogno di danaro per mantenere i fabbricati dei fondi allodiali, nel 1481 la Comunità ricorse alla vendita di terreno a Cristoforo Bari, vendette pure il Dazio Rettaglio a Giovanni Dessideri e Baldisserra Rasi.
Era stato deputato commissario per Castel S. Pietro e Casalfiumanese Bartolomeo Rossi. Le due popolazioni di Casale e Castel S. Pietro non volevano l’accoppiamento delle due cariche e così questi era stato ignominiosamente scacciato. Il Senato, volendo riparare a questo disordine, ordinò alla Comunità di Castel S. Pietro e Casalfiumanese che si dovessero assolutamente ubbidire al commissario in tutto e per tutto. Questa ostilità e poco rispetto provocò che di qui in avanti i ministri pubblici deputati a queste comunità cominciarono ad introdurre abusivamente l’uso farsi sostituire da dei notai nel loro incarico di Podestà.
Il 9 marzo 1482 fu eletto Battista Bentivoglio per castellano della Rocca grande di Castel S. Pietro tre per anni con la garanzia di suo fratello Francesco Bentivoglio e di Nicolò Bombasari di Castel S. Pietro. La famiglia Bombasari, estinta verso la fine del secolo XVI, fu di buona reputazione pubblica non che di sostanze, come dimostra una simile garanzia.
Le mura di Castel S. Pietro, per la loro antichità e per le vicende sofferte, in alcuni punti minacciavano di rovinare ed in altri erano in imminente pericolo di rovesciarsi. Furono perciò rinnovate ove era necessario e furono quelle alla destra dell’ingresso maggiore del Castello fino all’angolo verso ponente ove era un baluardo che sporgeva in fuori simmetrico all’altro a mattina. I lavori furono fatti a spese dalla Comunità che in ristoro ne ebbe una immunità per alcuni anni dal pagamento del Dazio Sale e Molino.
Quanto fossero avveduti gli uomini di Castel S. Pietro di questi tempi e quanto fossero pure facinorosi, dediti alle armi e pericolosi al segno di devastarsi fra di loro per fino le abitazioni, lo possiamo immaginare ma non li possiamo leggere né, con nostro dispiacere, individuare per mancanza dei Libri de’ Malefici contemporanei.
Sebbene il paese poco o molto fosse turbato da divisioni e tumulti, tuttavia non mancava la dimostrazione della devozione a Dio e ai suoi santi. Le Compagnie di S. Caterina e del SS.mo officiavano a gara fra di loro nella parrocchiale. Inoltre alcuni confratelli dell’una e dell’altra compagnia, avendo devozione a Maria SS.ma sotto la invocazione del Rosario, cominciarono ad adunarsi la sera nella parrocchiale davanti l’altare di S. Biagio e qui recitare, in figura di unione, la Corona di Maria Vergine.
Questa unione ebbe un tal seguito con la partecipazione del pubblico colto che fu pensato, per conseguire maggior bene da Dio, di fare erigere una compagnia nuova sotto questo titolo. Si maturò intanto la faccenda e si presero informazioni come ciò eseguire.
1483 – 1488. Nascita Compagnia del Rosario. Lite e scontri tra gli uomini di castello e quelli del confine dozzese. Scapestrati tormentano l’arciprete. Intervento vittorioso contro i delinquenti che assalivano i viandanti sulla Via Romana.
Per il primo semestre 1483 fu eletto per Podestà di Castel S. Pietro Baldassarre Montacheti Lettore Pubblico di Legge. Gli piacque esercitare il suo ministero personalmente per cui veniva qui alla sua residenza. Mancava solo quando era impegnato come Lettore e per questo fu preso di mira per le assenze.
I devoti di Maria SS.ma del Rosario, che già si erano manifestati l’anno scorso colla recita pubblica della Corona di Maria Vergine, ottennero nel mese di giugno di quest’anno 1483 la solenne erezione in Compagnia dal Capo della Religione domenicana mediante suo chirografo, nel quale è citato un padre Francesco da Castel S. Pietro che ascese i primi gradi di quella Religione.
Si deduce da questo documento che la Compagnia del Rosario ebbe il suo inizio da certe fratellanze particolari e private che univano le famiglie devote del Rosario. Per tale erezione fattasi in Castel S. Pietro è credibile che ne seguissero feste ed allegrezze, tanto più che i componenti questa pia unione erano anche tutti fratelli della Compagnia del SS.mo Sacramento.
Infirmatosi gravemente il card. Francesco Gonzaga, attuale vescovo di Bologna, finì i suoi giorni il dì 22 ottobre con universale cordoglio per le sue qualità e prerogative onde meritava essere un monarca. La città e contado perciò restò priva non solo di un ottimo pastore ma anche di un benefico Legato. Il Papa provvide subito a questa mancanza, dichiarò vescovo e Legato di Bologna suo nipote Cardinale Giuliano Della Rovere.
La raccolta di quest’anno fu molto scarsa. Il Bentivoglio per farsi sempre più voler bene dalla popolazione, dalla quale era titolato Signore di Bologna, ordinò che tutto il suo grano si vendesse alla metà del prezzo corrente. Questa generosità accrebbe il suo partito cosi che il Vicelegato, che era Galeazzo Della Rovere, ritenendosi poco sicuro abbandonò la città.
All’inizio del 1484 fu eletto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Filippo Lugari, che prese il solenne possesso della carica con la cerimonia dei suoi predecessori. Si attivò subito perché non nascessero disordini in paese per la fame, volle partecipare della vendita e acquistò del grano del Bentivoglio e ne fece portare a Castel S. Pietro una buona quantità, facendolo panificare a sue spese.
Morto il Papa il 12 agosto 1484 gli successe nella cattedra di S. Pietro Giovan Battista Cibo col nome di Innocenzo VIII. Cambiato il Papa fu nominato Legato di Bologna Giovan Battista Savelli romano.
Per una tale destinazione si fecero pubbliche allegrezze. Furono però maggiori quelle di Giovanni Bentivoglio che, dopo aver mandato a Roma Bonifacio Cattani da Castel S. Pietro a congratularsi, ottenne la conferma dei Capitoli fra Bologna e la S. Chiesa, che confermavano la sua supremazia.
Tutte queste buone nove produssero universale letizia e si fecero grandi feste a Dio. Presenziando in S. Giacomo Giovanni Bentivoglio con tutta la famiglia uscirono dalla bocca del popolo tanti evviva ed applausi che assordavano l’aria.
Il dottor Baldassarre Montacheti, che non aveva nello scorso anno adempiuto totalmente alle sue incombenze di cattedratico per i suoi compiti a Castel S. Pietro, inquisito per le lezioni non tenute, ricorse al Senato che considerate le sue ragioni lo assolse dalle penali.
Non ostante l’assegnazione dei confini fra gli imolesi e i bolognesi da questa nostra parte fatta col voto dei tre cardinali e confermata da Sisto IV l’anno 1474, i villani del territorio di Dozza non intendevano rispettarli. Infestavano o poco o molto il territorio di Castel S. Pietro senza ascoltar i reclami e ricorrendo alla forza. Non avevano timore, avendo avuto il nutrimento ed il latte facinoroso fino da fanciulli, ad arrischiare nel caso la vita con le loro bravate.
Avvenne che, essendo stati mandati al pascolo degli armenti nella boscaglia sopra il Castelletto dalle famiglie della parte opposta, furono queste fermate. Scoppiò una rissa e restarono soccombenti i villani di Castel S. Pietro. Tre, fatti prigionieri, furono condotti a Dozza nella piccola Rocca.
Questi erano protetti da Giovanni Poggio signore del Castelletto, che ne chiese la liberazione. Dopo il rifiuto dei dozzesi gli uomini di Castel S. Pietro si prepararono per rifarsi.
Adunati in buon numero i villani del Poggio andarono improvvisamente a Dozza e, presa la porta del castello, imposero a Vincenzo Balestrieri e Julo Valloni, di far liberare gli arrestati altrimenti sarebbe stato peggio per loro. I due dozzesi, come capi di quel luogo, a principio se ne risero e Julo Valloni coraggiosamente andò a parlamentare. Fu all’improvviso preso in ostaggio e consegnato agli altri villani del Poggio che si erano imboscati a S. Lorenzo.
Vedendo ciò il Balestrieri chiamò gente che, adunata in quella piccola piazza, decisero di mandare un loro messo ai villani del Poggio, restituendo un prigioniero per scambiarlo con il Valloni e quindi trattare. Gli uomini del Poggio, non attendevano altro, presero in ostaggio l’inviato e poi mediante una donnetta mandarono questa risposta al Balestrieri: Che non avrebbero rilasciati i loro prigionieri se prima non fossero ritornati a casa i due villani che erano in Dozza e non si fossero anche rifatti i danni sofferti presenti e passati, altrimenti avrebbero condotti i due ostaggi in città.
Il Balestrieri, riconoscendo che la cosa stava diventando molto seria. chiese ordini al castellano. Si decise di mettere in libertà i prigionieri e quanto ai danni si delegò la soluzione alle rispettive comunità.
Giovanni dal Poggio prese di qui motivo per accrescere il fabbricato che noi ora diciamo Castelletto, ove riparare al bisogno le famiglie addette ai fondi. Ciò lo abbiamo saputo da una lista di spese comunicataci dal fu Capitano Antonio Mansani che finché visse fu ministro e custode della libreria e dei beni allodiali del Castelletto.
Per l’anno seguente 1485 fu eletto castellano di Castel S. Pietro Rinaldo Ariosti che, sentendo poco quiete queste parti, si adattò male a stabilirsi qui. Chi fossero i Podestà l’elenco non ce lo segna.
Sentendo di movimenti d’armi e avendo bisogno alcuni Castelli del territorio di riparazioni, Giovanni Bentivoglio, con i Riformatori, nominò diversi nobili a questo scopo. Nel mese di ottobre Andrea Grati e Gozzadino Gozzadini furono incaricati alla riparazione alla torre di Castel S. Pietro, a Varignana e Liano. La nostra torre era rotta e sgretolata nella facciata che guarda il Borgo e pure la parete esterna in alcuni punti. Fu riparata e restaurata e nella facciata della rocchetta verso il Borgo sopra la porta maggiore vi fu posto lo stemma bentivolesco con incisa l’iscrizione
Jo. Sec. Bentiv. MCCCCLXXXV.
che fu poi levata sotto il pontificato di Giulio II e sostituita con l’arma pontificia, che tuttora si vede benché corrosa dal tempo.
Giovanni Bentivoglio aveva data in moglie sua figlia Violante a Pandolfo Malatesta[212] signore di Cesena e Rimini. La sposa venne incontrata a Castel S. Pietro dai primati della Romagna e molta nobiltà di Cesena, Rimini ed altre signorie.
Passando poi all’anno 1486 fu estratto Podestà di Castel S. Pietro Nicolò Castelli che non poté investire la carica. Il Senato con decreto lo sostituì con suo figlio Alessandro Castelli. Per castellano fu eletto Rinaldo Ariosti, che perché non aveva servito interamente, fu contestato ma fu assolto dal Senato.
Perché in quest’anno non si era potuto avere il predicatore quaresimale degli agostiniani, l’infelice parroco fu costretto a supplire esso alla mancanza. I paesani, che non lo vedevano di buon occhio a motivo della sua elezione e che scarsamente andavano alle sue messe, cominciarono ad intervenire alle sue prediche e, dato che era balbettante, lo deridevano tanto che fu costretto a cessare il ministero.
Non avendo Ferrante Re di Napoli pagato il solito censo alla Chiesa, il Papa si alleò con i fiorentini, i veneziani ed altri per fargli la guerra e toglierli il regno. Assoldò il Papa a tale scopo Roberto di Sanseverino[213] famoso condottiero d’armi. Essendo poi seguita la pace, il Papa ordinò che, nel ritorno che quello faceva dalla Lombardia, gli fosse somministrato il bisognevole ovunque passasse. In seguito dell’ordine pontificio volendo il Senato col Bentivoglio che il contado restasse provveduto di tutto, decretò il 2 giugno che: che niuno avesse ardire estrarre dal Vicariato di Castel S. Pietro alcuna piccola partita nemmeno di fieno, grano, biade, legna, sotto rigorose pene, senza licenza de Riformatori.
Questo fatto provocò la rinascita delle ostilità e delle ripicche fra gli uomini possidenti di Castel S. Pietro e gli uomini di Dozza ed altre terre adiacenti. Infatti volendo i nostri riportare i loro raccolti dal dozzese furono impediti dagli abitanti di Monte Sparviero, Monte del Re, del Macchione e del Sabbioso. Nacquero risse e baruffe fra gli abitanti di entrambe le parti del confine e non si poterono trasportare nel bolognese le robe prodotte oltre il confine dai proprietari castellani.
Quindi i possessori di Castel S. Pietro di terreni nel dozzese come i Rinieri, i Samachini, i Comelli ed altri raccolsero una masnada di più di 50 persone e, fatto loro capo Giovan Battista Fabbri, andarono tutti in truppa ed armati oltre il confine. Il 25 luglio raccolsero tutte le loro robe e le condussero nel territorio bolognese alle rispettive proprietà. Approfittarono della giornata festiva per andare in piccoli gruppi per non essere sospettati di aggressione militare.
Non stettero quelli di Monte Sparviero, quelli del Sabbioso e Macchione con le mani in mano così al grido di Morte! morte agli assassini!!, nacquero risse per avere così violato la linea del confine e della giurisdizione. Lo stesso accadde anche a Castel Guelfo e pure qui seguirono percosse e ferite reciproche.
Sulla fine di agosto giunse il Re di Napoli con la sua gente a Imola per andarsene a Milano. Chiese al Bentivoglio il passo e vettovaglie. Temendo questi delle conseguenze per l’ostilità del papa verso Re Ferrante, mise in armi il popolo per sicurezza dello stato e consegnò il governo degli armamenti a Pirro Malvezzi, che in un batter d’occhio mise molte genti ai passi del contado e mandò molti soldati a Castel S. Pietro.
Il Sanseverino che era in Imola, rinnovando la richiesta di salvacondotto, venne il 17 settembre a Castel S. Pietro. Intanto nel popolo bolognese e nel contado era nata, a bella posta, fermento contro il permesso del passaggio. Il Sanseverino temendo pericolo per tali rumori, che pensava orditi dal Duca di Milano parente del Bentivoglio, il 18 voltò le spalle a Castel S. Pietro. I castellani, sentito il proseguimento dell’agitazione a Bologna e vedendo la repentina fuga del Sanseverino diedero dietro alla sua fanteria e la svaligiarono tutta ed il Sanseverino con 100 cavalli fuggì a Ravenna. In questa cacciata si segnalarono Cristoforo Rinieri, Melchione Laurenti, detto Scarpa, e Nono dalla Serpa detto Lostuzza.
Il Papa, saputo il fatto, se ne dolse molto e si adirò con i bolognesi per la qual cosa il Bentivoglio, che sospettava del Papa, fece nuove fortificazioni ai castelli e alle rocche di frontiera. A Castel S. Pietro, colla massima sollecitudine, fece ultimare il lavoro all’interno delle mura.
Nell’anno successivo 1487 entrò Podestà di Castel S. Pietro Baldassarre Montacheti, come si raccoglie da una lapide contemporanea affissa nella parete esterna della pubblica residenza col suo stemma rappresentante quattro mani con due spade incrociate
Erano talmente cresciuti gli scontri tra li uomini di Castel S. Pietro e quelli del vicino confine che il Senato sentì la necessità di porvi mano e fare in modo che ne seguisse la pace per il rispetto che si doveva al Conte Girolamo Riario, padrone d’Imola e marito di Caterina Sforza, colla quale Giovanni Bentivoglio aveva parentela.
Il 28 gennaio 1487 il figlio del Bentivoglio, Annibale[214], sposò Lucrezia del Duca D’Este di Ferrara, per cui si fecero grandi allegrezze e feste nel contado. Narra a questo proposito il nostro Vanti che Baldassarre Montacheti, Podestà di Castel S. Pietro, voleva pure lui mostrare il suo giubilo al Bentivoglio come avevano fatto gli altri vicari del contado. Convocò quindi i Massari di ogni comunità soggetta e loro propose il suo progetto di presentarsi il primo giorno di maggio al Bentivoglio collo stendardo della Vicaria e con un fanciullo per ogni comunità vestito coll’uniforme bentivolesca e, portando in mano una cornucopia di spighe e fiori, pronunziassero il primo giorno di maggio auguri di felicità e contentezza al novello sposo.
La proposta fu approvata dai 26 massari delle comunità soggette al Vicariato, quindi andarono tutti in bell’ordine al palazzo Bentivoglio il giorno primo di maggio con rami di pioppo verdi, con cornucopie di spighe e fiori, gridando ad ogni tratto di strada: Viva il Bentivoglio! Viva il signore di Bologna! Arrivati al palazzo e piantato alla porta lo stendardo di Castel S. Pietro, il Montacheti si presentò al Bentivoglio, gli offrì la sua obbedienza come capo del Senato ed intanto i fanciulli sparsero dalle loro cornucopie i fiori raccolti. Gradì molto il Bentivoglio questo omaggio e regalò ai fanciulli una moneta d’argento coll’effige di Annibale.
Furono finalmente composte le differenze fra gli uomini di Castel S. Pietro e quelli del confine dozzese regolando i vicendevoli trasporti attraverso il confine. Dall’una e l’altra parte si condonarono i danni avuti e dati.
La Compagnia del SS.mo Rosario eretta all’altare di S. Biagio perché fosse maggiormente officiato, si congiunse coll’altra del SS.mo Sacramento facendo congiuntamente tutte le loro funzioni a questo altare. il Vanti scrive che, essendoci stata una straordinaria siccità e una grande penuria d’acqua, le due compagnie unite fecero un triduo al santo e, a metà di agosto, venne una copiosa pioggia che innaffiò esuberantemente il solo comune di Castel S. Pietro. Quindi perciò si fece anche un solenne ringraziamento.
Sembrava che in paese regnasse abbastanza quiete. Le cose cambiarono nel mese di ottobre. Durante il mercato delle castagne erano scesi dei montanari da Piancaldoli. Questi non volevano accettare la regola della Misura e Pesatura delle robe in vendita e il pagamento della relativa tassa all’incaricato della Comunità. Nacque un tale scompiglio che si giunse all’uso delle armi fra gli uomini del Castello e quei montanari. Di questi ne rimasero alcuni feriti mortalmente. Per frenare il gran tumulto si dovette suonare la campana pubblica e alla fine si calmò la rissa.
Nell’anno seguente 1488, quali fossero i Podestà del paese le carte non li indicano come non sappiamo chi fosse il nuovo castellano.
Il papa sdegnato ancora col Bentivoglio e i bolognesi per le questioni passate, si era alleato coi fiorentini. Questi cominciarono a molestare le montagne sopra Castel S. Pietro. Il Senato mandò gente al comando di Leonardo Aldrovandi che stabilì la sua residenza nella Rocca grande di Castel S. Pietro.
Alcuni scapestrati tormentavano e beffeggiavano l’arciprete perché non aderiva alle loro richieste. Ricorse egli all’Aldrovandi che riconosciuti i soggetti e il loro capo: Marco Lasi detto il Grillo, lo fece imprigionare e, dopo alquanti giorni di carcere, lo fece frustare. Costui invece di emendarsi divenne più scellerato, tanto che ebbe il coraggio di portarsi alla canonica travestito e qui, dopo improperi e contumelie, dette al parroco un tale sberla che lo lasciò segnato per molti mesi. Il Lasi fu di nuovo imprigionato e appeso per la stessa mano allo scherno popolare nella pubblica berlina, quindi bandito per sempre dal Castello.
Teofilo Marini esercente l’arte di speziale in Bologna, avendo incontrato molta ostilità, per evitare minacce, si stabilì quest’anno a Castel S. Pietro.
Alquanti delinquenti si erano annidati nella via romana verso Imola a circa un miglio da Castel S. Pietro e qui non solo di notte, ma anche di giorno assalivano i viandanti, li derubavano, spogliavano, picchiavano, ferivano e non c’era crimine che non commettessero. Violavano le donne ed altre le portavano nel loro covo facendole poi sparire col tempo. Quindi la strada non era più sicura.
Per riparare ad un tale disordine la forza del paese era debole, poiché pochi erano i delinquenti quando comparivano sulla strada ma molti erano quelli nascosti. Si usò allora uno stratagemma. Si finse di condurre una sposa a casa per le nozze con un piccolo corteo nel quale erano dei paesani travestiti da donne. In questo modo, divisi in gruppi di tre o quattro, mandarono avanti la finta sposa. Quando tre malfattori l’assalirono, si cominciò a gridare e a fare resistenza. Gli aggressori vedendosi alle strette, dato un certo segnale, fecero arrivare gli altri imboscati ad affrontare la finta parentela. Attaccatasi una fiera baruffa, le donne travestite, sciolte le gonnelle per essere più agili, divennero quelli uomini che erano. Al rumore dello scontro accorse altra gente e furono sconfitti questi scellerati. Vennero presi i capi che, subito condotti alla città, furono condannati a morte. La sentenza però fu che fosse eseguita in queste parti onde servisse d’esempio ai malandrini. Furono per ciò impiccati per la gola sopra il ballatoio della porta orientale del Borgo e lasciati sui merli attaccati per un giorno intero. Questi capi furono due villani scioperati della vicina Romagna detti uno Luigi Campagna e l’altro Sandro da Mazzancollo. Così fu liberato il paese da questo pericolo.
Il ballatoio della porta non era altro che un corridore oppure una volta di pietre che copriva la sommità dell’interno delle porte. Questa, al nostro Borgo, era sopra il Portone, che ora esiste ancora di un solo arco esterno con i soli merli di facciata verso la Romagna. Il ballatoio o sia voltone fu rovinato da un fulmine. Si vede ancora dai resti dell’arco a quale altezza era edificato.
Si usava a quei tempi per strangolare uno mettergli il laccio al collo legandolo ben saldamente a qualche ferro confitto nel muro di un finestrone oppure di una ringhiera e, nelle Rocche, ai merli esterni delle torri o delle porte cosicché, se il capestro avesse ceduto, il paziente cadeva dall’alto a terra ove poi crudelmente veniva scannato.
Per il matrimonio seguito tra Lucrezia D’Este con Annibale Bentivoglio, crebbe talmente la reputazione della famiglia di Giovanni Bentivoglio per la parentela contratta con molti signori principi d’Italia che, se non fosse stato macchiata dall’ambizione e dalle sopraffazioni, la sua fama sarebbe durata in eterno. Invece la superbia della moglie di Giovanni, dei figlioli ed il disprezzo delle persone più nobili ed accreditate della città e del contado, provocarono le ostilità e resero necessarie le congiure.
I Bentivoglio che si erano fatto un seguito di uomini viziosi che, per povertà o per brama di avere onori, commettevano ogni scellerataggine, non conobbero più pace e quiete. L’uccisione dei Malvezzi e dei Marescotti fu uno stimolo a procurare maggiore odio. Quegli omicidi e gli ingiusti esili oscuravano gli splendori bentivoleschi ed alimentavano un odio implacabile che fu la rovina della famiglia e della città.
Prospero Caffarelli luogotenente del Legato Ascanio Sforza, vedendo molte brutture, e non potendovi porre rimedio, chiese la dimissione dal suo ministero, la ottenne e fu dichiarato in sua vece Luigi Capra familiare del Legato. La città fu così abbandonata ai voleri dei Bentivoglio.
L’ arciprete Don Francesco Orsini, detestato dai partigiani dell’esiliato Grillo e sopra tutto dalla sua parentela dei Lasi a cui spiaceva l’infamia sofferta della berlina e dell’esilio, era quotidianamente provocato. Andavano questi a suo nome dai lavoratori dei pochi terreni parrocchiali ed ad essi portavano via seminati e robe. Il parroco, vedendo che il ricorso allo strumento del contrasto civile e giudiziale non avrebbe portato a risolvere la volontà di vendetta, domandò la rinuncia della chiesa al capitolo da cui ne era stato investito. Venuto ciò a notizia dei paesani lo fermarono. Allora crebbe la ostilità contro di lui, per evitarla stava sempre chiuso in casa, così che cadde in una ipocondria che gli accorciò la vita.
1489 – 1495. Tolleranza verso i malfattori. Prepotenti attaccano i banchieri ebrei che se ne vanno da castello. Rodrigo Borgia eletto Pontefice. Lodovico Sforza chiama in Italia il Re di Francia Carlo VIII. Stradioti albanesi in Borgo. Battaglia di Fornovo, Carlo VIII torna in Francia.
Intanto fu estratto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Agostino Orsi il quale, non potendo per le sue incombenze assentarsi dalla città, rinunciò all’ufficio. Fu al quale tostamente sostituito con suo figlio Francesco Orsino che fu abilitato alla carica il 21 gennaio 1489.
Pier Antonio Muzza e Giacomo Dal Forno di Castel S. Pietro, essendo stati banditi nel 1476 alla condanna del taglio della testa e confisca dei beni, dettero una supplica al Senato per accomodo. Furono ascoltati ed assolti, mediante la protezione di Annibale Bentivoglio, con il seguente decreto del tribunale del 19 giugno 1489: (…) che Pier Antonio Dalla Muzza e Giacomo Dalforno, Bartolomeo Comelli, Rondone Rondoni che dal 1476 banditi furono nel taglio della testa e confiscazione di tutti li loro beni per l’omicidio da loro commesso nella persona di Pellegrino Dal Bambo come ancora Gneto Gnetti nel 1476, bandito nel taglio della testa in vigore di mandato del Legato e delli Castel S. Pietro per l’omicidio da lui commesso in persona di Polesetto da Castel S. Pietro, cumque pro pace et quiete pred. terre Castri S. Petri (…)permissum et tolleratum fuerit ut banniti in territorio Bononie comorentur libere cancellentur ex Banno.
Così successe anche ad altri banditi capitali e dichiarati esuli dalla patria ed era questo un incentivo a commettere ulteriori delitti. Venivano per ciò a Castel S. Pietro anche pericolosi forestieri e qui si fermavano. In quei tempi sanguinari e sitibondi di stragi conveniva di più tollerare i malfattori che preoccuparsi delle povere famiglie maltrattate alle quali conveniva sopportare, con eroica prudenza, piuttosto un nemico in casa che rovinarsi del tutto. Essendo però arrivata all’eccesso questa tolleranza e crescendo sempre più il numero degli scellerati e temendosi un irreparabile disordine, fu fatta istanza al Governo per un qualche provvedimento per Castel S. Pietro.
Giovanni Franceschini estratto Podestà per il secondo semestre per le contingenze presenti del paese non volle esso quasi mai essere presente. Dovevano infatti i facinorosi per l’anzidetto decreto prestarsi in qualche modo alla quiete ma facevano tutto il contrario, l’assoluzione fu per essi un l’occasione ad imperversare maggiormente.
Divenuto Podestà del secondo semestre Tomaso Franchini, sentendosi movimenti d’armi nella vicina Romagna, sollecitò il Senato a mandarlo subito a Castello per in qualche modo imporre timore ai violenti. Aggiunse il Senato perciò anche certo un numero di soldati. Non per questo si spaventarono i malviventi locali, anzi divennero più temerari. Il motivo era perché avevano accordi con altri malfattori della vicina Romagna e di altri luoghi del contado per cui al bisogno si introducevano in Castello e camminavano insieme. Il paese era divenuto un asilo franco ai delinquenti e a uomini pericolosi d’onde in seguito nacquero disordini e risse.
Gli uomini del Comune erano stanchi di vivere con uomini senza legge e solo sitibondi di sangue. Infatti il paese si era riempito di medicinesi, budriesi, varignanesi e di altri luoghi che col loro provocatorio comportamento facevano sempre temere il peggio. Le buone famiglie come pure le autorità soggiornavano malvolentieri in questo luogo. Perciò siamo mancanti del nome del Podestà locale per il primo semestre del seguente 1490.
Si informò allora il Vicelegato Cesare d’Amelia e non più il Senato a cui il Bentivoglio imponeva il suo volere. L’Amelia, quantunque prevedesse che alle sue leggi poco si sarebbe dato retta, fece un Decreto il 22 febbraio 1490 che prevedeva pene per chi ospitava e ricoverava banditi, diretto agli uomini e persone di Castel S. Pietro. Il decreto condannava gli ospitanti delle bandite, fossero del contado o esteri, a pagare 50 lire tante volte quanto venissero ricoverati ed ospitati. In tale pena sarebbero incorsi anche il Massaro ed il Podestà locale, se non si fossero espulsi dal paese i malfattori e i banditi.
Questo provvedimento fu proclamato nei luoghi pubblici. Fu anche per questa situazione confermato castellano della Rocca per tre anni Tadeo Mazzovillani, uomo di notevole attivismo e circospetta prudenza. Fece egli tosto con destrezza allontanare i più tiepidi furfanti e i forestieri, poi fece assicurare le carceri della Rocca, e rifondere la campana della Rocca, colla quale dall’esterno si chiama al bisogno il castellano.
Il Governo del Bentivoglio, condotto più dai figli che da esso, era così sterile di provvidenze per il nostro Castello che, mancandoci anche gli scrittori coevi di memorie, scarso è il nostro Raccolto.
All’inizio del 1491 l’arciprete Orsini tormentato per i continui dispetti diede in una profonda fissazione che lo portò alla demenza, così divenne inabile al governo della chiesa. Non potendo quindi il suo vicario supplire a tutto fu aiutato dai sacerdoti agostiniani.
Narra il Padre Vanti che nella seguente quaresima venne a Castel S. Pietro a predicare certo frate Simone da Bologna dell’ordine eremitano, uomo dotto e dedito alla pietà. Egli, terminata la predicazione, si stabilì qui a petizione della comunità tanto più che i frati di S. Bartolomeo erano quelli che assistevano la Comunità anche nelle cose laicali e nelle assemblee.
Pier Antonio Dalla Mazza e Rondone Rondoni, per pagare al tribunale la pena del bando, aveva bisogno di contante. Chiesero a Solomone ed Aronne, ebrei banchieri di Castel S. Pietro, una certa quantità di danaro. Questi, con qualche scusa, gliela negarono perché sapevano bene che mai più l’avrebbero riavuta.
Passarono i due postulanti alle lagnanze e dalle lagnanze alla arroganza dicendo che assolutamente volevano la somma richiesta. Si opposero i giudei e uno di essi si prese allora una sonora sberla. L’altro ebreo esclamò che non si aspettavano tanto da uomini onorati e che perciò sarebbe ricorso al governo e forse avrebbe abbandonato il paese.
A queste parole Rondone si riscaldò e replicò che se a Bologna si fabbricavano processi a Castel S. Pietro si fabbricavano pugnali e c’erano soggetti che li sapevano maneggiare. Ammutolirono i giudei e, crescendo il rumore, convenne al castellano assicurarli nella Rocca.
Questo accidente diede motivo agli ebrei per abbandonare Castel S. Pietro e, perché avevano dati danari in prestito alla Comunità per fare spese nella contingenza del passaggio delle truppe e per altri bisogni, cercarono con destrezza di riavere da quella il loro danaro. La Comunità era in difficoltà ma le fu intimato dal Senato di pagare il debito e così fu fatto.
In settembre si fece a Castello una Congregazione Capitolare degli agostiniani. Vi intervenne il citato Fra Simone che fece conoscere ai padri capitolari l’acqua salutare della Fegatella che era diventata molto accreditata. Coll’andare del tempo fu introdotto l’uso di fare a Castel S. Pietro in questo convento di S. Bartolomeo i Capitoli provinciali.
Il 5 marzo 1492 essendo defunto per la sua demenza Don Francesco Orsini, gli successe nella cura di Castel S. Pietro Don Orfeo Rossi che fu presentato ed accettato dal Capitolo di S. Pietro. Il 15 furono affissi gli editti e consecutivamente conferita la chiesa come appare dal rogito nel quale i canonici dichiarano padroni di questa chiesa gli uomini del castello.
Alessandro del fu Bartolomeo dalla Muzza di Castel S. Pietro, sarto, il 7 aprile prese la cittadinanza di Bologna con lo scopo di sottrarsi ai suoi congiunti che erano uomini tristi. La progenie dei Muzza la troviamo in quei tempi suddivisa in Castel S. Pietro in cinque rami, quella dei Fabbri in quattro, quella dei Comelli in quattro, dei Rondoni in quattro, dei Lasi in cinque, Ghirardaci, Rinieri e Samachini in quattro e così di altri. Famiglie tutte per la loro catena di parentela da temersi per gli uomini facinorosi che fra loro spesso gareggiavano nelle azioni.
Il 25 luglio1492 morì Innocenzo VIII a cui nel papato successe lo spagnolo Rodrigo Borgia col nome di Alessandro VI.
Si era ormai al termine della esenzione dal Dazio Sale data perché agli uomini di Castel S. Pietro erano stati accollati i lavori intorno al Castello e alla Rocca. Poiché non erano terminati gli uomini domandarono il proseguimento sia dei lavori che delle esenzioni del dazio. Riconoscendo il Senato la necessità dei lavori adottò la richiesta il 16 ottobre.
Tadeo Mazzovillani, cittadino di Bologna, essendosi comportato bene in questo suo ministero di castellano della Rocca grande fu confermato nella carica per altri tre anni il 3 febbraio 1493.
Morto l’Imperatore Federico III d’Asburgo[215] il 19 agosto 1493, fu eletto alla corona Massimiliano d’Asburgo[216] per la qual cosa Lodovico Sforza[217] chiamò in Italia Carlo VIII Re di Francia[218] . Questi pretendeva il regno di Napoli perciò nel settembre 1494 si diresse verso sud per la via di Lombardia.
Da questa altra parte di Romagna venne il Duca di Calabria (figlio del Re di Napoli Ferrante) e il 9 settembre giunse a Castel S. Pietro il Conte Alberto Guasco con 100 cavalli e stette tutta la notte armato temendo qualche attacco. Il 10 il Duca cominciò dirigere da Castel S. Pietro le sue genti al campo ed il giorno seguente partì alla volta di Bologna. Il Bentivoglio temendo per questi movimenti provvide Castel S. Pietro di munizioni e d’uomini ed affrettò gli uomini del castello alle riparazioni.
Passando al 1494 occupò la carica di Commissario per il primo semestre Antilio Nobili.
Il 15 gennaio Baldassarre Rota, devoto di S. Michele Arcangelo, fondò un beneficio semplice in questa arcipretale. Lo dotò di terreni e vi eresse l’altare dedicandolo allo stesso Santo. Questo altare era ove è adesso il vestibolo della Cappella del Rosario e fu poi fu trasportato in fondo alla cappella ove stata eretta l’Arciconfraternita del SS.mo Rosario. I beni di questo beneficio sono incorporati con gli altri della arcipretale. È gravato il Rettore a celebrare ogni settimana a questo altare e deve servire la chiesa la settimana santa.
Le truppe napoletane, che erano nella Lombardia, volevano venire nel bolognese. Temendo tali movimenti il Nobili, commissario di Castel S. Pietro, che era uomo timoroso per sua natura e spesso abbandonava questo suo officio e rimaneva a Bologna, quando sentì arrivare nel bolognese le truppe, abbandonò il suo ministero.
Giunti a Bologna gli aragonesi passarono a Castel S. Pietro ove, trattenutisi vari giorni, passarono ad Imola. Il Senato. perché non rimanesse l’Officio di Castel S. Pietro senza Vicario, nominò Innocenzo Ringhieri, che prontamente coprì la carica.
I canonici di S. Pietro di Bologna erano anche amministratori dell’Ospitale di San Sanesio e Teopompo dove si ospitavano i fanciulli esposti. Nell’aprile scorso avevano unite le loro entrate all’Ospitale di S. Procolo dove si dovevano in avvenire ricevere tutti gli esposti. Gli stessi canonici avvisarono la Compagnia di S. Caterina di Castel S. Pietro, amministratrice di certi beni dell’Ospitale de’ Viandanti e Bastardini, che da qui in avanti, capitando qui esposti, si dovessero portare a S. Procolo pagando a quell’Ospitario, come curatore di bambini abbandonati dalla empietà dei genitori, 15 lire una tantum.
Alle sventure che si avevano per le guerre tra i sovrani, si aggiunsero anche spaventevoli segni nel cielo. Le genti sbigottite si attendevano ad ogni momento gli scoppi dell’ira divina e la rovina del mondo. Non vi fu perciò luogo cattolico che non ricorresse a Dio o con le consuete orazioni o con delle nuove istituite all’occasione.
Narrano che fra Bernardino di Vercelli dell’ordine agostiniano, che fu poi Beato, avendo nella sua predicazione quaresimale a Bologna invitato a ricorrere a Maria Vergine, dette principio nella chiesa di S. Giacomo alla Compagnia della Cintura sotto la invocazione di Maria SS.ma della Consolazione.
In quella chiesa c’era una devota immagine di questa grande protettrice dalla quale gli afflitti se ne partivano consolati per le tante grazie che faceva. Non c’era popolazione del contado che non andasse a visitarla. A questo proposito il nostro Padre Vanti scrive che Frate Simone, radunato un buon numero di castellani, li portò in processione alla visita della sacra immagine e molti malati furono risanati.
Il luogotenente del Legato Luigi Capra sapendo di contare poco nel governo di Bologna, essendo prevalente la volontà del Bentivoglio e temendo per le ostilità provocate dal comportamento dei suoi figli, informò il papa che in seguito lo richiamò a Roma e lo sostituì con Agostino Collio.
Gli Sforza signoreggiavano nella maggior parte della Lombardia e degli stati pontifici. La loro estesa parentela li faceva potentissimi. Pure il Bentivoglio, loro congiunto, si sentiva molto forte ma era pure molto odiato per questo. La stima dall’Imperatore Massimiliano gli procurò privilegi e grandi onori. Gli fu concesso di poter battere moneta e di inquartare la sua insegna coll’aquila nera. Tutte cose che furono tanti gradini alla sua rovina.
Nei mesi passati era stato mandato per Commissario a Castel S. Pietro Innocenzo Ringhieri a sostituire il Vicario Antilio Nobili che era stato negligente nel suo ministero. Rientrato il Ringhieri a Bologna, Tomaso da Lojano, Tomaso Gambarelli ed Antonio Sansoni di Castel S. Pietro lo insultarono e dagli insulti passarono alle percosse ferendolo alla testa ed alle braccia. Quelli furono banditi e al Ringhieri poi furono pagate 100 lire per l’incarico svolto e per il danno subito. Questo il 17 novembre 1494.
Se da qui in avanti per non pochi anni sarà il nostro Raccolto scarso di notizie non si deve attribuirlo a negligenza di indagini ma alle circostanze contemporanee[219] che sconvolsero l’ordine delle cose e perciò siamo defraudati della documentazione storica.
Il Bentivoglio, asceso all’apice della sua sovranità, governava a suo piacere la città e il contado. Egli, essendo uomo di alto talento, operava in modo corretto ma i figli, gonfiati dalla sovranità paterna, poco e nulla stimavano la nobiltà e la cittadinanza per cui si procurarono per la loro prepotenza inimicizie ed odi mortali. Tutto ciò serviva come un mantice ad attizzare un nuovo fuoco e svegliare le sopite faville dei tempi andati.
Avvedutosi di ciò il Bentivoglio, cominciando a temere del suo dominio, fece fare buona guardia alla città e ai castelli nel seguente anno 1495. Poi cominciò a prendere di mira le famiglie nobili, sebbene sue parenti, per abbassarle e avvilirle. I Marescotti ed altri, di cui è piena la storia di Bologna, furono perseguitati. Tolse ai Malvezzi Castel Guelfo, vi fece fabbricare la fortificazione davanti alla porta, vi pose l’arma sua ed un suo governatore. Raddoppiò la guardia nei castelli sospetti. Mandò munizioni a Castel S. Pietro. Furono assolti i banditi e rimessi in patria. Per questi sovvertimenti fu amareggiato il contado e presero anche coraggio le truppe straniere che colla loro sfrontatezza facevano ogni male, dal quale neppure i bentivoleschi andarono esenti.
Crescendo l’esercito dalla parte di Romagna l’11 giugno vennero a Castel S. Pietro 60 stradioti albanesi[220] facendo gran danno dove passavano e ancor di più dove si fermavano. Arrivati a Castel S. Pietro si accamparono nel Borgo. Il primo saluto che ebbero i borghesani fu che si impadronirono delle due chiese di S. Pietro e della Annunziata. Nella prima vi misero le munizioni da guerra, la seconda la usarono come caserma. Qui, accendendovi dei fuochi, si incendiò dalla parte di ponente il tetto di legno d’abete, che poi fu ricostruito a tegole e mattoni.
Le insegne gentilizie dei Bentivogli furono abbassare e distrutte. Lo stemma che era sopra la facciata della porta del Castello, non potendosi per la sua altezza tirare giù, servì da bersaglio alle spingarde che la frantumarono. Proseguendo i danneggiamenti furono anche incendiate alcune caselle, fronteggianti la via corriera dalla parte di Romagna, che servivano per custodirvi il gualdo.
Essendosi ormai abituati i nemici alle ruberie, un gruppo salì le colline nel quartiere della Lama per fare le solite razzie ed incendi. I Rinieri di Castel S. Pietro fecero fare da alcuni coraggiosi paesani un’imboscata ai soldati, che presi in mezzo dai nostri, alcuni furono uccisi. Ciò fu poi motivo che incendiarono le case di quei villani. Sulle rovine Riniero Rinieri vi edificò poi una onesta e decente villeggiatura per sé e la sua famiglia. Partite le truppe da Castel S. Pietro e spargendosi per il contado fino alla volta di Bologna, commetteranno impunemente ogni male immaginabile.
Dispiacendo al Papa moltissimo queste cose, organizzò una alleanza coll’Imperatore, il Re di Spagna, i Duchi di Milano ed altri per cacciare i francesi dall’Italia[221]. Saputo ciò Carlo VIII decise di tornarsene nel suo regno tenendo la via di Toscana. Fu inseguito dai coalizzati e giunto al Taro, a Fornovo[222], fu sconfitto il 6 luglio 1495. Così affrettò il suo ritorno in Francia.
1496 –1500, Delitti e uccisioni. Bentivoglio amante di rarità e minerali. Papa Borgia nomina il figlio Cesare Confaloniere della Chiesa col compito di impadronirsi della Romagna. Cesare assedia Faenza e chiede Castel Bolognese al Bentivoglio.
Castel S. Pietro aveva sofferto molti danni nei quattro giorni che le truppe straniere si erano qui accampate. L’anno 1496 il Bentivoglio fece riparare il danno fatto nelle palificate della porta maggiore, rimettere la sua insegna rinnovata coll’aquila imperiale nel luogo dove era stata colpita dalle spingarde. La chiesa della Annunziata fu coperta a tegole non più in legno.
Per tutto il mese di marzo ed aprile 1496 furono tanto copiose le piogge che le campagne, imbevute d’acqua, poco si poterono coltivare. Rimesso il tempo, stette sereno fino al 8 settembre ma poi, dopo un’aridità di 4 mesi, venne tanta e così dirotta pioggia che, essendo durata 36 ore, i fiumi e gli altri condotti, sormontando gli argini, allagarono il contado. Soggiunge il nostro Padre Vanti che il Sillaro crebbe a tale segno che, alzatosi sopra l’alveo all’altezza di 15 piedi, l’acqua coprì perfino la via romana. Dalla parte del Borgo prese in mezzo il mulino, del quale ruppe gli argini superiori, annegò le granaglie che erano dentro e danneggiò i meccanismi delle macine, così che si stette alquanto tempo senza potere macinare.
Questi padri agostiniani di S. Bartolomeo, indefessi nel culto cattolico, presero occasione dei frequenti miracoli che faceva Maria SS.ma mediante la sua immagine in S. Giacomo di Bologna per indurre un gruppo di devoti del nostro Castello a farvi una visita solenne. Frate Simone si fece capo e vi condusse ventiquattro paesani, in maggior parte villani, nel settembre.
Taddeo Mazzovillani, essendosi comportato bene come castellano della Rocca grande di Castel S. Pietro fu il 3 gennaio 1497 riconfermato.
Cesare Naccio di Amelia nuovo Vice Legato di Bologna, sapeva che sua dignità ed autorità poco appariva poiché tutto il potere della giustizia era in mano del Bentivoglio o dei magistrati che erano da lui dipendenti. I malfattori non si processavano se non in casi clamorosi né si teneva conto delle sentenze e non si punivano anche i complici che avevano avuta influenza nei misfatti. Il Vice Legato sapendo che queste cose dispiacevano al Papa e che esso intendeva umiliare l’alterigia bentivolesca, simulò sempre di essere a conoscenza dei misfatti.
Non passava mese che non si sentissero stragi, uccisioni ed assassini. Riferiscono i ricordi del capitano Giovan Battista Fabbri che Jasone di Comello si era invaghito di Rosolina Toschi, ambi di Castel S. Pietro. Questa però gli preferiva Nanino Balduzzi. Avendoli trovati a discorrere tra loro sulla porta di casa, entrato in un furibondo impeto glielo svenò ai piedi.
Pier Antonio Dalla Muzza, non dimentico delle sue bravate, venuto a parole sopra certo conteggio con i riscuotitori del Dazio Sale e Molitura del paese, quantunque avessero ragione gli esattori, furono dal medesimo lasciati miseramente morti nella pubblica via. Fu nuovamente bandito al taglio della testa.
Suor Francesca Mondini di Castel S. Pietro, già monaca nel Corpus Domini in Bologna e colma di meriti, morì nel settembre in aspetto di santità. Qui affermiamo lo splendore della sua virtù. Chi volesse saperne di più può leggere l’opuscolo degli Elogi stampati nel 1801 in Imola per Giovanni Dal Monte da noi composto sopra la vita di alcuni uomini e donne illustri di Castel S. Pietro in opinione di santità.
Per rendere poi maggiormente officiata la chiesa della SS. Annunziata nel Borgo del nostro Castello, la famiglia di Morello Morelli e dei Boldrini incominciarono in questo mese di settembre a costruire le due capelline laterali alla destra della chiesa e furono terminate solo alla fine di dicembre. Quindi, per non essere bene custodite, non furono officiate se non l’anno dopo 1498.
Giovanni Bentivoglio coll’altezza dell’animo suo intendeva distinguersi come sovrano e monarca e, essendo amante anche delle rarità, cominciò l’anno 1498 a far scavare dei minerali nel monte degli Arienti lontano tre miglia da Bologna. Riuscì a estrarre qualche po’ di argento. Cominciò questo lavoro su la traccia delle marchesiti che qui si ritrovavano. Egli si compiaceva non solo di questo tesoro ma anche di bellissime pietre, come raccontano le cronache di quei tempi. Ognuno si pregiava di presentargliene per ottenere la sua grazia.
Riferisce Paolo Masini nella sua Bologna perlustrata che sopra Castel S. Pietro, nelle vicine montagne fronteggianti il Sillaro, fu ritrovato un marmo bianco color del latte ed in alcuni altri luoghi pezzi di cristallo di monte[223] lavorati dalla natura che facevano stupore. Diede quindi ad alcuni motivo di ricerca e perciò si ritrovarono poi ambre gialle e, segnatamente in un luogo detto le Rovine, si ritrovarono altre materie di pregio che presentate al Bentivoglio ne riportarono da lui oltre ai ringraziamenti anche un premio.
Ai nostri giorni il sacerdote Padre Ermenegildo, cappuccino di Campeggio stanziante in Castel S. Pietro e diligentissimo investigatore di queste materie, ha trovato non solo pietre rare, ma anche agate, ingranati, amianto[224] ed altre cose rare non conosciute e, se conosciute, trascurate dalle genti. Di questo ricercatore ne ha fatto il meritato elogio il chiaro Lettore dott. Veghi dell’Istituto di Bologna.
Ritornando alla nostra storia, il Papa, aggiornato dalle continue relazioni che gli arrivavano intorno alle crudeltà che si facevano nel bolognese né che vi aveva posto la giustizia, pensò, per questi ed altri motivi, di togliere ai Bentivoglio il dominio della città e trasferirlo al Duca Valentino, suo figlio naturale.
L’ultimo errore che fece Giovanni Bentivoglio fu che, per sospetto, esiliò da Bologna Giovanni Cattani da Castel S. Pietro, uomo di grande reputazione ed amato per le sue qualità da tutta la nobiltà e cittadinanza. Non mancò il Bentivoglio di giustificarsi ma le sue discolpe convinsero solo il Papa ad affrettare la conclusione dei suoi progetti. Perciò, promessa Lucrezia[225], sua figlia naturale, in sposa ad Alfonso d’Este[226] Duca di Ferrara, le diede in dote Cento e la Pieve levandole dalla giurisdizione di Bologna. Ciò dispiacque molto al Bentivoglio.
Pietro Rondoni, cugino del più volte menzionato Rondone Rondoni, aveva preso in odio certo Vandino Giacchini al punto che gli fece sapere che se non abbandonava il paese lo avrebbe ucciso. Vandino credette che ciò fosse detto solo per spaventarlo. Non fu così poiché l’8 giugno 1499 fu assalito da Pietro Rondoni per strada e miseramente scannato. Il reo fu condannato alla pena del taglio della testa, ma non si vide poi l’esito si sa solo che nel 1518 fu assolto da pena e colpa.
Al Papa intanto premeva la riconquista degli stati della Chiesa. Fece Lega con Luigi XII Re di Francia[227] e i veneziani per ottenere il suo scopo di far grande Cesare Borgia, detto il Duca Valentino[228]. Lo designò Confaloniere di S. Chiesa e, dandole molte bande di spagnoli, con Paolo Orsini[229] e Vitellozzo[230] di Città di Castello, famosi capitani, gli ordinò che passasse nella Romagna a recuperare i castelli, le terre e le città ribellate a S. Chiesa. Non fu tardo il Duca ad eseguire.
Nell’anno seguente 1500 venne alla volta di Bologna, lo stesso fece Luigi Re di Francia che era già arrivato in Lombardia.
Entrate le truppe nel bolognese, il Bentivoglio andò a Castel S. Pietro a ricevere quelle del Valentino. Questo fu eseguito dalle truppe nazionali di Bologna comandate Giovanni Marsigli. Le truppe straniere, provvedute di tutto il bisognevole, furono accompagnate finché furono fuori del contado per andarsi a congiungere coll’esercito nella Lombardia,
Il Valentino intanto, pose il campo a Faenza. Perché la città si difendeva strenuamente chiamò in aiuto le truppe francesi e guascone che erano in Lombardia in numero di 12.000 combattenti sotto la condotta di Monsieur d’Allegria. Egli venne subito e, sebbene fosse stato onorato dal Bentivoglio, passata la città cominciò la sua truppa a fare danni intollerabili nel contado fino a Castel S. Pietro dove vollero il beveraggio al Borgo senza pagare.
Mentre il Valentino assediava Faenza, i bolognesi, nel timore di essere poi molestati, munirono di ogni cosa Castel S. Pietro, Castel Bolognese, Castel Guelfo e Casalfiumanese e la maggior parte degli altri castelli poi introdussero nella città le milizie del Bentivoglio ed altre fanterie forestiere che furono alloggiate nelle case de cittadini.
Tutte queste lacrimevoli circostanze infervorarono maggiormente i buoni cattolici a celebrare il Giubileo proclamato dal Papa Alessandro VI.
Intanto Faenza si difendeva valorosamente e gagliardamente[231]. Il Duca vedendo gli scarsi successi ottenuti nei molti mesi del blocco e che la stagione inoltrata faceva patire i suoi soldati, ritirò le truppe a Forlì ed a Imola.
Acquartierato in questa il Valentino mandò a Bentivoglio e al Senato la richiesta di avere Castel Bolognese per avere la sua truppa più comoda e vicina a Faenza. Il Senato, che sapeva di trattare con uomo senza parola, vi mandò comunque Francesco Fantuzzi a patteggiare col Duca, ma questi nulla volle accordare, dissimulò la vendetta e pensò a condurre, a suo tempo, a buon fine le sue intenzioni.
Su la fine di quest’anno 1500 fu nella parrocchiale esposta al pubblico culto la tavola di Gaspare Sacchi, pittore imolese, ove sono rappresentati tutti i santi tutori del paese. Appare il nome di questo autore scritto di suo pennello nel sasso vicino alle ginocchia di S. Girolamo che supplica M. V. col bambino in braccio. Fu dipinto questo santo a richiesta di Don Maria Antonio Comelli rettore del beneficio laicale eretto all’altare maggiore di questa parrocchiale, alla cui spesa vi concorse il Comelli.
Con ciò chiudiamo il presente secolo.
[1] Enrico VI di Hohenstaufen, (1165-1197), re di Germania , imperatore del Sacro Romano Impero. La moglie: Costanza di Altavilla, regina di Sicilia
[2] Ottone IV di Brunswick
[3] Gli sforzi bolognesi di espansione nell’imolese erano iniziati da tempo. Imola era contesa anche da Faenza, pure essa città guelfa. quindi obbligata ad appoggiarsi all’Impero. Le vicende di questa lotta si intreccia con quella dei comuni italiani contro l’Impero. Il 2 giugno 1178, due anni dopo la battaglia di Legnano, è documentato un patto di alleanza con comes Lotharius di Castel dell’Alboro di facere guerram et pacem et treguam solo col consenso bolognese. Nel marzo 1180 lo stesso Lotario si impegna in modo più preciso a facere vivam guerram civitatis et hominibus Ymole e consegna come ostaggio filium meum et Guido nepotem meum. Nel 1198, profittando dei problemi della successione imperiale, i bolognesi riprendono nuovi tentativi di espansione, occupano Montecatone, Croara, Sassatello e condamnaverunt castrum Abbori, castrum Dutie et castrum Flagnani.
[4] Il Cavazza dà per scontato che i tre “triumviri” vogliano imitare lo schema dell’accampamento militare romano, il castrum. Quindi tutte le sue prossime considerazioni partono da questo assunto, sicuramente sbagliato. Il criterio usato era quello normale per la creazione di un nuovo insediamento su un terreno libero. Strade parallele che si intersecano ad angolo retto, delimitando aree simili, e la chiesa al centro.
[5] La Casa Municipale era la cosiddetta ex Pretura poi ex Biblioteca di fronte alla parrocchia.
[6] La piazza allora non esisteva, come hanno dimostrato i recenti scavi archeologici.
[7] Questa ipotesi sull’origine del nome non è convincente. Questa strada all’inizio non aveva edifici nella parte est ma il fossato orientale, i palazzi, furono costruiti molto dopo, Potrebbe derivare dal dialetto framez, in mezzo.
[8] Il pistrino, dal latino pistrinum, sarebbe la macina per le olive. Qui da noi però serviva per tritare il guado, Isatis tinctoria, da cui si ricavava una tintura di colore azzurro.
[9] Componenti le varie fazioni.
[10] Paolo V, (1552 –1621), è stato pontefice dal 1605 alla morte
[11] In questa occasione fu chiuso il passaggio sotto la torre e aperta una nuova porta ove ora è il passo pedonale.
[12] Il Conte Guido era nipote del Comes Lotharius del Castrum Alborii. Questa famiglia di feudatari doveva essere, dai nomi, di origine longobarda o franca.
[13] ASBo, Comune, Registro Grosso Vol 1. cc.76v-77r.
[14] Il sito, posto in via Paniga, è indicato nella cartografia come podere Il Borro di sopra, e Borro di sotto. Forse la trasformazione è stata la seguente: italiano: Alboro, dialetto: Alborr, traduzione cartografica italiana: il Borro.
[15] Di questo edificio religioso sono state trovate le tracce archeologiche in una piccola altura nel vicino podere Paniga. Le tracce consistevano in opere a secco di contenimento del terreno, in resti di fondazioni e soprattutto nei residui di due fornaci usate per la fusione di piccole campane. Ai piedi dell’altura, scavate nel banco di sabbie gialle, due altre fornaci per mattoni, forse usate per una sola volta. L’altura ora non esiste più perché faceva parte di una cava di sabbia.
[16] Merula, Gaudenzio (1500-1555). Medico, storico, alchimista, astrologo e letterato.
[17] Per Galli intenderebbe i francesi, in questo caso i Franchi.
[18] In epoca romana in Borgo c’era un piccolo insediamento romano confermato da varie tracce archeologiche. L’unica notizia sul suo nome ci viene dalla Tabula Peutingeriana ed è St (statio) Silarum. La tabula è una carta stradale e segnala i luoghi di ristoro , cambio cavalli ecc. Come un moderno autogrill
[19] In realtà la indicazione Monte Cerere non si ha se non alla fine del 1300, le indicazioni precedenti sono Montis Celleris o Celeris. Il nome potrebbe derivare dal latino celer, celeris: ripido, oppure dal nome del Sillaro indicato come Celeris flumen.
[20] Si tratta della battaglia di Modena che si svolse il 21 aprile 43 a.C. nel corso della cosiddetta guerra di Modena, tra le truppe fedeli al Senato dei consoli Gaio Vibio Pansa e Aulo Irzio, appoggiate dalle legioni di Cesare Ottaviano, e le legioni cesariane di Marco Antonio
[21] Altra versione: Nel 387 l’Imperatore Graziano mediante Asclipio sconfigge i Bolognesi ed uccide il Console Filippo Statilio.
[22] Narsete (478 – 574) è stato un generale bizantino che ha portato a termine la conquista dell’Italia avviata da Belisario sotto Giustiniano, sconfiggendo gli ultimi re goti Totila e Teia .
[23] Riferimento inesatto, il Silarus del verso citato è il Sele, fiume campano
[24] Rus, ruris. Campagna, contado.
[25] La marchesite citata è sicuramente la pirite, un solfuro di ferro molto comune nei calanchi delle argille scagliose. Si deteriora in gesso e limonite, un minerale polveroso di colore giallo. La marcasite è simile alla pirite ma molto più rara. Dubbia anche la presenza di granati. Forse è confuso con i piccoli cristalli bipiramidali di quarzo, abbastanza comuni nelle rocce ofiolitiche sparse nelle argille. Quanto alle conchiglie sono abbastanza comuni nelle sabbie gialle e nelle argille azzurre plioceniche.
[26] Barbaro Ermolao (1410-1471) Castigationes Plinianae (disputazioni scientifiche sulle imprecisioni della Naturalis historia di Plinio),
[27] Il titolo di Imperatore del Sacro Romano Impero era elettivo. Il collegio elettorale era formato da alcuni re e principi tedeschi (i grandi elettori). La carica diventava effettiva dopo l’investitura papale a Roma.
[28] Filippo di Svevia, della famiglia degli Hohenstaufen (1177 – 1208), duca di Toscana (dal 1195), duca di Svevia (dal 1196), re di Germania (dal 1198) in opposizione al rivale Ottone IV.
[29] Ottone VIII di Wittelsbach (1180 – 1209) conte palatino di Baviera. Egli è noto principalmente per essere l’assassino di Filippo di Svevia; per il regicidio commesso, fu decapitato.
[30] Ottone IV di Brunswick (1175 – 1218) re di Germania dal 1198, imperatore, deposto nel 1215 da papa Innocenzo III
[31] Federico II di Hohenstaufen (1194-1250), Figlio di Enrico VI di Svevia e di Costanza d’Altavilla, nipote di Federico Barbarossa. Duca di Svevia, Re di Sicilia, Re dei Romani e poi Imperatore del Sacro Romano Impero.
[32] I Conti di Cunio furono una famiglia nobile della Romagna originaria da un Castrum nei pressi di Cotignola.
[33] Castel S. Polo, castello costruito dai bolognesi nella pianura tra Poggio e Castel Guelfo. Attivo fino all’inizio del 1400. Le ultime notizie sono della fine del 1500 e lo indicano come luogo delle esecuzioni capitali del vicino Castel Guelfo
[34] Goffredo dei conti di Briandate, nominato, da Federico II, Conte di Romagna
[35] Forse si tratta di Rainaldo di Urslingen (1185 circa – …) politico e diplomatico di età federiciana caduto in disgrazia nel 1231.
[36] Deve trattarsi del cassero della porta principale.
[37] Sono avvenimenti della 5° Crociata (1217-1221). Sanfadino é Al-Adil Sayf-al-Din, (1143 – 1210) fratello del più famoso Saladino. Coradino é Al-Malik al Kamil, (1143 – 1210). Il Re di Gerusalemme é Giovanni di Brienne.
[38] Borgonovo non è, come ritiene Il Cavazza, il nostro Borgo ma l’attuale Magione. C’è un documento actum in burgo novo ospitalis Jerusalem del 1152, che indica la presenza di un Ospedale per pellegrini dell’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme (poi Cavalieri di Rodi e tuttora di Malta). In un’altra carta del 1180 si cita espressamente un Castrum Burgi Novi.
[39] Jean de Brienne, (1158 – 1237), Reggente al trono di Gerusalemme per la figlia Isabella fino al 1225, qui è in funzione anti imperiale.
[40] Qui la data è sbagliata, l’Ubaldini fu vescovo dal 1240 al 1244.
[41] Isatis tinctoria fam. Brassicacee. Le foglie basali, raccolte più volte l’anno, erano tritate con le macine (i pistrini). Quindi l’impasto raccolto in palle (le cuccagnes dei francesi) e fatte essicare. Questa era la materia prima per ricavare, con successive operazioni, la tintura azzurra.
[42] Fra’ Giovanni da Schio (1200 – 1265 ) frate domenicano e predicatore.
[43] Guido Guerra IV Guidi (1196 – 1239) condottiero e politico italiano, membro della famiglia dei conti Guidi, figlio del conte Guido Guerra III e di Gualdrada Berti,
[44] Enrico di Svevia detto Enzo (1220-1272), figlio naturale, legittimato di Federico II e Adelaide di Urslingen
[45] Corrado di Hohenstaufen (1227-1256), Re di Germania, figlio di Federico II.
[46] Enrico Raspe Langravio di Turingia (1204-1247)
[47] Si tratta della battaglia di Fossalta del 26 maggio 1249. Renzo restò prigioniero di Bologna fino alla morte.
[48] La notizia è storicamente infondata. Si ritiene per una infezione addominale.
[49] Manfredi di Hohenstaufen o Manfredi di Sicilia (1232 – 1266), è stato l’ultimo sovrano della dinastia sveva del Regno di Sicilia. Morì durante la battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe di Carlo I d’Angiò.
[50] L’elezione avvenne il 13 gennaio 1257. Altri elettori scelsero Alfonso X, Re di Castiglia.
[51] I Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria detti anche Frati o Cavalieri Gaudenti, erano un ordine militare e ospedaliero sorto a Bologna per garantire la pace tra le fazioni cittadine
[52] Corrado di Svevia detto Corradino (1252-1268) Figlio di Corrado IV di Svevia e Elisabetta di Baviera.
[53] Carlo I d’Angiò ( 1226 – 1285), figlio del re di Francia, fu re di Sicilia dal 1266 fino al 1282, cacciato in seguito ai Vespri Siciliani.
[54] Battaglia di Tagliacozzo località in Abruzzo in provincia dell’Aquila
[55] Nome latino della città ungherese Esztergom
[56] Rodolfo I d’Asburgo (1218 – 1291) non fu mai imperatore ma ebbe solo il titolo di Rex Romanorum.
[57] Guido I da Montefeltro, detto il Vecchio (1220 – 1298), è stato un condottiero e politico ghibellino, signore della contea di Montefeltro, si distinse per le imprese militari in Romagna.
[58] Guido Novello da Modigliana (1220 – 1293), condottiero e politico Italiano. Gli altri sono componenti delle famiglie nobili dei Malatesta e dei Conti Guidi
[59] Questo è l’incipit del Liber Paradisus che è un libro contenente il testo di legge emesso nel 1256 dal Comune di Bologna con cui si proclamò l’abolizione della schiavitù .
[60] Jean d’Eppe (1240 – 1293) nobile francese che servì la dinastia angioina del Regno di Sicilia e dello Stato Pontificio come comandante militare e amministratore.
[61] Non è chiaro chi siano questi due signori. Il Malatesta potrebbe essere Giovanni detto Gianciotto (l’omicida diPaolo e Francesca). Il Montefeltro non è individuabile.
[62] Questa indicazione sbagliata sarà ancora ripetuta
[63] È il papa indicato da Dante come colui / che fece per viltade il gran rifiuto
[64] Guillaume Durand (1230 – 1296) Vescovo francese, Governatore della Romagna nel 1283. Nel 1295 rifiutò l’arcivescovato di Ravenna.
[65] Azzo VIII d’Este (1263 – 1308), Signore di Ferrara, Modena e Reggio dal 1293 al 1308.
[66] Maghinardo Pagani da Susinana, (1250 – 1302), è stato un condottiero e politico italiano. Fu capitano del popolo e podestà di Faenza e di Imola, capitano del popolo di Forlì.
[67] Uguccione della Faggiola (1250 – 1319), è stato un condottiero e capitano di ventura italiano, signore di Arezzo, Lucca, Lugo, Pisa e Sansepolcro.
[68] La Rocca Grande fu costruita nel primo quarto del 1300
[69] Galasso da Montefeltro (?-1300), politico, condottiero e capitano di ventura, conte di Urbino e signore di Cesena.Di parte ghibellina. Come fosse Generale delle truppe bolognesi non è spiegato.
[70] Comitato che assisteva i Consoli nelle pratiche più delicate. I componenti dovevano giurare credentia cioè segretezza sugli affari di governo.
[71] Il documento datato 29 aprile 1300 riguarda la delimitazione della Curia di Borgonuovo dei Cavalieri di Malta, cioè l’attuale Magione. Cfr. A.I. Pini 2001, pp.264-268
[72] In realtà la rocca grande non c’era ancora.
[73] Di nuovo si fa confusione con la Rocca Grande, non ancora costruita.
[74] Sono i Frati Gaudenti (Ordo Militiæ Mariæ Gloriosæ) di cui si è già notato
[75] Romeo Pepoli (1250 – 1322 ) banchiere e politico bolognese. Aveva come stemma la scacchiera che serviva per fare i conti nelle operazioni di cambio
[76] Sono macchine da assedio.
[77] Triforce era un insediamento, presente già da prima del X sec., ubicato poco a levante della attuale chiesa della Madonna di Poggio
[78] Enrico VII di Lussemburgo (1275 – 1313) re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte,
[79] Ludovico IV di Baviera, (1282 – 1347). Incoronato a Roma il 17 gennaio 1328 come Imperatore.
[80] Cangrande I della Scala, (1291 – 1329), Signore di Verona.
[81] Roberto d’Angiò, (1277 – 1343), nominalmente Re della Sicilia al di qua dello stretto quindi In realtà Re di Napoli, la Sicilia era governata dagli aragonesi.
[82] Carlo IV di Francia, detto il Bello, (1294 – 1328)
[83] Di questo periodo è la decisione del senato di costruzione della Rocca Grande. Il luogo è nel sito dell’attuale Palazzo Comunale. Contemporaneamente vengono abbattuti i casamenti, molti di proprietà del Pepoli, posti nell’angolo tra la via Maggiore e la via di Mezzo, creando lo spazio dell’attuale piazza. Cfr. Ortalli J. e altri: La piazza, il passato, la storia. 2001.
[84] Matteo Visconti (1250 – 1322), uomo d’armi, signore di Milano.
[85] Rainaldo Bonacorsi detto Passerino (1278 – 1328), primo signore di Mantova.
[86] Pandolfo I Malatesta (1267 – 1326), Signore di Rimini
[87] Era un titolo onorifico inizialmente concesso dall’Imperatore o dal Papa poi da loro vassalli e concessionari-
[88] Bertrand du Pouget, (1280 – 1352) Fu legato pontificio nella romagna e nel bolognese. A Bologna costruì la Fortezza di Galliera. Fu cacciato dai bolognesi nel 1334 e la fortezza distrutta, ne restano ancora le rovine.
[89] Taddeo Pepoli, (1285 – 1347), figlio di Romeo Pepoli, Signore di Bologna dal 1337 al 1347.
[90] Raniero Arsendi (fine 1300 – 1358), Bartolo da Sassaferrato, (1314 – 1357). Famosi giureconsulti dello Studio bolognese.
[91] Attualmente ancora visibile.
[92] Luchino Visconti (1292 – 1349), co-signore di Milano insieme al fratello arcivescovo Giovanni Visconti.
[93] Umberto Le-Vieux de la Tour-du-Pin (1312 – 1355) ultimo barone de la Tour-du-Pin e delfino del Viennois,
[94] È la “Crociata di Smirne” indetta da Clemente VI dal 1343 al 1351 per la conquista di questo porto.
[95] Giovanni Pepoli, (1310 – 1367). Giacomo Pepoli, (1315 – 1367)
[96] Astorgio di Durafort, (? _ 1360), marito di una nipote di ClementeVI.
[97] Imperatore Carlo IV di Lussemburgo, re do Boemia, (1316 – 1378)
[98] E la Peste Nera, che fa da sfondo al racconto del Decamerone
[99] In Realtà si tratta di Luigi I d’Angiò, Re di Ungheria (1326 – 1382)
[100] Giovanni Visconti 1290 circa –1354) è stato arcivescovo e signore di Milano, prima con il fratello Luchino Visconti poi da solo, fino alla sua morte.
[101] Giovanni Visconti da Oleggio (1304 –1366), fu governatore di Bologna dal 1350 al 1354,. Dopo la morte dell’arcivescovo Giovanni si fece eleggere signore della città dai bolognesi. Rimase fino al 1360 anno in cui dovette cedere il potere al cardinale Egidio Albornoz
[102] Bernabò Visconti (1321 o 1323 – 1385) Signore di Milano dal 1378 al 1385.
[103] Inizia il possesso visconteo di Bologna che durerà fino al 1360.
[104] Cardinale Egidio Albornoz (1310 – 1367) è stato un cardinale, condottiero e politico spagnolo. È stato il fondatore a Bologna del Collegio di Spagna.
[105] Corrado Wirtinger di Landau, capitano di ventura tedesco, comandò la Grande Compagnia un’importante banda formata prevalentemente da mercenari stranieri.
.
[106] Blasco Fernandez de Belvis, (1320 – 1368) condottiero spagnolo, parente e collaboratore del cardinale Albornoz.
[107] Galeotto I Malatesta (1300 – 1385) Condottiero e politico, Signore di Rimini dal1372 al 1385.
[108] Questa notizia, che il Cavazza riporta da altri storici, e stata poi smentita da studi successivi.
[109] Le “vestigia” sono strate ritrovate nello scavo archeologico del 1997. Cfr. J. Ortalli, La Piazza, Il Passato, La Storia. 2001
[110] Arduino de la Roche, (1300 – 1369), Cardinale e diplomatico pontificio.
[111] Fu pontefice dal luglio 1216 al marzo 1227.
[112] Anglic Grimoard de Grisac, (1320 – 1378) cardinale francese, vescovo di Avignone, decano del collegio dei cardinali dal 1373 al 1388. Autore della Descriptio civitatis Bononiensis eiusque comitatus, e della Descriptio provinciæ Romandiolæ
[113] Pierre d’Estaing, (1324 – 1377) Cardinale francese.
[114] Guglielmo Noellet (1340 – 1394)
[115] Bologna si sottrae all’autorità pontificia e riacquista bene o male la propria autonomia che durerà fino al 1506.
[116] Sembra invece che i Maltraversi fossero così chiamati dallo stemma dei Gozzadini, famiglia competitrice dei Pepoli, che era di due colori, bianco e rosso, separati in diagonale cioè di traverso.
[117] John Hawkwood, italianizzato in Giovanni Acuto, (1320 circa – 1394), condottiero e capitano di ventura inglese.
[118] Astorre Manfredi (1345 circa – 1405), figlio secondogenito di Giovanni Manfredi Signore di Faenza, condottiero e capitano di ventura .
[119] Venceslao di Lussemburgo, (1361 – 1419), Re di Boemia, Re dei Romani dal 1376 al 1400
[120] E’ l’inizio dello Scisma d’Occidente, che durò fino al 1417, con la presenza contemporanea di almeno due papi, di cui uno risiedeva in Italia e l’altro in Francia.
[121] Forse si riferisce al Tumulto dei Ciompi del luglio 1378.
[122] Carlo II d’Angiò-Durazzo, (1385 – 1386) Re di Napoli dal 1382 2l 1386.
[123] Alberico Da Barbiano, (1349 – 1409), famoso condottiero e capitano di ventura, signore di vari paesi romagnoli. Giovanni da Barbiano ( ? – 1399) fratello di Alberico.
[124] Floriano Sampieri, o da San Pietro, ( 1360 circa – 1441), è stato famoso giurista, lettore nello Studium bolognese e diplomatico.
[125] Lutz von Landau ( ? – 1402), figlio del Conte Lando, genero di Bernabò Visconti, condottiero e capitano di ventura.
[126] C’è un Giovanni da Barbiano decapitato a Bologna, che però è il fratello di Alberigo e il fatto successe il 27 settembre 1399
[127] Gian Galeazzo Visconti, (1351 – 1402), Signore di Milano.
[128] Il Papa è ora Bonifacio IX, essendo morto il 15 ottobre 1389 il papa Urbano VI.
[129] L’attuale piazza G. Garibaldi.
[130] Giovanni I Bentivoglio (1358 circa – 1402). Fu il primo Bentivoglio a comandare su Bologna, dal 1401 al 1402 .
[131] Al momento ci sono due papi: Bonifacio IX a Roma e Benedetto XIII ad Avignone.
[132] Astorre II Manfredi ( 1412 – 1468), signore di Imola dal 1439 e di Faenza dal 1443.
[133] Ottobuono de’ Terzi, (1360 circa – 1409), condottiero e capitano di ventura, signore di Reggio, parma e piacenza dal 1405 al 1409.
[134] Equivalente femminile di Palemone: divinità marina nella mitologia greca.
[135] Jacopo del Verme (1350 – 1409). Pandolfo Malatesta (1370 – 1427), signore di Rimini. Galeazzo Cattaneo da Mantova, detto Galezza Gonzaga (1370 – 1406). Facino Cane, (1360 – 1412). Paolo Savelli, (1350 – 1405). Sono tutti condottieri e capitani di ventura
[136] Battaglia di Casalecchio
[137] Giovanni Maria Visconti, (1388 – 1412) Duca di Milano.
[138] Baldassarre Cossa (1370 circa – 1419). Eletto papa nel maggio 1410 col nome di Giovanni XXIII, fu dichiarato decaduto il 29 maggio 1415. Durante il suo pontificato furono presenti altri due pontefici Gregorio XII e Benedetto XIII. Solo da poco tempo è stato considerato un anti papa. Il suo nome poi è stato “coperto” da Papa Roncalli.
[139] Compagnia di S. Giorgio era una delle più famose Compagnie di Ventura italiane, fondata nel 1377 da Alberto da Barbiano di cui facevano parte i piu famosi condottieri del XV secolo.
[140] Niccolò III d’Este (1383 – 1441) Marchese di ferrara dal 1393 al 1441.
[141] Carlo Malatesta (1368 – 1429) Signore di Rimini.
[142] Gian Galeazzo Manfredi (1375 circa – 1417,) Signore di Faenza.
[143] Paolo Orsini (1369 – 1416) condottiero italiano, Capitano Generale della Chiesa.
[144] I quindici cardinali che avevano eletto Gregorio giurarono che, se l’antipapa Benedetto XIII avesse rinunciato a tutte le sue pretese anche Gregorio avrebbe rinunciato. Si aprirono prudenti negoziati che non portarono a niente.
[145] Il Concilio di Pisa si è tenuto dal 25 marzo al 7 agosto 1409. Il concilio cercò di porre fine allo Scisma d’Occidente, che in quel periodo vedeva contrapposti papa Gregorio XII e l’antipapa Benedetto XIII. Furono condannati entrambi come scismatici e rinunciarono entrambi alla carica. Il 26 giugno fu eletto all’unanimità come papa Alessandro V.
[146] Fu eletto in un conclave tenuto a Bologna. Intanto però Gregorio XII e Benedetto XIII erano ritornati sulle loro decisioni. Quindi c’erano tre pontefici che si ritenevano tutti legittimi.
[147] E’ una mula bianca.
[148] Pietro Cossolini nel maggio 1411 capitanò la rivolta che cacciò il Legato.
[149] Andrea Fortebraccio, noto come Braccio da Montone (1368 – 1424), è stato famoso un condottiero, capitano di ventura e politico italiano.
[150] Michele Attendolo da Cotignola (1370 circa – 1463), è stato un condottiero italiano. cugino di Muzio Attendolo Sforza e Francesco Sforza, duca di Milano.
[151] Sigismondo di Lussemburgo, (1368 – 1437). Re di Ungheria, Re dei Romani dal 1410, Imperatore dal 1433 al 1437.
[152] Concilio di Costanza (1414 – 1418). Decise la deposizione dei tre pontefici e la elezione di un nuovo papa.
[153] John Wyclif (1330 – 1384) Teologo inglese, la condanna delle sue idee servì per condannare al rogo Jan Hus (1371 – 1415). Considerato il precursore della riforma protestante.
[154] Dolcino da Novara, (1250 -1307). Capo e fondatore del movimento dei dolciniani. Accusato di eresia, fu catturato e ucciso, con i suoi aderenti, sul rogo nel 1307.
[155] Delegazione dell’esercizio dei poteri di amministrazione della giustizia.
[156] Anton Galeazzo Bentivoglio, (1385 – 1435), figlio di Giovanni I Bentivoglio. Signore di Bologna dal 1416 al 1420.
[157] Cabrino Fondulo ( 1370 – 1425) Capitano di ventura. Signore di Cremona dal 1403 al 1419.
[158] Ludovico Migliorati conte di Fermo, (1370 – 1428). Angelo della Pergola, (1375 – 1428). Sono entrambi condottieri e capitani di ventura.
[159] È l’intervento che oltre che chiudere il passaggio sotto la torre, che sarà riaperto nel 1776, apre la porta con il ponte levatoio a destra della torre. L’attuale passaggio pedonale.
[160] Resti di questo baluardo sono stati scoperti nei sondaggi fatti nel giardinetto all’inizio di Via Volturno, dietro le mura del cortile comunale.
[161] Filippo Maria Visconti, (1392 – 1447). Duca di Milano
[162] Luigi da San Severino, (? – 1447) capitano di ventura.
[163] Ludovico Michelotti da Perugia, (? – 1440). Lionello Michelotti da Perugia, (? – 1445). Ranieri Vibi del Frogia, (? – 1440). Angelo di Roncone, (? – 1454). Tutti capitani di ventura al soldo del Sanseverino.
[164] Domenico Capranica ( 1400 – 1458) è stato un cardinale e umanista italiano. Fu personaggio di spicco nella Roma della prima metà del Quattrocento.
[165] Niccolò Mauruzi, noto come Niccolò da Tolentino, (1350 – 1435) è stato un nobile, condottiero e capitano di ventura.
[166] Conceria delle pelli.
[167] Jacopo Caldora (1369 – 1439) condottiero e capitano di ventura. Fu duca di Andria e Bari, marchese di Vasto.
[168] Floriano Sampieri, o da San Pietro (1360 circa – 1441), è stato un importante giurista, fu docente a Siena e a Ferrara, ebbe incarichi pubblici e diplomatici.
[169] Erasmo Stefano da Narni, detto il Gattamelata (1370 – 1443), è stato un condottiero e capitano di ventura. Fu al servizio prima della Repubblica di Firenze, poi dello Stato Pontificio ed infine della Repubblica di Venezia. Abile stratega militare, difese la Serenissima dagli attacchi dei Visconti.
[170] Niccolò Piccinino (1386 – 1444) è stato un famoso condottiero e capitano di ventura.
[171] Copia autenticata di questa Bolla si trova nell’Archivio Storico Comunale.
[172] La tornatura bolognese era di 144 tavole quindi 2080 mq. quella castellana circa 1450 mq.
[173] Annibale I Bentivoglio, (1413 – 1445), figlio naturale di Anton Galeazzo. Signore di Bologna dal 1443 al 1445.
[174] Renato d’Angiò, (1409 – 1480). Re di Napoli dal 1435 al 1442.
[175] Alfonso d’Aragona, (1393 – 1458) Re di Napoli dal 1442 al 1458.
[176] Guido Antonio Manfredi detto Guidaccio, (1407 – 1448). Capitano di ventura, Signore di Faenza.
[177] Francesco Sforza da Cotignola, (1401 – 1466) Condottiero e capitano di ventura. Duca di Milano dal 1450 al 1466.
[178] Francesco Piccinino (1407 circa – 1449) Capitano di ventura.
[179] Amerigo da S. Severino, ( ? – 1470) Capitano di ventura.
[180] Si tratta del Concilio per la riunificazione della chiesa latino e ortodossa. Il 6 luglio 1439 si era firmato a Firenze l’accordo. Purtroppo restò lettera morta.
[181] Baldo Bruni, noto come Baldaccio d’Anghiari (1400 circa – 1441), condottiero e capitano di ventura.
[182] Luigi Dal Verme (1390 circa – 1449) condottiero italiano.
[183] Sante Bentivoglio (1424 – 1463), cugino di Annibale I Bentivoglio. Governò su Bologna dal 1446 al 1463.
[184] L’arrivo di Sante Bentivoglio era avvenuto il 13 novembre 1446
[185] Astorre II Manfredi ( 1412 – 1468), signore di Imola dal 1439 e di Faenza dal 1443.
[186] Federico da Montefeltro, (1422 – 1482), condottiero, capitano di ventura e Conte di Urbino dal 1444 al 1472.
[187] Ludovico II Gonzaga, (1412 – 1478), Marchese di Mantova dal 1444 al 1478
[188]Aristotele Fioravanti (Bologna, 1415 – Mosca, 1486 circa) Famoso ingegnere architetto. Lavorò in tutta Italia, Ungheria e Russia.
[189] In realtà per l’Ungheria partì nel 1466.
[190] E’ la fine dell’Impero Romano d’Oriente, quasi mille anni dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
[191] Ginevra Sforza, (1440 – 1507) figlia illeggittima di Alessandro Sforza, signore di Pesaro e fratello di Francesco duca di Milano
[192] Si trattava di un passaggio della Cometa di Halley.
[193] Caterina de’ Vigri (1413 – 1463), è stata una religiosa italiana, fondatrice e prima badessa del monastero delle Clarisse del Corpus Domini di Bologna: è stata canonizzata il 22 maggio 1712.
[194] L’ordine dei Crociferi era un ordine ospitaliero attivo a Bologna dal XII secolo.
[195] Galeazzo Maria Sforza ( 1444 – 1476), figlio di Francesco Sforza, fu duca di Milano dal 1466 al 1476.
[196] Giovanni Mauruzi, noto come Giovanni da Tolentino ( ? – 1470), nobile e condottiero italiano,
[197] Gli successe Giovanni II Bentivoglio (1443 – 1508), figlio di Annibale, signore de facto di Bologna dal 1463 al 1506.
[198] Piero di Cosimo de ‘ Medici ( 1416 – 1469) signore de facto di Firenze dal 1464 al 1469. Padre di Lorenzo il Magnifico.
[199] Bartolomeo Colleoni ( 1395 – 1475) Importante condottiero e capitano di ventura.
[200] Roberto Orsini, ( ? – 1479) Condottiero e capitano di ventura, Conte di Tagliacozzo.
[201] Battaglia della Riccardina (o della Molinella), fu una delle principali battaglie del XV secolo in Italia.
[202] Guidaccio Manfredi, ( ? – 1499), signore di Imola.
[203] Alessandro Sforza ( 1409 – 1473), signore di Gradara e Pesaro, fratello illegittimo di Francesco Sforza .
[204] Sono due degli otto figli di Galasso II signore di Carpi, che con altri parenti sono in lotta per il potere.
[205] Ercole I d’Este ( 1431 – 1505), marchese di Ferrara, Modena e Reggio, dal 1471 al 1505.
[206] Berthold Schwarz (1318 circa – 1384 circa) monaco e alchimista tedesco. Leggendario scopritore della polvere da sparo.
[207] Antica capitale di un regno della Birmania.
[208] Caterina Sforza (1463 circa – 1509) fu signora di Imola e contessa di Forlì.
[209] Girolamo Riario (1443 – 1488) Signore di Imola e di Forlì, uno degli organizzatori della Congiura dei Pazzi del 1478.
[210] Ferdinando d’Aragona, conosciuto come Ferrante I ( 1424 – 1494), re di Napoli dal 1458 al 1494.
[211] Bona di Savoia ( 1449 – 1503), vedova di Francesco Sforza, reggente per il figlio Gian Galeazzo Maria Sforza.
[212] Pandolfo IV Malatesta (1475] – 1534), condottiero italiano e Signore di Rimini e di altre città della Romagna.
[213] Roberto di San Severino (1418 – 1487) nobile, condottiero e capitano di ventura .
[214] Annibale II Bentivoglio (1469 – 1540) è stato un condottiero italiano.
[215] Federico III d’Asburgo, (1415 – 1493). Imperatore del Sacro Romano Impero Dal 1452 alla morte.
[216] Massimiliano I d’Asburgo, ( 1459 – 1519). Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla morte.
[217] Ludovico Sforza detto il Moro (1452 – 1508) reggente del Ducato di Milano dal 1480 al 1494 e Duca dal 1494 al 1499.
[218] Carlo VIII di Valois ( 1470 – 1498). Re di Francia dal 1483 al 1498 e brevemente Re di Napoli nel 1495.
[219] Il riferimento è all’inizio delle Guerre d’Italia con la calata di Carlo VIII di Francia (1494 -!495) che sconvolgerà l’equilibrio tra gli stati della penisola.
[220] Soldati mercenari della repubblica di Venezia di origine balcanica.
[221] Lega di Venezia, 31 marzo 1495.
[222] Battaglia di Fornovo, provincia di Parma. Combattuta dal Re di Francia contro un’alleanza tra la Repubblica di Venezia, gli Sforza di Milano, I Gonzaga di Mantova e gli Este di Ferrara con la benedizione del papa.
[223] Quarzo.
[224] È un minerale del gruppo dei silicati abbastanza presente nelle ofioliti della Valle del Sillaro
[225] Lucrezia Borgia (1480 – 1519), figlia di Papa Borgia, sposata a Giovanni Sforza (1493-97) e a Alfonso d’Aragona (1498- 1500).
[226] Alfonso I d’Este (1476 – 1534) Duca di Ferrara, Modena e Reggio dal 1505 al 1534
[227] Luigi XII di Valois-Orléans ( 1462 – 1515), Re di Francia dal 1498 al 1515
[228] Cesare Borgia, (1475 – 1507), Figlio di Papa Borgia, Duca di Valentinois.
[229] Paolo Orsini (1450 – 1503) condottiero italiano.
[230] Vitellozzo Vitelli (1458 circa – 1502) condottiero, politico italiano.
[231] L’assedio di Faenza duro dal novembre 1500 al 25 aprile 1501.