Storia dei pubblici intrattenimenti (e molte altre cose) a Castel S. Pietro dal 1700 a quasi i giorni nostri

Ricerca scritta da Eolo Zuppiroli

Spiegazione al gentile lettore

Per preparare una mia presentazione alla festa della Storia del 2014 sul Teatro Comunale Cassero ho ricercato il materiale nell’archivio storico del nostro Comune. Il materiale in archivio sul Cassero inizia dal 1748 con i famosi disegni del Dotti. Poi ci sono le carte sui pubblici trattenimenti in apposite cartelle. Lì ci sono i fatti, magari solo nudi e crudi. La data di una rappresentazione, il suo costo magari. Manca però il contesto. Come, perché, cosa era successo prima, cosa è successo dopo. Quindi naturalmente ho cercato altro. Ora non è che il nostro Archivio sia molto in ordine ed ha sicuramente molte lacune dovute alla sua storia molto travagliata. Comunque il dubbio di tralasciare cose magari importanti per la mia ricerca e la presentazione programmata, mi ha spinto ad allargare la ricerca. Quindi, dopo aver presentato il mio lavoro sul teatro alla festa della Storia 2014 il 23 ottobre e successivamente la sua versione dialettale nel 2018 per la giornata nazionale del dialetto al Centro Sociale Scardovi, mi sono trovato con copie di parecchio materiale interessante la storia del nostro amato e bel paese. Inoltre la trascrizione del manoscritto del Cavazza: Raccolto di notizie istoriche di Castel S. Pietro ha aggiunto alcune notizie inedite. Quindi, tutto ciò premesso, posso dire che questo lavoro è la storia del teatro comunale Cassero con il contesto. Cioè di quello che attorno è successo nel paese, almeno per quella parte che io sono riuscito a ricavare dalle carte dell’archivio che ho esaminate. Eolo Zuppiroli

Trattenimenti pubblici c’erano certamente anche prima del 1700 a Castello, ma possiamo solo immaginarli mancando le carte. C’erano musicisti, amanti della musica, amanti del teatro e filodrammatici, purtroppo gli unici spettacoli pubblici di cui abbiamo notizia sono le processioni religiose. Non è che non fossero spettacolari ma per la loro particolarità non sono oggetto di queste pagine. I pubblici trattenimenti tipici, senza trascurare gli altri, sono quelli che si svolgono di fronte ad un pubblico in quiete, in piedi o seduto, con i teatranti in posizione più elevata cioè in un teatro chiuso o all’aperto che sia. Perciò la prima ricerca è stata quella di cercare notizie sulla presenza di un teatro a Castello.

Nell’Archivio Storico del Comune di Castel S. Pietro la prima cosa che si può trovare, perché in un fascicolo abbastanza visibile, sono tre tavole intitolate Teatro della Comunità di Castel San Pietro 1748.  Sono disegnicon pianta, prospetti e sezioni, dell’interno di una sala teatrale, con palcoscenico, platea, balconata. firmati da Gian Giacomo Dotti, figlio del più famoso Francesco Dotti, architetto, tra l’altro, della Basilica di San Luca. Le dimensioni sono, trasformando la scala di riferimento da piedi bolognesi in metri, 6,5 metri di larghezza, 11 metri di lunghezza, di cui circa 4,5 di palcoscenico, e di circa 6 metri di altezza. Le dimensioni sono piuttosto ridotte, la platea è quadrata di 6,5 metri di lato quindi 42 mq, aggiungendo la balconata si può arrivare a 57-60 mq. Con gli standard attuali (1,2 persone per mq.) si arriverebbe a 70-80 persone. Allora non c’erano poltrone in platea ma panche quindi possiamo pensare ad una capienza con indice maggiore anche fino a 2 persone per mq. e quindi una capienza attorno alle 150. Queste tavole non ci dicono però nulla sull’ubicazione di questo teatro. Questo lo ricaviamo da carte e documenti successivi perciò possiamo anticipare che queste tavole sono le prime immagini del Teatro Cassero. Il locale risulta piuttosto piccolo ma all’epoca la parte di proprietà comunale era solo quella ad ovest, forse quella attualmente individuata dalla presenza della merlatura guelfa. La parte restante, con la torre, era dal 1600 di proprietà dei conti Malvasia. Sappiamo da accenni in altre carte che la sala doveva essere orientata col palcoscenico verso levante e che l’ingresso era sul lato sud dell’edificio, verso l’interno del castello. Abbiamo una data il 1748 e quindi la nostra storia può iniziare da qui.

Il contesto storico

 È un anno importante per la storia europea perché, con la pace di Aquisgrana del 18 ottobre 1748, termina la stagione, iniziata all’inizio del secolo, delle guerre di successione tra le case regnanti e si apre un periodo di quasi 50 anni di assenza di conflitti armati. Così non è stato appunto il periodo precedente iniziato il 1° novembre 1700 con la morte del Re di Spagna senza eredi diretti per cui si fecero avanti i nipoti di vario grado. Uno era anche nipote del Re di Francia, un altro dell’Imperatore austriaco del Sacro Romano Impero. Dal 1701 al 1714 in Europa e in Italia gli eserciti dei due interessati e loro alleati si affrontarono in vari scontri e battaglie. Dal 1714 al 1733 si ricominciò per il problema di chi doveva salire sul trono di Polonia e di nuovo anche l’Italia divenne terreno di scontro soprattutto nel regno di Napoli. Risolta questa questione di successione, ne arriva un’altra ben più grossa: nel 1740 muore l’imperatore d’Austria nonché del Sacro Romano Impero, quello fondato da Carlo Magno nell’800 d.C. Lì il successore c’è, però è una donna, Maria Teresa che ha solo 23 anni ma un carattere piuttosto deciso. Il padre, sapendo l’aria che tirava tra i re e principi parenti, mentre era in vita si era premurato di cambiare i regolamenti dinastici che non prevedevano una successione femminile e di ottenerne l’approvazione degli eventuali e possibili pretendenti e quindi morì tranquillo. Ma i nobilissimi colleghi non erano “uomini d’onore “. E infatti rinnegano il documento approvato, la Prammatica Sanzione, e per 8 anni si susseguono scontri e battaglie in Europa e Italia. I principali contendenti di quest’ultimo conflitto erano da una parte la Spagna, il regno di Napoli e la Francia, dall’altra parte l’Austria e l’Inghilterra. Il territorio bolognese, non è direttamente investito dai conflitti, il papa riuscì a restare neutrale, ma ciò comporta che se non si è favorevoli, non si può essere nemmeno contrari alle parti in conflitto, per cui non ci si può opporre al passaggio di truppe di ambo le parti, alla loro sosta, al loro sostentamento e assistenza. Castel San Pietro si trova sulla via Emilia, fondamentale non solo per il transito tra est e ovest ma, all’epoca, anche tra nord e sud, quindi di qui passano tutti, tedeschi, spagnoli, piemontesi, francesi, napoletani ecc. e a tutti servono alloggi, viveri per uomini e cavalli, carri, ecc. Nell’archivio castellano varie carte documentano i passaggi e la sosta delle truppe dei contendenti. Ad esempio nel maggio 1742 passano e si fermano i famosi e famigerati Micheletti. Arrivò a Castel San Pietro di N. 700 spagnoli in circa che venivano dalla Romagna (…) e si chiamavano li Micheletti ed aspettorno l’armata grossa che principò ad arrivare li 13 maggio, stettero nel paese sino li 17 che erano 30 milla in circa (…) ed erano accampati nelli prati della commenda di Malta andando verso Bologna. La suddetta armata sino che sta in questo Castello fu regolata in tutti li quartieri del paese per li ufficiali , (…) ed ancora si diè li carri che li bisognavano. Nel luglio dello stesso anno invece : Venero le truppe della regina d’Ungaria a Castel San Pietro e si fermarono di riposo quattro giorni, li quali si accamparono in lochi vicino al Castello e parti delli ufficiali stettero nelli Palazzi e case dentro a detto Castello e li quartieri e carri che li bisognavano furono regolati dalli uomini della Comunità.  L’8 febbraio 1743  si combatte a Camposanto presso Modena tra truppe spagnole e austro-piemontesi con la vittoria di queste.  Fu questo lo scontro di una certa importanza più vicino al nostro territorio. Le carte dell’archivio riportano ancora che per tutto il primo semestre 1744 seguitarono a passare delle truppe e tutte si mettevano di quartiere nelle case della piazzae il 15 dicembre si formò il quartiere d’inverno delle truppe austriache nel nostro castello e borgo, nel quale vi erano due regimenti uno dell’arteriaria a cavallo e a piedi cioè fantaria che in tutto erano da undici a dodici centonara. Terminate le ostilità, in questo inizio della seconda metà del XVIII secolo, in cui iniziava anche l’attività del teatro, la situazione locale dal punto di vista economico e sociale è abbastanza serena e tranquilla. Per molto tempo non ci saranno più passaggi di truppe con rapine e ruberie, è sì rimasta qualche prepotenza, qualche assassinio, qualche scorribanda di banditi, un po’ di attività di contrabbando, a volte molto più di un po’, con la Romagna e la Toscana. Quindi si tratta di una situazione, per l’epoca, abbastanza normale. I rapporti con le autorità cittadine, restano come al solito critici e conflittuali ma c’è la possibilità di ricorrere ad una autorità più alta, il Legato pontificio o addirittura a Roma, allo stesso Papa, e ai tribunali romani e di ciò si fa molto spesso uso. Infatti il glorioso Comune bolognese aveva dovuto rinunciare da molto tempo alla sua autonomia, in cambio aveva ottenuto la sicura permanenza al potere dei suoi ottimati con l’ereditarietà della carica e la garanzia del mantenimento dei propri privilegi e la difesa dei propri interessi locali. Il Papa, attraverso il suo delegato, il Legato, governava l’alta politica, il Senato, formato dalla nobiltà di sangue e di censo, nominato dal Legato, governava il territorio. Sul territorio disponeva il Senato attraverso gli Assunti, delegati ai vari settori di governo.  I Consigli delle Comunità eseguivano le disposizioni e comunque sottoponevano le loro eventuali decisioni all’assenso del Senato Bolognese.

Il contesto castellano.

Il Consiglio della Comunità gestiva quel poco di autonomia che era rimasto nel territorio. Era formato da 12 consiglieri, i Comunisti, nominati tra le famiglie più benestanti e fedeli, la carica era anche qui è a vita ed ereditaria, per cui erano sempre gli stessi nomi, salvo casi eccezionali a comparire nelle carte. Solo nel caso di mancanza di discendenza maschile, il legato nominava il componente di un’altra famiglia. Tra i consiglieri era scelto il Console, mediante estrazione e restava in carica sei mesi Il potere della Comunità di Castel San Pietro si limitava alle decisioni sulle proprie entrate, che si limitavano all’affitto delle Fosse, aree piuttosto ampie, che circondavano le mura e forse in passato occupate dai fossati e loro sponde e soprattutto gli introiti derivanti dal mercato, sempre comunque messi in discussione. Le tasse erano raccolte localmente, ma versate a Bologna, salvo quelle per pagare il poco personale della Comunità tra i quali il medico, il chirurgo e il maestro di scuola. Per quanto riguarda il medico l’obbligo sarà di visitare una volta al giorno gli infermi quando venga chiamato ed in particolare li poveri e con loro praticare tutta la carità possibile e convenevole. Inoltre dovrà esercitare l’arte solamente di medico (…) senza levar sangue ed applicar ventose, o far altre cose spettanti al chirurgo publico. Nel 1734 entrò in funzione l’Ospedale degli Infermi con due sale, una per i maschi ed una per le femmine. Il servizio è assicurato da un custode ammogliato. Per il maestro gli obblighi erano più dettagliati. Le lezioni si svolgevano mattina e pomeriggio escluso sabato pomeriggio e lunedì mattina. Si doveva insegnare di leggere e scrivere, Gramatica, Umanità, e Rettorica ed altresì Aritmetica per far conto. Si poteva esigere un congruo e doveroso mensuale emolumento.  Si doveva insegnare gratis solo alle persone miserabili ed in particolare quelli che hanno buon talento, purché prima i suoi genitori lo avessero chiesto e che questo sapino qualche poco leggiere. Infine si doveva fare in modo che ogni giorno gli scolari andassero a messa e vigilare perché facciano la Comunione tutti i mesi e contro gli inubidienti usare del rigore. La vita sociale era scandita soprattutto coi tempi delle numerose cerimonie religiose.  All’epoca erano attivi tre conventi: i Cappuccini, i Francescani Minori Osservanti e gli Agostiniani. Le processioni erano “macchine” complesse, c’era l’Immagine sacra particolarmente addobbata, il baldacchino, gli stendardi i “lanternoni”. Partecipavano naturalmente tutti gli ecclesiastici, le tre “religioni” cioè i frati dei tre conventi, le tre compagnie “cappate”, che erano le tre più importanti e erano ufficialmente autorizzate a portare una divisa, la cappa, coi colori propri, altre compagnie meno importanti, le autorità e finalmente il popolo.     Le compagnie cappate nel XVIII secolo erano quella di S. Caterina, la più antica e ricca grazie alle donazioni, quella del Santissimo Sacramento, e quella più recente del Santissimo Rosario. Il numero delle processioni superava la ventina all’anno, i compiti all’interno della procedura erano numerosi, le precedenze importanti per il prestigio che arrecavano, quindi pure le possibilità di liti.  Gli scontri sulle assegnazioni degli incarichi, sulle precedenze erano infiniti, creando rancori, violenze, liti giudiziarie interminabili. Lo stesso consiglio della Comunità fece un decreto su come disporsi nelle processioni: Dovrà andare avanti a mano dritta il Console protempore ed a mano sinistra il dott. Medico condotto per raggione del dottorato, e gli altri poi seguitamente a due a due secondo la anzianità di comunista, (…) ed infine il chirurgo ed il maestro di scuola, ancorchè sia sacerdote essendo questo impiego secolare.  Per quanta riguarda la situazione demografia alcune notizie le possiamo ricavare dal Cavazza che riporta i risultati di una raccolta di dati richiesti dalla Giunta di Governo di Bologna nel luglio 1796 cioè poco dopo l’arrivo dei francesi, che possiamo ritenere valide anche per il cinquantennio precedente. Il territorio sottoposto alla Comunità, era più piccolo di quello attuale. Comprendeva il Castello e il Borgo, con complessivi 2240 residenti, due aree di campagna a est e a ovest con 1400 abitanti più la Villa di Poggio con 620 residenti. Erano comunità autonome Liano di sopra e di sotto, Varignana di sopra e di sotto, Casalecchio e tutta la parte montana, Montecalderaro, Vedriano e Frassineto. Facendo i conti in base alla differenza d’età, i fanciulli risultano pari al 30% del totale, quindi una popolazione piuttosto giovane, ma questo può essere nella norma dell’epoca. Mentre una prevalenza del numero dei paesani (2240) rispetto ai villani (2020), potrebbe indicare pur su piccola scala caratteristiche urbane nell’economia e nella vita sociale e nella consapevolezza di sé del Popolo del Castello e del Borgo. L’origine lontana, ma “nobile”, dei privilegi e delle esenzioni, dovuti come cittadini di Bologna o per concessione papale, sarà sempre ostinatamente richiamata sia nei processi legali sia nel rifiuto di soggiacere a tasse e norme ritenute ingiuste e non dovute, come pure, nel caso che si trattasse di difendere i diritti degli artisti di Castello rispetto alle più potenti e prepotenti corporazioni bolognesi. Da un punto di vista delle attività economiche l’agricoltura non era così totalizzante come ad esempio nel vicino comune di Medicina. L’area agricola più fertile era quella della Villa di Poggio, che tra l’altro proprio alla fine del settecento instaurerà una lunga causa per la sua “dismembrazione” da Castel San Pietro. Castello per la sua posizione era la porta d’ingresso alla Legazione delle merci che provenivano dal granaio romagnolo, inoltre era su una direttrice con il Ducato di Toscana, che lungo la valle del Sillaro distava solo una trentina di chilometri, quindi era comoda per il contrabbando.  Questa situazione giustificava ampiamente l’importanza del suo mercato, con tutto il suo indotto, sia nel commercio locale e nei trasporti, sia nelle varie attività artigianali, fornaci di ceramiche di consumo, concia delle pelli (pelacani), locande ed osterie. A tutto ciò era da aggiungere una attività quasi a livello industriale, quella della lavorazione della canapa, l’Arte dei gargiolari che lavorano la canapa estraendo da essa la parte più fine e filabile, il garzuolo, da cui tessere lenzuola, corredi per le spose, tela per abiti. Ancora nel 1780, quando stava ormai arrivando la crisi, per la concorrenza dei tessuti del nord Europa, c’erano 7 aziende con 400 addetti. Addirittura si installò  l’anno successivo per breve tempo una fabbrica per i famosi veli di seta come riporta il Cavazza: essendosi ottenuto per parte di alcuni mercanti di Bologna dal Legato la facoltà di fare velami di seta e porre in questo loco li tellari da veli all’uso di Bologna (…) non poche fanciulle si misero a lavorare in questo Borgo la seta e a far velami (…)Quindi ad oggi sono in esercizio dodici tellari e quanto prima se ne poranno altri in opera in casa di d. Conti che abita in Borgo presso l’osteria del Portone.   Se la situazione economica e sociale era discreta i castellani erano però un po’ in ritardo in fatto di locali per fare rappresentazioni teatrali o musicali. A quanto pare i nostri antenati tendevano a dare scarsa importanza a cose frivole come rappresentazione di commedie e spettacoli di musica figurata. almeno fino al 1748. Se raffrontata con la situazione teatrale del vicino comune di Medicina, la differenza è notevole. Era dal 1681 che esisteva un piccolo teatro pubblico, dotato di tre palchi, quello centrale assegnato alla Comunità e due laterali a disposizione dei componenti la locale Accademia degli Illuminati. Nel 1728 venne ristrutturato con 44 palchi in tre ordini, dieci anni dopo dotato di vari sfondi e scenari per rappresentare le varie ambientazioni delle storie. 

Destinazione del Cassero a Teatro

Tornando al nostro teatro è interessante quello che possiamo considerare un intervento preliminare anche se non ancora finalizzato al preparare una sala per spettacoli. Il 30 marzo 1732 i consiglieri radunati ad effetto di risolvere sopra il doversi o non doversi coprire sopra la porta di sotto  decidono di fare il lavoro contribuendo alla spesa con la cessione del loro gettone di Console. Qui si rilevano due cose, una che la porta di sotto era scoperta, l’altra  che i consiglieri si fecero carico di una parte delle spese, cosa per niente usuale anche a  quei tempi tanto è vero che la cosa fu oggetto di un impegno a carattere legale. Di questo fatto scrive anche il Cavazza così: Nel seguente aprile (1732) li pubblici rappresentanti fecero coprire a proprie spese l’ingresso maggiore della porta inferiore del Castello (…) e si prevalsero delli emolumenti che toccavano a ciascun Consolo allorchè veniva estratto nel suo officio senza gravare alcuno. Cosa significa che la porta maggiore era scoperta? Per avere una possibile spiegazione dobbiamo tornare un poco indietro nel tempo. Nella prima metà del 1400 furono fatti diversi lavori di rafforzamento delle difese con la soprintendenza del famoso architetto Aristotile Fioravanti, di queste è rimasto testimone il torrione di nord est. Tra questi interventi anche quello all’attuale Cassero che, come riferisce Cavazza, (…) Aveva la porta maggiore, esistente sotto la torre, congiunta al fianco sinistro una picola roca quadrata colla quale si diffendeva l’accesso alla detta porta ma perché, quando avvenivano aggressioni affolate di militari, riesciva loro con poco impegno guadagnare l’ingresso fu pensata una diversa soluzione. Quindi venuti li ingegneri, cambiarono la ubicazione della rochetta e la edificarono davanti la torre, chiudendovi ancora la porta sotto la med.  In vece poi di questo ingresso ne aprirono un novo in mezzo la facciata della rocheta respiciente il Borgo. La fornirono di ponte levatore colla bilanzia e leve ed all’indentro vi fecero una forte porta. Quindi sembrerebbe che prima di questa operazione l’edificio per il corpo di guardia a difesa della porta maggiore fosse alla sinistra della torre. La nuova soluzione viene costruita davanti alla torre, chiudendo il passaggio, e alla sua destra viene costruita una nuova porta con ponte levatoio, apertura che è quella che attualmente serve come passaggio pedonale. Questa rocchetta la troviamo nelle carte indicata come Rocha piccola.  Come era fatta questa rocchetta? Il Cavazza non ne scrive, abbiamo però una sua descrizione di quella precedente che aveva avvanti la torre un Chiostro (un cortile), che inalzandosi fino alla metà di questa come si osserva, teneva un corridore per comodo dei militari al quale vi si andava mediante una apertura fattavi nella torre respiciente il Borgo. Anche la nuova  rocchetta doveva avere le stesse caratteristiche: essere una cortina muraria alta fino a metà della torre, con un ballatoio (il corridore) lungo il perimetro merlato a cui si accedeva dalla torre da una apertura ancora presente. All’interno tra la porta esterna (verso il Borgo)  e quella interna (verso il paese) vi era una zona scoperta (il chiostro). Questa doveva essere lo spazio che si intende coprire. Nel 1700 ormai da tempo le funzioni difensive della rocchetta sono cessate e i consiglieri prendono la decisione di cui sopra.  A questo punto le notizie sulla porta di sotto e sul teatro ci sono date dal Cavazza che scrive: Essendosi coperto l’ingresso della porta maggiore del Castello vi rimaneva perciò dal fondo a coppi un altissimo vano. Fu riflesso che luogo opportuno era questo per formarvi un Teatro onde divertire la populazione. Il progetto fu di Lorenzo Graffi, fu piaciuto e restava solo il modo di effetuarlo. Fu in seguito proposto in Consilio l’affare e si convenne da consilieri di rinonciare tutti il loro onorario di Consolo ed erogato nell’edificio, Ciò determinato, fu incaricato il d. Graffi eseguirne l’opera, alla quale tostamente vi si mise mano ed in breve tempo fu formata una gran sala atta appunto a farsi rappresentazioni. Nel med. tempo vari giovani del paese dilettanti di musica figurata si produssero al pubblico per la prima volta e fu nella festa di S. Antonio 13 giugno. Fu l’inventore Angiolo Galassi uomo povero ma di gran talento, egli fece da maestro di capella, instruì molti giovani nel canto e nel suono di organo, violino ed altri instrumenti musicali. (…) Angiolo poi sudd. passò per Mastro di Capella nella chiesa de Servi di Bologna, d’indi per le sue prerogative passò Mastro di Capella al servigio del Re Sardo, come diresse al fine di sua vita. Il Cavazza non dice quando fu proposto in Consilio l’affare, abbiamo però in data 17 giugno 1748 un Obligo de’ Consiglieri per ridurre in buon stato il sito sopra la porta di sotto col loro provento di Console della Comunità di C. S. Pietro. Ogni Console lascerà il proprio compenso fino a pagamento della spesa. Terminata però tale Fabrica s’intendono e vogliono li signori Comunisti, che dal entrata, che si ricaverà da tale sito, essere rimborsati.  Sembra ci sia una contraddizione tra la data dell’apertura e quello della fissazione dell’obligo ad assumersi il pagamento da parte dei consoli pro tempore della Comunità. Questo però è un atto legale che potrebbe solo ufficializzare una decisione informale assunta precedentemente. Quello che è certo è che i consiglieri faranno sempre rilevare che la Fabrica è stata fatta col loro contributo finanziarie e che quindi gli debbono essere riconosciuti privilegi all’accesso. In un operazione di pulizia e restauro fatto nel 1769 avvanti il parapetto del palco di mezzo, destinato al Consolo pro tempore, vi fufatta una iscrizione in cui Alludesi alli origini del Castello, fabricato nelle guerre civili e coerentemente alla inscrizione della fondazione.  La pulizia viene fatta in occasione della venuta nel giugno a Castello del Senatore Marchese Gregorio Filippo Maria Casali Bentivogli Paleotti, deputato alla soprintendenza degli affari della Comunità di Castel  San Pietro.  Quindi “il sig. Console ha pregato li Sig. Consiglieri a favorirsi in Consiglio quando saravi  il Senatore per fare varie istanze, così ha anco ordinato che sia pulito il nostro teatro, e siavi apposta l’inscrizione da me fatta,( cioè Ercole Cavazza  che era cancelliere del Consilio) in essa si accenna che Castel  San Pietro fu fatto per tenere a freno i malfattori che quivi depredavano e che dove è il teatro vi era un forte fatto da nostri antichi, e che in oggi la nostra comunità, composta di duecemviri, essendovi la pace nelle nostre parti, avvi  ivi fatto un loco per lieti spettacoli, ed eccone l’esemplare.  L’iscrizione termina così (…) hic dederunt dodecem laeta Theatra Viri Anno Cas. condita DXLVIII et D.ni nostri  MDCCXLVIII Kalendis Octobris. Cioè: qui diedero i Dodici Uomini un lieto teatro il 548° anno dalla fondazione del Castello e 1748° di nascita di nostro signore, 1° ottobre.   Qui avremmo un’altra data di inizio. Il tutto si potrebbe mettere a posto se si considerasse che un’opera come prevista nel progetto del Dotti, potrebbe avere avuto bisogno in un certo tempo per essere rifinita nelle decorazioni e il teatro essere stato comunque usato per la prima volta, cioè spianato (voce del verbo spianare, bolognesismo per inaugurare) il 13 giugno e inaugurato ufficialmente il 1° ottobre. Comunque finalmente dal 1748 Castello ha il suo teatro che da tempo era evidentemente richiesto. Infatti quando i dodecem viri decisero di formare un Teatro onde divertire la populazione in Castello c’erano già vari giovani dilettanti di musica figurata che il predetto Angelo Galassi aveva istruito nel canto e nel suono di organo, violino ed altri instrumenti musicali.  Sull’attività e consistenza su questi dilettanti e sulla loro voglia di esibirsi sappiamo poco. Una carta che documenta la voglia di un’attività teatrale a Castel S. Pietro è datata 1731. Antonio Tricondani, Francesco Lasi e altri giovanotti si rivolgono come umilissimi oratori delle Signorie Loro Molto Illustrisime ai componenti il Consiglio della Comunità poiché, avendo con la direzione di Vincenzo Orsolini imparato una Comedia, chiedono un posto dove rappresentarla, individuato nella loggia del Palazzo della Comunità.    Non sappiamo se questa richiesta abbia avuto un seguito, ma non abbiamo nemmeno nessuna ragione per dubitarne. La lettera sembra comunque indicare che non sia inusuale che un gruppo di giovani si organizzi per imparare una comedia portando come supporto la direzione di questo Orsolini che ritroveremo altre volte citato. Per quanto riguarda  l’ubicazione del teatro è circolata in passato la storia che ci fosse stato un contrasto su dove collocare il teatro se entro il Castello o nel Borgo, la soluzione adottata sarebbe stato un compromesso essendo il Cassero in fondo al Castello ed all’inizio del Borgo.  Da quello ora noto è chiaro che non c’è stato nessun’altra ipotesi, al più la discussione potrebbe esserci stata nel 1830 in occasione della radicale ristrutturazione  ma non c’è nessun documento in proposito.

Inizia l’attività, problema della ringhiera e dei palchi

Tornando al Teatro  per almeno un decennio siamo senza notizie fino al 1759 in cui il Cavazza riferisce  che: Per evitare le impertinenze che si emettevano dalla plebalia nella platea del Teatro della Comunità in tempo di rappresentazioni, dovendosi le persone pulite framischiare con ogni sorta di persone, fra le quali vi erano ubriachi, pensò il consolo Graffi formare nel contorno del teatro  una ringhiera alta, ed in questa separare, come si suol dire il grano dal lolio, fu proposto in consilio il progetto, fu da tutti approvato e tostamente si diede mano all’opera e fu terminato il lavoro prontamente, che oltre di servire di abbellimento al teatro si allogavano molte persone e fu cosa da tutti comendata.  Da questa informazione si possono ricavare due considerazioni, la prima che il teatro era in funzione pienamente e la partecipazione perfino troppo vasta creando problemi di promiscuità non gradita dai consiglieri, l’altra che la balconata prevista nel disegno del Dotti non era stata costruita. Quindi fino a questo momento il teatro è una semplice sala e forse anche più disadorna di quanto rappresentato nei disegni. L’uso della ringhiera, motivo di comodità e prestigio, è riservato ai componenti il Consiglio della Comunità, che rivendicavano di avere investito di proprio, oppure a ospiti importanti.  Questo diritto, la riserva della ringhiera, può in parte essere concesso ai gerenti pro tempore del teatro ed è ben evidenziato nei permessi, ma la sua concessione o meno creava non poco disaccordo. L’uso della ringhiera aumentava la capienza del locale e quindi l’incasso, quindi i concessionari cercavano ogni modo per limitare l’applicazione di questa riserva. In una minuta di una lettera ufficiale (non datata, ma riferibile alla prima metà del 1760) il Console e i Comunisti chiedono un intervento al Legato per risolvere un problema inerente alla gestione della ringhiera e del Teatro. Premesso che: si è stabilito di recitare alcune opere e commedie con intermezzi in musica nel teatro conceduto dalla Comunità, alla riserva della Ringhiera, a Fedele Gattia e comp. per il quale effetto è stato fatto dalla Comunità stessa diverse spese non leggiere, i fratelli Andrini, che capeggiano un diverso gruppo di filodrammatici e che sono molto critici sul riservare la ringhiera solo ai Comunisti, hanno con denari subornato Francesco Gardini uno dei recitanti che ha ricusato e tuttora ricusa di recitare. Inoltre hanno indotto Michele Contavalli a chiedere licenza per una festa da ballo in casa loro e ha convinto i suonatori ad andare a suonare alla festa da ballo invece che alle opere e commedie in teatro. Quindi questa Comunità umilmente chiede di: sostenere il pubblico invito fatto colli cartelloni affissi a questa commedia, appoggiata alla begnignissima licenza concessa dall’Em. vostra alla Comunità, e supplica perché, con la sua piena autorità, degnisi ordinare che il Gordini reciti e i suonatori suonino per gli spettacoli in cartellone. Sarebbe poi opportuno ritirare al Contavalli la licenza di ballo tanto più che non potrà detta festa esser composta che di plebaglia facile a suscitare risse e rumori. Suplicando inoltre di provvedere in guisa che detti Andrini desistano dall’insolentire contro il clero e convenienze dei Comunisti, che rappresentando corpo pubblico non dovrebbero essere soggetti alla villania degli altri.  Dalla lettera si capisce che i permessi per rappresentazioni in teatro e balli erano concessi dall’autorità centrale. in questo caso si suggerisce che forse non era stata particolarmente attenta se l’aveva concessa a plebaglia facile a suscitare risse e rumori. Per convincere poi l’interlocutore non guasta far intendere che gli Andrini sono chiaramente dei sovversivi. Il sig. Fedele Gattìa citato nella lettera risulterà altre volte presente nelle richieste di uso del teatro e  nel 1792  in una sua richiesta di contributo, elenca le sue benemerenze tra le quali  fa notare che la sua attività  è stata rivolta: a prestare qualche assistenza a que tali dilettanti acciochè fossero rappresentate le comedie con quella miglior proprietà possibile per satisfazione del pubblico.  In pratica ha gestito la regia.  Inoltre da oltre 40 anni ha allevato gioventù a suonare gli strumenti necessari, provvedendo a proprie spese, e Violone, Violonzello e anche de violini.   Da questi accenni risulta ci fosse un’attività abbastanza intensa di appassionati locali ad un buon livello e interesse nella cittadinanza all’insegnamento ed alla produzione della musica e dell’attività teatrale, anche se come al solito l’ente pubblico aveva le taschine strette. Per 15 anni non abbiamo documentazione o forse non abbiamo problemi interessanti. Il consiglio sembra non occuparsi all’attività del teatro e in questo caso forse nessuna notizia significa buona notizia. Abbiamo però, dai verbali del Consiglio una notizia curiosa che ci mostra come i giovani castellani non si interessassero solo di musica e rappresentazioni teatrali ma anche di “gioco del pallone”. infatti è scritto: Avendo il Sign. Capitano Graffi esposto la brama di vari giovani di questo Castello di avere un luogo destinato per giocare al pallone. Li Signori Consiglieri hanno determinato che detto gioco da Pallone, o sia piazza per il medesimo, facciasi nella fossa a mano dritta uscendo dal castello, incominciando dal cantone della casa di Sua Ecc.za Signor Senatore Malvasia, e proseguendo a linea diretta in di lui confine fino all’ala del torrione della Comunità che guarda il fiume Sillaro.     Il Cavazza ci da ulteriori dettagli a questo proposito infatti egli scrive che i giovani giocavano ogni sera in piazza ma furono inibiti dalli gesuiti, padroni delle case Morelli di prospetto, a motivo che il pallone infastidiva li inquilini di quello e per sostenere vieppiù il precetto, fecero configere nel muro, tanti rampi di ferro. (le case Morelli erano dove ora c’è il palazzo comunale).  La gioventù ricorse alla comunità che concesse il terreno a levante della torre che in breve fu adatato al gioco ed appianata la fossa ed una parte del terapieno fino al torazzo sul quale fu affissa una lapide in ricordo della messa in funzione di questa specie di Sferisterio castellano. Il gioco necessitava di avere da un lato del campo un muro su cui fare rimbalzare la palla, che fosse quello di una casa in piazza non era opportuno, gli inquilini giustamente si lamentavano. La soluzione trovata poteva usare come muro il tratto delle mura del castello tra il torrione est e la torre, come si vede ancora in cartoline dell’inizio 1900. Nel febbraio del 1765 sorge di nuovo per i consiglieri un problema importante. È quello dell’uso della Ringhiera che evidentemente ha continuato a creare problemi. La sua disponibilità al di là del suo aspetto di prestigio, ha soprattutto implicazioni economiche, come risulta da documentazione successiva, gli spettacoli sono spesso venali ossia a pagamento, una tenue ricognizione per ricavare le spese necessarie che ne abbisognano. Poter utilizzare la Ringhiera a pagamento incrementerebbe l’incasso. Questa volta si decide di intervenire in modo organico, dettagliato e definitivo, o almeno così si crede.  Infatti per dare riparo alli inconvenienti che succedono e che potrebbero succedere il Signor Console, e Consiglieri hanno determinato si osservino le seguenti disposizioni: Che tutta la Ringhiera, fatto coi denari de Comunisti resti perpetuamente a comodo e uso soltanto del sig. Console e consiglieri pro tempore e le loro famiglie della propria loro casa. Si precisa che non si intendono servitori o altri ma soltanto padri, madri, figli, fratelli, sorelle della medesima casa (…)  e non mai separati dalla famiglia dei Comunisti. Però capitando Cavalieri, Senatori essi potranno essere introdotti in detta Ringhiera da qualunque Consigliere. Comunque detto Teatro non si possi mai accordare ad alcuno se non con l’assenso ed approvazione della Comunità. Infine per dare qualche comodo alli recitanti o loro famiglie di sola propria casa, (…) viene accordato un pezzo di Ringhiera a mano manca sotto la finestra separato mediante rastello.   Però a quanto pare le tavole della legge appena scolpita non hanno passato la prova del carnevale dello stesso anno. La ringhiera non ha separazioni, a parte l’angolo per le famiglie dei recitanti, ed evidentemente ci sono state questioni forse proprio tra i Comunisti. Infatti nel giugno dello stesso anno il Consiglio avendo anche in mira gli inconvenienti accaduti nel passato Carnevale per la Ringhiera del Teatro nostro (…) hanno stabilito e decretato, per ovviare ad ulteriori inconvenienti, ridurre la Ringhiera in tanti palchi” da ripartirsi tra di loro secondo il consiglio del Signor Dotti pubblico Architetto.   Ma tra dire e il fare… quindi l’anno successivo (il 1766) il console Lorenzo Graffi per adimostrare l’animo grato verso questa comunità si è offerto di fare i palchi del suo proprio a beneficio pubblico. Al che il consiglio accetta.  Ma poi non se ne fa niente per l’ostilità di un altro consigliere di un certo peso. Per il Carnevale risultano varie richieste: il già noto Vincenzo Orsolini con altri 8 per fare comedie ed opere e Fedele Gattìa e altri 5 giovani per fare un’opera. Sicuramente la richiesta dell’Orsolini è accettata poiché esiste un atto di sottomissione nel quale si impegna che l’uso nostro di questo (teatro) non venghi in alcuna parte pregiudicato per nostra colpa, fraude o negligenza.  Inoltre detti Sig. Console e Consiglieri ci hanno permesso l’esigere dagli intervenienti al teatro, salva l’approvazione del Sign. Cardinale Legato, una tenue recognizione a condizione che le sole persone di essi Sig. Comunisti non paghino.    Nel 1767 di nuovo Fedele Gattìa richiede il Teatro facendo notare che gli è stato permesso di usarlo per le prove e quindi l’oratore vostro umilissimo a nome degli altri giovani suoi compagni supplica a vollerglielo concedere per questo prossimo carnevale. La rappresentazione sarà a pagamento per ricavare unicamente la spese necessarie che ne abbisognano. C’è una richiesta di Pier Francesco Andrini che per rappresentare e far rappresentare comedie offre per l’affitto 10 quattrini disposto ad aumentare se ci fossero proposte superiori.  Non risulta che la richiesta abbia avuto seguito. Sembra prefigurare l’ipotesi di un appaltatore che intenderebbe gestire il teatro, diverso dai filodrammatici del paese. La Ringhiera è stata trasformata in palchi, dei quali il centrale è, come in ogni teatro che si rispetti, il più prestigioso. Il teatro ora è molto richiesto e frequentato e forse anche per questo continuano a crescere gli sconcerti. A questi concorre anche l’aumento dell’affluenza e quindi si decide di utilizzare lo spazio sotto la ringhiera per suddividerlo in altri palchi. In una deliberazione datata 17 gennaio 1768, poiché ci sono memoriali di diversi paesani che chiedono il Teatro, onde per ovviare alli sconcerti scorsi. il Sig. Graffi si è offerto fare il ponte inferiore del suo a beneficio pubblico.   Il ponte inferiore è evidentemente a livello della platea, sotto quello della Ringhiera trasformata, che da ora in poi sarà il ponte superiore oggetto della riserva ai Comunisti o personalità varie. Nel giugno 1769 finalmente la comunità decide di eseguire la proposta Graffi: cioè di distribuire la ringhiera in tanti palchi (13) da assegnarsi alli consilieri secondo la loro anzianità ogni anno. Fu tosto ciò eseguito e fu la spesa di scudi settanta fatta dal capitano, da alcuni comunisti, che rinonciarono al loro onorario di Consolo allorchè sortivano dalla Borsa delli Consoli. In quella occasione oltre che rimettere a posto il teatro fu fatta avvanti il parapetto del palco di mezzo destinato al Consolo una descrizione in verso elegiaco. Si tratta della iscrizione di cui si è scritto in precedenza. In settembre arriva una richiesta da parte di una compagnia di musici che rappresentano al Teatro Felicini di Bologna un dramma giocoso in musica per 4 rappresentazioni nel nostro Teatro. Questa non è la solita compagnia infatti ha come protettore Sua Ecc. Reverendissima Monsignore Vicelegato Boncompagni che interverrà quivi a tutto. Forse anche perché si celebrerà un Triduo solenne dei Padri Cappuccini per la santificazione di due beati della loro religione. Quindi il consiglio ordina al depositario sig. Graffi che trovandosi il teatro senza alcun abelimento, ma rozzo, così si sia data una vernice dapertutto affinchè non disgusti l’occhio degli intervenienti in tale circostanza. Infine si riserva il palco di mezzo al conte Malvasia stante che il medesimo come cavaliere gentilissimo ha accordato che per questa volta solo si faccia un foro nel senario e si vada in di lui casa per comodo di questa recita.  La concessione del conte di fare un passaggio per andare nella sua proprietà, ad usare i locali forse per camerini degli artisti, ci indica che l’orientamento del teatro era col palcoscenico verso est. Questi locali, dopo il passaggio di proprietà saranno poi utilizzati per l’ingresso del nuovo teatro del 1830. In quest’anno 1769 si fanno diversi lavori di riverniciatura e di abelimento essendo l’ambiente rozzo. Questo potrebbe essere la conferma che nel primo periodo il Teatro non era particolarmente bello e non come appare dalle tavole del Dotti. Comunque in questa occasione furono pure spediti nelle città vicine gli avvisi instampa e intervennero oltre ai Sig. superiori le seguenti case nobili: Sig. conti Stella, Orsi, Isolani, Guastavillani, Buoi, Malvasia, Manzoni di Lugo, Tuzzoni di Imola, Zappi, Mazza e inoltre altre nobili famiglie di Bologna.  Quindi fu come una nuova inaugurazione. La compagnia di cui sopra arriva dalla città e sempre più spesso altre compagnie delle città vicine chiederanno l’uso del teatro. Nel 1770 arrivano teatranti da Imola ai quali viene accordato il teatro per quindici giorni, e piu’ se occorrerà. Negli anni successivi si susseguono giovani di questo Castello che chiedono il Teatro gratis per rappresentare nel corrente Carnevale tragedie ecc. con facoltà di esigere dagli intervenienti una tenue Recognizione. La concessione viene data salvo però ai Sig. Comunisti li palchi superiori e salvo il permesso del Cardinale Legato.  Per tutti gli anni 70 il teatro è richiesto dai giovani del Castello soprattutto per il periodo del carnevale, in cui sono organizzati anche balli, in altri periodi viene utilizzato per le prove di questi gruppi di filodrammatici. Nel l’ottobre del 1772 si concede il teatro per uno spettacolo di Saltatori di corda, una compagnia che chiameremmo ora di arte varia.

1779, l’anno del terremoto, la colonna della Madonna in piazza.

Il 1779 è l’anno del terremoto, tra giugno e il febbraio del 1780 avvengono nel bolognese 5 grosse scosse, di magnitudo attorno a 5, più altre di assestamento in numero di circa 150. Le prime due scosse hanno epicentro nella zona di Ozzano, le altre più vicine a Bologna. Così racconta il Cavazza:

 Adi primo giugno la notte alle quattro e un quarto (01.15 attuale ora solare) venendo verso li 2 giorno di mercoldì, si sentì una orenda scossa di tremuoto, poi diminuendosi dopo mezz’ora replicò piu’ forte, le genti perciò sortirono tutte di casa e corsero alle piazze del Castello, de’ Capuccini e del mercato de bovini, indi suonandosi all’arcipretale si andò alla chiesa, ove replicando il tremuoto fuggirono tutti alle piazze. Alle 5 (02.00) e 6 (03.00) replicò piu’ forte con spavento oribile, le genti gridavano misericordia ad alta voce. Poi fu posta l’Imagine del SS.mo Rosario all’altar maggiore, ove l’arciprete, spaventato, dopo breve svenimento, corse alla piazza a predicare. L’altre chiese erano tutte aperte e si suonava alla Lunga.  Nella piazza del mercato, fuori del castello, predicò D. Francesco Caldoreni spagnolo exgesuita, nell’Anunziata P. Pietro Galiardo exgesuita messicano. Questi ex gesuiti sono alcuni di quelli rimasti a Castello dopo che il Papa ha deciso nel 1773 di sciogliere la Compagnia di Gesù. Si scopersero le Imagini miracolose tutte del paese, cioè a S. Bartolomeo S. Nicola, a S. Francesco S. Antonio, all’Oratorio del SS.mo il S. Crocefisso, nell’Oratorio della SS.ma Anunziata l’Imagine del Cristo. Durò tutta la notte fino alle 9 (06.00) ove replicò ma con poco strepito. Caddero camini parecchi e rissentì tutta la casa dei Fiegna appresso S. Bartolomeo. La volta di S. Francesco sopra la porta si comosse. L’oratorio del SS.mo nel coro dalla parte dell’Epistola, cominciando dalla volta e sopra il fenestrone e calando fino al pavimento se le fece una picola rima (crepa), la faciata della chiesa de Capucini si scostò dal volto interiore, in somma pochissime furono le fabbriche che non patissero. Per fortuna, pur con tantissimo spavento nessuno, come scrive Cavazza, periclitò ancorchè picolo o vechio cadente. Sembrava il giorno del giudizio conle bestie che urlavano, il fragore del terramoto, lo strepito di genti e il suono di campane. La sera stessa si dissero le litanie de santi e preci al S. Crocefisso dalla Compagnia del SS.mo. Tutta la piazza e luoghi di campagna vicini, attorno il Castello e nel prato dietro li Capucini, erano coperti di case matte di legno e nella piazza med. si confessavano uomini e donne, tanto da capuccini in due confessionari fuori nella loro piazza, quanto da preti nella piazza del Castello.   Il Consiglio Comunitativo nella convinzione generale che la liberazione singolare ottenutasi in questo loco mercè l’intercessione di Madonna Santissima del Rosario dal grave terremoto occorso decise di prescierglierla per Istitutrice, ed unirla agli altri Santi protettori Pietro e Paolo Apostoli e San Bernardino da Siena. La congregazione dei Riti a Roma però non ammetteva più di un Santo protettore quindi il 30 agosto si decretò che fosse dichiarata protettrice singolare di questo loco Maria SS.ma, omettendo in silenzio li altri su acenati. Cioè Pietro e Paolo e S. Bernardino da Siena.   Il primo ottobre 1780, è pubblicato il decreto di elezione in singolar Protetrice di M. SS.ma in questo loco, vi fu aggiunta anco una perpetua indulgenza plenaria a catolici da N. S. Pio VI per la visita al di lei altare. In questo giorno si fecero soleni fuochi e processioni con infinito concorso di popolo. In questa circostanza fu pure coniata una medaglia con su scritto. Tu mater et patrona C.S.P.tri a teremoto salvasti 1779.  Ma la riconoscenza per lo scampato pericolo è tale che arriva un’ulteriore proposta dai Signori Graffi e Ronchi a nome di vari devoti della B. V. S.S. del Rosario, li quali si sono offerti di erigere alla med. una colonna alta piedi 30 circa con la di lei statua a tutta loro spesa in ossequio della liberazione avuta dal terremoto, ed avendo pensato che niun altro loco sia più opportuno che questo della nostra pubblica piazza, così fanno istanza a nome di tali devoti per avere il permesso di tale erezione. La Comunità approvò ponendo alcune condizioni:

 1) La Comunità non intende né vole sogiacere ad alcuna spesa.

2) Che per il piacere che ha di tale erezione di colonna aconsentirà che si levino li macigni sepolti nell’acqua, e trascurati in codesto fiume appresso il ponte del Sillaro. (Si tratta probabilmente di resti del ponte romano.)

 3) Che tale colonna si faccia con buon disegno di qualche architetto pubblico e che si addimostri in prima a cod. Consiglio per sua approvazione.  

Anche allora però la burocrazia non scherzava, tra richieste e permessi del Senato, concessioni del terreno, ricerca di finanziamenti solo il primo settembre 1784 giorno di mercordì si scoperse la statua di M. V. sopra la colonna nella pubblica piazza di questo Castello, che fu poi inverniciata di olio e fece un ottimo aspetto.

Rappresentazione dell’Italiana in Londra di Domenico Cimarosa.

All’inizio degli anni ’80 l’uso del teatro si estende anche all’estate. Giuseppe Castellari e compagni supplicano per avere il teatro fino alla solennità di tutti i Santi. Viene concesso fatto salvo il diritto della comunità di riavere il teatro nei giorni in cui non si faranno recite se capiteranno genti che volessero dare divertimenti al paese, ciò dovrà intendersi anche ad altri recitanti del paese che ne chiedessero il teatro nel quale dovranno farvisi alternativamente recite.  Da qui si rileva un uso, non solo più limitato al periodo del carnevale, ma anche alle possibili richieste e concessioni, a teatranti e spettacoli non prodotti nel paese soprattutto se la richiesta viene da nobili come nel luglio 1782 quando il Consiglio dà la concessione del teatro in seguito alla supplica di Antonio Marchesi e compagni, nobili bolognesi, e professori di musica in cui chiedono il nostro teatro, per l’imminente agosto. Il teatro viene concesso tutto gratis anco li ponti, a riserva del ponte di mezzo che si riserva.   In effetti si tratta di una produzione e uno spettacolo prestigioso. L’opera rappresentata è il dramma gioioso in musica: L’Italiana in Londra, di Domenico Cimarosa, celebre Maestro napoletano. La sua prima presentazione era stata fatta solo 3 anni prima al teatro Valle di Roma, nel 1780 è rappresentata prima al teatro Carignano a Torino quindi al Teatro la Scala a Milano. Successivamente in altre capitali europee. La scelta di Castel S. Pietro da parte di un gruppo di nobili amatori bolognesi è sicuramente dovuta alla indisponibilità al momento di teatri bolognesi. Il Cavazza allega al suo manoscritto la Cedola (la locandina) dello spettacolo che avviene in occasione del Passaggio de Forestieri per le fiere di Sinigaglia e di Lugo e dell’Apertura del nuovo teatro di Imola.  I cantanti sono la Sig.ra Maria Catenacci, romana, Sig. Francesco Cavalli, virtuoso di Camera di S. A. R. l’Infante Duca di Parma e altri con meno titolati. Conclude il Cavazza che: per tale opera vi concorsero la prima sera molti sig. forestieri quantunque il teatro picolo.  L’opera è stata in cartellone fino al 1° settembre. In questo periodo sono presenti nel paese diversi gruppi di teatranti. Questo a volte creerà dei problemi, per richieste che si sovrappongono soprattutto se per periodi lunghi. Quando nel dicembre 1784 c’è una richiesta per il prossimo carnevale, ma pure per la primavera e l’estate di due capocomici, diventa difficile poter accontentare entrambi alternandoli. Si deve scegliere, in questo caso si scelse chi aveva presentato prima la supplica, e quindi si decise di dare il teatro al medesimo (Alessandro Alvisi) salvo l’ordine di palchi superiore alla Comunità e che in compenso il sudetto Alvisi e compagni faccia fare quattro panche per li sedili del teatro.   Il concorrente (Giuseppe Castellari) otterrà il teatro l’anno successivo e pure lui dovrà fare quattro panche per la platea. Altre volte i capocomici si mettono d’accordo come nel carnevale del 1786 in cui Alessandro Alvisi e Antonio Ronquassaglia e suoi compagni di Castel San Pietro Oratori delle Sig. V. espongono essersi associati con Giuseppe Castellari per fare rappresentazioni nel presente Carnevale, perciò suplicano concedere il permesso di rappresentare alternativamente le loro commedie con la concessione di qualche palcho vacante.La richiesta è stata ovviamente accolta escluso l’uso dei palchi vacanti. Abbiamo di nuovo, anzi non è mai cessato, il problema di chi abbia diritto all’uso dei palchi. I Comunisti sono molto gelosi di questo privilegio, anche perché sono meno dei numerosi che ritengono di averne diritto. A complicare il problema c’è il fatto che l’accesso ai palchi si può fare solo con l’uso dell’apposita chiave. Evidentemente i palchi sono stati chiusi, non sappiamo come e quando, ma c’è una serratura da aprire. Allora succede che ci sono palchi lasciati vuoti soprattutto quando le chiavi sono in mano ad alcuni del nostro Ceto Comunicativo che sono spatriati, e abitano fuori di questo luogo, e in tempo di carnevale le chiavi dei palchi si concedono bene spesso a chi loro piace e pare, e passando da una mano all’altra vanno talora perdute, e tocca alla comunità rifarle. Li Consiglieri abitanti in Castello e Borgo abbisognando a volte di dette chiavi ed essendo in mano anco e bene spesso di gente vile non possono godere del bene della Comunità, e le genti vili che accedono al teatro e si servono di tali ponti, fanno disdoro alle famiglie più civili del paese. Era una situazione che si ritenne di dovere rimediare e quindi si assunse il provvedimento di ritirare le chiavi delle famiglie dei Comunisti che stanno fuori patria e consegnarle al Console, o di chi esso deputava, da non consegnarsi se non a chi esso crederà convenirsi.

Riapertura della porta e del passaggio sotto la torre.

All’inizio di questi anni 80’ si fanno due importanti interventi sul Cassero che ne cambieranno l’aspetto e l’uso. Uno è la chiusura della porta che dal 400’ portava entro al castello attraverso il ponte levatoio, che comunque ormai non c’era più, e l’altro la collocazione dell’orologio pubblico sulla torre. Per fare ciò è necessario avere la disponibilità della torre che da molti anni è di proprietà dei conti Malvasia. Dopo diversi contatti e incontri finalmente il 9 agosto 1780 viene stipulato il contratto di enfiteusi perpetua (affitto) tra la Comunità e il conte Malvasia per l’uso della torre e sue pertinenze. E’ la conclusione di una richiesta di 4 anni precedenti presentata essendo stato proposto da alcuni paesani l’apertura della porta antica del Castello sotto la torre, già da immemorabile tempo chiusa, e ciò affine di dirigere la strada del borgo con quella del Castello.  Ora però occorre fare i lavori, la soluzione è data dai signori Fabbri e Graffi che si sono offerti essi di fare lo sborso di scudi cento per l’effetto di detta apertura, a condizione però di rimborsarsi col godimento degli edifici, non solo enfiteutici, ma anco della porta vecchia che si dovrà chiudere. La disponibilità della torre fa nascere la proposta al Consiglio del Capitano Lorenzo Graffi che sarìa cosa assai buona collocarvi in essa l’orologio pubblico, e formarvi due mostre, una interna al castello e l’altra esterna verso il borgo, molto più perché il presente orologio trovasi in necessità di essere risarcito per essere guasto. Ma perché a tale spesa non può in tutto supplire la nostra Comunità è stata perciò proposta una tassa arbitraria al volere dei signori Comunisti, e a chiunque aderisca. (…) Ciò inteso tutti approvano, il console inizia col suo compenso di Lire 20 così gli altri Consiglieri.  Questa volta i lavori vengono fatti in fretta come troviamo scritto in un verbale consigliare: Memoria come il primo ottobre 1782 si levò la campana dell’orologio della piazza e fu trasportato nella torre sopra la porta. In questo giorno fu lasciato aperto il libero passaggio a tutti sotto la nova porta e chiuso e baricato l’altro. in fede Ercole Cavazza.  L’orologio pubblico dal 1754 era in piazza, sulla piccola torretta appositamente costruita sul fronte verso la piazza del palazzo della Comunità, tale torretta, attualmente ancora esistente, era chiamata in dialetto murgaien, italianizzato in morgaglino, traducibile in “piccolo moccolo” cioè quello che cola dal naso raffreddato di un bambino.  In precedenza era su una torretta aderente al lato nord della Parrocchia in angolo con la facciata. Nel gennaio dell’anno precedente era misteriosamente crollata, in concomitanza con lavori nella chiesa. Ne era nato un contenzioso con l’arciprete, ritenuto mandante del crollo e multato di 100 scudi, però la torretta non era stata ricostruita sul posto e si era dovuto trovare un’altra soluzione. Le richieste di rappresentazioni ed uso del teatro occupano non solo il Carnevale ma anche la restante parte dell’anno.  Dalle lettere di richiesta rimaste sappiamo anche il nome di altri nostri concittadini attivi teatranti oltre i già citati Alessandro Alvisi e Giuseppe Castellari. Questa è una richiesta dell’aprile 1785: Oratori umilissimi delle S.S. V.V. Ill.me, bramando di fare varie comiche rappresentazioni (…) così implorano dalle S.S. V.V. Ill.me il Beneplacito per tutto il mese di Maggio, Giugno, Luglio, che, memori di tal favore, saranno sempre ricordevoli della bontà delle S.S. V.V. Ill.me. Seguono 8 firme: Alvisi Alessandro, primo firmatario, altri due Alvisi, Lorenzo e Francesco, Roncovasalia Antonio, Amadesi Carlo, Dall’Oppio Rocco e Oppi Pietro. Contemporaneamente c’è la richiesta di un altro gruppo. Prima firmataria (se pur con una croce) una donna, Maria Inviti Castellari, poi altri tre Castellari, Marco, Pasquale e Giosuè quindi Dazzani, Oppi, Muzzi, Bizzi, Nepoti. Questi cognomi si ripetono in altre richieste mescolati con altri pochi nomi nuovi. Questi due gruppi sono chiaramente sorti su base famigliare, gli Alvisi e i Castellari. Cominciano a comparire i titoli delle rappresentazioni. Nell 1785. Giulio assassino, la Gratitudine, la Vendetta amorosa (Abate Pietro Chiari), l’Innocenza trionfante (Francesco Bartoli), il Vero amico (Carlo Goldoni). Successivamente il Disertore tedesco, Marianna e Felicore ossia i Sposi perseguitati (Andrea Willi), il Moliere (?), ancora il Vero Amico. La presenza del repertorio Goldoniano nel vicino teatro di Medicina data dal 1758, questa presenza nasce dall’interesse e dall’ammirazione del senatore Albergati, sostenitore del nuovo modo di fare commedia e “produttore” nella sua villa di spettacoli privati e fortemente influente nella programmazione del teatro pubblico medicinese. Intanto, gli uomini della Parrocchia di San Biagio del Poggio, sudditi ed oratori ossequiosissimi della Eminenza Vostra Reverendissima con tutto il profondo ossequio e venerazione, scrivono al Legato Cardinale Buoncompagni egli espongono che vogliono separarsi da Castel San Pietro. La richiesta ha otto firme e 35 croci di capifamiglia con l’attestazione del curato. La cosa non è una novità già nel 1732 c’era stata una uguale richiesta, che però era stata respinta dal Legato del momento. Ora, nel 1785, ci riprovano, le motivazioni sono quelle di non avere servizi corrispondenti ai contributi pagati, come ad esempio di dovere contribuire alle spese dell’orologio pubblico, che da Poggio non si poteva né vedere né sentire.La causa inizia a Bologna, tra alterni pareri e proposte di compromesso come accogliere due poggesi nel Consiglio. Castello rifiuta ritenendo che la nostra Comunità (..) pensa non doversi prestare ad alcun accordo poiché una volta che receda dai suoi diritti, scema li suoi privilegi, da stato alli avversari e fa campo a medesimi addimandare ed ottenere altro. Lo che, stanti le Bolle, Senati Consulti, Giudicati e Ragioni che l’assistano, non può prestarsi poiché: “melius est intacta jura servare, quam post vulneratam causam remedium querere”.  Le ragioni di questa intransigenza si può giustificare se si considera che l’area di Poggio rappresenta la gran parte della terra coltivabile del comune e certamente quella più fertile.  Nel 1732 la richiesta era stata stimolata dai grandi proprietari della zona, come il Marchese Hercolani. Questa ispirazione è sicuramente presente anche ora tenuto conto delle spese necessarie per il sostegno di una tale causa.  Causa che giungerà nel 1792 a Roma ad una Sacra Congregazione Particolare composta da cinque Cardinali, avente il compito di decidere: se sia il caso che si debba far luogo alla separazione ossia dismembrazione della Villa di Poggio dall’Oppido di Castel San Pietro. La causa si prolunga fino al 1796 con compromessi e ricorsi. L’ultima carta è del 25 giugno nella quale Giovanni Celestini, avvocato della Comunità di Castello, dando da Roma conto di avere ricevuto un documento riguardante la causa contro Poggio, aggiunge: ma la presente situazione di questa Provincia sospende il caso di questo affare e chi sa in qual’altro tribunale si continuerà. La presente situazione di questa Provincia è il fatto che cinque giorni prima l’esercito rivoluzionario francese era entrato a Bologna. Il 1790 inizia con i problemi causati dall’uso del teatro per le rappresentazioni e le relative prove e l’uso della sala per le feste da ballo (i veglioni) per il periodo del Carnevale. A quanto pare il problema non era irrilevante se ci fu addirittura un intervento del Cardinale che attraverso il suo Cancelliere scrisse al console: Le dissenzioni che sono state rappresentate al Em. e Rev. Sig. Cardinale Legato essere insorte in codesto castello, a motivo delle commedie e feste di Ballo che si sarebbero volute fare negli stessi giorni e che sua Em. ha creduto di non voler permettere contemporanee, hanno dato motivo all’istessa Em. Sua, affine di togliere di mezzo qualunque dissapore, di fissare le serate tanto per le recite quanto per il ballo, tenendo conto dei giorni additati, si per parte di codesti associati per le feste da ballo, che per la parte dei comici. Segue il calendario con le date e l’utilizzo della sala, Ballo o Commedia. Intanto i richiedenti la sala cominciano a far notare manchevolezze. Scrive L’Alvisi: trovasi il nostro teatro privo di un telone di prospetto, dello stanghellino per li lumi ed altre cose necessarie e di riattamento della scala ancora. Negli anni successivi altre criticità saranno evidenziate, il teatro comincia a mostrare sia l’usura sia l’inadeguatezza strutturale. Le rappresentazioni sono spesso accompagnate dalla musica, quindi servivano musicisti come pure per le feste da ballo. Non risulta però che ci sia un impegno della Comunità nel campo dell’insegnamento musicale. Solo nel 1792 risulta un impegno annuo di 50 Lire ad un sig. Luigi Borelli definito organista che insegni la musica, e massime il canto. La notizia ci arriva per vie traverse da una supplica di Fedele Gattìa, che è presente nelle vicende del teatro dai primi anni 50, che ricorda la sua opera in teatro ogni sera provvedendo anche ai lumi ecc. inoltre prestando assistenza ai dilettanti acciochè fossero rappresentate le commedie con quella miglior proprietà possibile per satisfazione del pubblico. Quindi fece il regista e il factotum. Ma soprattutto non ha mai tralasciato di mantenere, anche con poco lucro, da 40 anni a questa parte, di allevare gioventù a suonare gli strumenti necessari, provvedendo a proprie spese, e Violone, e Violonzello, ed anche dei Violini per facilitare il modo la musica esistesse con qualche decoro sempre in Paese. La sua speranza di avere un contributo almeno pari a quello del Borelli non fu soddisfatta. La Comunità gli assegnò 10 lire, non si sa se annue o una tantum. Al di fuori del Castello e del Borgo, nel restante mondo intanto sono successe varie cose. Nel 1789 in Francia è avvenuta la Rivoluzione, poi nel 1793 la decapitazione del re Luigi XVI. Ma soprattutto nel 1796 sta arrivando l’esercito francese comandato da Napoleone.

1796, arrivano Napoleone e le idee giacobine.

Il 1796 inizia a Castello con altri pensieri. Si festeggia perché dopo essere stati alquanti anni senza carnevale e bagordare fu concessa la maschera. Si fecero perciò mascherate pel Castello e Borgo con legni e cavalli, feste da ballo e rappresentazioni in teatro. Si pensa pure ad un nuovo teatro perché il teatro moderno (…) era angusto, quindi fu proposto di farne uno di pianta novo.  Tre sono le soluzioni proposte. La prima di utilizzare un non meglio precisato abitato ove hanno presentemente ressidenza le guardie della Ferma generale di Bologna.  La seconda di usare le case di proprietà Cavazza a ponente del Cassero dietro le mura del castello. La terza di usare il torrazzo est nell’angolo inferiore del Castello. Questo progetto sostenuto dal Console protempore Trochi non fu plaudito (…) Sopra li altri due progetti fu fatto il dissegno dal perito Vittorio Conti. Sinora niuno si effettua per difetto di danaro e vegliano per il paese due partiti.  Chiaramente il teatro si sta mostrando sempre più inadeguato ai bisogni ed alle necessità dei Castellani. Intanto dopo tanti anni si ha di nuovo il passaggio di truppe. In questo caso della coalizione antifrancese, come nell’aprile in cui il Senatore Bentivoglio, Assunto di Milizia, ha riferito al Consiglio il passaggio di truppe siciliane (del regno di Napoli) per questo paese , e fa bisogno di preparare gli alloggi e tutto il bisognevole per Consiglieri  di prestarsi a tale alloggiamento, e nel Consiglio è stata fatta una nota di supelletili che saranno dai consiglieri somministrate.  Comunque non tutto fila liscio e si arriva allo scontro col Senatore che evidentemente non è soddisfatto del servizio. Al che il Console Cavazza e i Consiglieri preparano un memoriale da inviare al Legato nel quale si dolgono che dopo aver servito in tutto che hanno potuto il Sen. Bentivoglio per il buon servizio delle truppe napolitane sino al segno di essersi privati del comando dei propri letti, biancheria ed utensili di casa, ne hanno riscosso pubblicamente contumelie e strapazzi. Ormai però i francesi dilagano, il 18 giugno arrivano a Bologna le avanguardie, il 20 arriva Napoleone che annullando il potere legatizio, promette di ripristinare i poteri precedenti del Senato. Le comunità del Contado sono chiamate a prestare Giuramento di Fedeltà, il 24 anche Castello manda suoi delegati a Bologna a prestare alle Signorie Vostre Illustrissime il detto Giuramento. Il formalismo della corrispondenza burocratica ed amministrativa non è ancora cambiato. Ora le truppe che passano sono francesi, ma i problemi non cambiano, il Console si lamenta che giornalmente passano truppe francesi in drappelli, in stacamenti, e brigate parte fanteria, parte cavalleria (…) tutti vogliono pane, vino ed anco vetture. Finora il fornaio ed altri hanno somministrato l’occorrente, ma in appresso ricusano di prestarsi, dicendo che non possono ulteriormente aspettare il pagamento della roba data. L’atteggiamento dei Comunisti nei confronti delle nuove autorità è cauto, in teoria il Senato bolognese sembra essere tornato all’antica autonomia, ma lo spirito rivoluzionario e laico degli occupanti scuote usanze, certezze, formalità. Qualcuno vede comunque con favore le novità, che permettono di scuotere un po’ lo statu quo e ricavarne vantaggio. Chi invece non ne ricaverà alcun vantaggio sono i ceti popolari urbani e delle campagne. Ai primi di luglio c’è la rivolta di Lugo, contro le prepotenze dei soldati e la successiva dura repressione. Il malcontento però è più generale per cui il Senato notifica alle comunità del contado che qualora accadesse di presentarsi in questa vostra comunità alcuna delle persone state in insurrezione in Lugo o in altri luoghi della Romagna, specialmente poi se armati, o attruppati, non soltanto dobbiate senza indugio darne tosto avviso a questa Città (…) e, dobbiate efficacemente opporvi a qualunque unione delli abitanti in codeste parti, che venisse da costoro richiesto. È questo l’inizio del fenomeno degli “insorgenti” che continuerà periodicamente nelle campagne. Intanto i francesi portano anche altre novità, all’inizio di ottobre il consiglio decide di voler ridurre il nostro orologio pubblico all’uso della Francia. Infatti gli orologi pubblici funzionavano con l’ora italica. Il giorno era sì diviso in 24 ore, ma l’ora 24-esima, fine del giorno, non era la metà della notte (12 ore dopo il mezzogiorno, momento quando il sole è allo zenit) ma il tramonto. Sottraendo a 24 le ore indicate dall’orologio si ottenevano le ore ancora di luce prima del tramonto, che era l’informazione fondamentale per scandire le attività umane di una società agricola.  L’inconveniente maggiore era che l’ora del tramonto non è costante nel corso dell’anno e quindi l’orologio richiedeva continui aggiustamenti.  Per l’orologio pubblico c’era un addetto, l’orologiere, con compito anche di campanaro per la campana della Comunità. Una denominazione popolare dell’orologio era giustamente al presapôc, il pressapoco. La modifica all’orologio sulla torre richiede comunque l’intervento di un tecnico e infatti ci sono due proposte una del prof.Toldi ingegnere pubblico di Bologna e l’altra di Giuseppe Rivatoi orologiere svizero. Per un po’, nella fase di transizione, si usano entrambi i modi. In una convocazione consigliare del maggio 1797 si scrive: volersi trovare radunati nella sala del Consiglio alle ore 6 pomeridiane, o sia alle ore 22 italiane. Tra un poco si dovrà cambiare anche il calendario con l’introduzione di quello rivoluzionario francese, intanto però nell’ottobre 1796  viene notificato al Consiglio che tutti i titolo della dignità, e distinzioni sono abboliti e che il titolo di signore non si debba più usare attesa che deve essere uguale a tutti, perciò da ora in avanti quando si scriveranno lettere si userà il titolo di Cittadino.  Questa decisione incontrò l’approvazione del nostro Cavazza che commentò: Ed invero era una enormità che la nobiltà del sangue dovesse anco trasfondersi nei discendenti ancorchè reprobi ed ignoranti, quando che questa debba essere propria di chi se la produce e guadagna. Si può giustamente dire con Ovidio: Non census, nec nomen avorum /sed probitas magnos ingeniumque  facit. Questa notifica introduce l’ideologia egualitaria della rivoluzione francese, ma non provoca grossi problemi nella vita dei castellani. Cambiò molto nelle formalità della corrispondenza e nel rispetto formale delle gerarchie.  Nella richiesta di uso del Teatro indirizzata al Console della Comunità, uno con cui magari si giocava la sera nell’osteria, ci si rivolgeva con la formula SS. VV. Illustrissima, ripetuta diverse volte. Chi chiedeva era il petente o l’oratore, cioè colui che prega, dal latino orantes. Inoltre non chiedeva, supplicava e spesso, umilissimamente, bramava. Se poi si sale nella gerarchia allora gli Eccelentissimi, Eminentissimi, Reverendissimi abbondavano come pure le invocazioni a Dio, SS. Maria e Santi vari e baci alla Porpora, all’anello ecc. L’argomento della lettera è spesso affogato in mezzo a queste ripetute formule di rispetto. Forse per qualcuno è stata una liberazione per altri qualcosa di impensabile da non c’è più religione, e in effetti la religione e i religiosi qualche problema l’avranno. Il teatro in questo periodo deve essere stato l’ultima delle preoccupazioni del Consiglio, una richiesta della fine di ottobre viene rimandata perché manca il numero legale. Questa era probabilmente una scusa per non decidere. D’altra parte poco prima il Consiglio aveva dovuto difendersi dai rilievi della Giunta Criminale di Bologna che supone che si facino nel Paese discorsi sopra il governo presente male a proposito. La difesa del Consiglio è che: niuno certo di questo Consiglio ha inteso discorsi che meritassero di essere denunziati e che andassero contrario al governo ed alla libertà, e molto meno sappiamo che siano stati fatti complotti. Il nostro Consiglio starà con tutta l’attenzione e non mancherà di dare parte a codesto Tribunale se sentirà discorsi dissonanti contrari al buon ordine, alla tranquillità ed alla libertà. Si avverte per altro che nelle bettole se accadono per effetto del vino bevuto discorsi malo a proposito, noi non possiamo essere notiziati, non frequentando questi luoghi.   E’ da notare però che il consiglio è composto ancora dai consiglieri del vecchio regime, che per il momento non sono stati ancora cambiati, non a caso per due volte si usa il termine libertà come fosse una parola estranea al lessico del Consiglio alla quale però i francesi occupanti e i loro seguaci, chissà perché, tengono tanto e quindi da usare spesso per accontentarli. Intanto a Bologna si lavora per fondare la Repubblica di Bologna e si elabora la sua Carta Costituzionale da fare approvare democraticamente dalla popolazione.  A questo scopo si convocano nelle parrocchie, che avevano l’anagrafe della popolazione, le riunioni (i comizi) per eleggere i Decurioni, cioè un cittadino ogni dieci. Gli eletti eleggeranno, nei comizi decurionali, loro rappresentanti che saranno chiamati ad esprimersi sulla proposta di Carta Costituzionale. A Castello questa consultazione provocò contrasti soprattutto con l’Arciprete Calistri, sull’uso dei registri degli iscritti alla parrocchia e sull’ufficio elettorale, con accuse di irregolarità. Comunque il 4 dicembre in San Petronio a Bologna viene democraticamente approvata questa Costituzione che è la prima costituzione approvata da rappresentanti eletti dai cittadini in Italia. Ma ritorniamo al teatro. Era stata presentata una richiesta e, non avendo ricevuto risposta, Alessandro Alvisi, Antonio Roncasaglia e suoi compagni, Oranti umilissimi di voi Cittadini Consiglieri, suplicanti dimandano il teatro per il venturo Carnevale per fare varie comiche rappresentazioni. Le SS. VV. Ill.me ora sono diventati Cittadini Consiglieri ma ancora ci si rivolge loro con le vecchie formule.  Questi rispondono prendendo tempo e che non accadendo impedimenti e rimanendo le cose nello stato presente si accorderà il teatro a tempo debito, comunque con la solita riserva sui palchi superiori, a cui chiaramente non si intende rinunciare.  In una riunione del 9 gennaio 1797 la richiesta viene esaminata. Peròil consigliere cittadino Francesco Conti riclama dicendo che prima che si deliberi intende che sia visitato il teatro, perché crede che sia pericoloso alle persone (…) e perciò non vole esso essere responsabile se accadono disgrazie. Perciò il Consiglio decide che: per ragioni note alla Comunità non si accorda il Teatro. Considerando evidente la pretestuosità del rifiuto, i richiedenti scrivono al Senato Bolognese che: dopo d’aver rappresentate le loro suppliche al Console, e consiglieri affine di avere il teatro e quei palchi vacanti dei cittadini che non abitano nel castello, ed avendo li supplicanti avuto una negativa sì dei palchi, che del teatro,  ricorrono a voi cittadini senatori acciò concediate loro il  detto teatro, e palchi richiesti per quindi divertire lecitamente se stessi ed il popolo.  Il Senato chiede subito chiarimenti al Consiglio della Comunità Castellana. La risposta è lunga ed articolata ed illustra i vari motivi del rifiuto: il teatro era pericoloso non solo per la sua angustia, ma anco per la strettezza e troppa ripidità della scala, cosichè succedendo o incendio o rissa, (…) per cui abbisognasse uscire in fretta dal teatro, questo non potrebbe effetuarsi se non con pircipizio di tutti gli intervenuti. Inoltre ci sono gravi problemi di ordine pubblico infatti: il paese non ha persone che vigilino al teatro, e questi paesani sono animosi in guisa che di notte tempo si sentono spesso archibugiate, non si raccontano li omicidi ultimamente accaduti, il ferimento di una guardia civica di Bologna e la schioppettata scaricata contro il cittadino Riario. Si conclude così: Voi cittadini Senatori potete, se così vi piace mandare persona che visiti il teatro per rilevare la verità del nostro esposto. A noi basta avervi fatti consapevoli dei pericoli che potrebbero accadere (…) pregandovi a non essere redarguiti, né ripprenderci, se negli anni scorsi siamo stati troppo indulgenti, poiché sempre ci sono stati proposti progetti di formare un nuovo teatro. I Consiglieri, come detto in precedenza, sono ancora quelli dell’ancien régime, nominati e non eletti, però il loro gioco dello scarica barile trova un Senato in cui è cambiata l’aria. Il Senato manda a fare un sopraluogo Giovanni Bassani pubblico architetto e accademico Clementino, che così riferisce. questo è in istato di perfetta validità in tutto e per tutto. Ho veduto incrinata la volta sopra il teatro che è di arella, ma tali crinature vengono per motivo che resta armata coi legni del tetto, ma non è per questo in stato di alcun pericolo. le scale sono di legno larghe S. 23 (spanne?) con parapetti di legno, le medesime sono qualche poco ripide, ma da 12 anni si trovano in detto stato, solamente è necessario rimettere due assi in un tarbadello di detta scala trovandosi questo alquanto debole. In seguito a tale responso il Senato è ben lieto di concedere il Teatro ai giovani richiedenti imponendolo al Consiglio della Comunità. Questi però non vuol subir tacendo e quindi il giorno dopo la comunicazione del Bassani, e prima dell’arrivo del permesso del Senato, verbalizza nelle carte del Consiglio che: si fece rilevare la ristrettezza del medesimo, l’angustia dei corridoi contigui ai palchi, ed altresì la angustia delle scale, la loro troppo ripida e pericolosa collocazione, alle quali cose il Bassani rispose che tutti li teatri erano pericolosi. Se questa sia una risposta adeguata giudicate voi cittadini Senatori, cui spetta deliberare. Solamente vi facciamo riflettere che il defunto Card. Boncompagni essendo in questo paese, pregato di intervenire ad una comica rappresentazione, nell’affacciarsi alla prima scala, che è la meno pericolosa, al semplice vederla se ne ritornò addietro dicendo che egli non saliva per quella scala. Questo sia detto per unica vostra instruzione poiché siamo indifferenti alle vostre determinazioni. Basta a noi avervi prevenuto, di ciò che può accadere. Quello che ci sta a cuore si è la Quiete, e buon ordine del Teatro, mentre dalla ciurmaglia si sono intesi a questa jattanza di voler entrare liberamente nei palchi giacchè presentemente regna la eguaglianza. Tanto vi serva di lume e di nostro scarico.  Il nuovo clima politico e culturale non è molto apprezzato dal vecchio ceto dirigente, perciò ora si rivolgono ai Senatori, i Superiori, con una mancanza di rispetto e una durezza non concepibile solo 6 mesi prima. Comunicano che sono indifferenti alle vostre determinazioni, e che dato che ora regna la eguaglianza vince la jattanza della ciurmaglia. Il permesso del Senato comunque fa salvi i diritti che in caso di simili concessioni e per consuetudine possono ad esse competere, (quindi niente palchi) e rende responsabile l’unione dei giovani richiedenti di quanto potesse accadere contro il buon ordine e la quiete pubblica ed incaricando la Comunità a vegliare. Subito, prendendo alla lettera l’incarico il Consiglio nominò i colleghi cittadini Conti e Bertuzzi a invigilare sopra la quiete degli intervenienti al Teatro, ed accadenti inconvenienti darne relazione al Tribunale.  Questa procedura non era mai stata instaurata in precedenza. I problemi del teatro tuttavia sono reali, negli anni successivi saranno alla base delle numerose richieste per rinnovare Il Teatro. Se la presenza francese e l’attivismo del giacobinismo bolognese avevano risolto i problemi dei filodrammatici castellani, però la stessa situazione politica stava creando ben altri problemi.

La chiusura dei conventi.

Il 27 dicembre 1796 il Senato Bolognese, seguendo l’esempio francese, decreta l’abolizione di tutti i monasteri con meno di 15 componenti bolognesi e l’espulsione dei religiosi forestieri. A Castello i monasteri erano presenti da tempo immemorabile, gli Agostiniani dal 1358 con la chiesa di S. Bartolomeo, i Minori Osservanti dal 1525 col convento di S. Francesco e i Cappuccini dal 1629 con la loro chiesa e convento tuttora esistente. Stante alle regole del decreto non se ne sarebbe salvato nessuno. Il primo gennaio 1797 il popolo del Castello e del Borgo si presenta alla porta della residenza comunale tumultuando, con ogni sorta di persone, vechi, giovani, ragazzi, artisti, e populari, i quali hanno attraversato le porte, e gridano ad alta voce: non vogliamo che si opprimano le nostre Religioni! vogliamo li nostri frati! Il popolo comanda! Se voi Cittadini Rappresentanti non ci darete mano presso il Senato noi lo faremo! Il consiglio accetta di ascoltare una delegazione. La richiesta principale è che il Consiglio intervenga attivamente presso il Senato per impedire la chiusura dei Conventi. Il consiglio prepara una lettera, facendo proprie le richieste popolari, che però non viene spedita. Una nota al verbale della seduta consigliare firmata Ercole Cavazza porta scritto: notasi come il Ricorso che dovevasi presentare al Senato è stato dal Cittadino Proconsole Conti sospeso per ragioni e cause moventi il di lui animo e ciò fino a nuovo ordine.  Il di lui animo è evidentemente più giacobino degli altri colleghi. Questa frenata è il sintomo di divisioni nell’ambito del consiglio tra chi si oppone alla deriva giacobina delle autorità bolognesi e chi invece preferisce più cautela, per timore o per simpatia per le nuove idee. Il 23 gennaio arriva in Consiglio una supplica regolarmente sottoscritta da 156 cittadini e da 192 famiglie, che a questo punto il consiglio fa propria e invia all’Eminentissimo e Reverendissimo Principe Cardinale Arcivescovo (il legato non c’è più) e al Cittadino Senato. Nella supplica si fa riferimento alle difficoltà che si creerebbero per la gestione dei sacramenti, infatti resterebbero presenti solo 3 preti confessori dei quali uno è volontario e gli altri due sonol’Arciprete e il suo cappellano, che si deve curare anche degli ammalati poveri. Inoltre è noto di quanta estensione sia codesta si vasta parrocchia. quindi se non ci fosse il sussidio di 11 e più Confratelli regolari, (…) ben vedete quanti andrebbero a perire senza l’assistenza di verun confessore. Ramentatevi ancora che queste Religioni (compagnie religiose) sono l’aiuto, e il forte braccio di circonvici parochi onde la loro privazione è non solo nociva a noi, ma anco alle comunità vicine. Ma c’è anche un altro problema che interessa i Castellani soprattutto i più poveri, la funzione di sussistenza che nei frequenti periodi di crisi economiche ed alimentari potevano rappresentare i conventi. Questo aspetto è appena accennato ma, se pur si punta sul sentimento religioso della popolazione ancora fortissimo, minimamente intaccato delle nuove idee rivoluzionarie, i problemi di sussistenza delle classi più povere sono gravi, il territorio è percorso dalla guerra e dalle truppe, con il blocco delle attività economiche e il sequestro di derrate. La supplica poi utilizza la diplomazia e una immaginifica retorica: Non ci siamo opposti né coi fatti, né con parole alle requizizioni degli argenti, e delle sacre suppellettili, di cui ne sono rimasti spogliati li nostri Sacrari, e né tampoco alle contribuzioni pecuniarie.  Si è prestata tutta la obedienza perché non si è toccata la Religione. Ma l’abolizione delli tre nostri conventi, è troppo a noi sensibile perché tolti li operai dalla Vigna del Signore, ecco in dispersione  la Vigna stessa, della quale essendo noi sarmenti e piante fortunate, a tutto costo vogliamo conservare florida, ed illesa per tramandarla così alla nostra posterità, avendola in tale stato ricevuta da nostri antenati, e perciò ci affidiamo al vostro zelo, all’amore della Religione, ed al Bene della Patria che sono li maggiori Diritti del Uomo per conservarlo. All’inizio del 1797 passano, e devono essere alloggiate e rifocillate, le truppe francesi che stanno invadendo la restante parte dello stato Pontificio, la Romagna e le Marche. Nel Consiglio del 9 febbraio 1797 il Console espone essere pervenuti dispacci militari datati 20 e 21 piovoso che è il giorno d’oggi secondo le calende francesi. La conversione dal calendario francese a quello gregoriano presenta ancora qualche difficoltà per cui c’era una coesistenza, forse involontaria tra i due sistemi, ma non è questo il problema maggiore infatti il dispaccio invita questa municipalità fare le provvisioni di pane, vino carne, fieno, biada per le truppe che devono cominciare sfilare domani giorno 10 febbraio, cioè un reggimento di cavalleria, ed una mezza brigata di pedoni. Ciò consideratoil Console: avendo esposto li continui pericoli che si sovrastano nella persona a causa delle passeggere soldatesche, quindi essere egli in caso di abdicarsi dall’officio di Console.  Evidentementela responsabilità di far fronte alle pretese della soldataglia non era esente da pericoli. A questi problemi si aggiungela complicazione delle difficoltà linguistiche quindiservirebbe un interpreteperciò: Il Consiglio avuto riflesso della verità dell’esposto, si è considerato per la di lui salvezza e comune anche a tutto il resto della Municipalità, si debba scrivere alla assunteria degli alloggi per avere quivi sollecitamente persona la quale intenda la lingua francese e parli in qualche modo il linguaggio italiano.  Intanto l’uso del teatro durante il Carnevale non ha creato i problemi che i Comunisti avevano forse sperato. Infatti il teatro accolse, con l’accompagnamento di alcuni consiglieri, il napolitano Principe D’Assia, come risulta dalla richiesta di Giuseppe Oppi che comunque intanto non avendo avuto dalla Comunità alcuna recognizione per le sue fatiche così brama una qualche gratificazione. Gratificazione concessa. Alla fine di marzo c’è una richiesta per l’uso del Teatro per la prossima primavera. Viene concesso al solito gratis salvo l’ordine superiore de palchi a favore delli Consiglieri. Consiglieri che essendo ormai scaduti rinunciano ai palchi quantunque questi fossero stati fatti a spese particolari delli padri di alquanti individui sud. cioè: Cavazza, Conti, Ronchi, Mondini, Bertuzzi e Fabbri, né addimandarono alcun compenso alla nova Municipalità.  Nel frattempo la situazione istituzionale non è stata ferma. Nel gennaio 1797 si sono riuniti a Reggio Emilia le rappresentanze di Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia. Nasce la Repubblica Cispadana con capitale Bologna e bandiera tricolore, alla francese, ma col verde al posto del turchino, che poi sarà la bandiera del risorgimento e dell’Italia unita. In maggio c’è la tradizionale cerimonia per la visita a Castello della Madonna di Poggio. La Municipalità aveva sempre partecipato solennemente ed ufficialmente alle funzioni, all’arrivo ed alla partenza della Santa Immagine, ora però al “proconsole interinale (…) nasce il dubbio se si possa continuare, o no questa S. Funzione stante la Mutazione di Governo.   La risposta dall’autorità superiore è positiva. In seguito arriveranno norme proibitive per le cerimonie religiose. Ci sono però ancora altri residui del vecchio regime per i quali intervenire con la damnatio memoriae. Sono rappresentati dagli stemmi sia sulla carta intestata che sugli edifici. Infatti dall’Assunteria dei Magistrati si scrive: lo Stemma che adoperate a segnare i vostri dispacci, rappresenta il Gonfalone, e due chiavi, emblemi troppo relativi al passato governo. Noi incarichiamo il colega Barbazzi d’assistere affinché essi siano immediatamente cangiati, e potete supplirvi anco colle sole parole: Comunità o Municipalità di C S. P. Questa vi serva d’avviso. Salute e fraternità. Più difficile ed alla fine più drammatico fu togliere lo stemma dall’edificio della Comunità. Stante i sentimenti degli attuali consiglieri già si mormora in paese sulla loro riluttanza e quindi: Per ismentir poi le imposture, e calunie date alli Individui del nostro Consilio anco rapporto all’abbassamento delle armi, e stemmi gentilizi l’altro ieri, il Consilio a vista del Popolo ha ordinato che lo stemma gentilizio di questa Comunità rappresentanti due chiavi, ed il gonfalone sopra, che è l’arma di Santa Chiesa, sia in questo momento levato. Lo stemma era applicato sulla facciata della torretta  dell’orologio verso la piazza e quindi la sua rimozione risultava più laboriosa della sostituzione della carta intestata e infatti nel mentre che ciò eseguivasi dal nostro muratore, sopra una scala poggiata alla Torre di questo picolo oriolo nella piazza congiunta a questa residenza, si è franto uno scalino in altezza di piedi 20 (m.7,60) ed è precipitato il muratore Vincenzo Parazza, ed in termine di tre ore ha finito li suoi giorni, senza punto potere levare tale stemma, che serviva anco di Corona alla Immacolata nella nicchia della piccola Torre sotto d. Orologio.  Tale stemma fu poi tolto successivamente in modo più discreto. Tutto ciò fece crescere le divisioni tra i castellani, tra chi considerava i consiglieri o troppo succubi o non troppo fedeli al nuovo ordine, senza tener conto di chi riteneva l’incidente una chiara espressione della volontà divina. I Consiglieri cercarono comunque di mostrare la loro buona fede e la loro volontà di accettare gli usi francesi e in una lettera (una sorta di captatio benevolentiae) del 24 maggio 1797 scrivono: la nostra Comunità poi essendo stata posta in malafede presso il Senato di essere essa di partito papalino, e tedesco nelle correnti Circostanze di mutazioni di Governo senza aver dato alcun segno esteriore contro la Francese nazione, perciò ad oggetto di smentire la cattiva opinione e per eludere le accuse delli spiriti torbidi, il Consiglio quantunque sappia essere snervato di pecunio, è venuto in sentimento di porre l’orologio maggiore di questo Castello all’uso francese.   In aprile erano avvenuti i comizi decurionali nella chiesa della compagnia soppressa di S. Caterina per la elezione dei nuovi municipalisti e del giudice di pace. Nessuno dei precedenti componenti è stato ovviamente confermato 

Nuova Comunità. L’albero della Libertà in piazza.

Il 2 giugno 1797 c’è il solenne insediamento della nuova Comunità. Si passano le consegne, le chiavi degli archivi, i sigilli ecc. alla presenza del vecchio Consiglio, che deve comunque compiere un’ultima formalità in ossequio ad una lettera del Generale francese Dalamagne che imponeva, nel dialetto francese, a questa Municipalità l’innalzamento dell’Albero della Libertà. La vecchia Municipalità così risponde: Cittadino Generale intendiamo li vostri ordini. Se ne darà pronta esecuzione. Si è cominciato il travaglio intorno all’arbore divisato della Libertà. Ciò che non si potrà dalla vecchia Comunità proseguire, sarà compiuto dalla nova municipalità, siavi di notizia e riscontro alla Vostra. Il verbale della seduta, firmato da Ercole Cavazza, termina così: Doppo tali cose, si sono messi in libertà li consiglieri, ricevuti li debiti onori, e complimenti de novi Municipalisti, ed è terminato il Governo Aristocratico di questa nazione. Il passaggio di consegna avvenne educatamente ma fu chiaramente messo a verbale e quindi consegnato ai posteri, che era finito purtroppo per Castello il Governo Aristocratico, cioè, per il nostro Cavazza, il governo degli uomini probi, saggi e capaci. Il sottinteso è che ora sarebbero stati cavoli vostri. Il nuovo Consiglio rappresentava non solo il Castello e Borgo ma anche le attuali frazioni ed Ozzano di Sopra. Il 18 giugno la nuova Municipalità espone un avviso, scritto a mano, in cui annuncia che: Inalzandosi dimane 19 nella Pubblica Piazza di questo Castello l’Albero della Libertà, in contrasegno di gioia, oltre che altre dimostrazioni che si daranno, la Municipalità ha destinato di dispensare quattro doti di S. 150 l’una a beneficio di quattro zitelle del ceto Indigente. Seguiva il dettaglio della procedura per l’estrazione dei nomi e terminava con l’appello: Cittadini dimani corre l’anniversario della vostra ricuperata libertà, la Municipalità vi invita a festeggiare un giorno tanto solenne.   Era passato esattamente un anno dall’entrata dei francesi a Castello. Forse c’era un certo entusiasmo, ma non traspare certamente dalle carte d’archivio. C’era già stato qualche invito a piantare l’albero della libertà e anche qualche tentativo dall’esterno da parte di due ufficiali francesi, che non aveva avuto fortuna per la reazione di numerosi cinni castellani. I vecchi municipalisti non si erano certamente dannati per piantarlo, i nuovi provvedono subito ma non si sono preoccupati di farlo sapere alle autorità, infatti una lettera datata 20 giugno del Generale Balland, comandante della Repubblica Cispadana scrive: resto meravigliato come la Vostra Guardia Nazionale non sia ancora organizzata e l’Albero della Libertà non sia ancora eretto in tutti li villaggi dei vostri Comuni malgrado li ricorsi di molti abitanti di quelli. Se voi dilazionerete in avvenire ancora a organizzare la Guardia Nazionale e a far piantare immediatamente l’Albero della Libertà in tutti i villaggi e comuni del vostro Cantone, un più lungo ritardo sarà per voi vergognoso.   L’albero era stato comunque già piantato, più problematica era l’organizzazione della Guardia Nazionale (o come sarà chiamata all’italiana Guardia Civica). Il 24 parte un altro sollecito dal Commissario di Governo del Dipartimento del Reno sia per l’albero della Libertà ma pure per fare organizzare in tutte le sezioni la Guardia Civica Provvisoria per mantenere nel Cantone la quiete, e il buon ordine tanto più che l’odiosa Guardia de’ Sbirri dovrà affatto essere congedata. A Varignana l’albero della Libertà rappresentò l’anno dopo un problema molto più drammatico. C’era stata una richiesta da parte di varignanesi alla municipalità di dare l’ordine di piantare l’Albero, altrimenti si sarebbe ricorso a Bologna per erigerlo lo stesso, ma poi non se ne ha più documentazione. Nel frattempo, in luglio la  Cispadana entra a far parte della Repubblica Cisalpina con capitale a Milano, Bologna rimane solo capitale del Dipartimento del Reno. Intanto anche i teatri entrano nell’ambito dei corpi Municipali che incaricati della polizia nei rispettivi distretti presiedano anche quella nei rispettivi teatri. Da qui sorge un problema (novembre 1797) , da sempre presente nella gestione del teatro, ossia se si debba riservare un palco alle guardie incaricate al servizio d’ordine addirittura  da riservarsi nei contratti d’affitto de medesimi teatri. Si scrive all’autorità superiori che rispondono che: avere un palco in codesti Teatri ad uso dell’autorità costituita incontra l’ostativa della massima stabilita dal Dir. Operativo. La sorveglianza non si fa stando seduti in un palco a guardare lo spettacolo. Una richiesta di uso del teatro sembra prendere ora un aspetto più “sociale”. Gaspare Santi unito ad altri suoi coleghi , bramoso di rapresentare in questo pubblico teatro alcune sceniche Rapresentazioni, vi invita Cittadini Municipalisti ad accordarle  il teatro per tutto il corso del prossimo carnevale: il petizionario si mette sotto occhio di volere mettere tutto il denaro che si ricaverà ( salve le spese)  a benefizio e solievo di questa povera popolazione.  Il Carnevale era il periodo degli spettacoli, ma soprattutto delle feste e dei balli, per questi era usato il teatro creando a volte incroci. Balli però avvenivano anche in case private e esercizi pubblici. Ora però la situazione dell’ordine pubblico è in un equilibrio instabile per le tante novità sopraggiunte, perciò la cautela è d’obbligo. Quindi Il Commissario di Polizia partecipa alla Municipalità che il Ministro della Polizia generale riconosce la necessità di non permettere Feste da Ballo nelle Bettole, nelle Osterie, ma bensì nelle sole Case particolari, il padrone delle quali si renda responsabile delle persone che introdurrà, e degli inconvenienti, che per sua colpa, o negligenza potessero accadere. Però poi ci si accorge che non è sufficiente, poiché in alcune case si vendono bevande e cibi, per cui le domestiche abitazioni si trasmutano in bettole, e il pericolo di forti sconcerti si fa serio e grave. Comunque le osterie, e le bettole, luoghi di ritrovo popolare, vanno controllate, ma soprattutto va limitato il loro uso, quindi la Polizia e la Municipalità intervengono per ordinarne la chiusura ad un’ora di notte Italiana in punto (cioè un’ora dopo il tramonto).  Prescrivendo la pena alli contraventori, si agli osti, che camerieri, e qualunque persona che si ritrovasse entro l’osteria di tre giorni di carcere, e l’amenda di lire sei di Milano. L’efficienza della polizia locale è dimostrata dall’intervento alla osteria Bianchina, in un non meglio precisato sito di campagna, ove vengono ritrovati alle 2 ore di notte, cioè due ore dopo il tramonto, 7 individui più l’oste, arrestati, il giorno successivo vengono giudicati. L’oste dichiara che non sapeva niente perché non gli era stata notificata l’ordinanza, uno dei presenti dichiara che era andato all’osteria a prendere dell’olio, questi vengono assolti. Gli altri sei che erano a giocare a mattazza vengono multati ciascunodi lire 2 e soldi 7 per un totale di lire 14 e soldi 2 quindi liberati. Una parte dell’incasso per lire 6 e soldi 15 viene dato al capo pattuglia la restante parte lire 7 soldi 7 incamerato nelle casse comunale. Forse l’efficienza del corpo di polizia è dovuta anche alla partecipazione all’utile ricavato dalla sanzione.

Dramma di Don Zanarini. Divieto delle cerimonie religiose.

Nel 1798 la nuova Municipalità si trovò ad affrontare i nuovi problemi dovuti alla stretta repubblicana sulle questioni religiose e di culto. Ad esse si aggiunse nel mese di giugno il dramma di Don Pietro Maria Zanarini parroco sessantaduenne della chiesa di Santa Maria di Varignana. Così riferisce il fatto il Cavazza: Era sacerdote buono, vero catolico e nemico perciò della idolatria e de nemici della chiesa e perciò vedendo certe contumelie ed affronti alla di lui ressidenza e casa di Dio, doppo avere veduto piantarsi per ben tre volte l’infame arboscello della libertà, fu sempre da esso fatto tagliare. L’ultima volta seguì il giorno sei andante dove, dicendo che un legno insensato non doveva prevalere a quel legno della croce in cui Cristo fu per tutti confitto, armato di coraggio lo atterò esso colle proprie mani tanto più che era piantato nella piazza della sua chiesa. Il fatto fu riferito da un varignanese a Bologna il giorno stesso. Due giorni dopo, il 9, si presentò al Consiglio l’ispettore di Polizia Lei con due denunce contro il parroco pretendendo che si autorizzi l’arresto. A questo punto, tutti se la fanno addosso. Il Consiglio Bolognese cerca di scaricare a Castello la colpa di non averlo informato che esisteva un così grave nemico della repubblica e che: il silenzio in materie così gravi mal corrisponde alla pubblica fede in voi riposta. Noi ne siamo estremamente mal soddisfatti. A Castello si cerca di respingere le accuse, non sapevano niente, però si muovono subito. Stefano Grandi segretario della Municipalità di Castel S. Pietro portossi in Varignana e fatto quivi un processo verbale, tosto arestato il paroco, lo condusse a Castel S. Pietro in mezzo alla guardia, quivi giunto perché patisse rossore il povero prete e fosse esposto alle contumelie republicane lo condusse per la via Maggiore alla piazza del castello ove era infinito popolo e quivi lo fece girare seco, tirato dalla caretta, tre volte attorno all’arbore repubblicano. Si sentirono con risserva lagnanze dal popolo che vide questa vergognosa funzione. Fatta questa carola, fu condotto nella sala della Municipalità ed ivi raccomandato alle guardie, ove pernotò fino al giorno seguente 10 corente giugno ed il giorno 11 venne di Bologna il commissario Lei ufficiale di polizia ed in forma solenne lo condusse a Bologna di dove poi passò a Ferrara. Don Zanarini sarà processato a Ferrara e fucilato il 28 luglio 1798. Di tutto questo niente compare nei verbali delle riunioni della Municipalità. I verbali terminano con la seduta del passaggio delle consegne del 2 giugno 1797 e riprendono, in un altro volume, con la seduta del 2 luglio 1798. L’unico accenno alla sorte del Zanarini è nel verbale del 3 agosto 1798 ove è scritto; Saputosi la morte del Cittadino Sacerdote Don Pietro Zanarini Curato di Varignana Santa Maria, si è stabilito di scrivere al commissario Caprara la vacanza di questa chiesa, dimandando a chi appartengano li frutti maturi, e tenuti dalli beni del medesima Parochia prima che sucedesse la morte del med. Paroco Zanarini.  Solo nel settembre del 1799 arriverà un altro Parroco ma ormai da noi ci sono i soldati austriaci. Nel giugno 1798 era arrivata una circolare stampata che avvisava essere sospese tutte le processioni a titolo di culto.  Nel verbale della seduta della Municipalità del 2 luglio 1798 si assicura che in seguito a ciò si spedirono circolari a tutti i parroci e che mediante queste la Municipalità è informata che le processioni sono sospese. Così hanno creduto bene di non replicare altro avviso alli Parochi fino tanto che si mostrano obbedienti.  Evidentemente era arrivato qualche sollecito sul rispetto della proibizione. Il tentativo di mediare tra la volontà dell’obbedienza al potere e quello che si conosce bene essere il sentimento popolare nei confronti delle abitudini e tradizioni religiose, diventa sempre più difficile. I municipalisti sono stretti tra la obbedienza, abbastanza convinta, alle disposizioni delle autorità repubblicane e la pressione popolare che non capisce e non intende obbedire a queste disposizioni. Alcune settimane dopo arriva una circolare dell’Ispettore della Polizia Cittadino Lei (già responsabile della vicenda di Don Zanarini) che per ordine del Direttorio Esecutivo: restringe li culti né soli recinti interni delle chiese, vietando espressamente alli Ministri de’ culti il farsi vedere al pubblico nemeno in menomo esercizio delle loro funzioni. Inoltre più dettagliatamente: resta proibita ogni pompa e pubblicità nel trasportare il S. Viatico alli Moribondi come pure il suono straordinario delle Campane per la pubblicità del lutto dei funerali. Alla fine di luglio la Municipalità è costretta a trasmette la richiesta, fatta a nome delle rispettive popolazioni, degli ispettori delle sezioni del Cantone di Castello, che chiede si possa ancora somministrare il viatico secondo la tradizione e che sia permesso l’accompagnamento ecclesiastico alli defunti. Divieto compreso nell’obbligo a non mostrarsi fuori della chiesa nella funzione sacerdotale. C’è pure il problema della Cresima che deve essere fatta dal Vescovo quindi si chiede che sia invitato il Cittadino Arcivescovo di Bologna acciò il med. si porti in questo Comune per somministrare il Sacramento della Cresima alli fanciulli, giacchè a tradurli a Bologna si rende per li medesimi troppo oneroso ed anche pericoloso. Non sappiamo se poi il permesso sia stato accordato. Dai cittadini si chiede, inutilmente, che si possano aprire le chiese di S. Bartolomeo e del Crocifisso. La municipalità risponde che purtroppo non dipende dalle sue possibilità. Nel mese di settembre arriva una istanza dagli artisti dell’Arte dei Gargiolari di Castello (che ora si chiama Unione) che, assieme agli Stiantini, chiedono di festeggiare a loro spese il loro santo patrono San Vincenzo Martire, coi soldi raccolti in precedenza per fare un’urna per le reliquie del santo, alla quale ora rinunciano forse per non farsela requisire. Il consiglio accorda alli suddetti di fare la festa di S. Vincenzo dentro la Chiesa Parochiale purchè questa si faccia in giorno di domenica, e si osservi li ordini del Direttorio emanati in ordine alle funzioni ecclesiastiche. Tutte queste incomprensibili limitazioni non migliorano lo stato dell’ordine pubblico e infatti avviene un tumulto in piazza per l’arresto del capitano Bertuzzi sezione di Castello della Guardia Nazionale, ad opera di suoi superiori bolognesi e vengono denunciati vari episodi di schioppettate nelle notti come pure un omicidio all’Osteria del Portone. Continuano i movimenti di truppe, con relativa necessità di rifornimenti, carri, bestie, alloggiamenti, e purtroppo con seguito di disertori, sbandati ecc. Il malcontento non riguarda solo il popolo e i contadini, ma anche quella che era comunque la classe dirigente. Il primo settembre 1798 viene effettuata una riforma della Costituzione della Repubblica Cisalpina, riguarda soprattutto modifiche alla ripartizione territoriale dei dipartimenti, unificandone alcuni, ma lasciando inalterato quello del Reno. Sulla riforma si fa quello che oggi chiameremmo un Referendum Confermativo. Sono chiamate al voto le assemblee primarie che si riuniscono per accettare o rigettare i mutamenti all’atto costituzionale. Il 31 ottobre 1798 presso la parrocchiale si apre il Comizio col numero di 145 cittadini aventi le condizioni prescritte dalla legge, (…) quindi formato l’Ufficio elettorale si è messa la Costituzione all’appello nominale e si è ottenuto 51 voti affermativi, e 94 voti negativi. Sicchè la Costituzione in questo Comune è stata respinta con voti 43. Ciò non ebbe nessun peso sull’iter della modifica costituzionale anche perché la votazione venne successivamente ripetuta con esito opposto. Però sembra di capire che la parte ostile del paese si era presa una piccola, anche se non troppo pericolosa, soddisfazione. Tra tutte le limitazioni alle cerimonie religiose quella che più disturbava è che fosse proibita la semplice cerimonia del viatico ai moribondi che da pubblica doveva diventare praticamente clandestina. Il Cavazza riporta varie occasioni in cui sopra tutto le donne obbligano un impaurito cappellano a disattendere il divieto. Il 5 novembre avviene un grave tumulto che così viene descritto in una lettera della Municipalità al cittadino Angelo Garimberti, Commissario del Potere Esecutivo: penetratosi da diverse donne che dovevasi questa mattina portare dal capelano il viatico ad un’inferma, subbito si è radunata quantità di popolo, e alcuni hanno fatto alzare l’Arciprete, altri hanno dato segno colle campane della comunione come si praticava nel passato, in un momento si è riempita la piazza e la chiesa di popolo, che volevano che si portasse dall’Arciprete il viatico in forma pubblica. L’arciprete con energico discorso invita il popolo ad obbedire alle leggi e fa rilevare i suoi stessi rischi se trasgredisce. Tenta di calmare gli animi con l’intonare le litanie e dare la benedizione con il SS Sacramento. I parenti dell’inferma insistono per il viatico. Il parroco fa un altro tentativo, ordina al cappellano di uscire, prendere il viatico nella vicina chiesa di S. Francesco e portalo all’inferma senza pubblicità. Ma, accortisi da alcuni di ciò, hanno impedito che il cappellano eseguisse l’ordine dell’arciprete. A questo punto l’arciprete si è portato a forza in sacrestia ed ha rifiutato di contravvenire alla legge . Allora parte del popolo si è portato alla casa del nostro Presidente e l’anno costretto ad uscire di casa e portarsi in chiesa. Il presidente ha parlato al popolo ordinandole con energia l’osservanza delle leggi e di dover dissipare il tumulto. ma inutilmente perché più di due milla persone insistevano che volevano si facesse la comunione come si praticava in addietro. Vedendo il Presidente che il tumulto si faceva anche pericoloso per lui e il parroco, ha stimato espediente l’ordinare all’arciprete, che porti per questa volta il viatico come in addietro si praticava dicendo ad alta voce al popolo che essi sarebbero stati responsabili rispetto al governo di quanto sarebbe accaduto.  Il presidente Grandi convocò in fretta una seduta andata però deserta. Il giorno successivo la calma non è tornata, due cittadini sono arrestati per avvere dette preposizioni allarmanti e per avere insultato vari cittadini perché vestivano l’abito civico. L’abito civico forse consisteva solo nell’esibizione di una coccarda. Il teatro in questa situazione non sembra interessi molto i filodrammatici castellani, le novità del nuovo stato di cose ed anche i pericoli connessi sembra aver messo un po’ in disparte il loro amore per il teatro. Nel mese di novembre arriva però la richiesta del capocomico livornese Giuseppe Arriani che chiede il teatro per farvi 20 Comiche rappresentazioni, e per giocarvi due Tombole ogni settimana. Il Consiglio concede il Teatro a condizione che si osservi la Polizia e Onestà dovuta, si permettono le dimandate tombole ogni settimana purché non si faccia più di tre baiocchi per cartella, e che si faccia solo 20 recite. Si permettono tutti li palchi salvo quello di mezzo. Purché il Petizionario paghi lire 10 per affitto.  Le continue tensioni nel paese cominciano a rendere poco tranquilli i municipalisti. La seduta del 10 dicembre riporta a verbale la loro rinuncia alla carica considerando che la carica disturba le loro domestiche aziende, e che essendo presentemente il paese in fermento per affari di culto per cui riconoscono compromessa la pubblica tranquillità. Inoltre sono in esborso di spese non indiferenti per questa Municipalità essendo questa sfornita di fondi per servire la cassa.   La Rinuncia è respinta. Avete voluto la bicicletta……Arriva però una buona notizia: i cittadini Grandi e Ballarini hanno notificato essere stati a Bologna dal Commissario e di averli mostrato la situazione della popolazione in ordine a soprimere tutte le compagnie, (dovrebbero essere quelle del Santissimo e della Madonna del Rosario, associazioni laiche di fedeli.) e che hanno avuto dal commissario, che presentemente si sospenda l’abbolizione delle suddette Compagnie. Ma anche di dare un elenco dei frati e preti forestieri domiciliati nel distretto.

Disordini di Natale.

Ma sta per arrivare il Natale e il governo decide di proibire ogni cerimonia pubblica. Il 20 dicembre arriva, dal Direttorio Esecutivo, la disposizione, trasmessa a tutti i parroci, con la quale si dispone che circa la funzione ecclesiatica che suol farsi la notte di natale, cioè dalli 24 alli 25 decembre, la quale fa parte del culto Catolico, viene vietata qualunque sorta di pubblicità. Siete quindi invitato a rilasciare l’ingresso al popolo per le porte laterali della Vostra Chiesa ritendo chiusa la Porta Maggiore, restando vietato qualunque suono delle campane. Diversamente voi sarete responsabile di qualunque inconveniente che in tale occasione possa accadere, e sarà sottoposto a procedura qualunque sia il promotore ed esecutore delle infrazioni.   Quindi si vorrebbe un Natale silenzioso e privato. Difficile da ottenere, infatti nella notte del 24:  molti contadini si portarono alla casa del Presidente Grandi e forzarono la sua porta al segno che dovette far andare alla ringhiera la propria serva per sentire cosa pretendesse il popolo ammutinato ed inteso che volevano le chiavi del campanile, le fece dire che queste sono nelle mani del campanaro. Udendo che nulla potessero ottenere, andarono nella sacrestia, e con armi da taglio rupero le porte del campanile, e sonorono le campane. Terminata fu la messa tutto si quietò.  Questa è la versione ufficiale riportata nel verbale del Consiglio. Il Cavazza riporta il fatto in modo un po’ più vivace: quando si giunse a mezzanotte ma non sonando le campane si ammutinarono li villani e paesani et andarono alla parochia. Si fece capo di essi Lorenzo Coroluppi abitante nel Castello e giunti alla porta del campanile, che era chiusa, la rupero et andarono alto e suonarono le campane quante loro parve per adunare il popolo. Parte delli amutinati guardava il campanile e parte si portò alla casa di Domenico Grandi, vice presidente municipale, per averlo nelle mani e trattarlo secondo il merito, ma si nascose né vi fu altro. Lorenzo Alvisi poi, usciere della Municipalità, volendo resistere al furore dl popolo nella sagrestia della parocchiale colla sciabla svaginata, si guadagnò una bastonata sul capo e le convenne fugire in chiesa. Tutta questa notte girarono per l’abitato li contadini con armi da foco, da taglio e punta e con bastoni, sì che convenne alla Civica nazionale dissimulare tutto quanto vedeva per il brutto apparato. Li poveri frati di S. Francesco per evitare simili disordini, levarono le corde alle campane. La mattina del S. Natale non si sentì né vide altro disdicevole. Il fatto comunque non poté più essere trascurato e quindi si avvisò il Commissario del Potere esecutivo e si promise di ricercare i responsabili. Neanche a Bologna si intendeva trascurare l’avvenimento, anche perché stava succedendo in tutto il contado. Il giorno 6 gennaio arriva in tutto all’improvviso Il Cittadino Angelo Garimberti Commissario del Potere Esecutivo, il quale viene scortato da 260 individovi di Truppa Cisalpina, con cento dragoni a Cavallo, essendovi in persona il generale Callori. Appena giunta la truppa il Commissario, Generale, e Comandante si sono presentati in questa Municipale Residenza e in primo luogo hanno dimandato si preparino li necessari alloggi per gli Ufficiali, e soldati (…) Preparatosi li alloggi il commissario ha notificato essersi portato per formare in persona il processo contro li disturbatori dell’Ordine Pubblico che nella notte di Natale suonarono le campane. Per il paese è già una punizione alloggiare tante persone che inoltre si sono fatti tratare a pranzi, e cena. Tanta esibizione, per un processo ad un gruppo di contadini non serviva per migliorare l’empatia tra potere giacobino e la popolazione nostalgica del vecchio potere ecclesiastico. Il 1799 inizia con presagi di guerra. Napoleone dal luglio precedente è in Egitto. L’esercito francese in Europa manca del suo capo, ma è anche indebolito negli effettivi. Austria, Russia e Inghilterra si preparano ad attaccare. Servono reclute per l’esercito della repubblica. Si cercano volontari, se ne presentano alcuni ma non a sufficienza. Quindi si stabilisce di formare il catalogo di tutti li cittadini sogetti alla legge 11 nevoso (31 dicembre) per la Leva Militare. Debbono rispondere tutti i giovani dai 18 ai 26 anni. Viene pubblicato un proclama del seguente tenore: Domani 24 Nevoso/13 Genaro un ora dopo mezzogiorno si farà nella chiesa Parochiale l’estrazione a sorte delli giovani che dovranno servire nell’Armata della Repubblica. Il contingente assegnato a questo distretto è di 31 individovi. Agli estratti viene mandato l’avviso di ritrovarsi Martedì mattina alle ore 10, cioè due ore prima di mezzo giorno nella Sala della Residenza di questo Comune essendo voi stato estratto a sorte per servire la Patria, e così dimostrare l’amore vostro verso la Repubblica. La vostra mancanza sarà una contravenzione alla Legge. Il Consiglio considerando che essendone stati estratti vari delle comuni di montagna, e precisamente delle comuni di Vignale, Sassuno, Rignano, Frassineto, Monte Cerere, e Monte Arenzo, e quasi al confine del fiorentino, si può dubbitare che questi si sottragono colla fuga.  Si risolve spedire una Forte Pattulia della G. N.  nelle comuni estra di montagna dove abbita alcuni degli estratti per prendere que cittadini (…) e se ritrovassero resistenza di dover prendere in arresto uno della casa del giovane estratto. La leva militare obbligatoria era una novità assoluta, era stata introdotta dal governo rivoluzionario per i cittadini francesi. Gli eserciti erano storicamente formati da volontari e mercenari.  Infatti incontra grande difficoltà, e forse anche il sabotaggio delle autorità locali, nonostante l’esigua entità delle richieste. Il Ministro della Guerra mentre fa plauso alle comuni che danno esecuzione alla legge dell’11 nevoso ma vede con rammarico la turbolenza insorta in varie Comuni, e avvisa avere stabilito di far cessare le turbolenze e con la mano forte.   Sembra però che si presentino solo quelli che hanno motivi per essere esonerati. Intanto stanno arrivando dal Veneto truppe austriache e russe al comando del generale Suvorov. Urgono reclute, si ricorre ai componenti della Guardia Nazionale, supponendo che siano i più fedeli alle idee della Repubblica. Alcuni si arruolano nell’esercito, ma non a sufficienza. Qualcuno comunque pensa ancora ad usare il Teatro, l’11 marzo il cittadino Luigi Cardinali dimanda il teatro per farvi varie Comiche rappresentazioni per la ventura Primavera, Si accorda con tutti li palchi salvo quello di mezzo il quale deve servire per la Polizia.  Sembra terminata la riserva ai municipalisti, occorre però notare che il Cardinali fa parte della Casta, infatti compare come membro della Comunità un mese dopo. Alla fine di marzo, dietro sollecitazione delle autorità militari dell’Armata d’Italia, la Municipalità decide di emanare un avviso eccitante gli individovi della Guardia Nazionale alla Volontaria Coscrizione. In esso si scrive: Le Fiame del Civico onore a cui Castel San Pietro aspira per proprio Istituto già si svilupano nel seno de bravi volontari. La Coscrizione apperta per 23 individuvi della Guardia Nazionale di questo distretto da unirsi con la guardia di Bologna, e da spedirsi nel dipartimento del Basso Po’, rachiude già il nome di diversi cittadini, i quali col luminoso loro esempio eccitano l’altrui emmulazione, e inspirano con generoso coraggio. Ora però non si tratta di mostrare il patriottismo in paese, ma di andare verso il fronte e lo scontro e i dubbi ci sono, la Municipalità spera che gli individovi della G.N. corrano a garra a inserire li loro nomi per servire la patria. Tuttavia si avvisa, che spirata la giornata di dimani, e non avendo completato il numero con tanti volontari, domenica prossima si farà l’estrazione a sorte. Però sembra che non tiri aria di volontariato e il primo aprile la Municipalità emana un proclama incitando tutta le Compagnie Nazionali del nostro Distretto, a somministrare un individovo, opure lire cento.

Arrivano gli imperiali e gli insorgenti

 Ormai però la situazione militare è compromessa a Milano arrivano i Cosacchi e qui stanno per arrivare le truppe di Sua Maestra l’Imperatore del Sacro Romano Impero, cioè gli austriaci. Si apre un periodo molto turbolento per i nostri concittadini. Mancano le fonti archivistiche, ma ci aiuta il manoscritto del Cavazza che è un testimone diretto. Nel ferrarese e in Romagna la situazione per le truppe francesi e cisalpine si fa critica per la ripresa degli insorgentiche saranno addirittura associati come truppe ausiliarie dagli austro-russi. A Castello l’ostilità anti francese si fa più evidente e scoperta e si mostra in modo originale. Il 13 maggio certo Gioachino Badiali, mise il paese a rumore con ramoscelli di bussolo verdi. Costui quanti uomini e giovinastri incontrava per istrada ne dava un piccolo ramoscello a ciascuno, e gliela faceva porre sul capello, levando la tricolorata coccarda.(…) poi, gridando Viva Gesù, Viva l’imperatore e mojano li assassini, si portò con una ciurma di ragazzi, donne e uomini alla piazza maggiore del Castello. Le tenero dietro altri suoi seguaci. Il giorno dopo coi suoi seguaci disarma le guardie civiche e si impadronisce dei locali della Comunità quindi va in tutte le chiese e fa suonare le campane. Il presidente della Comunità dott. Lolli corre a Bologna a riferire l’accaduto, Castello è difeso solo dalla guardia civica che però intanto si è tolta le coccarde tricolori. In un rapporto della Guardia del 18 maggio troviamo: La sentinella avanzata del Borgo à tratenuto questa notte un corpo di francesi stimandolli Insorgenti (…) tosto che per talli sono stati conosciuti da me ho ordinato il passaggio.  Da Bologna non tardano ad arrivare le truppe repubblicane, seguono arresti tra i portatori di rami di bosso. Badiali fugge ma il 31 maggio ritorna avendo seco truppa tedesca e bene armata ed in arnese. Al di lui arrivo si comosse tutta la populazione del paese gridando: Viva il Papa! Viva l’Imperatore! Li parziali francesi si nascosero e parte fuggirono. I vecchi maggiorenti del paese, papalini ma con moderazione, temendo l’anarchia nel paese si riuniscono per prendere le misure per cautelarsi contro gli insorgenti romagnoli che si prevedevano in arrivo. Il Lolli ritorna ma l’arrivo di 12 dragoni tedeschi accompagnati da alcuni mascalzoni a piedi, lo fa subito ritornare a Bologna. Il 3 giugno arriva il generale francese Holin, pianta tre cannoni contro il Borgo e il Castello, arresta quattro dei maggiorenti tra cui il Cavazza e dopo un passaggio a Imola li fa portare a Bologna. Ripianta l’albero della libertà. I castellani austriacanti fuggono. Il 12 giugno arrivano in esplorazione 13 dragoni tedeschi, sono disarmati e fatti prigionieri dalla guardia civica. Il giorno dopo sono portati ambiziosamente prigionieri a Bologna al campo francese e furono compagnati al generale francese Holin. Come premio hanno la somma ricavata dalla vendita dei cavalli, 300 scudi che si dividono tra loro. Il 20 giugno in borgo arrivano tedeschi e insorgenti, pretendono 1000 scudi dalla Comunità altrimenti  fu minacciato il sacco e di far foco. Si arriva allo scontro, i tedeschi hanno la peggio che furono di essi sagrificati cinque morti avendo ricevuto dalla finestra di Antonio Inviti archibugiate. Ora la rabbia dei tedeschi certamente cresce e quindi Castello di giorno in giorno si evacuava di familie, perché si minacciava il canonamento del paese dalli tedeschi. Infatti jl 26 giugno venero dalla parte di Romagna alquanti dragoni tedeschi con grosso numero di insorgenti, presa la parte del Borgo e Castello che era quasi evacuata furono presi in mezzo quei pochi abitanti rimasti, tutta gente povera, indi incominciarono a sacheggiare. (…) Dal venerdì fino al lunedì mattina durò l’orrida scena per cui fuggivano le persone dai manigoldi insorgenti. Furono caricate 83 carra di supelletili, robbe e capitali senza li comestibili e danari. Inoltre li paesani più perfidi si unirono alla furente orda che distruggeva ciò che non poteva trasportare. Le vetriate, li seramenti, li metalli ed altre cose non andarono esenti. Il mal peggiore lo facevano i nazionali che insegnavano le cose e familie ove sfogare l’avidità e rabbia loro. In più nel saccheggiare la casa della municipalità si diede alle fiame quasi tutto questo Archivio Comunale. I saccheggi non riguardarono solo il Castello infatti: gli insorgenti si portarono anche per la campagna a saccheggiare dove desolarono la maggior parte dei casini di campagna, e case de coloni tenendo in vari luoghi persino le bestie bovine e li cavalli.  Il 4 luglio 1799 il Cavazza liberato ritorna da Bologna e scrive che riconobbe non essere più Castel S. Pietro per mia patria primiera, spogliata di persone, di robbe e di spirare lutto ed orrore. Il paese non solo è disastrato nei beni materiali, impoverito e diminuito nella popolazione, ma anche profondamente diviso, con odii profondi tra le diverse famiglie e al loro interno, quella che era una comunità fondamentalmente unità è ora fortemente divisa e questa divisione si acuirà ancora di più nei mesi successivi. Ora è arrivata l’aquila a due teste del Sacro Romano Impero, gli ordini sono emessi dalla Regia Cesarea Reggenza Provvisoria di Bologna. Si rimuovono gli emblemi repubblicani, si cambiano i timbri e la carta intestata. La situazione per i saccheggi subiti è grave e quindi la comunità scrive il 18 luglio all’Imperatore che per le fatali vicende sofferte, ed il deplorabile stato in cui giace questa infelice popolazione. Essa non può reggere più oltre alla propria sciagura. È costretta di palesare le proprie piaghe, d’invocare la suprema Beneficenza, e di chiedere ristoro e soccorso. L’unita suplica è diretta al Padre delle Nazioni Liberate, al Clementissimo Imperatore, ed aspira ad informarlo, ed a muoverlo a Compasione. A breve giro di posta arriva la risposta, prova di efficienza asburgica, che però è negativa. Il 30 novembre viene insediato il nuovo Consiglio della Comunità in cui sono rinominati i consiglieri, ancora viventi, dell’antico consiglio. Così si apre il libro dei verbali: A lode, Gloria, ed ossequio della SSma Trinità, della B.V. Maria, de’ Santi Apostoli Pietro e Paolo, de’ santi Stefano e Bartolomeo e di San Bernardino da Siena. Qui si indica non solo la Madonna del Rosario, protettrice ufficiale, del paese ma anche i vecchi santi protettori ai quali si era rinunciato nel 1779. Inoltre si ripristina l’antica procedura per l’elezione del Console e quindi in conformità di quanto viene disposto dal capitolo quinto di questa comunità, hanno registrato li nomi di ciaschedun consigliere in tanti separati biglietti (…). Chiamato un fanciullo di tenera età a fare l’estrazione dall’urna e premesse le solite preci, è stato estratto il Consigliere Sig. Nicolò Giorgi. La sua carica terminerà come in passato il giorno di San Giovanni (24 giugno 1800) qualche giorno prima del ritorno dei francesi. Nel febbraio del nuovo anno arriva la richiesta della nota esatta di tutte le famiglie abitanti in detto Castello e Borgo, cioè l’elenco di tutti gli uomini dai 14 ai 60 anni e di tutte le bocche di qualunque età e sesso, componenti le rispettive famiglie. È facile presumere che ci si prepari a nuove tasse. Infatti il Consiglio delibera e scrive: Siccome dalla domanda di queste note appertamente si rileva che si vole dalla Deputazione stessa imporre un aggravio sopra le famiglie tutte del Castello , e Borgo; cosi li sig. Consiglieri tutti ad unanimità di voti risolvono di volere tutti portarsi in Bologna, e presentarsi alla Deputazione per informarsi l’oggetto per cui si vole le ricercate note, e che mai fossero per imporre il Dazio d’Imposta al nostro Castello, fare tutto il possibile per evvitarlo, e nel caso che non vi fosse rimedio dimettersi tutti dal posto di Consiglieri, non volendo assolutamente acconsentire, che tale aggravio non era mai stato imposto. Per tale effetto si è preso dall’archivio la Bolla del Pontefice Eugenio quarto quale dà l’esenzione a questo Castello della citata Gravezza. Il consiglio pensa che se c’è stata la restaurazione sulle baionette dei soldati dell’Imperatore, debbano rivalere tutti li antichi privilegi ed usanze o almeno vale il tentativo di farle valere. Privilegi che hanno per fondamento una bolla papale del 1435 e l’ipotetico diritto dei castellani, come i cittadini bolognesi, di non pagare alcune imposte. Nell’uso del libero Comune bolognese le tasse le pagavano i contadini, non i cittadini perché avevano l’incarico di difendere la città e di esserne la forza armata. Durante l’epoca comunale ciò poteva avere un senso, ma non più alla fine del 1700. Tra l’altro questi presunti privilegi castellani erano sempre stati contestati dal senato Bolognese, tantissime erano state le cause intentate, quasi tutte perse da Castello, ma poi alla fine mai, o per poco tempo, riscosse le relative imposte. Ora però come controparte non c’è il Senato Bolognese, ma uno Stato con una gestione più moderno e centralizzato così la Deputazione risponde: né privilegi né consuetudini antiche, o qualunque altra ragione ha luogo in questo affare poiché è precisamente di Sua Maestà Imperiale, che tutti i paesi della Bolognese provincia siano egualmente aggravati, e che i li privileggi, e consuetudini sono stati presi di mezzo dalla Conquista fatta. Inoltre la Reggenza non accetta la rinunzia e anzi farà una causa criminosa contro alli medesimi se si faranno insistere di rinunziare. Nel frattempo Napoleone, dopo essere rientrato in Francia e aver compiuto il colpo di Stato nel novembre 1799, all’inizio del 1800 è tornato in Italia e sta sconfiggendo gli austriaci. Anche a Castello in giugno si sparge la voce che stanno tornando i francesi. I castellani filo repubblicani si rincuorano e pensano già al dopo cioè: ammazzare D. Luigi Sarti maestro di scuola, Gioachino Badiali, Giuseppe Nannini detto Muzzone, giovinastro bravissimo e alcuni altri oltre imprigionarne una ventina. Avuto notizia del complotto il 17 giugno arrivano da Bologna 22 corazzieri per fare processo, ci sono vari arresti ma i capi riescono a fuggire ma il paese diviso in due partiti si scompigliò maggiormente.

Tornano i francesi.

 il 18 giugno Napoleone sconfigge gli austriaci a Marengo, il 28 i francesi sono di nuovo a Bologna. La sera del 29 ritornarono a Castel S. Pietro tutti li fuorusciti e caminando in drapelletti, posta la cocarda francese sul capello, baldanzosamente corbellavano e motteggiavano li boni cittadini. Non si limitano a questo ma procedono ad arrestare chi non era riuscito a fuggire. I tedeschi e gli insorgenti sono però ancora a Imola e si vedevano alla nostra confina armati e minacciavano di scorreria e di sacheggio. Il 15 luglio arrivano da Bologna 800 francesi che passando ove erano case, spogliavano di tutto quei poveri abitatori massime di comestibili ed ancora andarono fuori strada alle case de poveri contadini. Nel nostro contorno andarono alle case della Comenda, a Casa Torre sopra il Castello, al Castelletto, a Liano così in altri luoghi. Il 5 agosto i francesi cominciano a ritirarsi dalla Romagna. Amareggiati vieppiù li patriotti per vedersi instabile il comando francese, e vedendo che li boni cittadini sospiravano un tempo felice ed attendevano un riparo alle loro enormità, (…) pensarono levarseli con un massacro di sotto alli ochi. Ma poi quando si trattò di decidere chi sono i partitanti del Papa o dell’imperatore o almeno creduti tali. c’è disaccordo e la facenda non ebbe quel fine che si aspettavano. Nel mese di settembre le cose per francesi e cisalpini continuano ad andare male nella Romagna e nel ferrarese. Il 15 settembre le avanguardie delle truppe tedesche sono giunte a Imola e tutti li patriotti di notte tempo sloggiarono dal Castello e Borgo colle robbe e andarono a Bologna ed altrove per assicurarsi evacuando così tutta la terra.  Due giorni dopo in paese arrivano gli insorgenti mentre Imola è occupata dagli austriaci. Dal 25 settembre le truppe francesi e cisalpine riprendono l’iniziativa verso la Romagna e dalla fine di settembre Castello è di nuovo nelle loro mani e quindi i repubblicani fuggiti ritornano arrabbiati e con spirito di vendetta e così occupano abitazioni di avversari, destinandole ai soldati di passaggio, li minacciano di bastonate se si fossero mostrati in giro, onde il paese era scomposto. Si riccorre a Bologna, ma non si fa giustizia. Sembrerebbe tutto finalmente finito, ma non è così. Il 9 dicembre un distaccamento di cavalleria ungherese occupa Imola.  Per tali novità si spaventarono molti paesani di Castel S. Pietro in modo che fugì tutta la Municipalità colla guardia nazionale a Bologna. ed il paese rimase sprovisto delle autorità tutte. Fuggono pure i fornai e portarono seco alla volta di Bologna 500 corbe di grano, cosichè il paese rimase quasi che abbandonato di viveri.  Il 10 dicembre arrivano a Castello i tedeschi accompagnati dal solito Badiali e Luigi Fabbri. Nei giorni successivi viene poi imposto di atterrare tutti li emblemi e stemi repubblicani tanto in castello che suo distretto, sostituendole lo stema imperiale e ancora che trovandosi nel castello e distretto robbe ed effetti pertinenti alla Repubblica francese e cisalpina si dovessero dai regenti porre sotto sequestro.  Infine che si dovesse dipendere dalla regenza d’Imola fintanto che Bologna non fosse in mano delli imperiali.   Il 17 dicembre però i tedeschi abbandonano il paese che restò bersalio de fuorusciti e de nemici. E infatti come riporta appunto Ercole Cavazza: ritornati li patriotti a Castel S. Pietro divennero più insolenti e cimentanti. A prova lo posso io esporre, mentre sulla caduta del sole andando colli miei due figlioli alla chiesa e trovandosi amutinati li d. patriotti nella publica piazza, fossimo provocati con ingiurie e contumelie gravi. che se non si fosse usata prudenza era compromessa la vita nostra. I verbali delle deliberazioni della Comunità si riaprono con la seduta del 6 vendemmiaio dell’anno 9° della Repubblica (28 settembre 1800). È di nuovo in vigore il calendario rivoluzionario, si sostituiscono i funzionari considerati intrusi, nominati dal governo austriaco, come il medico dott. Rossi ripristinando il dott. Lolli. Però il rigore giacobino è molto annacquato, infatti al dott. Rossi sarà poi affidata la condotta di Dozza. Con la pace con l’Austria nel febbraio 1801, cessa la minaccia austriaca. La Repubblica cisalpina viene nuovamente riorganizzata e il 1° febbraio 1802 viene denominata Repubblica Italiana, con presidente Napoleone e con il ritorno al calendario gregoriano. Infine con la ulteriore presa di potere nel 1804 il Consolato viene trasformato in Impero e quindi la povera Repubblica Italiana nel marzo 1805 si trasforma in Regno d’Italia avendo come viceré il figliastro di Napoleone, Eugenio di Beauharnais. Nonostante tutti questi triboli il teatro sembra sia sempre stato in funzione, mancano però carte nell’archivio castellano. Alcune notizie ci vengono ancora dal Cavazza. Il 7 giugno 1801 nel teatro Rappresendosi una comedia da istrioni forestieri accadde che terminato il primo atto si alzò un rumore populare, che gridava: Morte ai ladri. morte ai ladri. Si è trasferito qui una questione politica locale. I ladri sarebbero il dott. Lolli, capo dell’amministrazione comunale e il suo segretario Antonio Giorgi che prevendo mal parata, fuggirono destramente dal teatro.  Inoltre in seguito a questo rumore tutti li patriotti nazionali (gli abitanti del paese) cacciarono via dal Castello le cocarde patriottiche. cioè fecero togliere le coccarde tricolori. La sera seguente di nuovo altro trambusto in teatro e fu che insorsero li stessi patriotti e, rivolti al palco di mezo ove stavano li attinenti di detti due soggetti, si fecero ad alta voce intendere che, se erano emigrati dal paese alcuni per avere servito l’Imperator,e li volevano restituiti a casa e gridando: Pace!, Pace colli nostri fratelli e concitadini!  A casa cittadini! A casa cittadini! Non più nimistà, ma Pace!  Pace! La richiesta era che fossero rilasciati i castellani di parte papalina carcerati a Bologna. In seguito a queste vicende ritornò un presidio di militari a Castello e la municipalità che aveva veduto deposti da patriotti tutte le cocarde, mise fori un editto che in tempo di ore 24 dovesse ognuno ritornare la coccarda primiera, altrimenti saria stato dichiarato nemico e sottoposta alla carcere. Passarono le ore 24 ma nessuno obbedì, ne tampoco fu arrestato perché erano tutti ammutinati contro il presidente Lolli per le di lui  briconate. Con l’anno 1801 termina il Raccolto delle notizie istoriche di Ercole Cavazza, ora da qui in avanti dobbiamo fare a meno di questa fonte.

Inizia l’epoca napoleonica.

Intanto nel febbraio 1802 si fa finalmente pace tra la Francia e l’Impero austro-ungarico e per un po’ il contado bolognese è in pace. Nel frattempo gennaio 1803 si fanno i lavori per trasformare il convento di San Bartolomeo nella caserma della Guardia Nazionale, avendo ormai le autorità acquisito lo stabile.  L’arruolamento della Guardia Nazionale però pone qualche problema se nella seduta consiliare del 21 gennaio 1803 si presenta un verbale dei disordini accaduti nella sezione di Settefonti, per cui alcuni male intenzionati hanno sollevato gli altri dello stesso comune onde non si prestino al servizio di questa Guardia Nazionale.  Vedute le risultanze questa municipalità ha decretato che tali individui siano arrestati per sottoporli a quelle penalità che sono di ragione. Il servizio di Guardia si svolgeva localmente, con turni, anche notturni di sorveglianza del territorio, ben altro discorso riguardava però la coscrizione per il servizio militare nell’Armata. Si faceva di tutto per evitarla e chi poteva si faceva sostituire da un supplente. Abbiamo il caso di un signor Brusa che si fa sostituire da un signor Cornacchia da Imola che si impegna: di prestare il servizio Militare nell’Armata della Repubblica Italiana per tutto il tempo, in cui rimaneva obbligato a termini della legge il Brusa, dal quale riceve subito 12 scudi più un compenso mensile di uno scudo per tutta la durata del servizio. Nel caso di diserzione il Cornacchia dovrà rifondergli tutti i danni, che avrà sofferto, riservandosi di potere procedere criminalmente e come più gli piacerà contro il medesimo. Nel 1803 si inizia a procedere al trasferimento del cimitero nel terreno del convento dei Cappuccini. Si apre la nuova porta ovest e si colmano le fosse dalla parte del foro boario. Si regolamenta il mercato ed essendo stata costrutta la Bandiera nuova da innalzare in tempo di mercato, si è decretato che questa debba esservi ogni Lunedì e Venerdì e che sia levata costantemente in ogni stagione tre ore dopo l’alzata del sole. Del teatro e della sua attività non ci sono carte. La municipalità non ne ha la gestione e quindi ad essa non sono rivolte richieste e non concede permessi.  Sappiamo pero che nel  verbale della seduta del 15 febbraio 1803 c’è un rapporto sul cittadino Giosafat  Bonati che sparla continuamente della Municipalità, tanto in pubblico che in privato, che ne insulta gli individui tacciandoli delle più nere iniquità, che ne disprezza gli ordini, e che anche recentemente nella sera delli 13 andante nel Botteghino annesso al teatro pubblicamente vomitò li soliti improperi contro questa amministrazione alla presenza dei cittadini Sabbatini, Campi e molti altri. Anche in questo caso non sappiamo nulla di provvedimenti eventualmente presi. Ritroviamo notizie sul teatro solo all’inizio del 1811, ciò non significa che si sia interrotta l’attività ma che siamo in presenza di una delle tante lacune nelle carte dell’archivio comunale. L’organizzazione burocratica e centralizzata dello stato napoleonico ha sostituito le vecchie procedure. Ora il capo dell’amministrazione si chiama Podestà, e Castello fa capo alla vice prefettura di Imola. Le carte che riguardano il Teatro e in generale i pubblici trattenimenti ora è raccolto in una specifica categoria dell’archivio. Per l’anno 1811 abbiamo richieste e permessi per rappresentazioni e balli, sia nel teatro (i veglioni per carnevale) sia in locali pubblici (osterie) sia nelle abitazioni private. I balli sono concessi dal Podestà e possono essere sia gratuiti che venali cioè a pagamento. Tutti sono sottoposti al controllo di militi della Guardia Nazionale a spese dei richiedenti il ballo. Controllo cui faceva seguito un rapporto come quello del 14 febbraio: Facio raporto che la sera delli 13 corente esendo di guardia alla Festa di Ballo nella salla di Gerolimo Trecondari tutto e andiede con buon ordine ma ben sì alle ore tre circa dopo la meza note sotto il porticho di detto Trecondani si sentì una archibugiata. Sortì subito la Guardia con altri indovidovi che componeva la Festa di ballo chi per una parte chi per altra parte non potendo rilevare persona alcuna. Ritornando di nuovo la Festa con la buona armonia come era di prima, e così terminò la detta festa.   L’unico giorno proibito è il venerdì, magari non era più obbligatorio mangiare di magro, ma non si può fare festa. Per le rappresentazioni teatrali serve però anche il nulla osta  dell’autorità superiore cioè nel nostro caso del vice-prefetto  di Imola che interviene sul contenuto della rappresentazione quindi, mettendo in atto una forma di censura, perciò le cose possono non essere sempre semplici e i tempi non sempre brevi.  In seguito alla richiesta dei soliti dilettanti di rappresentare due farse per la Fiera d’Agosto, il Podestà dichiara di averle lette e che gli sembra che niente osti al buon costume. Le commedie sono: Il Conte villano o sia un Pazzo ne fa cento, di D.F.L. Fiorentino e una farsa ai tempi famosa: Il Signor Antonio dal Butirro o la Casa delle ombre. Il 2 ottobre il Podestà scrive al vice-prefetto che per il 6 la compagnia dei dilettanti rappresenterà la commedia: Le Ferriere di Maremma dell’attore Antonio Morrocchesi toscano, dedicato a sua Eccelenza il Signor Carlo Caprara Consultore di Stato, Grande Senatore del Regno. Fu ancora rappresentato non è molto nella città di Bologna. L’ho esaminata ed ho osservato che niente evvi in contrario.   Il signor Antonio Morrochesi (1768-1838) è un famoso attore e autore, amico di Vittorio Alfieri, Silvio Pellico e Ippolito Pindemonte. In questo caso non sappiamo se le Ferriere di Maremma è stato rappresentato infatti se è evidente la buona volontà del podestà per abbreviare la procedura e/o forse per favorire i dilettanti del paese, altrettanto chiara è però la volontà del vice prefetto di mantenere la facoltà, che ritiene sue, di controllare i testi. Questa procedura sembra essere norma generale per cui si susseguono nelle carte richieste di rappresentazioni con varie proposte di titoli, sperando che qualcuno sia approvato e non dover ripetere la procedura. Nel febbraio 1812 troviamo una richiesta dei già noti Antonio Roncovassalia e Marco Castellari per rappresentare, con altri, due commedie, Una intitolata il Vero Amico e l’altra il Mogliere. Si tratta di due commedie di Carlo Goldoni, la seconda in effetti intitolata il Molière, sembra però che in generale gli autori non siano importanti e quindi raramente si citano. La sala del teatro non era solo usata per rappresentazione e balli ma anche per fare Tombole, era questo un uso diffuso e forse troppo libero e dalla Vice- Prefettura di Imola viene avvisato il Podestà che d’ora innanzi non abbia luogo né dentro né fuori del teatro senza il di lei permesso. Nel frattempo, dicembre 1812, Napoleone è stato sconfitto in Russia e la sua stella comincia a declinare. Il teatro sembra in piena attività e la piazza abbastanza pregiata. Il Podestà di Medicina, come sponsor di una compagnia là esibitasi, scrive; persuaso che siate per gradire il servizio che vi offre un ottima Compagnia comica, che attualmente agisce con lode in questo pubblico teatro (…) potendovi assicurare che e della sua condotta e della sua abilità sarete certamente per rimanere soddisfatto.  Però Il podestà castellano risponde: Lo  stato attuale di questo teatro è ben cattivo per cui non mi è dato, con sommo rincrescimento il piacere di poter aderire a quanto ella mi chiede. Altre compagnie mi hanno fatto una simile dimanda, e sono state anch’esse convinte della circostanza che le ho esposto.  Che il teatro abbia da tempo dei problemi è vero ma la risposta negativa è forse dovuta a ragioni di campanile, infatti non pare si pongano problemi per i filodrammatici locali. Per la stagione estiva, la Fiera d’Agosto i soliti filodrammatici propongono la rappresentazione teatrale: Odoardo assassino di Baviera di cui non sappiamo l’autore, la risposta è negativa. Si torna alla carica proponendo due rappresentazioni: Giuseppe II alla visita delle Carceri di Camillo Federici che è rifiutata mentre è concessa l’altra: Rosalia ovvero l’amore coniugale dell’abate Andrea Willi (1733-1793) In settembre vengono proposte sei opere teatrali: Le ferriere di Maremma, Il matrimonio di un giorno, La Tomba di Giulia, Eleonora Varis, Disgrazia senza disgrazia, tutte del noto Antonio Morrocchesi.  Il sesto titolo è La serva sagace di cui non sappiamo l’autore. Comunque sono tutte negate. La nuova richiesta è di poco successiva e propone tre opere contenute nel primo tomo dell’abate Andrea Willi. Sidnei e Volsan, Carolina e Mexicow, Enrichetta o sia la Figlia ravveduta. Di questa nuova proposta non conosciamo l’esito. Il 26 novembre abbiamo una nuova proposta sempre dai soliti filodrammatici di alcune commedie prese dal primo tomo di Giovanni Giraud. (1776-1834). Questo signore oltre essere un noto commediografo è dal giugno Commissario dei teatri dei dipartimenti francesi al di qua delle Alpi. Non è che i nostri castellani abbiano voluto fare una mezza provocazione per vedere se gli bocciavano anche quelle commedie? Comunque il vice prefetto le boccia. Nell’ottobre 1813 Bonaparte è sconfitto nella battaglia di Lipsia, quindi è confinato all’isola d’Elba (aprile 1814). All’inizio del 1814 nella richiesta di un capo comico per l’uso del teatro troviamo per l’approvazione del vice-prefetto di Imola 2 elenchi, in parte sovrapponibili, di opere teatrali. Entrambe ora sono approvate senza rilievi. Forse è cambiato il funzionario o forse l’atmosfera politica. Comunque sono 70 titoli che ci danno una rappresentazione delle proposte teatrali correnti, sono in gran parte melodrammi o opere gioiose, la musica è molto frequente, tragedie, commedie e farse. Molte tradotte dal francese e dal tedesco. Tra gli italiani molte (13) sono di Carlo Goldoni e due del suo nobile amico bolognese Francesco Albergati Capacelli, poi sono presenti Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte. Tra i compositori il tedesco, ma operante in Italia, Simon Mayr e il parmense Ferdinando Paer, artisti molto famosi tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800. In questi anni sembra che ai castellani piaccia e possano divertirsi, oltre agli spettacoli teatrali ed ai veglioni al Cassero si balla nelle case private, nelle osterie, e non solo a Castello ma anche nelle frazioni, Montecalderaro, Poggio almeno a quello che risulta dai documenti ufficiali, ma a giudicare dalla facilità con cui sono concessi i permessi sembra che l’usanza fosse più diffusa anche se non dichiarata. Nel frattempo, il 28 gennaio 1814, gli austriaci sono a Bologna. Il Papa, di ritorno dall’esilio francese, il 2 aprile passa da Castello e si ferma presso la chiesetta dell’Annunziata dove riceve l’omaggio dei Castellani. Il fatto è ricordato nella bella lapide affissa sulla parete esterna della chiesetta. Il 26 aprile il viceré d’Italia Eugenio di Beauharnais abdica dalla carica e così finisce il Regno d’Italia. Il 28 maggio gli austriaci insediano un loro governo provvisorio a Bologna. Sembra finito il dominio francese e si festeggia. Improvvisamente il 2 marzo 1815 Napoleone fugge dall’Elba e torna in Francia, Gioacchino Murat, re di Napoli invade lo stato pontificio e il 2 aprile è a Bologna, il 15 è battuto sul Po dagli austriaci che il 16 aprile di nuovo sono a Bologna. 18 giugno 1815 Napoleone è sconfitto a Waterloo.

La restaurazione del dominio papale.

Il 18 luglio, in seguito alla decisione del Congresso di Vienna di riconsegnare le legazioni allo stato pontificio, a Bologna ritorna il Legato papale. Le turbolenze susseguenti alla fine del regno napoleonico non sembrano influiscano sull’attività del teatro. I segni dei cambiamenti risultano dai bolli sulle domande. Il 21 febbraio c’è un bollo di 25 cent., Regno d’Italia, sulla richiesta di presentare uno spettacolo storico sopra l’antichità di questo Castello coi signori dilettanti che viene concesso. Il 27 settembre 1814 c’è, con bollo del Regno delle Due Sicilie di 25 cent., una richiesta del bolognese sig. Rovinetti per 12 recite con marionette, che sono concesse. Si tratta evidentemente di un residuo dell’effimera presenza di Murat a Bologna. Il 28 settembre con bollo sempre di 25 cent.  del Governo Provvisorio Austriaco c’è la richiesta dei dilettanti Castellani per tre recite.   Il decennio del regno d’Italia sembra sia stato un periodo positivo per il territorio castellano tanto che, restaurato il governo pontificio e stabilizzata la situazione politica interna ed internazionale viene ripresa la vecchia idea della costruzione di un nuovo teatro, sperando che la nuova amministrazione sia disponibile. Il 20 gennaio del 1815, a nome del Consiglio, il podestà Montebugnoli invia al delegato di Governo del Dipartimento del Reno il progetto e la relazione per un nuovo Teatro fatto eseguire in tutta fretta al Sig. Angelo Santini Pubblico Architetto. Per giustificare la opportunità della richiesta si magnifica la situazione economica e sociale del paese: Una volta questo castello contava una popolazione di 1200 anime, ora è di 3000 circa. Il suo commercio è attivissimo ed in questo genere è uno dei primi paesi del Dipartimento. Questa situazione lo rende vieppiù florido, e facilita l’aumento delle famiglie. Però c’è un aspetto che ci deve preoccupare ed è che: se è soddisfacente vedere tutti occupati nei loro traffici, ma è d’altronde riprovevole, che per sollevarsi dalle fatiche del giorno si abbandonino a dei giochi d’azzardo(…) chiudendosi in case private e sottraendosi ai controlli politici. Ma il rimedio si può trovare infatti si è osservato però che quall’ora ha avuto luogo un trattenimento pubblico, l’hanno accolto col maggior piacere ed hanno trascurato tutti quei divertimenti per loro pregiudiziali. Quindi prosegue l’esposto: In questi abitanti si vedono adunque delle ottime disposizioni, ma che l’autorità locale non può coltivare per essere priva degli occorrenti mezzi, e cioè di un teatro tanto necessario all’uomo civilizzato. Purtroppo l’attuale Teatro è come se mancasse perché: minaccia rovina, è mancante di tutto, facilissimo ad un incendio per essere di legno logoro e contiguo ad un fienile, i palchi non contengono che due persone e la platea cento, il suo ingresso comincia da una cantina e le scale, in pericoloso stato, hanno una larghezza di due piedi appena (…). Si fa anche notare che già nell’anno 1807 la situazione preoccupò il signor prefetto qui in visita, per cui il consiglio decise per la costruzione di un nuovo teatro che non fu attuata. Inoltre ancora sotto il governo pontificio si aveva già questa intenzione. Considerando che nell’attuale teatro non sono da permettersi le rappresentazioni e che non è convenevole il riattamento, quindi sulla scorta di un progetto più economico e più plausibile del primo si è determinato la costruzione del teatro. La spesa ammonta a sole £ 3800 da pagarsi in due anni. La spesa del palcoscenico sarà sostenuta dal prodotto della vendita d’un dato numero di palchi. Su tutti i punti sarà fatta la più rigorosa economia. Con sì mite spesa si ottiene un teatro che fa decoro al paese. In questo il cittadino avrà onesti e proficui divertimenti atto a sollevarlo dalle giornaliere fatiche ed ad allontanarlo dal vizio, dal gioco e da tutto ciò che può essergli nocivo.(…) Che se perciò il teatro fu accordato a Budrio, S. Giovanni in Persiceto, Medicina, Castel Bolognese e perfino a Castel Guelfo si hanno fondati motivi di sperare che lo sarà ancora a questo comune.  In sintesi si tenta di dire che la spesa non è poi così grande ed è sopportabile dalle finanze pubbliche, che uno dei suoi scopi è distogliere i bravi cittadini dal gioco d’azzardo quindi il progetto ha anche una componente morale e infine:  perché gli altri comuni vicini  sì e noi no!. La risposta dell’autorità superiore non tarda ad arrivare ed è negativa: Quantunque i motivi che hanno persuaso codesto Comunale Consiglio di determinare la erezione di un Teatro possano meritare qualche riguardo, la situazione però della pubblica economia, ed il riflesso dei tanti aggravi che soffrono i censiti pei bisogni dello stato, e per gli impegni indispensabili dei Comuni (…) non permettono spese non necessarie e comunque differibili.  Se però il desiderio degli abitanti è molto forte, possono fare tra di loro una società che assuma l’impresa della erezione del proposto teatro a loro carico. Quindi se lo volete pagatevelo da soli. Per il momento si soprassiede. Il ballo sta diventando sempre più un divertimento molto richiesto. L’Autorità di Polizia emana quindi una circolare con speciali istruzioni sia per le feste da ballo pubbliche, gratuite o venali, sia private. Per le prime si prevede la presenza della forza pubblica a pagamento con però dispensa eventuale per ceto delle persone che concorrono. Comunque i locali debbono rispettare una giusta distanza dalla Chiese. Per quelle private, tutte venali, occorre avere informazioni sul petente, cioè il richiedente il permesso, inoltre l’assenso dei vicini e visita ai locali per sicurezza. Un’ulteriore distinzione è prevista per le feste venali frequentate dalla bassa gente che non conviene distrarre dal lavoro e lasciar inebbriare da un divertimento, per cui si prescrive che non si abbiano a permettere tali feste nei giorni di giovedì, venerdì e sabato. Niente “Febbre del Sabato Sera” per la bassa gente. Comunque ai castellani piace il ballo. Nel mese di febbraio del 1817 dal 3 al 18 sono 9 i permessi rilasciati per balli privati. Uno si svolge in casa del Dottor Francesco Cavazza, figlio del nostro storico Ercole. È stato restaurato lo Stato della Chiesa ed ora non è più il vice prefetto di Imola a rilasciare permessi per le rappresentazioni teatrali, ora è l’arciprete Piero Taruffi che, richiesto, dà il permesso dichiarando: Ho letto la Commedia intitolata Odoardo Assassino di Baviera e non vi ho trovato cosa alcuna contraria alla Fede e ai buoni costumi. Tre anni prima non aveva ottenuto l’approvazione dell’autorità civile. Negli anni seguenti (1816/1819) le cose non cambiano, continuano le lamentele per le cose mancanti, si fa qualche piccolo ristauro nei tetti poiché in esso piove, e successivamente altre fortificazioni. L’uso del teatro è praticamente riservato agli utenti locali, filodrammatici che diventano sempre più attivi ed esigenti. Si esibiscono anche virtuosi di musica locali. Le uniche eccezioni forestiere sono spettacoli di burattini di un impresario bolognese che diventano quasi un’abitudine.


Problemi agibilità del teatro. Varie richieste di un nuovo teatro.

I problemi di agibilità del teatro e della sua sicurezza cominciano a preoccupare anche la Pubblica Sicurezza. Il 3 febbraio 1820 il funzionario della sotto Direzione di Polizia scrive al sig. Confaloniere di Castello: allorquando la S.V. accorda l’uso del teatro per qualche spettacolo, sia certo della solidità di quell’edifizio in modo da non aversene a temere da disgraziati avvenimenti, trovo opportuno di prevenirla, che non intendo di essere responsabile degli inconvenienti derivabili dal effetto di costruzione, dalla vetustà del locale, o da altra causa materiale intrinseca al Teatro stesso, sulla cui attitudine a sostenere il peso delle persone che vi concorrono sento muoversi dei dubbi. Si incarica un capo mastro (Giuseppe Caneti) di fare una visita e riferire lo stato del Teatro. La relazione rileva che: si effettuarono i dovuti rilievi ed avendolo ritrovato nello stato, in cui era nell’anno scorso dopo le fortificazioni in esso, quindi si ritiene atto a contenere il concorso alle recite purché non si faccia nel medesimo teatro il ballo, che in allora potrebbe divenire pericoloso. Da questo momento la concessione del Teatro va avanti tra negazioni per essere in uno stato non servibile, pareri del capomastro Caneti e concessioni ai richiedenti del paese. Nell’ottobre 1821, per la festa della Madonna del Rosario, un nuovo pubblico trattenimento viene messo a disposizione dei castellani: la corsa dei Barberi. Non sappiamo dove si svolse, sappiamo i nomi dei Giudici della mossa e della ferma, ma non cosa facessero anche se si può intuire pensando al palio di Siena. I cavalli in gara erano tre. La manifestazione però non andò a buon fine. Un cavallo cadde e il cavaliere si ruppe una gamba. Allora non c’erano assicurazioni e l’infortunato, che aveva moglie e 4 figli ed aveva perso ogni possibilità di lavoro per lungo tempo, chiese: di conseguire a titolo di carità li scudi 15 distinati al cavallo vincitore, giacchè la corsa non ebbe luogo. Il comune decide che essendo la somma stata risparmiata in causa della disgrazia, sia erogata nell’opera più onorevole alla umanità ed alla Religione, vale a dire nel soccorso del miserabile che ne fu colpito. La proposta e la richiesta di pubblici trattenimenti, a causa della situazione del teatro, non era abbastanza soddisfatta dal teatro pubblico, abbiamo perciò un intervento dell’iniziativa privata. La pubblicazione di un sonetto annuncia, il primo agosto 1822, l’apertura, con una rappresentazione della Compagnia dei Dilettanti Comici Bolognesi, di un Teatro Diurno costruito e gestito dal Sig. Giacomo Lugatti. Non conosciamo la sua ubicazione, forse in uno degli spazi ancora presenti tra il Borgo e la piazza del mercato davanti al Cassero, sappiamo però che era dotato di palchi . La vita dei teatri non era nemmeno allora rosa e fiori, già nello stesso anno il Lugatti chiede un contributo (una gratificazione) al comune che non gli viene concessa.  Il Lugatti aveva però negato al Governatore l’uso di un palco. Non sappiamo se il rifiuto del palco sia causa o conseguenza della non concessione del contributo. Il Governatore è un funzionario emanazione della Legazione quindi tutta la questione assume carattere di ufficialità. Il Lugatti ricorre al Legato chiedendo: che venga dichiarato non competere per diritto al signor Governatore locale un palco al Teatro, e nel caso che lo debba avere gli sia somministrato a spese della Comune. La replica del Governatore ci fornisce più dettagli sulla onorevole questione. Intanto si dichiara che: il ricorso portato dal Lugatti debba riguardarsi come parto di stoltizia. Proseguendo fa notare che: primieramente nessuna legale, o regolare concessione ebbe fin qui il Lugatti per aprire il suo teatro diurno. Inoltre il Lugatti. fermò cervelloticamente una compagnia di dilettanti comici bolognesi e quindi fu a me forza di sostenerlo presso la superiorità, che ostava all’apertura, e ciò onde le promesse si facessero, non sapendo la Legazione stessa perfino comprendere con quale permesso si fosse eretto tale edificio. Si lascia quindi intendere che la costruzione del Teatro fosse abusiva.  In ultimo si fa osservare: che convenienza e decoro esiggono che in un luogo destinato a pubblico concorso per rappresentare spettacoli venali, quantunque edificato in suolo di privata ragione, vi abbia l’autorità governativa un seggio. La decisione della legazione arriva ai primi di agosto 1823, poco prima dell’apertura, e decide che il palco sia destinato alle autorità Comunali e debba perciò a comodo comune tanto del Sig. Governatore quanto di Lei, signor Confaloniere facendosi quindi consegnare da qualcheduno di loro l’opportuna chiave. Il papa Chiaramonti nel 1822 ha introdotto negli stati della Chiesa la vaccinazione antivaiolosa. Della sua applicazione nel nostro territorio abbiamo notizia in una lettera del dott. A. Montebugnoli del 22 ottobre, da Varignana, in cui lamenta le sue difficoltà per ritrovare un fanciullo per l’innesto vaccino pur avendo esibito infino a due scudi, ma sono stati rifiutati. Per risolvere il problema propone di aspettare che il vaiolo innestato nei fanciulli di Castel S. Pietro si perfezioni e con maggior comodo ritrovare nell’appodiato di Varignana un qualche fanciullo da innestare col seme già perfezionato in qualche fanciullo di Castel S. Pietro. Intanto dal 1822 al 1825 si susseguono richieste di interventi nei materiali e nella struttura, coperto e soffitto. Poche sono le concessioni ai dilettanti locali, previe verifiche del Capomastro Canetti, molti i rifiuti per stato non servibile o per essere il teatro rovinosissimo. Tra le concessioni una del giugno 1825, previa verifica dello stato del coperto, a una compagnia impegnata nell’Arena diurna ma che con somma sorpresa si vide al suo arrivo privata del modo di lavorare e procacciarsi un onesto sostentamento. Quindi chiedegli sia permesso di agire nel vecchio teatro. Evidentemente non si può più andare avanti così, il Comune decide di continuare le sollecitazioni verso le superiori autorità ma questa volta non in prima persona, visti i precedenti tentativi andati a vuoto. Il 12 e il 13 dicembre 1826 giungono al Confaloniere due richieste: una del locale Commissario di Polizia e l’altra sottoscritta dalle firme di 106 più o meno eminenti cittadini. La prima si fa carico dei problemi dell’ordine pubblico e recita: Nelle taverne tra la più scostumata genia, il parlare osceno, le risse frequenti, la bestemmia, il gioco, e la crapula, vanno qui miseramente a perder tempo, sostanze, costumi, sanità ed onore coloro che per buoni principi, e per lodevole inclinazione si sarebbero tenuti lontani da si abbominevoli officine di depravazione e di empietà. Ne fu a molti la causa la mancanza di un conveniente pubblico divertimento, segnatamente nelle stagioni delle lunghe notti. Una verità sì conosciuta e troppo a lungo deplorata mosse una ragguardevole numero di abitanti ad invocare dalla rappresentanza e dal Consiglio Comunale un Teatro notturno adatto all’ampiezza del luogo ed al numero della popolazione. La petizione dei cittadini si rivolge così ai signori Consiglieri Comunali: Gli onesti divertimenti, allorquando contribuiscono specialmente alla Pubblica Istruzione, meritano di essere, presso le civilizzate e colte persone, favoriti e protetti. Ed è perciò che dovunque, e nella nostra Italia ed in tutta l’Europa si scorgono moltiplicati i Teatri che, meritatamente, si sogliono appellare la scuola del costume. Di quanto danno per altro possa essere a questo nostro Castello la mancanza di un teatro da voi stessi ben sapete e da gran tempo meditavate di dare alla crescente gioventù questa scuola di educazione, se non che, o la mancanza di chi lo proponga, o la difficoltà dell’esecuzione, hanno impedito di ridurre ad effetto così saggio divisamento. Tutto al presente è superato, e la pianta che è stata già presentata addimostra, e la convenienza del sito, e la eleganza dell’opera che dovete costruire. La pianta alla quale si accenna è senz’altro quella preparata dal pubblico architetto Angelo Santini nel gennaio 1815 della quale però non ci sono tracce nell’archivio comunale. In conclusione: Manca solo l’adesione vostra per provvedere all’occorrente spesa. La utilità però, anzi la necessità, dell’oggetto fa tener certa l’approvazione. Infine l’ultimo argomento ed appello: Da quanti pericoli non distorrete voi l’ozioza gioventù, col mezzo di sì istruttivo divertimento? Solevano gli Antichi e sogliono tuttora alcune nazioni permettere i Lupanari per evitare la violazione delle private famiglie. E non vorrete voi concedere un teatro, non già ad evitare la dissolutezza della Gioventù, ma ad istruirla, ad educarla in ogni genere di civili e umane virtù.  Forse l’analogia coi lupanari non è proprio politicamente corretta, ma è chiara la buona intenzione. Il consiglio approva la richiesta e appoggia caldamente l’istanza. Il legato risponde il 18 dicembre scrivendo di non essere in disaccordo, resta però a vedere se e come vi si possa dare esecuzione, ed a questo effetto attendo che mi se ne rappresenti un ben inteso e maturo progetto colle ulteriori deliberazioni.

Permesso accordato per il nuovo teatro. Progetto e assegnazione lavori.

Finalmente si comincia a fare sul serio e si può partire. Iniziare un nuovo lavoro pubblico, a quei tempi, si sa quando si incomincia ma non si immagina ancora quali e quanti problemi si dovranno affrontare. Per l’incarico della costruzione di un Teatro di pietra si interpella il famoso ingegnere Filippo Antolini che incarica il Dott. Marco Manini del suo studio, assicurandone l’assistenza. Il sito destinato è quello dell’antico Teatro e contigue case.  Il 27 gennaio 1827 viene dato ufficialmente l’incarico per progettare il nuovo teatro, in marzo abbiamo la perizia dei lavori. Evidentemente si è abbandonato il vecchio progetto del 1815. Come descrive la relazione: Questo teatro sarà di tre ordini di palchi, avente undici palchi per ordine, tranne il prepiano che sarà solo di dieci cadendo l’ingresso precisamente nel luogo del palco di mezzo. La spesa prevista è di lire 3.209.   Il 30 ottobre 1827 il piano finanziario è approvato in Consiglio Comunale, prevede il finanziamento con le entrate comunali in 5 anni ad iniziare dal 1829, per provvedere alla spesa del palcoscenico e dipinto del teatro si spera nel ribasso d’asta e nella vendita dei palchi. Il tutto è inviato al Legato, che risponde il 23 febbraio 1828 scrivendo che tutto è giusto, conveniente per l’onesta occupazione e trattenimento della moltitudine (…) il tutto è assai bene ideato e calcolato (…) egli è per tutto ciò che sono pure io condisceso a prestare il mio assenso autorizzando la V. S. ad eseguire il progetto stesso (…) Però deve essere: esclusa del tutto la contribuzione dell’appodiato di Varignana, infatti non avendone alcuna utilità non ne deve avere oneri, quindi è giusto che la spesa la sostenga tutto il bilancio del comune di Castello (…) Anzi riflettendo al maggior utile e comodo che ritraggono da detto teatro gli abitanti dell’interno del Castello, trovo giusto che questi più degli altri, sia con parziale tassa ad essi incombente, sia con offerte e collette contribuiscano onde ridurre le tasse al minimo. Quindi si richiede di fare un nuovo piano finanziario tenendo conto dell’esclusione dalla spesa di Varignana. ed eventualmente prevedendo una contribuzione a carico degli abitanti dell’interno del Castello. Il 12 aprile arriva la proposta dei Capimastro Periti Muratori Giacomo Minarelli di Castello e Eugenio Bassani di Bologna di assumersi l’impegno della costruzione per scudi romani 3.150, inizio lavori agosto 1829, termine lavori 10 novembre 1830, pagamento in sei rate a partire dal 1829. L’origine della proposta non è spiegata, il Minarelli è il vero capomastro, Il Bassani è indicato successivamente come Dottore ed è figlio di un noto notaio di Bologna presso il quale è scritta la sicurtà per i lavori, questi è quindi il vero garante della strana coppia. Il progetto rapportato alla proposta viene inviato alla legazione e il 3 maggio il Legato approva per: la prontezza del lavoro, per la capacità e garanzia dei progettisti, e pel leggero aggravio che ne apporta ai Comunisti il ratatato pagamento in sei anni, non è poi d’altronde sperabile una più vantaggiosa né eguale offerta, giacché quant’altri hanno esaminato la perizia e capitolato con la condizione di un si rateggiato pagamento ne hanno tosto rinunciato e deposto ogni pensiero. Come faccia il Legato a sapere che non fosse sperabile una più vantaggiosa offerta, e chi siano gli altri che esaminato il capitolato hanno tosto rinunciato e deposto ogni pensiero, non è dato sapere. Il 20 maggio 1828 si stipula il rogito dell’assegnazione dei lavori ai signori Minarelli e Bassani, definiti inattesi imprenditori ai quali si riconosce essere stati mossi piuttosto da spirito di onorificenza, e non indotti certamente da viste di interesse nell’intraprendere immediatamente il lavoro e renderlo compiuto entro il 1829. Che la proposta sia vantaggiosa per il Comune e che i due Capi mastri non abbiano interessi venali pero non è convincente per tutti e insistere su questi aspetti addirittura nel rogito, indica un po’ di coda di paglia delle autorità. Inoltre Il Consiglio non è stato messo a conoscenza e nella possibilità di deliberare sulle prescrizioni legatizie e sui nuovi termini del contratto. E infatti una settimana dopo il 28 maggio 3 consiglieri, Lorenzo Landi, Giovanni Fiegna e Giovan Battista Acquaderni scrivono una durissima lettera al Legato, in essa ricordano che in Consiglio fu detto che la spesa era, per i soli lavori murari, di 3.250 scudi, che tale somma era a carico del paese e degli appodiati, che veniva diminuita di circa un sesto mediante gli esperimenti di pubblica asta. All’improvviso si è fatta la stipulazione del contratto ed in pari tempo si è posta mano all’opera senza procedere all’asta, come è voluto dalle vigenti Leggi (…) nulla curando il vantaggio, che certamente ritrarre si poteva e sul quale moltissimo contava il Consiglio. Quindi non è stata rispettata la decisione del Consiglio, inoltre sono stati esclusi dalla spesa gli appodiati e la campagna quindi la misera popolazione del solo Castello verrebbe ad essere sottoposta ad un peso estremamente oneroso.  In aggiunta si è pure licenziato fuori di tempo un inquilino, onde costruire colla massima precipitazione la fabbrica. Si sospetta che il locale Confaloniere sia stato fautore di un maneggio in Legazione nell’informare sinistramente l’E. Vostra Reverendissima per ottenere il bramato intento. (…) Quindi è evidente il deviamento dalle Leggi, la niuna curanza del ben pubblico, il dispregio degli attributi del Consiglio e, quasi può dirsi, dell’E.Vostr. Eminentissima. Evidentemente i tre consiglieri che protestano sono persone importanti. Il Legato si affretta a lavarsene le mani e il 2 giugno 1828 scrive: Sopra rapporto della cessata Magistratura io condiscesi ad approvare il progetto che era stato presentato per la costruzione del nuovo Teatro.  Gli era stato assicurato che non si poteva sperare in una offerta migliore e che gli altri eventuali concorrenti avevano rinunciato. Ora però è arrivato un reclamo che afferma altro. Vuolsi in esso che il cessato Confaloniere non sia stato sincero nella sua esposizione, e che l’aver rinunciato all’asta abbia creato un pregiudizio al Comune, (…) Si muove inoltre doglianza perché il Consiglio non sia stato interpellato e non sia stato avvertito della determinazione della Legazione che escludeva dal concorso della spesa l’appodiato di Varignana. (…) Quindi ora si faccia quello che non fu fatto (…) Perciò ella signor Priore, è invitato a sentire in proposito tutto ciò che avrà da dedurre il cessato Confaloniere e poscia convocare il Consiglio, affinchè deliberi in quel modo che riputerà essere il più utile e conveniente. nel frattempo, Ella intimerà tosto la sospensione dei lavori fino a nuova mia disposizione, che mi riserbo di impartire tostochè mi saranno rassegnate le consigliari deliberazioni.  A questo punto vengono sospesi i lavori, con proteste dei vincitori dell’opera. Viene convocato per il 10 giugno il Consiglio Comunale.  Il cessato Confaloniere contro deduce alle accuse. Per quanto riguarda la principale questione, cioè di non aver fatto l’asta dichiara: che non era sperabile il rinvenire concorrenti che fossero per presentare miglior progetto di quello avanzato da Minarelli e Bassani, li quali si ritenevano sciolti da quella obbligazione, qualora il comune avesse tentato un esperimento d’asta. Mancando pertanto concorrenti ad un’asta e ritendosi sciolti i progettisti dal loro impegno ne veniva per conseguenza che il lavoro non avrebbe avuto luogo. Poi ha un asso da calare, presenta 5 dichiarazioni di capimastri della zona, che dichiarano che, avendo esaminato il progetto, fatti i conti, considerato la durata delle rate, essendo convinti di rimetterci avessero declinato l’invito. Perché queste dichiarazioni, datate 4 e 6 giugno, saltino fuori solo ora, ai posteri (che siamo poi noi) la risposta. Per quanto riguarda poi il fatto di non avere né informato il Consiglio della lettera del Legato né fatto deliberare dal Consiglio le condizioni poste dal Legato di prolungare i tempi di pagamento e soprattutto di escludere Varignana, la sua giustificazione è la seguente. il dispaccio non mi comandava di presentarlo in Consiglio e se avessi in tal modo operato si sarebbe avuta l’impudenza e la sfacciataggine di accusarmi presso l’E. Vostra Reverendissima come un dispregiatore dei suoi venerati ordini e sarei incorso nello scherno di tutti se avessi sottoposto all’approvazione di un inferiore un’ordinanza e comando del suo superiore. Questa capacità di girare la frittata è veramente ammirevole. Peccato che la volontà del Legato, chiaramente espressa, fosse quella di un impegno esplicito, con atto ufficiale, di tutti i consiglieri di rispettare le condizioni poste e cioè soprattutto che la spesa fosse solo a carico degli abitanti del Castello. Il Consiglio però accetta le ragioni del cessato Confaloniere e come scrive il priore al Legato: ha ritenuto della convenienza e della pubblica utilità che continui l’intrapresa costruzione di questo teatro nei modi e sotto le condizioni risultanti dallo stipulato del 20 maggio scorso. Aggiunge addirittura che: mi è stato consolante che il Consiglio abbia reso la debita giustizia (!) al retto operato del cessato Confaloniere sig. Giovanni Grandi. Però l’impegno di escludere Varignana non è stato deliberato. La Sacra Porpora del Legato Cardinale Albani, sta diventando sempre più paonazza. Una sua lettera del 16 giugno 1828 al Priore si apre con: Ho dovuto molto disapprovare la condotta da lei tenuta in tutto ciò che riguarda la edificazione di cotesto nuovo Teatro, giacchè per far riuscire la cosa a modo suo, e de’ suoi fautori, ed amici, si è proceduto con indipendenza manifesta dai miei ordini. Mi si è stato fatto supporre che nessuno aveva concorso all’asta, e che quindi bisognava ricorrere ad una trattativa privata. Invece non era vero niente, non si era fatta parola di asta o comunque di una gara. Ingannato da questa falsa rappresentanza e da quella del desiderio generale della popolazione di avere un nuovo Teatro (cosa ancor questa assai lontana del vero) approvai che si venisse al contratto col Bassani, ma non sembrandomi giusto che a questa spesa concorresse l’Appodiato di Varignana dissi, che prima di stipulare il contratto il Consiglio risolvesse, se intendeva di assumere tutta la spesa, escluso il concorso di Varignana. Ma questo mio ordine fu del tutto disubbidito, poiché non fu mai fatta una tale proposizione al Consiglio, e ciò nonostante si venne alla stipulazione, come se il mio ordine non avesse esistito. A questo punto ho ordinato di sospendere i lavori e chiesto che il Consiglio decidesse di escludere Varignana, ma ancora questa volta sono stati conculcati i miei ordini e mi si è trasmessa una copia di atti del Consiglio, dai quali non risulta altro che un misterioso giro di parole, ma è certo che la proposizione da me prescritta non si è fatta, e che il Consiglio non vi ha interloquito. Quindi dovrei annullare tutto e chi ha fatto il guaio ne sopporti le conseguenze. Mi limito invece all’invito a non disubbidirmi ancora e a far decidere al consiglio sull’esclusione di Varignana. Intanto sarebbe anche necessario di avere una copia dell’Istrumento fatto col Bassani che non è stato mai da me conosciuto. Il Priore si giustifica facendo notare che lui è appena entrato in carica il primo giugno, tace però il fatto che era comunque consigliere e come priore ha appena continuato a disattendere le richieste del Legato.  Sulla mancata esclusione di Varignana cerca di giustificarsi ricordando che il rogito è stato stipulato a nome solo dell’appodiato di Castel San Pietro. Comunque se però V. S. Eminentissima volesse che riproponessi al Consiglio l’esclusione dell’appodiato di Varignana mi farò un pregio di dare al più presto eseguimento al di lei venerati ordini.   Nel frattempo Bassani e Minarelli si stanno preparando a chiedere i danni se dovranno rinunciare alla costruzione del teatro. Un gruppo di Consiglieri, il 7 luglio 1828, considerando che anche: se una tale protesta non sarà totalmente efficace, è per altro certo, che darà movimento e causa ad un lungo, e dispendioso giudizio. Chiedono al Priore di recarsi con due di loro dal Cardinale Legato per: impetrare quelle provvidenze che possono allontanare le conseguenze pericolose su esposte. Finalmente, alla fine di luglio arriva l’intervento del Legato su tutta la questione Teatro. Dopo aver premesso di essere malissimo contento, e che si sarebbero meritato che avesse annullato tutto, tuttavia ha deciso di fare un nuovo esperimento in un modo regolare, e incriticabile quindi il Consiglio sarà in condizione di liberamente scegliere di approvare di nuovo, o di rigettare la proposizione circa la fabbrica di codesto Teatro, avendo convinto il Bassani a non pretendere pagamento di penali. Quindi prosegue puntigliosamente: Ora adunque è mia volontà, che si raduni di nuovo espressamente il pubblico Consiglio, invitando ciascun Consigliere a recarvisi notificandogli nell’invito l’oggetto della sua chiamata (…) Ciascun Consigliere dovrà dare il suo voto, e così manifestare se intende di volere la continuazione della fabbrica del teatro, per mezzo di quel contratto, escluso l’appodiato di Varignana dal concorrere alla spesa (…) oppure se intende di ricusare la continuazione stessa. Questa proposizione verrà così messa ai voti, avvertendo che quando fosse concepita in termini da importare un sentimento diverso, o men chiaro, l’atto consigliare non riporterà mai la mia approvazione, e dovrà ritenersi come non avvenuto. Se si deciderà di continuare si dovranno deliberare anche i mezzi per far fronte alla spesa tanto della parte muraria che del resto del Teatro. Infine perché non ci siano dubbi sulla sua volontà : prevengo che ad assicurarmi della Legalità dell’atto, e all’oggetto di allontanare tutti i maneggi, che purtroppo hanno avuto luogo nelle passate deliberazioni su questo affare, verrò io stesso in persona costà nel giorno di giovedì 7 agosto ad assistere alla adunanza Consigliare, onde potranno i componenti il Consiglio trovarsi pronti alle ore 10 della mattina di tal giorno, perché per parte mia procurerò di essere esatto a questo appuntamento.  Il 22 agosto il Legato comunica,  con compiacimento, che ha convinto i costruttori a dilazionare il pagamento addirittura  in 8 rate.

La costruzione e l’inaugurazione.

Finalmente pare che tutto si sia appianato e che i lavori possano procedere. Il 20 gennaio 1829 arriva già la prima perizia suppletiva dovuta al fatto che operando su una struttura esistente sorgono problemi che si scoprono durante il corso dei lavori, tra questi lo stato dei muri nascosti dai palchi che ora vengono demoliti. Tra questi, coperto dai medesimi palchetti del Teatro Vecchio, il muro a Ostro (sud). La perizia suppletiva ammonta a circa 374 scudi. Il Priore si premura di indicare che faranno fronte alla spesa senza intervenire sul focatico ma usando l’aumento dell’entrate del mercato che valutano in 59 scudi annui.  Arriva maggio e arrivano nella fabbrica del teatro, tutto ad un tratto, delle crinature le quali hanno dato luogo nel paese a non poche dicerie. La crinatura si trova nel muro a nord ed è lunga 30 piedi cioè circa 8 metri.  Altro intervento è per l’angolo di fabbrica levante tramontana cioè nord-est. Il lavoro oltre che necessario è urgente, quindi nuova spesa di 329 scudi. Intanto qualcuno, all’oscuro della vicenda del teatro, chiede gli sia concesso di fare una piccola accademia vocale e strumentale o nel Teatro o nella sala della Comune. La risposta è che non può aver luogo la domanda perché il teatro si sta ora costruendo, il diurno è occupato da una compagnia di ballerini, la sala comunale non è disponibile. Nonostante i lavori i pubblici trattenimenti non mancano ai castellani, funziona un teatro diurno, non sappiamo se gestito ancora dal Lugatti e sembra a volte utilizzabile anche una sala comunale. Il 28 settembre 1829 viene emanato dal Cardinale Legato il Regolamento per la direzione dei Pubblici Spettacoli.  All’art. 1 è istituita una Deputazione dei Pubblici Spettacoli che ha il compito di sovraintendere, controllare, sorvegliare tutto ciò che riguarda i pubblici intrattenimenti. È composta di tre individui scelti dal Consiglio Comunale tra i suoi membri. Dura in carica sei anni e decide su quasi tutto, fatto salvo il definitivo giudizio della Legazione.  Intanto i lavori murari, pur con qualche problema, procedono, ma ora è giunto il tempo di pensare al palcoscenico e all’arredamento. Ci si trova di fronte ad un impegno finanziario abbastanza importante.  Fortunatamente all’inizio del 1830 si presenta la favorevole circostanza, in cui il Nobil Uomo Sig. Marchese Angelo Marsigli Rossi Lombardi si è mostrato compiacente di acconsentire all’alienazione a favore di detto Comune di diversi articoli del suo teatro detto Marsigli posto in questa città, li quali possono con tutta previsione servire al corredo di tale nuovo teatro, attesa l’uniformità dei due palchi. Il teatro Marsigli in funzione dal 1710 è stato un importante teatro di Bologna, dedicato all’inizio all’opera buffa, nel biennio 1797/98 ospita la Società dei Patrioti, attori dilettanti di ideali giacobini. Chiuso dagli austriaci e riaperto nel 1800 diventa soprattutto sede di spettacoli lirici, viene chiuso definitivamente nel 1825. Riutilizzabile, salvo alcuni adattamenti, è tutto il legname e i macchinismi per il palcoscenico, 20 panche lunghe piedi 18 ½ (circa 5 metri) per la platea, legilli e banzolari dell’orchestra e inoltre N. 8 Scene, N.7 Praticabili o Scene con Sfondo, N. 4 Sfondini, N. 52 Quinte. Gli otto scenari sono: una Camera rustica, un Principale di una Reggia, un Praticabile di una Prigione, una Grotta, un Gabinetto nobile, un Paesaggio, una Camera, ed un Loggiato di stile greco. Il sig. Giuseppe Badiali Pittore nella sua relazione sulla sua visita alle decorazioni del Teatro Marsigli scrive che: ha trovato la più parte in stato quasi ottimo riguardo la pittura, e in generale in tutte buona qualità di tela. Unisce alla relazione un elenco dettagliato su stato, qualità e autore. Tra questi Pelagio Palagi e, per diversi scenari Antonio Basoli, entrambi noti esponenti del classicismo bolognese.  Quest’ultimo risulta anche autore del sipario che: rapresenta un Circo Romano con Gladiatori in azione. Purtroppo egli è un poco troppo grande, per cui il dipinto rimarebbe, tanto in altezza, che in larghezza, in parte coperto, la qual cosa lo rapresenterebbe mutilato, e di disgustosa veduta. Il Dipinto adunque di questo sipario è inservibile. Il boccascena del teatro Marsigli era più grande di quello di Castello. La valutazione del Marsigli di tutto il materiale è di 322 scudi che però riduce a 285 a condizione che la legazione approvi il contratto entro il mese di marzo. Quindi inizia il procedimento per ottenere tale approvazione, a tale scopo si fa notare che il preventivo prevedeva per questa parte 773 scudi, ora si prevedono per il restauro e il trasporto 122 scudi quindi alla fine si realizzerebbe un risparmio, rispetto la spesa prevista, di 366 scudi. Questo fatto, assieme alla qualità del materiale, convince anche la legazione ad approfittare della favorevole circostanza. Il sipario Marsili non è utilizzabile, quindi occorre prepararne un altro. Nella proposta, datata 25 aprile, del sig. Giuseppe Badiali, definito poi dal Priore: pittore eccelente di questa città, contenente anche la descrizione dei lavori per la dipintura degli ambienti del teatro, si propone per il sipario uno: Scenario rappresentante con magnifico bordo ove sia espresso allegoricamente l’origine di Castel San Pietro. Per esempio ponendovi 2 o 3 figure in un paesaggio colla veduta di Castello preso nel più bel punto di vista. Il punto di vista è la veduta di Castello da sud-est, presa da oltre il fiume Sillaro. Esistono diverse incisioni di Giacomo Savini, pittore bolognese, apprezzato paesaggista e vedutista sulla scia di Antonio Basoli, con vedute del paese tra le quali una è la stessa dipinta nel sipario pur senza le piccole figure. Questo è il sipario che i castellani vedono fino al 1916, quando cadrà il fulmine sul teatro, e che tutt’ora si può vedere in cartoline dell’epoca. Del Savini non si parla nelle carte del teatro, si ha solo una nota in un elenco spese per imprimitura di due teloni e quattro quinte, spesa non incluso nel contratto Badiali. Per completare l’arredo manca l’illuminazione, che al tempo non era un problema semplice. Il 24 aprile 1830 il sig. Magazzari presenta una: Nota detagliata dell’illuminazione necessaria al Teatro di Castel S. Pietro. N. 20 Chinchè con riverbero in latta per la batteria del palcoscenico. N. 30 idem per le 10 stangherline dei laterali (…) Un lampadario per la platea con N. 9 lumi cioè 6 al circolo esterno e 3 nell’interno con suo capello a riverbero, fondo a mezza sfera di perle e gocce di cristallo, 6 catene di metallo per sostenerla nonché 6 bracci da due candele per ciascuno, da sostituire alle lumi ad olio per l’illuminazione a cera.  I chinchè (Il cui nome deriva da Antoine Quinquet che introdusse modifiche migliorative nel tipo di lampada) sono sul tipo delle nostre lumiere a petrolio con tubo di vetro, in uso fino a poco tempo fa nelle nostre campagne sprovviste di energia elettrica. A questo punto non resta che vendere i palchi, ne sono messi in vendita 20 per un incasso di 700 scudi in tre rate, la vendita ha successo, la lista dei richiedenti comprende 29 nomi. Dal verbale della visita di collaudo risulta che: Il Teatro ha l’ingresso dalla parte di Ostro (sud) della  Porta del Castello, in un atrio colla Scala Ducale fornita di parapetto di ferro, alla destra del quale atrio si ritrova un ambiente ad uso di Magazzeno oltre li piccoli camerini per la dispensa de’ Biglietti, ed altro ambiente di seguito destinato a comodo del custode, nel quale vi è una porta che corrisponde al Voltone, la quale può servire  d’ ingresso coperto.(…) La platea del teatro ha il pavimento di tavole di legname dolce, bene connesso (…) e sostenuto da una robusta armatura che ne rende solido l’uso. La platea è circondata da tre ordini di palchi di capacità sufficiente, capace per quattro persone di facciata. (…) L’interno del Teatro è in ottimo stato di robustezza, à tutte le comodità possibili ed è inoltre brillante perché fornito di tutto l’occorente all’uso di cui deve fornire, bene architettato e dipinto di ottimo gusto.  Da questo verbale si può ricavare che l’ingresso era sul lato sud, verso il centro del paese, e a sinistra del voltone, infatti a destra c’è la biglietteria e di seguito un locale da cui si può accedere al voltone. Purtroppo non abbiamo trovato i disegni del progetto. Dell’interno abbiamo le fotografie della fine dell’ottocento. Finalmente il 27 agosto 1830 il priore chiede, anzi invoca : l’autorizzazione di V. E. Reverendissima per l’apprimento (l’apertura) di questo nuovo teatro nella sera del 18 dell’entrante settembre per dar corso a tutto il 3 del successivo ottobre a dieci recite delli due spartiti intitolati: Matilde di Chebran, e l’Italiana in Algeri, musica del celebre e chiarissimo cavaliere Rossini che ne sarà il direttore.  Sulla effettiva presenza di Rossini all’inaugurazione del teatro, non abbiamo documentazione, per la verità non abbiamo nemmeno carte che ci parlino semplicemente dell’inaugurazione, che avrebbe dovuto avere una certa solennità, almeno per ripagare degli sforzi fatti. Rossini aveva, in quel periodo, casa a Bologna in Via Maggiore, però era quasi sempre a Parigi, che in quel tempo aveva visto la “Rivoluzione di luglio” che aveva detronizzato Carlo X e messo al suo posto Luigi Filippo, e il cambiamento istituzionale aveva creato problemi a Rossini.  Quindi forse non era a Bologna.

Il difficile inizio. La rivolta delle Provincie Unite.

Il teatro comincia a funzionare e iniziano anche i contrasti sulle competenze.  La concessione del teatro la dà il Priore, sentita la Deputazione per gli Spettacoli, visto il permesso e le condizioni del funzionario di Polizia, del Governatore ed il nulla osta della Legazione.  Servono pareri, nulla osta e visti di varie autorità.  A farne le spese sono gli impresari delle compagnie teatrali. Il 20 settembre il Priore concede ai Capicomici Martini e Gagliardi il Teatro per 20 recite, dopo terminate le attuali opere in musica per recitarvi a tutto il 27 del venturo novembre. Gli impresari naturalmente pubblicano i manifesti del corso di recite. Il capo della Polizia Provinciale interviene perché il numero delle recite non è solo di alcune unità, come gli era stato fatto credere o aveva capito, e quindi occorrono ben altre autorizzazioni. Il priore fa le sue umilissime e dovute scuse. Il Poliziotto, per questa volta, (ma non succeda mai più), le accetta e la compagnia è salva, ma non tarderà ad avere altri problemi. Il 30 novembre è morto il Papa Pio VIII quindi la sede papale è vacante e durante questo periodo i teatri debbono restare inattivi fino all’elezione del nuovo papa che avviene il 2 febbraio 1831. La compagnia 7 gennaio è ancora a Castello, è composta di 15 individui e trovasi qui inoperosa per non potersi trasferire alla sua destinazione attese le attuali circostanze di Sede Vacante, e trovasi in situazione veramente bisognosa e priva di ogni risorsa, ma però di savia condotta.  Intanto stanno succedendo fatti più gravi, il 3 febbraio nei ducati di Parma e Modena sono stati cacciati i sovrani. Il 5 febbraio le legazioni di Bologna, Ferrara e della Romagna dichiarano la secessione dallo Stato Pontificio, la rivolta si estende alle Marche e all’Umbria. A Bologna si insedia un Governo Provvisorio che l’8 febbraio emana un decreto nel cui articolo 1 dichiara: Il Dominio Temporale, che il Romano Pontefice esercitava sopra questa città e Provincia, è cessato di fatto, e per sempre di diritto. Il 26 febbraio si costituisce il Governo delle Provincie Unite Italiane. I nostri Castellani si trovano, non sappiamo quanto all’improvviso, senza più Papa, senza più Legato e con dei signori che danno nuovi ordini e pretendono pronta ubbidienza. Già il 5 febbraio arrivano al Priore le disposizioni per la immediata organizzazione della Guardia Provinciale che le è particolarmente raccomandata ed inculcata, e desideriamo un rapporto circostanziato attorno alla medesima.  Il Priore prudentemente investe della questione l’intero Consiglio e verbalizza che: li Sig. Consiglieri intervenuti hanno convenuto, che sia cosa prudente, e ben fatta l’occuparsi efficacemente per conservare la pubblica tranquillità in questo Comune, e per tutelare la vita, e le proprietà delle persone non ostante si mantenghi qui presentemente il buon ordine. Per cui viene determinata l’attivazione di una Guardia Forense composta di cittadini, forniti di savietta e pendente, e così con questa guardia ottenere lo scopo su indicato, cioè la pubblica tranquillità. Seguono i nomi del capo e suo vice, dei capi pattuglia e le firme autografe dei consiglieri. Infatti il cambiamento non può non aver creato un po’ di scompiglio. Va bene che morto un papa fatto un altro, accidenti a questo e a all’altro, come dice il detto popolare, ma questa volta l’altro era una cosa quanto meno inusuale. Il parroco si premura di comunicare al priore che il 13 farà il tradizionale Te deum per l’avvenuta elezione del Pontefice e di far dare i soliti segni di questo ringraziamento colle campane alzate, e come a festa, perché il popolo cominciava già a mormorare di non sentirsi alcun segno come se, negli attuali cambiamenti, non si dovesse più essere cattolici. Gli attuali cambiamenti possono creare anche qualcosa in più di qualche perplessità. La delegazione di polizia del Governo Provvisorio (ex Polizia Provinciale) scrive in una lettera il 19 febbraio (classificata riservata) ai priori: Corre voce che alcuni si permettano di spacciare brevi e benedizioni, che in una di queste si prometta l’assoluzione in articulo mortis a quelli che si opporranno al presente sistema di governo. Poiché la diramazione di simili cose potrebbe cagionare nei più idioti sinistre impressioni e tratti da ignoranza muoversi ancora a turbare la pubblica tranquillità, così impegno l’attenzione di Lei ad indagare attentamente se nel suo circondario giurisdizionale circolino oggetti di simil fatta, onde farsi strada a conoscere chi ne siano i distributori per dar luogo a convenienti rigorose misure.  Contemporaneamente arriva un elogio per le disposizioni da lei date per rinvenire e far arrestare i due soggetti spargitori di proclami incendiari.  Questa rivoluzione ha però breve vita. Il nuovo papa Gregorio XVI e i duchi di Parma e Modena, chiamano in soccorso l’Austria che non aspettava altro per mandare il suo esercito. Il 21 marzo Bologna è occupata dagli austriaci, il 26 aprile con la capitolazione di Ancona, termina l’avventura della Repubblica delle Provincie Unite. Del Teatro durante questi avvenimenti non si hanno carte, c’è solo la risposta  al governo provvisorio sulle spese per la costruzione del teatro del 18 marzo, spese che ammonterebbero a scudi 6.075, con fine del pagamento l’anno 1836 come da specchio dimostrativo del 12 gennaio 1830.  Due giorni dopo arrivano a Castello le truppe austriache che si fermano  anche il 23, 24  e 18 aprile  a spese dei castellani. Il primo intervento degli occupanti (o per alcuni liberatori) è la consegna di tutte le armi che furono consegnate agli addetti all’ordine pubblico ma è pure indispensabile che in pari tempo siano ritirate tutte le armi dalle mani dei cittadini, e abitanti di campagna di qualunque sorta esse siano. Tenendo conto che le armi servivano soprattutto per la caccia e che in ogni famiglia c’era almeno un cacciatore e quindi un fucile, si può comprendere la vastità del problema e della sua realizzazione.  Il nuovo cambiamento politico ha sicuramente creato qualche scombussolamento, la cautela tenuta dalle autorità locali nelle recenti circostanze non sembra tenuta in particolare considerazione dai nuovi arrivati il cui spirito è piuttosto di rivalsa e di scarsa fiducia sulla fedeltà mostrata. Il priore il 28 marzo come primo contatto con le superiorità chiede come comportarsi nei confronti di un forestiero (malato mentale) e suo servitore, in riferimento a norme sulle persone di altre provincie. Il poliziotto provinciale, piuttosto arrabbiato, scrive che: veramente dovevo attendermi che le prime ed uniche relazioni della S. V. posteriori allo felice ripristinamento vertissero sopra oggetti più interessanti.  Il poliziotto vorrebbe sapere come si sono comportati i Comunisti, quali sono le persone che sono espatriate, quelle che si fossero mostrate le più esaltate e nemiche del Governo della S. Sede.  Se regni l’ordine e non si odano più canti rivoluzionari, e grida sediziose, Inoltre vuole sapere se esistino ammassi di armi, e di che qualità, quante e di qual specie ne possegga il Comune e infine se si sono o no fatte manifestazioni di giubilo per il ritorno del dominio dolce e pacifico del santo Padre. Dopo questa lavata di testa è immediata la giustificazione del Priore Oppi che risponde che solo tre castellani si sono arruolati volontari in Bologna al militare servizio, due rimpatriarono prima dell’arrivo delle Imperiali truppe Austriache, e l’altro subito dopo. Come prova del suo leale comportamento fa notare che Questo magistrato Comunale non ha fatto doni patriottici e anzi quando il furono richiesti i fondi della cassa comunale e di avere generi alimentari fu dato un fermo rifiuto. e infine che la condotta tenuta da questi abitanti fu lodevole. L’arrivo delle truppe austriache, annuncio del sospirato felice ritorno del paterno reggimento della Santa Sede, fu accolto con la più pura e sincera gioia. Quanto all’alloggiamento dei circa 8.000 austriaci e 1300 cavalli tanto il Magistrato Comunitativo quanto gli abitanti stessi vollero gareggiare nel dare una piena prova.  Di questo entusiasmo castellano per la presenza di tanti soldati da mantenere e alloggiare si può certamente dubitare. Questa fatica del Priore non ottiene però gli effetti sperati infatti si rifà di nuovo viva la diffidente Polizia Provinciale che il 3 maggio scrive a proposito della situazione a Castello, di cui evidentemente si è occupata direttamente, che: la V.S. o è ingannata dai veglianti di cui si prevale, o che non si diede cura bastante per ben conoscere gli avvenimenti. Infatti: Consta a questo Ufficio, (…) per assicurazioni inneccezionabili e degne di fede, che nel Paese si udirono dopo il ripristinamento del legittimo Governo canti rivoluzionari anche la notte dal 19 al 20 per opera di un attruppamento di male intenzionati con scandalo e indignazione di tutti i buoni.  Inoltre risulta che formino parte di cotesta Guardia Forense uomini d’indole perversa, facinorosi ben cogniti, ed individui macchiati di delitti gravissimi, tra i quali mi viene indicato un Giovanni Cenoli reduce dalle galere, un Luigi Ciocchini omicida, un tale che non nomino, furibondo rivoluzionario, ed altri che avrebbero, oltre le orrende bestemmie vomitate, minacciato pubblicamente di morte l’Em. Sig. Cardinale Benvenuti allorchè ridotto in empia e cruda cattività dai ribelli, per cotesto Castello transitò alla volta di Bologna prigioniero. Quindi se lei mi assicurò che questa Guardia Forense era affidabile mi è forza concludere che Ella ignorasse o non conoscesse punto le persone ascritte ad una Guardia incaricata sotto l’immediato di Lei comando di proteggere la pubblica e privata tranquillità e sicurezza, (…). Quindi fa di mestieri, o che vegga le cose con gli occhi propri, o che per quanto non potrà fare da se, si affidi a persone di cognita fede ed autorevolezza. Intanto in conseguenza o meno di ciò arriva a Castello un distaccamento della Polizia Provinciale e quindi si comunica il 5 maggio che: le Guardie Forensi del Capo-Luogo devono per massima rimanere affatto sedentarie, e non essere chiamate al servizio attivo, se non in mancanza della forza assoldata, od all’emergenza di casi straordinari.  La presenza delle Guardie Provinciali non si limita alla sostituzione di quelle forensi ma prende sul serio le voci arrivate a Bologna ed interviene pesantemente. Il priore ricorre direttamente al Legato richiedendo un suo intervento e dopo aver riconfermato il buon ordine e la pubblica tranquillità, che regnano in questo Castello. L’ottimo contegno tenuto dagli abitanti anche in tempi più difficili e dà la sua versione degli avvenimenti recenti: Mentre sulla continuazione del godimento della pace cominciavasi a respirare di un aria pura sotto d’un Governo saggio, e giusto, alcuni pochi abitanti per malanimo o per secondi fini hanno messo in giro pretese minaccee pericoli e sonosi fatti supporre in tempo di sera ripetuti canti sediziosi non verificati. Io stesso per lunghe notti, e con la debita riservatezza ho vegliato nell’intero Castello, e Borgo ed ho sempre rinvenuto lo stato il più tranquillo di quiete, e di sicurezza, e gli abitanti ritirati nelle loro case in seno alle proprie famiglie. Nonostante questo la Polizia Provinciale che per li sofferti sconvolgimenti rivoluzionari a ragione deve di tutto temere, si è messa in qualche diffidenza non solo sugli abitanti ma benanche sul Magistrato (il Priore) E infatti non solo sono stati arrestate tre persone ma anche tolti 23 fucili comunali, giberne ecc. con sorveglianza contemporanea ed apparato di Forza interno alla casa Comunale. Intimazioni a persone per la loro comparsa personale alla stessa Polizia. Insomma un vero stato di assedio. Sull’eventuale risposta del Legato non abbiamo notizia. Il nuovo Teatro appena inaugurato non trova un ambiente certamente favorevole al suo sviluppo, prima la sede vacante, poi la bufera dell’intruso governo rivoluzionario, il conflitto militare e il passaggio di truppe, l’occupazione austriaca e la restaurazione del regime del Papa con la susseguente reazione, che rompe un po’ gli equilibri nella società castellana. In questo periodo il teatro probabilmente non è stato usato, comunque diverse notizie sono andate perse poiché l’archivio è stato ripulito di tutto ciò che poteva riferirsi al cessato governo rivoluzionario come ordina una circolare del direttore della Polizia Provinciale. Non essendo conveniente che le stampe, i fogli pubblici ed altre stampe qualunque, siano esse in prosa od in versi, allusive alla memorata epoca calamitosa, rimangano negli archivi della Comunità, interesso V. S.  a spedirmi sollecitamente tutte quelle che esistono presso codesto uffizio, niuna affatto eccettuata.  Non sappiamo se sia a causa  di questa pulizia all’Archivio Comunale o di altre cause successive, resta il fatto che non restano praticamente altre carte sul teatro fino al 1836 ad esclusione  di una lettera di richiesta di un signore, che si definisce custode del teatro dal 1830, di avere un compenso pel mantenimento e pulitezza del medesimo che fino ad allora non avrebbe avuto.  Lo stesso custode, che era anche regolatore del pubblico orologio, riferisce  il 22 novembre 1833, di un’effrazione nel teatro nel camerino dove sono contenute tutte le chiavi e di aver saputo di luci che per due volte si erano viste all’interno. Le indagini eseguite non danno alcun esito.

La ripresa dell’attività normale del teatro.

L’anno 1836 ricomincia la presenza di carte in archivio riguardante la vita del teatro castellano. In questi anni si è affermata una precisa procedura per autorizzare spettacoli teatrali come nel caso che sta diventando sempre più richiesto e comune delle opere musicali. La prima fra tutte è naturalmente il permesso concesso dal Legato pontificio che riguarda soprattutto il contenuto dell’opera. Questo è ormai comunque quello più scontato. Nel contado non si faranno opere nuove e bisognose di ben precisi controlli ma normali opere di repertorio già eventualmente purgate. Ottenuto il permesso del Legato, occorre il visto dell’Autorità di Polizia, che tra le altre cose controlla l’elenco dei cantanti, attori ecc. Poi serve il parere del Governatore locale e infine della Deputazione locale degli spettacoli che ha anche il compito di controllare che tutte le prescrizioni siano attuate. Infine tocca al priore rilasciare la concessione a condizione però che sia sottoscritta una regolare sicurtà cioè una cauzione, da un garante affidabile, che non si lascino conti sospesi per gli artisti o danni. Nell’archivio datate giugno luglio 1836 ci sono una ventina di Scritture teatrali, private scritture con vigore di atto pubblico, in moduli prestampati di un signor Giacomo Rossi che si dichiara impresario del teatro di Castel S. Pietro. Le scritture riguardano circa 30 tra cantanti, coristi, ballerini e suonatori. Sarebbero impegnati da metà del mese di luglio a metà di agosto, molti sono spesati di alloggio, cibarie e viaggio. La loro provenienza è certamente diversa poiché i tipi di pagamento vanno dagli scudi romani, ai napolioni d’argento, alle Lire austriache. Il fatto che questi contratti siano nell’archivio significa molto probabilmente che l’impresa è fallita. Manca qualsiasi notizia sugli eventuali spettacoli, c’è una richiesta di intervento al Priore di un gruppo di 7 coristi bolognesi che arrivati a Castello negata gli viene la paga adducendo l’impresario di non avere contanti. Inoltre una bozza di impegno di cauzione intestata ad un signor Pietro Oppi ha le cifre lasciate in bianco e non pare quindi abbia avuto seguito. Nei successivi mesi di settembre e ottobre finalmente un’opera lirica va in scena. L’inizio è di nuovo piuttosto laborioso. Il 19 settembre il signor Valerio Morelli scrive al Legato onde voglia degnarsi accordare licenza all’apertura del teatro Comunale di Castel S. Pietro (…) per eseguire otto recite dell’opera: Il Furioso all’Isola di S. Domingo del Sig. M.ro Donizzetti.  La richiesta segue la solita procedura. Il permesso è concesso ai signori Luigi Velli e Valerio Morelli. La sigurtà è presentata da Pietro Frascari signore di moltissima possidenza e fiducia ivi. Viene presentato l’elenco dei cantanti da Luigi Velli che risulta pure lui come basso e la moglie come seconda donna. Alla fine del mese succede qualcosa. Non si farà più il Furioso ma il Barbiere di Siviglia di Rossini, anche i cantanti sono cambiati e l’elenco è presentato da Valerio Morelli che farà la parte di Figaro. Il 2 ottobre in una lettera al priore il signor Frascari spiega che lui aveva data la sigurtà ai signori Morelli e Velli in solido per la rappresentazione del Furioso ma ora vedendo senza mia approvazione cangiato lo spartito non che quasi tutti li promessi attori e vedendo ritirato uno di quelli, cioè il signor Velli (…) protesto formalmente e sollennemente nulla qualunque mia garanzia dichiarandomi da questo momento sciolto da ogni e qualunque obbligo.  L’opera si sarebbe dovuta fare per il 2 ottobre, festa della Madonna del Rosario, sembra che tutto sia sospeso, ma le locandine sono già uscite anzi sono già state stampate il giorno 30 settembre ed hanno il bollo pagato a Imola l’uno ottobre. Sempre del 2 ottobre c’è una lettera degli attori che dichiarano di rinunciare di loro spontanea volontà a qualunque richiesta e ricorso all’autorità locale e tribunali di Bologna. Il priore evidentemente, e le altre autorità, accettano questa liberatoria e tenuto conto ormai del fatto compiuto viene permesso lo spettacolo a partire dal 4 ottobre. Dalla locandina si rileva come l’organico della compagnia sia piuttosto scarso. Mancano due attori secondari, i coristi, gli orchestrali sono 7 e 3 sono indicati con N.N. e l’indicazione: Con Altri suonatori del Paese. Questa situazione sarà abbastanza comune anche negli anni successivi. Ogni compagnia faceva assegnamento come orchestrali sui suonatori della banda e delle orchestrine da ballo e dei cantanti locali come coristi. La conoscenza della musica operistica era molto diffusa quindi le compagnie di giro potevano fare affidamento a questa possibile integrazione del loro organico, che per ragioni di costo era piuttosto esiguo. Il 1837 si apre l’otto febbraio con una richiesta di Antonio Traversi, che scrive da Forlimpopoli, di una compagnia fornita di buon vestiario, nuove produzioni, morigerati costumi composta da 8 uomini e 4 donne. Si impegna per 24 rappresentazioni da svolgersi da metà maggio alla fine di giugno.  Si pronunciano favorevolmente tutte le autorità superiori e locali. Nel frattempo il 9 di marzo i dilettanti dell’Accademia Filodrammatica che a Bologna recita in Casa Albergati presentano la tragedia Maria Stuarda di Federico Schiller . Intanto i problemi economici ed occupazionali si stanno aggravando. In una lettere legatizia del 28 aprile 1837 si scrive che risulta che: in quest’anno vadano prima dell’epoca ordinaria a chiudersi o tutte o le principali botteghe del Paese nelle quali si fabbricano gargioli per cui rimangono a spasso 200 lavoranti circa senza pane per se e le loro famiglie. A questo problema si aggiunge una diminuzione del quantitativo di granaglie (frumento e granoturco) sul mercato, dovuto  a varie cause ma che si evidenzia la mattina del  29 maggio nel mercato di Castello  creando malcontento e preoccupazione. I fatti vengono così riferiti dal Priore alla Legazione: sebbene questo Castello per la natura del suo florido mercato ritengasi in granaglie l’emporio della Provincia pure in giornata, per aver fatto un notabile aumento di prezzo, il genere è diventato tutto ad un tratto scarso (…) volendosi che ciò derivi dall’avere le Autorità di Imola e Castel Bolognese impedito, che le granaglie sortino dai loro circondari col sigillarle nel luogo in cui si trovano. questa circostanza crea molti malumori perché questa carenza non può non provocare un aumento del prezzo del pane. Al mercato sono presenti naturalmente i commercianti di granaglie, ora malvisti perché portavano via il grano da Castello. Il Priore preoccupato invitò chi era dedito a speculazioni di granaglie di astenersene nel mercato d’oggi usando di un prudente contegno. Purtroppo questo consiglio sembrò non essere seguito e la popolazione cominciò a bisbigliare, a pronunciarsi contro detti speculatori, a portarsi alla casa di uno di loro a fermare le granaglie comprate e di condurle su questa pubblica piazza innanzi questa casa comunale. Le conseguenze furono l’assalto alla Casa Comunale e sebbene vi fossero sotto le armi più di 50 volontari seguitò il disordine fino a mezzanotte. Gli ammutinati erano sordi alle indicazioni della forza e di chiunque e tentarono perfino di fermare sulla strada Emilia li carichi di granaglie diretti a Bologna. Arriva un distaccamento di Carabinieri, vengono arrestate una cinquantina di persone ma questo non basta per calmare gli animi.  Viene inviata una forza di circa trenta Svizzeri per prestarsi alle occorrenze. I mercenari svizzeri arriveranno, saranno 51 e resteranno fino al 7 giugno a spese del comune. Il tumulto ha preoccupato le autorità, anche perché non è stato solo locale. Una lettera legatizia del 31 nota che non è solo la supposta penuria di granaglie che ha provocato i disordini ma anche la mancanza di lavoro della classe numerosa dei braccianti e giornalieri. Per quanto riguarda la penuria si è provveduto introducendo dall’Estero e pel Ponte Lago Scuro una vistosa partita di grano.  Per quanto riguarda la disoccupazione, per gli oziozi volontari che inquietassero ci penserà il Governatore coi suoi poteri di polizia. Quelli in deciso bisogno e di buona volontà potranno essere inviati al lavoro pubblico sulla strada nazionale di Toscana alla rampa di S. Bartolomeo quando abbiano l’attitudine che si ricerca.  Nel teatro avrebbero dovuto iniziare dalla metà di maggio il ciclo di 24 rappresentazioni della compagnia Traversi. I permessi c’erano tutti, ma forse per disguidi postali, forse per la situazione incerta si perdono le tracce del Traversi. Le ultime notizie del 29 maggio sono del suo agente Bellosi che preso atto di ciò propone nuove rappresentazioni. Il priore risponde che il teatro non è più disponibile. In realtà il teatro viene concesso ad una compagnia per 12 rappresentazioni ed una tombola, che serve per integrare gli incassi. La necessaria sigurtà è concessa dal solito Frascari. Le rappresentazioni iniziano il 13 agosto con l’opera, al momento di grande successo, La Pazza per Amore di Pietro Antonio Coppola e un’altra opera tra il Turco in Italia di Rossini, il solito Furioso e l’Elisir d’Amore di Donizetti.  Successivamente il teatro è concesso, fino alla fine di novembre, ad una compagnia di filodrammatici bolognesi. Nel gennaio 1838 presenta richiesta da Russi il già noto Antonio Traversi, con ancora  una compagnia  fornita di buon vestiario, nuove produzioni, morigerati costumi, epropone 30 recite. La nota del Priore in calce alla domanda è: questo teatro non offrendo risorse bastevoli per Comici di professione sarà la presente passata agli atti.  Analoga risposta negativa ha un’altra richiesta proveniente da Forlimpopoli di un certo Debellis, che scrive che possono chiedere informazioni al comune. Si chiedono informazioni e da Forlimpopoli risponde il Confaloniere con lusinghieri giudizi. Questo non è sufficiente e si risponde che il teatro è occupato da preventivi impegni. Ci deve essere qualche pregiudizio contro le compagnie romagnole. In questi anni il problema principale del consiglio comunitativo diventa la torre. Viene approvato un progetto per il restauro e la modifica del castelletto ove si trova la campana anche perché essa va sostituita con una più grande. Il 23 giugno 1838 poi: cadde nell’interno della torre (…) un pezzo di macigno di circa Lb.150, che fracassò il volto della sottoposta porta che mette al borgo di questo Castello e si fermò sul selciato della strada maggiore, che per ivi passa. Sebbene sia luogo frequentatissimo pure per somma fortuna fu che in quel brevissimo istante non vi si trovasse persona, per cui si fu esenti da grave disgrazia.  La storia del restauro e della modifica del cupolino della torre durerà fino alla fine del 1842, tra i soliti problemi di rinvenimento di risorse e quelli estetici che porteranno a cassare il progetto originario fino a portare a quello definitivo, che è quello che si vede attualmente. Nel frattempo l’uso del teatro sembra ridotto, forse anche per problemi dovuti allo stato della torre. Nel 1838 e nella prima metà del 1839 ci sono diversi dinieghi, dovuti a presenza di preventivi impegni, che farebbero supporre un uso del Teatro, però non documentato, o a lavori nel palcoscenico, come dimostra la concessione per una rappresentazione di marionette, vincolata però all’uso di solo 2 quinte. Nel frattempo la situazione economica e sociale è sempre critica. Il Priore il 31 luglio 1839 scrive alla legazione: Lo stato non favorevole dei raccolti delle derrate di quest’anno move agitazione nel pubblico anche per non molta favorevole occasione di mezzi di travaglio, e qui per simili cause nel maggio del 1837 si soffersero delle crisi dispiacentissime. Per evitare gravi conseguenze si prega di disporre, che ogni lunedì, giorno in cui tiensi qui mercato con intervento di molto popolo, si trovi immancabilmente una forza armata proporzionata al bisogno, conservando la disposizione fino a che lo stato delle cose abbia cambiato aspetto.  Nella primavera del 1835 sono state ufficialmente aperte le Acque, cioè l’uso pubblico delle acque termali. Queste acquistano in breve notevole risonanza, con afflusso di persone dai comuni vicini e da Bologna. Per i teatranti un incentivo in più per richiedere l’uso del Teatro. Del giugno 1839 è una richiesta del teatro: avendo letto l’avviso che è stata fatta l’apertura delle acque potabili.  L’estate termale assieme alla tradizionale Fiera d’Agosto, principale mercato bestiame dell’anno, diventerà sempre più anche un impegno comunale per intrattenere i villeggianti e i partecipanti. Per il momento il Teatro è usato per i tradizionali veglioni durante il carnevale, per spettacoli di marionette, e rappresentazioni di gruppi filodrammatici bolognesi, dei gruppi locali non si ha notizia, a meno che tutte le volte che si rifiuta per “precedenti impegni” non fosse perché erano loro ad averlo in uso. L’allestimento di una stagione operistica richiede invece ben altro impegno, solo l’opera “La Pazza per Amore” impiega, come si rileva dal manifesto 6 attori-cantanti più un coro di contadini e giardinieri, 9 orchestrali con altri suonatori del paese, più suggeritore, costumista, macchinista ecc. Quindi costi piuttosto notevoli, da compensare con le entrate dei biglietti e dei palchi, che si possono facilmente rivelare insufficienti senza un contributo pubblico: la dote. L’ultima opera rappresentata è la Lucia di Lammermoor della stagione autunnale del 1840. Il richiedente del giugno 1841 dopo aver elencato ciò che è in grado di proporre, spera che la Deputazione Teatrale abbia già ottenuta la dote, risponde il priore che non essendo stata ammessa la dote ella più di chiunque è in grado di conoscere li precisi proventi del teatro e quindi è in grado di valutare le di lei convenienze, non potendo contare sopra diverse risorse.  Questo diplomatico diniego si ripeterà altre volte con alcune varianti come quando, paternamente, fa notare che nello stesso periodo, il tempo delle acque, il teatro di Imola avrà due scelte opere con cantanti di credito, per cui fa d’uopo, ch’ella desista dal divisamento per non esservi fondato interesse. Qualche impresario è anche disposto ad accontentarsi di avere un appoggio di qualche cibaria e alloggio.  La risposta del Priore è negativa per mancanza di appositi fondi. Una richiesta del 1843 in cui credendo esservi in S. Piero oltre al teatro anche un’arena è negata perché l’Arena fu demolita dopo la costruzione del nuovo Teatro. Si tratta evidentemente del Teatro Diurno del signor Lugatti, del quale però non conosciamo esattamente la data della fine.  A quanto pare l’ambiente teatrale, con compagnie che girano nei paesi, è permeabile ad idee non politicamente corrette, questa è forse lo spirito con cu il 25 marzo del 1842 l’eccellentissimo Cardinale Legato emana una ordinanza  che allo scopo di richiamare e contenere le drammatiche Compagnia a quella modestia e castigatezza che si richiede dalla buona morale e dalla sana politica, dispone che prima di permettere l’apertura di un Teatro si debba ingiungere all’impresario che in qualunque caso in cui da parte di qualsiasi Recitante si deviasse, e non si attendessero le correzioni della censura politica, o si aggiungessero epiteti, parole, ed espressioni contrarie al buon costume, alla morale, alla politica, od in qualsiasi altro modo offensive od ingiuriose, sarà sottoposto ad una multa da scudi cinque ai cinquanta (…) e senza pregiudizio di quelle ulteriori misure di rigore che esigessero le circostanze. E perché si sappia che si intende procedere con assoluto rigore e speditezza si pretende dall’impresario la garanzia personale di pagamento della multa versando, prima del permesso all’uso del teatro, una cauzione che il Priore di Castello fissa in 50 scudi.  Questo tanto per stare sul sicuro. In conseguenza di ciò, oltre un evidente aumento della pressione censoria sugli spettacoli, si ha un aumento delle difficoltà finanziarie delle compagnie teatrali del giro di teatri di piccole e medie comunità. Gli avvenimenti del febbraio 1831, il Governo delle Provincie Italiane Unite, sono durati molto poco, però hanno avuto rilevanza internazionale a livello europeo, hanno coinvolto anche Francia e Austria e rivelato che la situazione nello stato della S. Sede può essere instabile, a causa della sua arretratezza civile ed economica. Il nuovo papato però, per reazione al pericolo corso, invece di allargare le maglie con qualche riforma liberale sia in campo economico che civile, auspicate pare pure dall’ultra conservatore principe Metternich, tende sempre più a chiudersi e ad aumentare la pressione sulla popolazione. Nella curia romano prevalgono i cosidetti zelanti, che sperano di risolvere i problemi e le richieste di liberalizzazioni che circolano in tutta Europa restringendo i vincoli, usando anche la repressione poliziesca. In una carta datata 11 maggio 1837 si chiede l’elenco delle persone che dopo le vicende nel 1831, 1832 fino a tutt’oggi emigrarono per ragioni politiche dallo stato. Il priore indica tre nomi: Magnani Giuseppe, Zecchi Giovanni, Cavina Giuseppe.

I fatti di Savigno.

Il 26 agosto 1843 il Cardinale Ugo Pietro Spinola Legato Apostolico della Città e Provincia di Bologna notifica in un manifesto che: Mentre questa Provincia godeva e gode l’inestimabile bene della tranquillità pubblica, e mentre questa colta e popolosa Città in ogni maniera palesa di apprezzarlo abborrendo da ogni idea di disordine, alcuni scellerati concepirono il perfido disegno di eccitare fra noi sconvolgimenti, adescando col denaro ed insane promesse di preda poca mano di gente tratta dalla classe più miserabile. Veniva a cognizione del Governo l’iniqua trama, e ordinava l’arresto degli autori: alcuni caddero in potere della Giustizia, altri si resero contumaci, e si allontanarono; pochi infine si diedero al disperato partito di riunire una banda di traviati e porvisi alla testa, infestando la parte montana della Provincia. Vigile il Governo (…) si mise in stato di piombare sopra coloro che avessero osato qualunque criminoso tentativo, e spedì Forza per distruggere i radunati malviventi. Costoro in fatti furono scacciati da quelle parti dove si erano confugiati, e dove commisero sanguinari e nefandi delitti. Inseguiti senza posa persino nelle più alte Montagne, alcuni ne sono fatti prigioni, altri feriti o uccisi, ed un avanzo si è gettato nel territorio Toscano.  Col linguaggio della “controparte” sono raccontati gli avvenimenti del tentativo di insurrezione organizzata da numerosi patrioti bolognesi. Nell’estate del 1843 si sperava anche in insurrezioni in Toscana e nel napoletano. In agosto dato che le speranze nei napoletani erano andate vane, si decise di intervenire egualmente. La polizia, informata dalle fughe di notizie dovuta all’imperizia clandestina dei cospiratori, li previene e scatena gli arresti, i principali capi riescono a sfuggire o a nascondersi, come Zambeccari e Tanari. Nonostante ciò alcuni dei rimasti liberi decidono di agire e il 15 agosto assaltano a Savigno un contingente di truppe pontificie che sconfiggono, ma poi arrivano altre truppe sono sconfitti, uccisi, feriti e fatti prigionieri, i superstiti si rifugiano in Toscana. Ma non è ancora finita il mese dopo si organizza un altro spericolato colpo, un gruppo di congiurati parte da Bologna verso Imola per tentare un colpo clamoroso: fare prigionieri tre cardinali: Falconieri, Amat, (legato di Ravenna) e Mastai Ferretti (futuro Pio IX), in villeggiatura nei pressi di Imola e dichiarare decaduto il potere pontificio. Il tentativo fallisce, di nuovo congiurati fatti prigionieri o fuggiti in Toscana. I prigionieri di questi fatti furono processati e subirono dure condanne, 20 furono condannati a morte poi 13 ebbero la pena commutata e 7 furono fucilati a Bologna il 7 maggio 1844. Questi avvenimenti, gli arresti, gli scontri che da Savigno si trasferirono fino nella valle dell’Idice a Monte delle Formiche, i fatti di Imola, avevano creato trambusto e il popolo sicuramente mormorava. Questo non può piacere alle autorità e quindi il legato si preoccupa di invitare le autorità locali a controllare e vigilare e scrive al priore: Dopo che la vigilanza del Governo e l’energia della Forza militare hanno represso li criminosi tentativi dei pochi malintenzionati di questa provincia, la maggior parte dei quali sono caduti in potere della giustizia non rimane ai nemici dell’ordine altro rifugio che di farsi forti di gratuite millanterie e false notizie fabbricate a lor talento onde cercare di ingannare le Popolazioni. Si è per tale scopo che spargono voci di esistenza ancora di numerose bande, di turbolenze nei vicini paesi, nelle limitrofe Legazioni, e persino in Esteri Stati. (…) quindi la S.V. si dia il carico di pubblicare la fallacia e falsità di tali voci, le quali non tendono ad altro se non che a compromettere e sacrificare coloro che prestando orecchi a delittuosa insinuazione resterebbero infine percossi da quelle severe misure che suo malgrado il Governo è in dovere di adottare. Per quanto riguarda il teatro continua l’impossibilità e la volontà di concedere doti per cui alle richieste si risponde facendo ben presente che gli impresari dovranno fare affidamento solo sulle entrate dei biglietti e dei palchi.  Quindi l’uso del teatro spesso si limita a veglioni durante il Carnevale, previa dichiarazione del capomastro che si assume la responsabilità della solidità della struttura, e produzioni di minor impegno in denaro come recital di canto o musica, esibizioni di compagnie di ginnasti, spettacoli di burattini. Nell’agosto del 1844 il signor Pio Muzzi di Forlì, ma di padre castellano, suonatore di corno nella Banda del Reggimento Svizzero di guarnigione a Bologna, trovandosi in patria, bramerebbe, prima di partire, dare una accademia istrumentale col suo instrumento accompagnato dall’orchestra. Il teatro viene concesso. Minori problemi e spese creano gli spettacoli di prosa. C’è una compagnia di dilettanti: l’Accademia Filodrammatica Felsinea che negli anni 40 regolarmente presenta diversi spettacoli durante l’estate o l’autunno. Il repertorio è composto da drammi, commedie e farse, in uno di questi ci sono opere di Vittorio Alfieri, Carlo Marenco, un autore molto apprezzato nel 1800, e del commediografo francese Eugène Scribe, molte sono semplicemente indicate come tradotte dal francese.  L’inverno 1844/45 inizia con la richiesta, il 2 dicembre, dell’impresario Giovannini, disponibile ad operare anche senza dote chiedendo però di sapere l’entità delle spese.  Il repertorio comprende opere buffe come La figlia del Reggimento, Il Barbiere di Siviglia, L’Italiana in Algeri; opere semiserie, la Sonnambula e serie come Norma per citare solo quelle più famose. Chiede inoltre se vi sono dei coristi in paese.La risposta del Priore è del tutto scoraggiante infatti scrive: Non potendosi dare precisa indicazione dell’ammontare delle spese serali, ed essendo difficile il trovare in paese coristi istruiti, non potrà Ella trovare interesse nel dare opere in musica in questo Teatro, e quindi anche per la stagione avanzata sarà necessario che per questa volta rinunci al suo progetto.  Poi, forse per la testardaggine dell’impresario, il 16 dicembre si accorda, per quanto di competenza, il teatro per sei recite dell’opera Norma del celebre maestro Cavaliere Bellini. La prima recita dovrebbe avere luogo il 26 gennaio ma la burocrazia farà arrivare il permesso della legazione solo il 29, per cui occorrerà correggere a mano i manifesti e posticipare la prima.  In questa occasione viene recuperata e pulita una scena, un bosco, dipinta dal Savini, che era macchiata di olio, spendendo uno scudo. La produzione ha evidentemente successo poiché pur con diverso direttore della musica ma con alcuni degli stessi cantanti il 19 gennaio 1845 va in scena l’opera seria Beatrice di Tenda sempre del Bellini.  L’inverno 1844/45 vede quindi la rappresentazione di ben due opere, per complessive 14 recite con un incasso di 281 scudi e spese per circa 150 scudi. Sembrerebbe che una stagione operistica possa auto sostenersi, ma questo sarà, come si vedrà, un caso unico. Nella legazione dopo i fatti del 1843 la situazione politica gode di una relativa tranquillità, la componente moderata dei patrioti, visto i fallimenti della componente rivoluzionaria, sta prevalendo, la sua ipotesi è di usare metodi pacifici per riformare la struttura statale vaticana e ottenere gradualmente spazi di libertà civile e politica. In Romagna però prevale ancora la componente rivoluzionaria e mette in atto il 23 settembre 1845 a Rimini una rivolta, sperando nell’aiuto anche dei bolognesi, che però, anche perché strettamente sorvegliati, non si muovono. La rivolta dopo 4 giorni è soffocata. Massimo D’Azeglio prenderà spunto da questo fallimento per scrivere l’opuscolo Degli ultimi casi di Romagna che èuna riflessione sui modi più opportuni per battersi per l’unità d’Italia. In luglio, preso atto della relazione del 17 dicembre 1844 sulla convenienza di acquistare delle case in Piazza, inizia la pratica per la nuova residenza municipale con la perizia preventiva per l’acquisto di fabbricati all’effetto di potervi collocare ordinatamente gli Uffici di Magistratura, Governatorato, pubbliche Scuole e Forza Armata di Carabinieri e Volontari.  Nel 1846, l’attività teatrale continua con la solita routine, concessione ai dilettanti bolognesi, per produzioni poco impegnative come esibizioni di acrobati, estrazioni di tombole, veglioni per carnevale, rifiuti per mancanza di cauzioni e rinunce per assenza di contributo. Molto richiesto è l’uso del teatro durante l’apertura delle acque e in effetti un impresario avrebbe ottenuto un riscontro maggiore dell’aspettativa ad onta che i paesani siano poco portati per il teatro. Il 28 maggio 1846 muore papa Gregorio XVI, siamo in condizione di sede vacante e ogni tipo di rappresentazione e intrattenimento è sospesa. Questa volta però il conclave decide in fretta, la morte del papa non è una sorpresa. L’utilizzo del teatro può ricominciare, iniziano però problemi di manutenzione, ad iniziare dall’illuminazione: i chinchè. Il 16 giugno viene eletto il nuovo papa Giovanni Mastai Ferretti, che era stato anche vescovo di Imola, che prende il nome di Pio IX. Sono tutti contenti perché era considerato un cardinale abbastanza aperto alle esigenze di modernità. Il 16 luglio viene concessa la tradizionale amnistia come sempre avviene in occasione dell’elezione di un nuovo papa. Questa volta però interessa molte persone che sono state arrestate per o in seguito alle rivolte degli ultimi anni, quindi anche se la concessione è condizionata al pentimento per i reati e perciò non c’è nemmeno il più lontano riconoscimento di una giustificazione dell’agire dei condannati o di una critica all’operato del papa precedente, per i patrioti questo atto riveste un significato che va al di là delle intenzioni di Pio IX e che, per la componente cattolica, fa sperare in un impegno del papa per l’unità d’Italia. In effetti alcuni provvedimenti papali, rafforzarono questa impressione, uno dei più politicamente importanti fu la concessione nel luglio del 1847 della Guardia Civica sul modello della Guardia Nazionale francese, cioè una forza armata formata dai cittadini, su base locale, col compito ufficiale di mantenere l’ordine ma, nelle speranze dei progressisti, come cellula di addestramento militare alla lotta per l’indipendenza. A Castello la Guardia Civica si attua nel novembre dello stesso anno. In un proclama del comandante, tenente colonnello Pietro Pasi la definisce: il più grande benefizio del magnanimo PIO e la considera l’istituzione cui è affidata la tutela dell’ordine, la indipendenza dello Stato e le speranze d’Italia.  Tutto sembra in movimento, le richieste per il teatro non sono molte, in alcuni casi si cerca di dissuaderle: c’è rischio di rimetterci del proprio, ma se si vuole rischiare. Oppure alla richiesta di un conduttore e direttore di un edificio comico meccanico di marionette a filo (…) per darvi un corso di ben regolate commedie seguite da balli grandiosi tanto allegorici che mitologici, quanto tratti dalla storia greca romana, quanto può allettare il gusto del pubblico, la Direzione pubblici spettacoli risponde: non si concede il teatro per non essere combinabile(?) il divertimento da lei proposto. Paura delle novità?

La prima guerra di Indipendenza.

    Poi arriva il 48’.

Già nell’ottobre precedente a Milano c’erano state manifestazioni contro l’Austria.  Nel nostro stato della Chiesa gli austriaci avevano occupato Ferrara per premere contro quelle che ritenevano pericolose tendenze liberali del Papa. Nei primi mesi dell’anno insorgono Palermo, Napoli, Firenze, Torino, Genova. Si chiede la fine dell’assolutismo e la concessione di Statuti e Costituzioni. Il 17 febbraio il Granduca di Toscana promulga la Costituzione. Il 24 febbraio nel regno di Napoli il Re è obbligato a concedere la Costituzione, il 4 marzo è Carlo Alberto a concedere lo Statuto. Dalle nostre parti, nello Stato della Chiesa, il 10 febbraio il papa, in un proclama dice che non prenderà nessun provvedimento contrario ai doveri suoi ma poi scrive la frase: Oh perciò GRAN DIO benedite l’Italia e accende nei patrioti speranze forse non troppo motivate. A rafforzare queste speranze di un impegno diretto del pontefice nella prossima lotta per l’indipendenza italiana viene il 14 marzo la promulgazione della Costituzione. Pochi giorni prima è stato formato un governo con ministri laici. Il 18 marzo con un’ordinanza il Ministro dell’Interno, udito il Consiglio dei Ministri, udito il volere di Sua Santità, ordina: La bandiera Pontificia bianco-gialla sarà fregiata di cravatte coi colori italiani. Alla bandiera pontificia è ufficialmente attaccato un nastro tricolore. Piccola cosa ma di grande significato per i patrioti.  Ormai gli eventi si susseguono. A Milano il 18 inizia la rivolta delle 5 giornate con la cacciata della guarnigione austriaca. Il 22 insorge Venezia.  Il 23 marzo Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria, il 24 il papa autorizza lo schieramento delle truppe, composte soprattutto dalle Guardie Civiche e da volontari, sul confine del Po. Le sue intenzioni sono quelle di non prendere posizione. Queste però non sono le intenzioni della truppa, in un proclama del 27 marzo il loro comandante Generale Durando scrive: Militi e Soldati! L’intero mondo affissa lo sguardo su di voi, e dice: vediamo all’opera le milizie Italiane. Gli Spiriti gloriosi di coloro che combatterono a Legnano vi sorridono dal cielo, il gran PIO vi dona la benedizione dell’onnipotente, l’Italia confida nella vostra virtù, e spera che ognuno di voi adempirà al dovere di cittadino e di soldato italiano. Viva Pio IX! Viva l’Indipendenza d’Italia!   Il richiamo alla battaglia di Legnano contro l’imperatore Barbarossa non è casuale, di nuovo il nemico è l’imperatore germanico. Tra i volontari che si radunano a Bologna non mancano i castellani, quello che farà più carriera è Pietro Inviti che si arruola nella formazione dei volontari comandata da Livio Zambeccari: i Cacciatori dell’Alto Reno. Prendere il nome di Cacciatori significa che ci si considera soldati di prima linea, truppe d’assalto. Le prime fasi della guerra sono favorevoli alle truppe piemontesi, gli austriaci sono ovunque in ritirata. L’impero ha problemi anche al suo interno, ci sono rivolte anche a Vienna e Budapest, il 25 aprile l’imperatore concede la Costituzione e alla fine dell’anno si dimetterà a favore del nipote diciottenne Francesco Giuseppe. La guerra all’Austria e al suo Imperatore del Sacro Romano Impero pone dei problemi di coscienza al Romano Pontefice. L’Austria è cattolica, ma soprattutto è stata la sua forza di polizia armata nel passato ed in anni recenti e quindi il 29 aprile in una allocuzione dichiara: Noi, ai nostri soldati mandati al confine pontificio raccomandammo soltanto di difendere l’integrità e la sicurezza dello Stato della Chiesa. Ma se a quel punto, alcuni desideravano che noi assieme con altri popoli e principi d’ Italia prendessimo parte alla guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente palesar chiaro ed apertamente in questa solenne radunanza che ciò è lontano dalle Nostre intenzioni e consigli. Ora diventa chiaro che il Papa non parteciperà alla lotta per l’indipendenza italiana. I volontari ci rimangono male, ma dato che sono già passati in Veneto e sono impegnati nella difesa di Vicenza e Treviso, decidono di non tener conto della volontà papale.  Si crea così una situazione strana da un punto di vista giuridico, quando le truppe si sono trasferite oltre il Po erano truppe dello Stato Pontificio, ora sono forse diventate truppe irregolari quindi non sottoposte alle leggi di guerra? La stranezza è che la faccenda viene lasciata nelle mani delle autorità periferiche. In questo caso al Legato della legazione bolognese Cardinale Amat, il quale salomonicamente decide che le truppe sono legittimamente pontificie ma volontarie quindi pur non impegnando la responsabilità politica dello Stato Pontificio, sono da considerare truppe regolari.       Questi combattenti, circa 20.000, si battono con onore, non riescono però ad impedire al corpo di spedizione austriaco di ricongiungersi con Radetzky come non riescono ad impedire la riconquista di Vicenza.  Qui l’11 giugno il generale Durando firma la resa con l’impegno a ritirarsi e desistere per tre mesi dal combattere gli austriaci. Non tutte obbediscono e, con i volontari di Zambeccari, le truppe napoletane, che non hanno rispettato l’ordine del Borbone di ritornare a Napoli, continuano e vanno a difendere Venezia. Con questi ci sono diversi castellani. Sappiamo la storia di un certo Astorri che il 24 marzo da Castello partì con altri 56 per Ferrara sotto gli ordini del Col. Constabili incaricato dal Governo di assoldare uomini per il cordone del Po. Dopo poco tempo il corpo oltrepassò i confini ma dopo la prima capitolazione si disciolsero i vari corpi per cui, ad eccezione di pochi, ritornarono a casa i nostri paesani. Tra gli eccettuati vi fu l’Astorri che unitosi al corpo di Zambeccari, lo seguì sempre in tutte le vicende fino al fatto di Mestre dove riportò la ferita in una coscia.  Per questa invalidità otterrà poi una pensione essendo considerato comunque un regolare pontificio. A Castello lo spirito patriottico suscitato dalle vittorie piemontesi e dei volontari ed anche dall’intervento in piazza da un balcone del barnabita Ugo Bassi, dà luogo ad una sottoscrizione popolare per la Guerra d’indipendenza d’Italia e per la Guardia Civica.  Alla raccolta partecipano, nelle frazioni, le parrocchie. In una nota firmata dal parroco di San Giorgio di Varignana, don Alessandro Zuppiroli, risultano raccolti, con 4 gioielli d’oro, 14 scudi, 34 camicie, 8 lenzuoli, 611 braccia di tela, e 56 di filo.  La raccolta complessiva sarà valutata in 397 scudi, di cui 248 in contanti, come risulterà dal rendiconto pubblicato 8 giugno con l’elenco degli offerenti e delle loro donazioni.  Nel frattempo l’esercito austriaco passa al contrattacco, il 25 luglio l’esercito piemontese è sconfitto a Custoza, ed è obbligato a ritirarsi, il 5 agosto firma l’armistizio e ritorna nelle posizioni di partenza.  Dalle nostre parti gli austriaci superano il Po e invadono, nonostante le proteste, lo Stato Pontificio. Il 7 occupano Bologna, i bolognesi lasciati soli dal legato, cardinale Amat, in vacanza ai Bagni di Porretta, si ribellano e il giorno dopo, l’otto agosto, cacciano dalla città le truppe austriache. Alla battaglia partecipano anche nostri concittadini, 34 secondo quanta risulta dalla corrispondenza tra il comitato bolognese e il comandante della Guardia Civica castellana. Il 18 agosto il Comitato scrive: Cessato il pericolo che ne sovrastava rimpatriano quei generosi che accorsero in difesa di questa nostra città. Il Comitato rende loro somme grazie e lode e ben spera di poter sempre contare sul loro braccio in altro dì di pericolo. Alla difesa di Venezia, assediata e preda del colera, cade un giovane castellano, Vincenzo Oppi di 22 anni deceduto il 16 ottobre 1848, di cui sappiamo dalla lettera inviata a Castello da Pietro Inviti, che nel frattempo è stato promosso al grado di capitano. La lettera è la seguente:

Marghera 17 ottobre 1848.

Fra i giovani che fanno onore a Castel San Pietro vi sono certamente i tre fratelli Oppi, dei quali il secondo, cioè Vincenzo, e mi piange l’animo nel dirlo, dopo 7 giorni di una febbre la più ardente e maligna, ha reso lo spirito a dio, lasciando bella memoria di sé, non senza il compianto e l’ammirazione de’ suoi compagni d’armi. Io sono stato testimone oculare della sua esattezza ed attività nel servizio, motivo per cui era già stato promosso al grado di sergente. Molti altri del nostro battaglione ne è toccata la sorte dell’Oppi, e fra i quali il mio sottotenente, perocchè l’acqua che cade di continuo, l’aria cattivissima che si respira, il servizio gravosissimo che sosteniamo, ha ammalato la maggior parte del nostro battaglione, del quale 350 a tutt’oggi ne abbiamo allo Spedale.  Un altro castellano Filippo Tomba di anni 20 muore il 14 gennaio 1849 durante il trasferimento del Corpo Zambeccari ad Ancona al comando dell’Inviti. Il prestigio del Papa intanto, deluse le speranze iniziali, è parecchio calato. Alla riapertura del parlamento in novembre è chiara la sua volontà di non concedere ulteriori misure liberali, come la separazione tra le questioni temporali e quelle religiose, cioè una certa laicizzazione dello stato Pontificio. Il 15 novembre viene assassinato il primo Ministro Pellegrino Rossi, i disordini aumentano, viene addirittura assalito il Quirinale. Il 24 novembre il papa fugge da Roma.


La Repubblica Romana. Il Circolo Popolare.

 Il potere a Roma è assunto da una Suprema Giunta di Stato che assieme al Consiglio dei Ministri indice le elezioni per un’Assemblea Costituente. Le votazioni si terranno il 21 gennaio 1849. Lo scontro è avvenuto tra il Parlamento eletto il 18 maggio e il Papa che rifiuta le richieste giudicate troppo liberali. I deputati sono stati scelti soprattutto in base al censo e come facenti parte dell’amministrazione religiosa e civile o dei livelli alti delle professioni, ad esempio servono almeno 300 scudi di censo per essere elettore ma 3.000 per essere eleggibile, quindi avrebbero dovuto essere moderati  e rispettosi dell’ordine. Ma In realtà lo stato pontificio è in una situazione tale di arretratezza civile ed economica anche rispetto agli altri stati autocratici che la timidezza delle decisioni più recenti invece di sedare le richieste ha dimostrato la loro indilazionabile necessità. Tra il papa e la Curia e i vertici della società economica e intellettuale c’è stato un distacco che è cresciuto nel tempo, sia per il tipo di ordinamento statale, una teocrazia, sia per il grave ritardo nella modernizzazione. Il primo gennaio 1849, il papa si rivolge da Gaeta ai suoi amatissimi sudditi e proibisce a qualunque ceto o condizione apparteniate, di prendere alcuna parte nelle riunioni che si osassero fare per le nomine degli individui da inviarsi alla condannata assemblea (quella Costituente) e ricorda che questa Assoluta Proibizione è sanzionata con la Scomunica Maggiore. La cosa però non spaventa più di tanto gli scomunicandi. Le votazioni sono indette per il 21 gennaio e sono in un certo senso a suffragio universale, cioè votano tutti quelli che si presentano con più di 21 anni e, inutile dirlo, maschi. La divisione tra i castellani in due campi, genericamente conservatori e progressisti, comincia a farsi più evidente. La differenza è tra chi preferisce e difende la forma teocratica dello stato e chi vorrebbe uno stato completamente laico in un Italia unita e indipendente vedendo in esso un non più procrastinabile avvio di modernità. Tra questi poi non mancano, per complicare di più il quadro, venature di anticlericalismo in una compagine sociale ancora profondamente e sinceramente religiosa. Il 19 gennaio in un appello agli elettori la Commissione Elettorale, nominata da Bologna tra sicuri progressisti, scrive: Il dovere di Cittadino, la salute della Patria, l’interesse della Nazione vi chiamano ad un atto solenne la Costituente Romana., là si decideranno le nostre sorti, là il nostro avvenire, la nostra futura felicità. Ogni provincia manderà i propri deputati: il popolo deve eleggerli, qual Popolo niegherà di compiere l’alto mandato? Castel San Pietro è terra d’Italia, questo solo titolo gli basta perché si elevi al posto che gli è dovuto. La votazione si terrà Domenica 21 corrente con incominciamento alle ore 8 del mattino presso il Palazzo Oppi a pian terreno (l’attuale Palazzo Bollini in via Palestro, già Malvasia). L’appello termina con: Accorrete tutti, Domenica sia per voi un giorno di Festa, di nazionale tripudio. Non vi distolgono le mene dei tristi, a questi il disprezzo dei buoni, a voi la riconoscenza della Patria.  Alle elezioni votano in 20.582 a livello provinciale (manca Imola)  e a Castello 464, eleggono 24 costituenti i cui nomi troviamo spesso celebrati nella toponomastica bolognese.

Il 2 febbraio 1849 a Castello si costituisce il Circolo Popolare, che è, come risulta dall’articolo 1 dello statuto, una riunione di uomini onesti d’ogni classe che intende promuovere gli interessi patrii e nazionali e il miglioramento morale, intellettuale e civile del popolo. Il suo scopo è di esercitare la sua influenza col porgere privata istruzione di leggere scrivere e conteggio, col discutere in generali sedute i bisogni e le necessità del popolo e col deliberare sui provvedimenti, col concorrere con ogni studio e potere al proseguimento della libertà ed unità della nazione. Il nome che gli viene dato è Unione. Nel discorso di insediamento si illustra il pensiero dei promotori. Finché l’Italia sottoposta al giogo dei re serviva schiava al dispotismo e alla tirannide, finché i suoi popoli divisi, tenuti ad arte ignoranti ed avviliti, noi meritavamo il disprezzo e lo scherno delle nazioni civili, non si aveva speranza di riscatto, non si conosceva per anco il sagro diritto di libertà e di indipendenza. Ma oggi, che stanca la Divina provvidenza ha ormai dato l’ultimo crollo ai vacillanti troni della monarchia assoluta, è doveroso per ogni italiano l’educarsi a quella vita politica che prepara alle nazioni un viver libero e civile. Quindi si elencano i misfatti del governo, debole e pauroso e perciò sottomesso a influenze straniere, morta la scienza e le lettere, legislazioni arbitrarie ed eccezionali, statistiche inesatte, chiusura al commercio di esportazione, strade interne scarse e malsicure. Doppiezza, malafede, arbitrio, corruzione nei magistrati. Contribuzioni ingiuste e mal partite, tolto all’agricoltura nostra nutrice ciò che poteva alimentarla, disseccata ogni sorgente al commercio. Ma Dio non vuole prostrati i suoi popoli li vuole liberi e li protegge. Gesù Cristo sparse il sangue per il riscatto del genere umano e perché era libero e santo fu da un re crocifisso. La nostra causa dunque è la sua e non può che trionfare.  I nostri patrioti castellani si infiammano per gli ideali di unità e indipendenza d’Italia, ma pensano anche al commercio, alle esportazioni, alle tasse, all’arretratezza dell’agricoltura, alle difficoltà nei collegamenti interni. E non si può certo dire che non abbiano un sincero sentimento religioso. Intanto il 9 febbraio a Roma l’Assemblea Costituente ha proclamato che Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano. e che: La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. A Castello il Circolo Popolare indice festeggiamenti e nel manifesto si rivolge ai cittadini così: La rappresentanza municipale volge all’occaso (al tramonto), essa cade senza mandare un gemito, e nella sua caduta l’accompagna il rimorso delle proprie colpe e il nostro disprezzo. Il Circolo popolare pertanto interprete dei voti del popolo ha stabilito di festeggiare il fausto avvenimento dell’inaugurazione dell’Assemblea Costituente.  I festeggiamenti sono introdotti dallo sparo dei mortaretti il sabato sera e la mattina di domenica 22 febbraio. Poi segue parata della Guardia Civica che assisterà alla messa in parrocchia.  La Banda Civica suonerà per le vie del paese. Nuova parata al pomeriggio della Guardia Civica con la banda. I festeggiamenti si concluderanno alla sera al teatro Comunale con un veglione in maschera. Il governo comunale è ancora rappresentato dal Priore e dal vecchio Consiglio nominato dalla Legazione. L’autorità del Circolo al momento è solo politica, e deriva dalla nuova Superiorità insediata a Bologna. In previsione di sostituirsi alla rappresentanza municipale che volge all’occaso  il circolo nomina  il 18 febbraio una commissione per riferire della mala amministrazione dello Spedale Civico, della Pubblica Istruzione e della inattività della Deputazione di Annona. Il 4 marzo la commissione riferisce: L’amministrazione dell’Ospedale è un disastro, cattiva gestione dei beni di pertinenza dell’Ospedale, con dubbio di interessi privati, cassiere esautorato, riscossioni eseguite a sua insaputa e versamenti dubbi, ritardi nel pagamento dei creditori, carteggio tenuto dall’Arciprete senza regole e in disordine. Per quanto riguarda la Pubblica Istruzione a Castel San Pietro la commissione rileva che: è esclusivamente nelle mani dei Preti. chiarisce che non sono contrari al santo carattere di sacerdote anzi se venisse esercitato nella purezza evangelica sarebbe utile all’educazione morale del popolo. Ma di qual razza sono codesti preti? fautori dell’ignoranza propugnatori servili del dispotismo, educatori alla servitù, propugnacoli della tirannide. Chiediamo dunque che rimossi i maestri attuali ne siano sostituiti da capaci e probi. Il giudizio sulla Deputazione di Annona è il seguente: la deputazione d’Annona prelevata dal seno del corrente consiglio era inetta ed infingarda, non si prendeva pensiero del bene del paese e lasciava pertanto all’arbitrio degli esercenti l’infrangere o il contravvenire alle leggi. e quindi va sostituita. Il 10 febbraio è uscito il decreto che indice le elezioni per il rinnovo dei Consigli Municipali. Le elezioni sono a suffragio universale, cioè possono votare tutti i maggiorenni, non è specificato se maschi o femmine, ma si dà per scontato che le femmine non sono elettrici. Però sorge, da qualche parte, un problema ossia se i coloni sono da considerare rientranti  tra gli aventi diritto a votare. In una circolare esplicativa si afferma che: visto che i nostri coloni sono veri soci, né perciò mercenari, e che d’altronde formando essi la massima parte della popolazione campestre, sarebbe l’escluderli dalle liste contro lo spirito della legge, che ha dichiarato nel proemio di ”slargare la base dell’elezione e di estendere la eleggibilità a tutte le presunzioni di capacità”; si prescrive quindi d’inscriverli negli elenchi degli elettori e degli eleggibili fino a diversa disposizione. Le elezioni per eleggere i 36 consiglieri comunale avviene il 18 marzo, il Circolo Popolare si assume il compito di organizzare le operazioni, il priore si è dimesso, i nuovi Aggiunti sono stati sostituiti dalla Superiorità bolognese tra gli iscritti al Circolo. Questi l’11 marzo previo il suono della campana della torre di questo orologio si sono recati alle ore 8 antimeridiane nel teatro Comunale per dar luogo alle operazioni per l’elezione dell’Ufficio Elettorale, il cui presidente risulterà essere il presidente del Circolo Sebastiano Tanari mentre gli squittinatori (scrutatori) sono altri componenti il circolo. Il Circolo poi prepara una propria lista per il Consiglio e decide anche di stampare la scheda a comodo dei buoni e dei meno esperti e degli idioti. Prescrivendo però che in questa vi sia un vano perché qualunque elettore possa portarvi quelle emende che saranno proprie della sua coscienza. Gli iscritti alle liste elettorali sono 2014 su una popolazione di 10.584 abitanti, il 18 marzo i votanti però saranno solo 418, dei 36 eletti 28 sono quelli proposti dal Circolo. Dopo questa elezione compare per la prima volta nel timbro sui documenti l’immagine del leone rampante con sul vessillo la scritta libertas. Due giorni dopo queste elezioni, il 20 marzo, Carlo Alberto riprende la guerra contro l’Austria, che termina il 23 con la sconfitta di Novara e la sua abdicazione in favore del figlio Vittorio Emanuele. L’Austria ora può liberamente riprendere la sua opera di restaurazione in Italia. Alla fine di aprile l’esercito della Repubblica Francese attacca la Repubblica Romana, con la scusa di difendere la Santa Sede.  Napoleone vuole mettere un piede in Italia, per non lasciarla tutta nelle mani dell’Austria ed anche per mantenere l’appoggio dei clericali francesi. A difendere Roma c’è Garibaldi coi volontari, parecchi dei quali delle nostre parti. Questo ha lasciato sguarnite le legazioni, a difendere le quali c’è una guardia civica di origini papaline, non addestrata, male armata e senza validi ed esperti comandanti. Pietro Inviti è ad Ancona al comando del Corpo Zambeccari alla difesa della città.

Gli austriaci occupano Bologna e il contado.

L’8 maggio le truppe austriache assediano Bologna, occupano i colli e da lì bombardano la città. A Castello arrivano soccorsi dalla Romagna come risulta da risposta ad una lettera del 1851 in cui si cercano notizie su dei cannoni persi dai Civici di Castel Bolognese: le truppe civiche della Romagna, fra cui quelle di Castel Bolognese, cominciarono ad arrivare in questo Castello, il dopo pranzo del 10 maggio 1849, allo scopo di accorrere in soccorso dell’assediata Bologna. (…) nel sabato 12 pervennero dalla Romagna 3 pezzi d’artiglieria che alle ore 11 della successiva domenica furono diretti sotto scorta di una colonna delle truppe qui radunate alla volta di Bologna. Giunta però la colonna a Ponte Nuovo distante da Bologna circa due miglia fu sorpresa dagli austriaci che si impossessarono dei tre pezzi ed i militari di scorta retrocedettero in disordine a questo Castello. Il 15 le truppe si disposero a rimpatriare, ed a mezzogiorno del 17 erano tutte partite.  Il 16 Bologna si è arresa, il pomeriggio del 17 gli austriaci sono a Castello e alle ore 8 pomeridiane comandano che: d’ordine di S.E. il Generale Comandante le II RR (Imperiali e Reali) Truppe Austriache si fa invito a tutti gli abitanti di questo Castello e Borgo a depositare in questo uffizio comunicativo, nel perentorio termine di due ore tutte le armi da fuoco di qualunque specie, avvertendo che li contravventori saranno assoggettati a misure di rigore. È instaurato in tutta la Legazione lo stato d’assedio delle truppe Austriache, condizione che si protrarrà fino al 1857, le truppe se ne andranno solo nel 1859. Comunque il risultato della requisizione fu quello delle armi di 43 componenti la guardia civica. Questa ingiunzione fu poi successivamente ripetuta, ma senza successo. Il 19 giugno, dopo un lungo assedio, cade Ancona in mano austriaca, il 4 luglio i francesi entrano in Roma, il giorno prima è stato promulgata la Costituzione Repubblicana Romana, passeranno quasi 100 anni per avere in Italia una costituzione simile. L’otto agosto, ad un anno esatto dalla loro cacciata da Bologna, gli austriaci fucilano, senza processo, Ugo Bassi catturato a Comacchio il giorno prima. Il 22 si arrende Venezia ultimo baluardo dei combattenti per l’indipendenza italiana. Gli avvenimenti di questi 18 mesi non sono stati adatti alla normale vita di un teatro, alle richieste si risponde che il teatro: è destinato ad altro importante uso, ad adunanze elettorali, oppure che trovandosi in circostanze piuttosto critiche scarsi incassi potrà aspettarsi. quindi il teatro ha un uso di partecipazione alla vita sociale e politica piuttosto che un uso per intrattenimenti musicali o drammatici. Con la fine della Repubblica romana torna l’autorità pontificia, però niente è più come prima, nelle legazioni c’è l’esercito austriaco, a Roma ci sono gli zuavi francesi. La situazione economica e sociale, dopo 18 mesi piuttosto turbolenti, non è buona e non mostra buone prospettive future. Per quanto riguarda il Teatro la situazione è di un’abbondanza di offerta, dovuta anche alle sospensioni precedenti, ma però di una scarsità di richiesta. Un certo Teodosio Zulf, che aveva proposto all’inizio del 1849 la rappresentazione dell’opera Martin Faliero, ed era stata rifiutata perché il teatro era occupato per adunanza elettorale, si ripropone nell’estate per proporre l’opera di Verdi: I due Foscari, un trattenimento indispensabile in tale stagione non solo pei Signori stabili, quanto ancora pei Forastieri bevilacqua.  La municipalità non è contraria, ma è diventata più diffidente e chiede i nomi dei cantanti per verificarne la qualità e inoltre almeno 5 violinisti. Poi non se ne fa niente per mancato rispetto delle condizioni poste. I problemi riguardanti la manutenzione sono arrivati ad una scadenza per quanto riguarda l’illuminazione: stante che si trovava in tanto mal essere che non si poteva aprire il teatro. I lavori riguardano la riparazione di 69 chinchè e14 lumini per 8 scudi e del lampadario centrale per 9 scudi.  L’anno successivo le difficoltà continuano. C’è una richiesta dei Dilettanti di Medicina per alcune rappresentazione durante il Carnevale, che però rinunciano vista la Stagione Contraria, e che i viaggi porterebbero un incomodo troppo fastidioso per le cattive strade. L’inverno forse era particolarmente inclemente, problemi stagionali però non avrebbero dovuto esserci nel mese di maggio quando sia la Municipalità che la direzione Pubblici Spettacoli deliberano di non concedere l’uso di questo teatro per la presente stagione a motivo delle critiche circostanze in cui si trovano gran parte di questi abitanti e con la vista di non sacrificare le compagnie. Una conferma di queste difficoltà nell’utenza la si ha quando i dilettanti della Filodrammatica Felsinea, che da diversi anni, anche nell’estate del 1849, sono stati attivi nel teatro Castellano, debbono interrompere a metà il loro ciclo di rappresentazioni poiché a causa delle attuali circostanze, oltre le cure e i fastidi, sarebbero esposti ad una perdita gravosa. Il Priore ricorda loro che sono sempre stati preferiti, ma purtroppo l’affluenza è stata scarsa già dalla prima sera, quindi non possono continuare e lasciano come debito il pagamento dei suonatori, che evidentemente sono, come il solito, stati assunti per l’occasione tra i castellani.  Nelle attuali circostanze sono comprese anche le preoccupazioni per il brigantaggio, che per l’Imperiale e reale Governatore Civile e Militare comprende anche i garibaldini in fuga da Roma, i patrioti da Venezia e ogni altro che si è battuto contro gli austriaci. Ci sono però anche briganti veri come Stefano Pelloni, il Passatore, che in questo periodo inizio del 1850 spadroneggia in zona. La preoccupazione è notevole anche a Castello, il governatore scrive  al Priore che: dappresso ai lacrimevoli fatti di Cotignola (17 gennaio) e Castel Guelfo (27 gennaio) mi feci ad invocare dalla superiorità un aumento di guarnigione in questo Castello che valesse ad allontanare ogni pericolo di invasione, però non ha avuto risposta, poi la recente sventura di Brisighella (7 febbraio) ritenendo urgente un provvedimento propone che la Municipalità assuma la spesa per una Guardia Notturna che presentemente io crederei bene istituire a maggiore garanzia dell’ordine pubblico, della salvezza delle persone e delle proprietà. La proposta è approvata  e finanziata la spesa per assumere 12 guardie. Il pericolo però durerà ancora a lungo, una circolare dell’agosto scrive: Non ostante le energie dei Governatorati, ed il coraggio della Forza armata nell’inseguire i malfattori che infestano queste provincie, diverse bande anche numerose aggiransi in alcuni territori massime nelle vicinanze della Toscana, ove trovano agevole rifugio, e compromettono la sicurezza dei paesi sprovvisti di guarnigione i quali perciò vivono in sospetto di qualche sciagura. Il 25 gennaio 1851 la Banda del Passatore compie la sua impresa più clamorosa: l’occupazione di Forlimpopoli e del suo teatro, con sequestri e violenze, tra le quali lo stupro della sorella di Pellegrino Artusi. Arrivano nuovi appelli alla più rigorosa osservanza delle leggi promulgate non solo contro gli invasori e grassatori che con tanta audacia e ferocia infestano queste provincie, ma ben anche contro quelli che in qualsiasi modo prestano loro aiuto, direzione, ricetto. Occorre ricordare che è in atto lo stato d’assedio dell’Imperiale e Reale Esercito austriaco e quindi la giustizia è esercitata da tribunali militari. Non è che i tribunali papalini avessero ritegno a pronunciare dure condanne detentive e di morte anche per piccoli reati, ma i procedimenti erano lunghi, le condanne capitali spesso commutate poi si poteva sperare nelle amnistie per arrivo di nuovo Papa o per sua benevolenza. L’amministrazione austriaca è ben più efficiente anche nel campo della repressione e sicuramente meno benevola. Un esempio è la notificazione (un manifesto da rendere pubblico) del novembre 1855 in cui si scrive: Nella mattina del 15 novembre fu arrestato nel solajo della casa del campagnolo Luigi Piancastelli il famigerato malandrino Settimio Mondroni d’Imola.  Tradotto il 19 a Imola al Tribunale: il suddetto Piancastelli confessò di aver dato ricovero in propria casa al sunnominato Settimio Mandroni e di avergli prestato cibo e bevanda. Confessò pure che all’avvicinarsi della Forza Gendarmi occultò alla medesima la presenza del Mandroni in casa sua, e gli diede possibilità di nascondersi nel solajo della casa sebbene esso seppe dal Mandroni istesso che quest’ultimo era un bandito. La confessione non viene evidentemente considerata un’attenuante e quindi viene condannato a morte mediante fucilazione.  La sentenza viene eseguita dietro le mura della porta Bolognese di questa città a un ora pomeridiana. Amministrazione asburgica veloce ed efficiente ma che può ben poco contro il fenomeno del banditismo. Il famoso Passatore era morto il 23 marzo 1851, quindi già da 4 anni, ma non era cessato il fenomeno dei fuorilegge, causato dalle condizioni di miseria e disagio, dovute anche a scarsità di raccolti, nelle popolazioni soprattutto delle campagne e dei paesi. Un aspetto curioso dell’illegalità nelle nostre zone è il furto delle foglie di gelso. Il problema, per le sue dimensioni, preoccupa la legazione, che attiva le autorità locali. Il Governatore scrive al Priore che: Venendomi anche quest’anno dalla Superiore Legazione, con venerata disposizione (…) inculcata la più scrupolosa vigilanza, onde impedire nella presente stagione il furto della foglia dei moro-gelsi per alimentare bachi da seta da coloro, che non ne hanno i mezzi, o vogliono farne smercio clandestino. Si invita quindi a procedere come l’anno precedente che portò buoni effetti.  

Il problema quindi si era già posto l’anno precedente ma continuerà anche negli anni successivi e non interessa solo le foglie di gelso. Una notificazione della Direzione Provinciale di Polizia si occupa dei furti campestri: che accadono con molta frequenza, specialmente per fatto di questuanti e di altri individui vagabondi, di cui molti appartengono alla classe de’ Facchini. Quindi prescrive: Qualunque individuo delle sopradette categorie, compreso le donne e i ragazzi, fosse sorpreso nella campagna o nell’abitato con granaglie, canapa, uva, legna, erbaggi e altri prodotti campestri di ogni genere, senza poterne giustificare la legittima provenienza, soggiacerà all’immediato arresto per essere punito correzionalmente a termini del vegliante Regolamento di Polizia (…). Interessante è l’elencazione degli obiettivi dei furti che, se si esclude la canapa, sono tutti prodotti per la sopravvivenza. Il decennio 1850-1859 è, dopo i sommovimenti drammatici del 48, che hanno visto la sospensione del potere papale, un periodo di restaurazione diverso da quello precedente dopo il periodo napoleonico.  La rottura è durata di meno, ma ha lasciato tracce più profonde. Le teste calde o sono andate in esilio, in Piemonte, Francia, Inghilterra, o si sono defilate, messe in sonno. Ma la convinzione che comunque così non si può più andare avanti è diventata senso comune. Si lavora e si attende che il frutto dell’indipendenza italiana divenga maturo. Della debolezza dello stato pontificio è ben consapevole l’Impero austriaco, che continua a mantenere la presenza del suo esercito nelle legazioni. In questa situazione di tranquillità apparente, Castello, i suoi Municipalisti, i suoi paesani e i suoi contadini cercano di tirare avanti. Un’attività che sta prendendo piede è quella connessa con le presenze forestiere per la bibita delle acque. Il comune provvede ogni anno, dopo l’inverno a risistemare e renderle fruibili le sorgenti. Da alcuni anni ha provveduto anche a renderne noto l’accesso e l’apertura. La cosa ha avuto successo e durante la stagione gente viene da fuori e incrementa un settore dell’economia legato al commercio, alla ristorazione, all’accoglienza. Per incentivare il settore e aumentare la frequenza diventa importante dare occasioni di divertimento agli accorrenti, il Teatro, con opportuni spettacoli può essere strumento adatto. Il problema è che mancano i soldi, più propriamente gli scudi. Occorre un maggiore impegno finanziario da parte del Comune per il teatro. Non è che un impegno manchi, sono sostenute le spese per la manutenzione, per la custodia, si concede il Teatro gratis, l’incasso, desunti i costi per la gestione  , anche dei palchi, è tutto per chi fa lo spettacolo. Infatti il teatro funziona se sono basse le spese, poiché le entrate dovute ai locali non sono sempre sicure. Quindi gli spettacoli si riducono a rappresentazioni di filodrammatici di Castello, e questi sono i benvenuti quando ci sono, oppure di Bologna per i quali ci sono solo le spese di viaggio e alloggio.

L’opera lirica e la stagione delle acque.

Per la stagione delle acque, durante la quale c’è anche la importantissima Fiera d’Agosto occorre però un’Opera in Musica, da rappresentare varie sere e da fare con una opportuna compagnia.  La preparazione della stagione è una procedura impegnativa, va preparata con anticipo, vanno raccolti tutti i permessi, dal Legato alla pubblica sicurezza, al parroco. L’elenco dei cantanti e dei suonatori va esaminato e approvato, va garantito. Le recite normalmente sono 8 e nel frattempo possono esserci contrattempi, rinunce. Un lavoro impegnativo per la Commissione Pubblici Spettacoli che sovraintende al tutto. L’impegno però non è solo organizzativo ma anche finanziario ed evidentemente non lieve per le solite disastrate finanze locali. Però le categorie economiche interessate alla presenza di forestieri premono e incalzano il comune perché la stagione si faccia Questa spinta è rappresentata ad esempio in una petizione con 30 firme presentata nel novembre 1852 a seguito forse di situazioni non troppo soddisfacenti degli anni precedenti. Dopo il consueto lamento sul fatto che: Non è d’uopo dimostrare come in oggi ogni esercizio abbia perduto nella sua floridezza, e nel tempo stesso di quanto siano accresciute le imposte che pesano sopra gli esercenti di ogni genere, poiché non è chi nol conosca. Quindi si chiede di cercarsi i mezzi onde attrarre in questo nostro paese i forestieri a godere dell’aria felicissima che spiriamo, e fra i tanti uno sarebbe l’apertura del teatro nella stagione estiva. E ciò come ci ha dimostrato l’esperienza non può succedere con certezza senza che sia corredato almeno di una piccola Dote. Dote però da prevedersi in modo fisso in un titolo del bilancio poiché anche se dovesse per avventura qualche anno restar chiuso il teatro, il fondo stabilito gioverebbe sempre alla manutenzione del medesimo ed a ritoccare lo scenario molto scaduto. Nonostante il mancato o quantomeno non completo accoglimento delle richieste dei petenti la stagione operistica, anche se con una sola opera, in qualche modo ha luogo nel decennio, escluso il 1855, anno del colera. L’opera rappresentata nel 1851 è l’Ernani di Giuseppe Verdi, è proposta da una Società di Artisti che si impegna per otto recite senza pretesa di alcuna paga serale a condizione che per parte degli abitanti del paese vengano forniti di alloggio e cibarie a tutti gli artisti bolognesi tanto cantanti che suonatori (…) limitandosi unicamente a disporre dell’avanzo che potrà realizzarsi sugli introiti delle rappresentazioni detratte le spese. Prima firmataria: Prima Soprano Guccini Carolina. Si parla di artisti bolognesi perché per quanto riguarda gli orchestrali ed i coristi castellani il problema dell’alloggio non si pone. I coristi in effetti sembrano essere tutti del paese poiché molti dei loro nomi si ripetono in occasione di altre opere negli anni successivi, alcuni sono sempre presenti fino al 1860 e oltre. Il 1852 si apre con la scoperta: che nel locale del Teatro di proprietà Comunale non solamente vi si tiene ridotto di gioco nascosto per conto ed interesse del vicino Caffè, ma che di più vi si gioca ben di sovente a giochi di azzardo, e proibiti rigorosamente. Si interviene prontamente per impedire tanta causa di demoralizzazione e di dissesto richiamando il custode Giacomo Chierici il quale è stato opportunamente, ed acremente diffidato, ed intimato a non tenere tanto in Teatro, e locali annessi, che nella casa di sua abitazione persone che si dedichino al gioco, e massime d’azzardo. Avvertendolo in oltre, che si ritiene responsabile di tutti i membri della sua famiglia, colla comminatoria in caso della trasgressione della esclusione dall’impiego di Custode del Teatro e delle altre penalità (…). Il Chierici aveva altre volte lamentato la scarsità del compenso per la guardiania del teatro, che si limitava praticamente alla concessione dell’abitazione, quindi all’offerta di altro compenso, pur se immorale e soprattutto illegale, non aveva potuto resistere. La fiera d’agosto 1852 fu ancora allietata da dieci recite dell’opera verdiana i Masnadieri. Il contratto stipulato dagli artisti è di 70 scudi più cibarie e alloggio da parte dell’impresario, invece le spese di vetture e di stallatico sono a carico loro.  Non ci sono carte con indicazione della concessione di una dote da parte del comune anzi il teatro è concesso perché la Deputazione ha osservato che dalle prodotte scritture rimane cautato pienamente l’interesse del Comune. Nulla sappiamo del successo di pubblico ed economico delle recite. Alla fine del 1852 abbiamo, come già visto, la petizione degli esercenti per l’intervento del Comune per la prossima Fiera d’Agosto 1853. Nessuna dote viene stanziata ma comunque la stagione operistica va in scena. È rappresentata l’opera: I Due Foscari, di G. Verdi per otto sere. All’impresario si accorda il permesso dell’estrazione di una tombola, durante il corso delle rappresentazioni. Si spera così in un ristoro sulla eventuale scarsità dei ricavi. Il 1854 si apre con una novità per quanto riguarda la stagione estiva. Il Marchese Albergati, proprietario di ampi possedimenti e di una fastosa villa estiva in quel di Medicina scrive che quando nulla osti per parte di cotesta Illustrissima Magistratura, assumerei di buon grado la conduzione del Teatro nel tempo della prossima Fiera per esercitarlo con qualche spettacolo musicale, ed anche di declamazione allo scopo precipuo di procurare al paese un trattenimento, ed un pane agli inservienti dello stesso Teatro. Le condizioni sono che: ogni avanzo, detratte le spese, sia erogato in oggetti di beneficenza (…) giacché in caso di disavanzo ogni responsabilità ricadrà a totale mio peso, e carico. Mai non fu vista, dal Priore e municipalisti, cosa più bella, peccato che non si ripeterà mai più. Comunque l’estate castellano vedrà la rappresentazione di 10 recite dell’opera in musica I Capuleti e i Montecchi del celebre maestro cav. Bellini.  Forse la stagione ha successo poiché l’anno successivo sono diverse le richieste per il periodo della bibita delle acque, anche con interlocutori insoliti come una Compagnia Drammatica-Equestre-Acrobatica del Dottor Bignami in Bologna con recapito al Caffe del Teatro del Corso, che però chiede un piccolo regalo onde in parte far fronte alle spese di viaggio. La Magistratura però non è disposta ad assegnare cosa alcuna, neppure a titolo di regalia per non introdurre un uso, che anche coll’esempio di questo solo caso, potrebbe nascere, di dovere stanziare qualche fondo per oggetti teatrali.  Lo scritto è un poco involuto ma il concetto è chiaro, niente Dote né ora né mai, anche se come si dice: mai dire mai. Intanto però si avvicinano nubi molto oscure. Si sta avvicinando una epidemia di colera. Già all’inizio di giugno la Deputazione Sanitaria scrive: dappresso le voci che corrono della prossimità, ed avvicinamento del Cholera si è oggi adunata questa deputazione all’oggetto di prendere una qualche misura in caso d’invasione di questo morbo, e dopo varie discussioni si è unanimemente convenuto di avvisare alle seguenti preparatorie disposizioni, che vennero eseguite alla massima segretezza e prudenza per non allarmare la popolazione. Le misure riguardano le disposizioni ai medici, la preparazione di un locale per uso ospedale cioè una specie di reparto di isolamento, il procurare letti e utensili per cucinare. Quindi procedere alla pulizia delle strade, delle chiaviche e delle fogne. Alla fine di giugno la deputazione scrive: il Cholera che ha invaso i contermini paesi, mette anche fra noi forte apprensione. Chiede di poter usare il fondo di scorta per le spese necessarie per attrezzare l’ospedale, mentre tra le altre cose di rimuovere gli acervi di concime, e l’allontanamento di tutto ciò che può diffondere perniciose esalazioni. Non sembra però che la consapevolezza del pericolo sia generale. Nella risposta del 9 luglio ad una richiesta di uso del teatro la deputazione agli spettacoli scrive: l’unico ostacolo che potesse insorgere sarebbe l’invasione del morbo Cholera del quale però tuttora non si ha veruna traccia. Invece già il giorno dopo, il 10 luglio si hanno i primi 3 casi mortali, la malattia si presenta molto violenta e rapida, come nel caso di un giovane di anni 19, robusto, muratore preso alle ore 5 pom., stato algido-cianotico. Morto alle 4 antim. dell’11 luglio. La situazione si aggrava in fretta, la Deputazione di Sanità, nominata in condizioni di normalità, in cui il problema maggiore era solitamente far fronte alle crisi di afta-epizootica, si ritrova con la mancanza di due membri. La integrazione avviene nominando gli eccellentissimi signori Dr. Nicolò Giorgi e Dr. Pietro Inviti entrambi pregevoli per doti di mente e di onore. Ricompare quindi in un incarico importante Pietro Inviti, che uscito dall’assedio austriaco di Ancona del 17 giugno 1849 con l’onore delle armi, non si era comunque messo particolarmente in mostra, anche se come vedremo non si era affatto ritirato dalla lotta politica. L’epidemia durerà tutta l’estate fino alla fine di settembre e colpirà tutto il territorio comunale, alla fine i colpiti saranno 384 di cui 242 i morti e 142 i sopravvissuti. Un provvedimento piuttosto curioso è stato applicato durante l’epidemia. La Deputazione, in seguito delle Superiori Disposizioni per impedire la vendita di Cocomeri, e Melloni e distruggere le Mellonare, ha dovuto incaricare alcuni dipendenti per provvedere a questa distruzione, questi hanno operato con tanto zelo ed attività che, su proposta dell’Inviti, si ritenne opportuno prendersi in considerazione per qualche gratificazione. La proposta è accettata fatte salve le autorizzazioni superiori. Che cocomeri e meloni potessero essere coinvolti nella diffusione del colera non credo corrisponda a verità, però ricordo da bambino di aver sentito circolare la diceria che mangiare meloni troppo maturi poteva far male. Nel più ampio mondo l’avvenimento per noi, poveri italiani percossi e divisi, fu, anche se ce lo disse molto più avanti la storia, la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea con Francia, Inghilterra e Turchia contro la Russia. Piccolissimo contributo per le grandi potenze, ma passo da gigante per la causa dell’unità italiana. Infatti il vengo anch’io di Camillo Benso conte di Cavour fu accettato e poté quindi partecipare alla conferenza di pace che si tenne a Parigi l’anno successivo. Passato il Cholera e la necessità di misure sanitarie che vietano l’uso del teatro si può riprendere l’attività teatrale. Nel maggio del 1856 ad una richiesta di una compagnia dialettale bolognese che si è già esibita con successo al teatro Contavalli, si risponde con un rifiuto perché: attualmente è aperto in paese un privato teatro, in che hanno luogo produzioni rappresentate da questi dilettanti, i quali sono pure per proseguire il corso delle loro recite. Il pubblico ne accoglie con piacere le loro fatiche. Essendo perciò piccolo il paese è più che sufficiente un tale mezzo di intrattenimento e quindi non si può rendere disponibile per il dialetto anche il teatro Comunale.  Non sappiamo dove fosse questo privato teatro, forse si usava lo spazio dell’oratorio della Compagnia di S. Caterina, potente confraternita attiva dall’inizio del 1400 al 1772, data della sua soppressione. Per la stagione estiva invece non solo si ripete la serie di serate operistiche ma addirittura si stanzia una dote di 20 scudi. La somma è piccola ma abbondano le clausole e i controlli. L’opera rappresentata è: I Lombardi alla prima Crociata di Giuseppe Verdi.  Il successo è grande se si dà fede ai ringraziamenti espressi, in modo un po’ involuto, dalla Deputazione al maestro Gagliani in questo modo: Ho tutta la ragione di far lode alla S.V. Ill.ma per avere tanto contribuito al felice riuscimento della rappresentazione I Lombardi in questo teatro Comunale. È un fatto che, a non isvilire gli alti pregi di un si eminente lavoro, è forza procacciare la maggiore oculatezza nell’eseguimento senza di che il bello illanguidisce: inoltre la S.V. Ill.ma ha un titolo alla stima, e alla gratitudine del Magistrato, e della Deputazione dei pubblici Spettacoli, per avere cooperato efficacemente al buon esito dello spettacolo e coll’essersi prestato gratuitamente., il che evidentemente non guasta vista la ristrettezza dei cordoni della borsa municipale. Ringraziamenti ancora più sentiti sono per la signora Vincenzina Bertucci, danzatrice che si è esibita nell’intermezzo ballabile dell’opera: Crederei per me inescusabile cosa, se non avessi a tributarne a voi, o gentilissima Signora, i più meritati elogi (…). La grazia, l’agilità si rara delle movenze, la leggiadria di ogni moto si bene armonizzato all’arte della danza, l’espressione sì bene acconcia che ogni passo accompagnava sono doti sì pregevoli e sì rare che hanno nell’animo di quanti vi hanno ammirata, eccitato un forte senso di entusiasmo, sì che spontanei da ogni petto irrompevano i più caldi applausi. Voi nell’onorare questo nostro paese, lasciate una memoria di chiara rinomanza, che impressa resterà e per lungo volgere di anni nell’abito di questi abitanti. Ma voi alla somma maestria accoppiando anche i pregi del cuore foste cortese di prestarvi graziosamente per cinque sere e di ripetere fino a tre volte ardui e faticosi passi (…). La bella Vincenzina aveva veramente fatto colpo nel cuore e nella mente dei componenti la Deputazione dei pubblici Spettacoli. Nell’autunno Pietro Inviti, che ritroveremo presto in altri mestieri affaccendato, chiede ed organizza nel Teatro Comunale, quello privato evidentemente non era idoneo, due serate a scopo di beneficenza con i sempre presenti dilettanti castellani. Il ricavato sarà di 15 scudi per contributi a 9 famiglie di cui 7 vedove, una con marito infermo e una molto anziana. Visto l’entusiasmo per l’ultima stagione operistica visto pure che è stato rotto il principio di nessuna dote, si ritenta con la solita petizione questa volta con 55 firme.  Dopo il solito richiamo ad incentivare l’afflusso di forestieri già attirati dalla positura più che mai deliziosa di questo paese, le ridenti colline che ne fanno un incanto alla vista, la dolcezza di un aere puro, l’essere lungo l’Emilia, le acque salutari di che è fornito, (…) non manca che il modo di rendere più dilettevole in alcuni giorni dell’estate il soggiorno, e questo a dovizia si otterrebbe col procacciare una Dote a questo Teatro Comunale. Non manca la proposta costruttiva: Voi non ignorate Illustrissimi Signori come venisse nell’ addietro ridotta a tassa ordinaria quello che in addietro era detta tassa del Teatro. Cioè l’imposta messa per pagare le rate della costruzione del teatro poi rimasta come tassa normale. Una specie della nostra tassa per il terremoto di Messina. E infatti: gli esercenti certamente ne sentono un peso anche al presente quantunque sia cessata la causa che vi diede origine. Quindi usate almeno quell’entrata per costituire una Dote che assicuri annualmente di vedere agire questo Comunale Teatro. Ciò non solo soddisfa alla brama dei ricorrenti ma coopera ancora all’incivilimento, che forma ad oggi un dei più caldi pensieri di chi siede al governo delle popolazioni. Magari non era proprio questo il più caldo pensiero del locale governo, che comunque scrive al Governatore, responsabile dell’ordine: Raggiunta ora la tranquillità, e tornati a mitezza di abitudini i tempi, ne è seguito un generale desiderio negli abitanti di vedere ripristinati nel corso del carnevale quegli onesti divertimenti che, a chi non ne è intemperante, arrecano all’animo non poco ricreamento, e forse pure un segno di civiltà.  Infatti ci sono richieste di veglioni, anche in luoghi privati, da parte di società professionali, muratori, filarini. Continuano ad essere attivi i filodrammatici che occupano quasi di continuo il teatro, per cui non si può accedere alla richiesta del teatro di Medicina di prestare i bracci per l’illuminazione. In giugno cessa lo stato d’assedio da parte del II.RR. Esercito austriaco, che durava dal 1849 e a Bologna viene in visita Papa Pio IX, ove però riceve un’accoglienza non molto calorosa. Intanto tra i fuori usciti delle rivoluzioni del biennio 1848/49, presenti soprattutto in Piemonte, si decide di superare le divisioni tra conservatori e mazziniani, di puntare per l’unità d’Italia sul cavallo della monarchia sabauda e di rimandare le differenze a dopo l’ottenimento del risultato, tenuto anche conto del fallimento di tutti i tentativi fatti, ultimo dei quali la tragica impresa di Pisacane. A Torino viene fondata la Società Nazionale che ha per presidente Daniele Manin e vice presidente Garibaldi. A Castello la stagione delle acque potrà fare affidamento sulla Dote, 100 scudi. L’opera programmata, per almeno 10 recite è Il Trovatore di Verdi. Il tutto è dettagliatamente regolamentato, tra cui anche il servizio medico. Ad ogni sera pel servizio interno del Teatro dovrà trovarsi presente ad ogni recita, o rappresentazione qualsiasi uno dei due medici condotti del Capoluogo, con avvertenza che nella prima sera dovrà il medico Primario intervenirvi e nella seconda il medico Chirurgo, e così alternativamente collo stesso ordine. Inoltre Sarà debito del Medico di turno prestarsi a qualsiasi bisogno potesse impensatamente intervenire ai cantanti, attori, che rimanessero sorpresi da indisposizione qualsiasi, e da malattia, e lasciare in iscritto i certificati da presentarsi alla deputazione comprovanti il grado di malattia, e se questa impedisca o no di prestare e di continuare ad agire in teatro. Questa circostanza purtroppo si presenterà perché si ammala la cantante principale, poi se ne va, illegalmente, la prima ballerina. Si deve differire l’andata in scena a quando ormai la stagione delle acque è alla fine e sono calati gli spettatori e quindi l’impresario minaccia di sospendere le recite, non potendo più pagare i suonatori. Di fronte a ciò: Considerato che l’impresario non ha omessa alcuna cura, e alcun dispendio, acciò lo spettacolo riesca di soddisfacimento al Pubblico. Considerato il danno che ne venisse agli esercenti, ove venisse interrotto lo spettacolo. Considerato che sarebbe disonorevole cosa per un Comune dei primi della Provincia quale è questo comune che venisse in siffatta maniera deluso il pubblico. Si decide di erogare altri 25 scudi. L’anno successivo, il 1858, si continuano le solite attività nel teatro e soprattutto l’opera nel periodo estivo. Questa volta ci saranno 10 rappresentazioni dell’opera verdiana la Violetta, ( si tratta della Traviata censurata già nel titolo). È stanziata la Dote e pure la dotazione di due scenari mancanti per altri 7 scudi. Intanto in luglio si costituisce anche a Bologna, segretamente, la Società Nazionale. I capi sono Luigi Tanari, presidente, che si occupa dei collegamenti con l’esterno soprattutto Torino, Camillo Casarini dell’organizzazione del movimento a Bologna e nel bolognese e il castellano Pietro Inviti che si occupa dello sviluppo della Società in Romagna. Compito non facile perché i patrioti romagnoli erano convintamente repubblicani e convincerli a fidarsi dei Savoia fu una bella impresa.  Inviti fu favorito dalla presenza nella Società di Garibaldi e dal drammatico esito dell’attentato contro Napoleone III del romagnolo Orsini che mostrò non solo l’inutilità dei gesti terroristici ma anche il loro danno per la causa italiana. Castello in quei giorni di fine 1858 fu una base per i viaggi dell’Inviti in Romagna. Patrioti castellani controllarono la Via Emilia, la presenza della polizia papalina, i periodi in cui la strada era sicura o i nascondigli nell’attesa. L’anno successivo comincia un periodo di grandi cambiamenti. L’inizio sembra svolgersi nella solita maniera. Una compagnia, che è una delle Prime tra le Secondarie, trovandosi in Romagna e prima di recarsi scritturata a Genova e Torino, chiede per la Pasqua l’uso del teatro. La municipalità risponde che una tenue Dote è stanziata solo per la stagione delle acque e non per commedie. inoltre ci potrebbero essere spettatori solo la domenica poiché i paesani intendono del continuo al lavoro e dopo l’occupazione di giornate, che in avvenire si fanno lunghe, nella sera sentono il bisogno di riposo. Ai primi di giugno gli ostacoli alle rappresentazioni teatrali non sono più solo la scarsa propensione dei castellani, stanchi del lavoro, a stare alzati fino a tardi la sera, ma dall’inizio di una svolta storica nella storia di Castello e dell’Italia.


La 2° guerra di Indipendenza. Gli austriaci se ne vanno.

All’inizio di aprile l’esercito austriaco ha varcato i confini con il Piemonte attaccandolo. Il regno sabaudo, per tramite di Cavour, aveva l’anno prima fatto un’alleanza con la Francia di Napoleone III.  Alleanza ovviamente solo difensiva e pacifica, che prevedeva l’intervento militare di una delle parti solo se l’altra fosse stata attaccata.  L’obiettivo francese era quello di combattere la supremazia austriaca in Europa, attaccandola in quello che presumeva essere il suo fronte più debole, cioè l’Italia a nord di Roma, che era già sotto la protezione francese.  Ciò naturalmente va bene ai Savoia che sperano di incamerare la Lombardia e il Veneto, e ai patrioti che sperano di portare avanti il processo di unificazione dell’Italia. In seguito alla ingiustificata aggressione scattano le norme del trattato e l’esercito francese arriva subito in aiuto. L’attività teatrale castellana ha qualche incertezza. Questa è la risposta negativa ad una richiesta di uso del teatro: ora per gli attuali avvenimenti che tanto preoccupano gli animi, non si ravvisa conveniente il pensare a porre nelle scene di questo Teatro uno spettacolo in tempo di generale aspettazione. Di più non avendosi finora troppe probabilità che si abbia quest’anno il numero di villeggianti degli anni scorsi si correrebbe il rischio di avventurare ad esito troppo incerto.  Intanto l’esercito franco-piemontese il 5 giugno sconfigge gli austriaci a Magenta, Garibaldi coi suoi Cacciatori delle Alpi occupa Varese e Como e il 6 Napoleone e Vittorio Emanuele entrano trionfalmente a a Milano. La generale aspettazione comincia a realizzarsi. L’II.RR.  Esercito austro-ungarico che pensava di fare un poco di guerra preventiva in realtà è caduto nella trappola e deve correre ai ripari, riunisce le sue truppe sparse tra le quali quelle nelle legazioni papaline. Domenica 12 giugno le truppe austriache se ne vanno da Bologna.  I patrioti organizzati nella Società Nazionale sono preparati e pronti da giorni e occupano la piazza e le caserme e assumono il potere con una Giunta Provvisoria di Governo che chiede la dittatura del Magnanimo Re del Piemonte quindi segnando di fatto la decadenza del potere Papale. Anche i castellani partecipano attivamente all’evento, in un ricordo pubblicato anni dopo, sul Resto del Carlino del 9 giugno 1909, c’è la cronaca di quel giorno che riportiamo al completo. Non c’è il nome del narratore ma essendo uno che ha partecipato ed escludendo quelli citati, dovrebbe essere Federico Dal Monte. Pochi giorni avanti ogni sera, d’intesa col comitato bolognese ci recavamo in città, pronti ad ogni evento, nascondendo accuratamente le pistole nei baroccini. Non era ancora l’alba del 12, quando la soldataglia straniera abbandonò Bologna, consegnando alla gendarmeria pontificia il posto di guardia di palazzo. Subito contro di esso e ai lati si schierarono i cittadini armati, tenendo sgombra la piazza. Dopo lunghe pratiche, furono indotti i gendarmi a ritirarsi. Noi di Castel San Pietro, veduta inutile l’opera nostra in città per il pacifico e rapido svolgersi degli eventi, unanimi chiedemmo di ritornare al nostro paese, per atterrarvi lo stemma papale e unirci alle sorti di Bologna. I negozi della città erano chiusi sia per l’ora mattutina sia per essere giorno festivo o per timore di danni, ma conoscendo uno che aveva bottega sotto le logge del Pavaglione fu mandato a chiamare e, acquistate tele bianche, rosse e verdi, più che in fretta ne componemmo tre bandiere nazionali, da spiegare al vento sui nostri tre baroccini e, con quanta lena avevano i nostri cavalli, trottammo verso Castel San Pietro. Arrivati al paese, ne percorremmo, sempre sui biroccini, la strada principale, gridando evviva l’Italia e Vittorio Emanuele. Presso la chiesa parrocchiale incontrammo una processione, che ci costrinse ad attraversare diagonalmente la piazza principale e a prendere una via laterale nella quale prospettavano le finestre della caserma, allora dei gendarmi, adesso dei carabinieri. I nostri evviva al re trassero alcuni alla finestra con atteggiamento di sommo stupore. Compiuto il giro del paese, scendemmo alla locanda della Corona, ove corsero armati alla meglio i nostri amici. Alla nostra chiamata, volenterosa accorse la banda musicale e, formatici in colonna, al suono di inni del quarantotto, marciammo fino alla piazza, occupando l’ingresso della residenza del governatore. Lo scrivente, Severino Cacciari e Luigi Emiliani salirono dal governatore, sedevano ai lati del governatore il Priore e il maresciallo dei gendarmi. Quel triumvirato aveva i volti terrei e paurosi e dalla fronte del maresciallo stillavano righe di sudore. Che cosa vogliono lor signori, chiese il governatore. Rispose uno di noi: Gli austriaci hanno abbandonato Bologna, dove si è costituito un governo provvisorio; è stato abbassato lo stemma pontificio e inalberata la bandiera tricolore sullo stemma di Savoia, e intendiamo fare qui altrettanto: di conseguenza lor signori cessano dalle loro funzioni. Disse il governatore: Cediamo alla forza e raccomandiamo il mantenimento dell’ordine. C’è anche una diversa versione, in “Cronaca di C. S. P. dal 1859 al 1863” di don Ignazio Farnè si racconta lo stesso episodio ed è scritto: si opposero essi al principio, ma cedendo alla necessità non impedirono che si desse ordine che si togliessero le armi papali. Difatti furono levate in mezzo al dispiacere di tutti i castellani. Oltre agli stemmi papali vengono allontanati i vecchi governanti e si insedia una nuova Commissione Municipale che si rivolge così ai castellani: In questi solenni momenti ne’ i quali le più belle sorti a noi si dischiudono, fidenti nel vostro pattriottismo vi invitiamo ad arruolarvi nella guardia di Pubblica Sicurezza (poi Guardia Nazionale) della quale noi ci occuperemo per quelle provvidenze che saranno richieste ad organizzarvi militarmente. L’unione, e la fratellanza sarà il mezzo più valido per farsi degni dell’Indipendenza italiana. Come Bologna anche le altre legazioni si sono liberate, le truppe papaline però resistono più a sud come a Perugia oggetto di una feroce repressione. Gli austriaci se ne sono andati anche dai ducati di Modena e di Parma, come pure se ne è andato il Granduca di Toscana. Ogni provincia nomina un suo governo provvisorio e tutti sperano di potersi unire al Piemonte, le cose non si presentano semplici. Bologna riesce a unire le legazioni, quindi si crea un Governo Provvisorio delle Romagne che cerca un rapporto diretto con Torino. Intanto la guerra continua, il 24 giugno i franco-piemontesi ottengono la decisiva vittoria di Solferino, che però ha un alto prezzo per i francesi, inoltre Napoleone ha problemi sul Reno con la Prussia e nemmeno l’Austria se la passa bene. Quindi decidono di finirla lì, è l’armistizio di Villafranca, fatto alle spalle dei piemontesi, questi in base all’alleanza avrebbero dovuto avere il Lombardo-Veneto e invece otterranno solo la Lombardia. Per quanto riguarda noi e i toscani le clausole armistiziali prevedono il ritorno dei fuggiti duchi e granduchi e del papa, con il loro impegno a fare i buoni, introdurre riforme sociali ed economiche ed entrare in una inedita Confederazione Italiana sotto la presidenza onoraria del Papa. Cavour si dimette arrabbiatissimo e manda a quel paese il re. La situazione si fa pericolosa e precaria, le assemblee deliberano le annessioni al Piemonte e la decadenza dei precedenti sovrani e del potere papale, si costituisce una Lega Militare e si fanno progetti per fortificare Bologna. Si assumono anche altri atti unilaterali come l’unione doganale, sopprimendo le dogane ai confini con la Toscana e Modena, si introduce il sistema metrico decimale, si impone alle Municipalità l’ostensione dello stemma Savoia. Il 9 novembre le assemblee decretano di unificare il governo delle provincie Modenesi, Parmensi e Romagnole e di chiamarlo: Governo delle Regie Provincie dell’Emilia, introducendo per la prima volta il nome Emilia per indicare la nostra regione, richiamando un passo di Tito Livio. Inoltre deliberano di adottare lo Statuto Sardo. Le clausole di Villafranca, poi siglate a Zurigo tra Francia e Austria, sono di impossibile applicazione per l’ostruzionismo delle popolazioni interessate e per la scarsissima volontà degli ex sovrani di imporsi avendo come unica possibilità l’uso della forza. La situazione è in stallo. All’inizio del 1860 Cavour viene richiamato al governo. Felicità generale, Il comandante della Guardia Nazionale espone al Priore: la brama di mostrare mediante una festa militare quanto la G. N. apprezzi il richiamo al ministero di quell’uomo che primo svelando davanti all’Areopago europeo i dolori e le piaghe d’Italia ne additava i mezzi di guarigione.  Con pari stile il Priore risponde: Si riscontri aggradirsi il desiderio significato di festeggiare il ritorno al potere del conte di Cavour, e si invita la popolazione a illuminare l’esterno delle abitazioni per dare segno di quella letizia, da che sono compresi.  La situazione si smuove, Napoleone deve giustificare la sua guerra. Un risultato positivo sarebbe l’indebolimento dell’Austria in Italia, raggiunto solo se non viene restaurata la situazione precedente.  L’altro doveva essere la annessione di Nizza e Savoia alla Francia come dalla clausola prevista nell’alleanza. Clausola che il Piemonte rifiuta di attuare non essendo stata rispettata la prevista cessione del Veneto. Cavour ottiene lo scambio di Toscana e Emilia per Nizza e Savoia. Quindi si può considerare che le clausole dell’alleanza siano state rispettate, invece del Veneto i Savoia ottengono un bel pezzo dell’Italia centrale, sono tutti contenti esclusi i Duchi, il Papa e l’Austria che ha ora diminuito la sua occupazione ed influenza in Italia. Influenza e occupazione che riusciremo a toglierci dai piedi completamente solo nel 1918.Ovviamente, anche se Castello non è direttamente investito dalle varie manovre diplomatiche tra Bologna, le Romagne, la Toscana, gli ex ducati e il governo piemontese, i riflessi non mancano. C’è stato ardore guerresco, con la partenza di volontari con Garibaldi, all’inizio della guerra, ora con la organizzazione e preparazione della Guardia Nazionale, preparata per far fronte al deprecabile caso di dover difendersi da attacchi stranieri per il ritorno del papa. Arrivano anche volontari garibaldini, già Cacciatori delle Alpi (162 il 5 ottobre e 150 il 6) che pernottano a Castello diretti a Forlì. La Guardia Nazionale, almeno sul piano locale, è molto attiva, soprattutto nel mantenimento dell’ordine e nella lotta alla criminalità che resta molto diffusa. A questo proposito un rapporto del 24 agosto 1859 ci dettaglia su un episodio molto movimentato di questa lotta raccontando un inseguimento che dal Sillaro arriva fino alla valle del Santerno attraversando tutta la parte collinare e coinvolgendo anche la popolazione locale della campagna. Essendo io sottoscritto Paolo Reggiani della Guardia Nazionale  qual capo pattuglia in pelustrazione per la campagna e precisamente sul fiume Sillaro presso il Molino di San Martino, essendo le ore 4 del mattino, sono stato avvisato da un montanaro, che diceva essere stato aggredito e esservi in quelle vicinanze una mano di masnadieri, in allora mi sono diretto co’ miei dipendenti sul terreno indicatomi, e difatti (…)abbiamo visto 5 di detti malfattori, i quali ci hanno ricevuto con fucilate, noi abbiamo risposto al loro fuoco, cosiché essi ci hanno voltato le spalle, e da noi sempre inseguiti sono stati novellamente raggiunti. Presso Monte Catone ha avuto luogo un altro scontro che ha durato ben più che di mezz’ora, ma pure senza risultato perché costoro hanno ripreso la via di levante rispondendo sempre al nostro fuoco (…). Alla mia pattuglia poi si erano raggiunti molti coloni i quali al grido: dalli ai ladri! accorrevano e ci seguivano emulando sempre io e i miei uomini. In luogo detto Granarolo essendo venuto male ad uno della mia pattuglia, mi sono dovuto fermare per prestargli gli opportuni soccorsi e con mio dispiacere ho dovuto assegnare il comando all’unico uomo che mi restava Agostino Raffanini di Castel San Pietro (…).

 Giunto il Raffanini coi suoi uomini, ai quali sempre nuovi si aggiungevano, sulla vallata del fiume Santerno, ivi i masnadieri hanno fatto sosta, e allora si è impegnato un vivo fuoco, il quale ha avuto per risultato il ferimento di uno dei miei bravi coloni, e di un masnadiero, rimanendo in pari tempo in potere dei detti inseguenti altri 3 dei medesimi masnadieri avendo il 5° modo di evadersi in mezo alla macchia. Avuti in potere del Raffanini li sudetti 4 malfattori, sono stati dai medesimi disarmati delle armi, cioè di una doppietta, di due schioppi e di un trombone, e di tre lunghi coltelli così detti alla lughese, e praticatagli una personale perquisizione sonosi ritrovati possessori di 4 formaggi, oltre un orologio colla cassa d’argento Era appena compiuta questa operazione, quando sono giunto nel teatro dell’azione ed ho inteso dal Raffanini l’accaduto. Ivi pure con mia sorpresa ho rinvenuto una pattuglia di Casal Fiumanese la quale unitasi a noi ed ai bravi coloni hanno servito di scorta agli arrestati fino ad Imola, ove si è effettuata la consegna dei malfattori e traduzione dei medesimi nelle secrete carceri della Rocca della Città. Si è dovuto requisire una birroccia su della quale si è posto il malfattore ferito mortalmente, il quale assistito dal Rev. Parroco di Linaro, è stato esso pure tradotto in Imola, ove dopo ricevuto i SS Sacramenti dell’olio santo esalò l’ultimo respiro. Il cambiamento di un regime che durava, salvo l’interruzione napoleonica, dall’inizio del 1500 non trova l’unanime entusiasmo. Lo stemma sabaudo collocato all’esterno del comune viene, in ottobre, sfregiato per cui deve essere sostituito, e numerose scritte di Viva Pio IX vengono sovrapposte a scritte Viva Vittorio Emanuele. Il teatro subisce vari impedimenti in luglio perché: per gli attuali movimenti politici non si ravvisa conveniente il dare spettacoli.  Inagosto perché è occupato per la convocazione dei collegi elettorali della Provincia.  Ovviamente la stagione operistica d’agosto non è nemmeno stata programmata, anche per i cambiamenti, prima quello provvisorio poi quello definitivo, delle cariche della Comunità. Solo con la fine dell’anno si torna ad una normale utilizzo coi dilettanti della Accademia Filomelpomeni Felsinei. Uno spettacolo molto diverso è quello proposto, e concesso, con diversi giochi di ginnastica, da esercitare nel Piazzale così detto del Mercato dei Majali, con la condizione di rimettere a sue spese qualunque guasto che venisse a soffrire il selciato nel piantare i legni per la costruzione dell’occorrente recinto.  La ginnastica è evidentemente di moda. Anche il teatro è concesso ad una compagnia Acrobattica, Ginnastica, Plastica e Mimo Danzante che ha il seguente repertorio: Gran pantomime tutte da ridere, gran ballo di Corda da ambo i sessi, Giochi di forza del Alcide (Ercole). Studio di Ginastica, Ballabili a terra di diversi costumi, Gran Quadri Plastici sempre variati. La condizione è che il teatro sia comunque lasciato libero per i prossimi veglioni di Carnevale.

Referendum per l’annessione al Piemonte. Spedizione dei Mille.

L’anno successivo 1860, il 12 marzo, si fa il referendum per decidere se annettersi alla Monarchia Costituzionale di Vittorio Emanuele II di Savoia Re di Sardegna oppure costituire un regno separato (che non si sapeva bene in cosa consistesse). Vince l’annessione, il 20% non va a votare come aveva invitato il Papa.  Il referendum ufficializza una situazione di fatto, che aveva visto alla fine di dicembre il decreto per la introduzione della Lira come moneta ufficiale, la conversione è di 5,32 lire per uno scudo. Naturalmente è cambiata la composizione della governance locale in attesa delle previste elezioni per il consiglio comunale. C’è anche un altro piccolo cambiamento, il capo del comune non si chiama più priore, un nome suona un po’ chiesastico, ma sindaco. Per quanto riguarda i pubblici intrattenimenti la Deputazione per i Pubblici Spettacoli è cambiata nei componenti ma soprattutto nelle competenze, così assumerà negli anni successivi sempre più importanza assumendo la direzione delle attività promozionali per il turismo, associate alla stagione delle acque minerali, dirigendo la stagione dell’Opera. La seconda guerra di indipendenza ha unificato sotto una dinastia “italiana” gran parte dell’Italia settentrionale. Si sperava di riunire anche Venezia e il Veneto e forse le Marche e l’Umbria. Da queste regioni i patrioti che si erano esposti debbono spesso fuggire. Per contribuire a soccorrere questi nuovi emigrati una società di giovani del paese, con una orchestra formata dall’intera banda comunale organizza Un Veglione a Totale Benefizio dell’Emigrazione per non chiudere i cuori ai voti più intensi di quelle popolazioni che gemono sotto l’oppressione della forza, che vorrebbe con le armi e coi ceppi soffocare l’ardore all’Indipendenza, ed alla Unificazione d’Italia.(…) Ora che nuovi e brillanti destini si sono a noi dischiusi, che ne assicurano un’era la più prospera e splendida.  Pensiero che non trova però generale condivisione a Castello e tra i castellani.  La Festa dello Statuto, istituita nel 1851 nel regno piemontese, ora, che lo Statuto vale anche da noi, è diventata festa ufficiale, quindi si deve fare e si deve svolgere con la massima solennità civile, militare e religiosa e con solenne Te Deum nella chiesa principale. In altre province annesse il problema non si pone, ma noi eravamo possesso della Santa Sede, patrimonio di S. Pietro, l’annessione è una ferita ancora sanguinante e l’Arcivescovado bolognese non può non attenersi alle disposizioni vaticane che proibiscono qualsiasi riconoscimento non solo dell’annessione, ma qualsiasi rapporto con uno stato scomunicato. Quindi il parroco non può che ubbidire, mentre il Comune è sottoposto a forti pressioni da parte delle autorità superiori. E infatti, ricevute dal Comune le disposizioni sulla preparazione della cerimonia, l’Arciprete scrive che purtroppo la questione è per lui gravosa di somma afflizione, anzi di estremo cordoglio. Infatti per i suoi giuramenti, il suo convincimento e le istruzioni ricevute non può prestarsi a soddisfare il Comune senza cagionare enorme scandalo. Però propone anche una possibile soluzione, forse già concordata, e quindi continua: per lo che io supplico la S.V. di occuparsi di trovare uno o più sacerdoti esteri che possano o vogliano assumersi l’incarico (…). E infatti il Sindaco può rassicurare le superiori autorità che: Trovando frustrante l’insistere si è provveduto con un Sacerdote proveniente da Modena, e domani sarà la funzione celebrata con decoro, con ordine ed anche con sfarzo esteriore.  Si riferisce quindi che la cerimonia si è attuata regolarmente ed è riuscita splendida e che l’aggradimento è stato universale. Quindi si ringrazia e si paga il prete modenese scrivendogli: La tenue offerta che si prega la S.V. di aggradire, non è che un tenue segno della più viva riconoscenza per la gentilezza con che le è piaciuto prestarsi per la religiosa funzione.  E quindi sono tutti felici e contenti di essersi tolta una brutta castagna dal fuoco senza danni, anche le superiori autorità, che ora sono quelle del circondario di Imola e non più quelle di Bologna. Mentre questo succede da noi, siamo al 12 maggio 1860, Garibaldi è già sbarcato in Sicilia. Ai mille iniziali si aggiungono volontari da tutta Italia. Anche da Castello partono alcuni giovani.  Il Comandante  della Guardia Nazionale locale il 6 agosto scrive al Sindaco chiedendo che, nella circostanza che alcuni giovani del nostro paese si recano in Sicilia per ingrossare le fila  dei prodi volontari che generosamente offrono il loro sangue e la loro vita per l’Indipendenza d’Italia,  il Comune contribuisca, come già molti cittadini, alle spese di viaggio e quindi a volere deliberare immediatamente e in via di urgenza il contributo, partendo essi fra due ore dietro avviso e ordine del Comitato di Bologna. Viene deliberata un contributo di £ 63,84 Di questi giovani uno non torna, sappiamo che è morto a Reggio Calabria. La notizia di come sono andate le cose l’apprendiamo dalla corrispondenza (15 giugno 1861) tra Il Delegato di Pubblica Sicurezza di Castel San Pietro e il suo omologo di Reggio Calabria. Da Castello si scrive a Reggio: Allorché il prode Generale Garibaldi faceva appello alla italiana gioventù per concorrere alla liberazione dei popoli meridionali (…) in unione ad altri moveva di qui Augusto Alvisi (…). Si seppe che esso seguì sempre le vittoriose schiere, ma nel fatto d’armi che ebbe luogo per cacciare di costì le truppe del caduto Re, lo si disse ferito in tre parti. Ciò asseriscono gli stessi di lui commilitoni, i quali non ebbero poi a farsene più contezza. Voci vaghe pareva avessero stabilito che l’Alvisi (…) venisse accolto in uno Ospedale di codesta città dove soccombette. E’ un fatto che al Comitato della Società Nazionale in Bologna giungeva un Bullettino in cui fra le vittime della guerra guerreggiata leggevasi il nome di Augusto Alvisi senza altra indicazione. Da quel punto tutto tacque relativamente a quell’infelice giovane. Il sottoscritto si fa a pregare (…) a volere disporre venga accertata la morte con trasmissione a questa Regia Delegazione di autentico documento (…)  Da Reggio si risponde: (…) nel giorno 21 agosto 1860 entrava in detto Ospedale, ferito d’arma da fuoco, Augusto Alvisi di Pietro, il quale si morì il 28 detto. (…) per cui legalmente s’attesta la morte del giovine Alvisi qui avvenuta dopo il sanguinoso combattimento di Agosto.  Il “sanguinoso combattimento” è quello passato alla storia come la Battaglia di Piazza Duomo di Reggio Calabria.  Il 20 agosto la colonna garibaldina al comando di Nino Bixio entra in città, ad attenderli schierati attorno alla piazza del Duomo è il 14° reggimento al comando del colonnello Dusmet. Lo scontro avviene a mezzanotte ed è violentissimo, cade il Dusmet, lo stesso Bixio è ferito due volte al braccio e il cavallo colpito da numerose baionettate. La battaglia si protrae fino all’alba del 21 e infine i borbonici si ritirano da Reggio. Augusto Giuseppe Maria Alvisi del vivente Dr. Pietro e Luigia Rubbi nato qui il 7 luglio 1842 è figlio del medico condotto della zona ovest del territorio comunale, quando muore ha appena compiuto 18 anni. In una lapide posta sulla facciata del palazzo comunale è ricordato il suo nome. Intanto Garibaldi continua a risalire la penisola e il 7 settembre entra a Napoli. Le truppe piemontesi invadono il territorio della Santa Sede, si scontrano con le truppe papaline a Castelfidardo e le sconfiggono il 18 settembre, occupando le Marche e l’Umbria. Garibaldi intanto ha sconfitto al Volturno le ultime resistenze borboniche. Il 26 ottobre c’è l’incontro di Teano con la virtuale consegna del territorio del Regno delle due Sicilie a quello che è ancora solo re di Sardegna, Principe di Piemonte e Duca di Genova. Negli ultimi mesi del 1860 coi plebisciti si stabilisce l’unione al Piemonte delle nuove conquiste. Nel gennaio dell’anno successivo hanno luogo le elezioni politiche per la formazione del nuovo parlamento dell’Italia unita, sono iscritti al voto l’1,9% della popolazione e vota il 57% degli iscritti.

17 marzo 1861, Unità d’Italia.

Il 17 marzo 1861 il nuovo parlamento proclama che: Vittorio Emanuele Secondo assume per se e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia, una parte del parlamento aveva invece proposto: Vittorio Emanuele Primo è proclamato dal popolo Re d’Italia.  Una piccola differenza nel testo ma una notevole differenza per la storia. Ha prevalso chi preferisce considerare l’Italia una conquista di un Re di una dinastia, i Savoja, mezzo francese invece che della parte più progressista del popolo italiano. In meno di due anni da giugno 1859 a marzo 1861 nel nostro territorio si è passati dal regime papalino, che durava dall’inizio del 1500 con papa Giulio II, alla monarchia sabauda. Il governo pontificio era arretrato rispetto agli altri stati europei, sia da un punto di vista sociale che economico, per non parlare delle libertà che interessavano i ceti imprenditoriali. Però il papa era a Roma, Bologna era la seconda città dello Stato e se pur non aveva l’autonomia dell’epoca comunale, comunque aveva un certo potere di contrattazione rispetto alla curia romana.  Ora Bologna pur essendo importante è retrocessa in classifica a città di provincia e il governo di Torino è sicuramente più centralistico e forte di quello romano e con una burocrazia molto più strutturata e invasiva. Castello risente meno di questi cambiamenti, i legami, le conoscenze e le dipendenze che aveva con i governanti bolognesi ora contano meno, anche perché si sta modificando pure l’organizzazione territoriale. Abbiamo attraversato il confine storico della legazione ed ora facciamo parte del Comprensorio di Imola. Intanto per quanto riguarda il Teatro, la nuova Deputazione dei Pubblici Spettacoli, ha intenzione di non limitarsi solo al rispetto delle regole formali ma intende continuare ad entrare nel merito per quanto riguarda i pubblici intrattenimenti. All’inizio del 1860 a proposito di una richiesta per fare veglioni in teatro per il carnevale interviene non intendendo: rimettere all’arbitrio del petente il comporre a suo piacimento l’orchestra ma si vuole che questa sia composta di quegli stessi individui che sogliono prestare i loro servigi negli spettacoli che si rappresentano in questo Comunale Teatro, poiché non è dato da alcuno di fare innovazioni sul personale dell’orchestra senza preventivo parere.  Innovazioni però che sembrerebbero necessarie, come scrive il petente, perché mancando, essendo ammalato, l’Ottavino, istrumento necessario in un’Orchestra senza violini  e inoltre mancando chi, in una musica appunto senza violini, andava discretamente col trombone quindi  conosciuto il desiderio che da tanto tempo nutrono i paesani di sentire una volta l’orchestra coi violini  ho scritturato quei pochi suonatori di tali strumenti che trovansi in paese, formandosi così un’orchestra sufficiente e migliore degli anni andati. Faccio poi subordinatamente osservare che coll’aumentare i quattro violini nell’orchestra, due dei quali eseguiscono la parte di accompagno dovevano di conseguenza lasciarsi i due Corni, e i Bombardoni. La commissione approva a condizione che si aggiungano due Corni. Inoltre giudicando indispensabile che venga formata una orchestra stabile per il teatro propone alla Magistratura di fare una regolare inchiesta (…) per avere il quadro dei suonatori che sono idonei a prestare l’opera loro in questo Comunale teatro.  Se la gestione dei previsti veglioni di Carnevale e di quello di beneficenza che sono a totale benefizio dell’emigrazione con l’orchestra formata dall’intera Banda Comunale in completo uniforme, pone solo problemi di ordine artistico, così non è per le altre attività teatrali. Non c’è dote perché è destinata solo all’unico spartito del tempo della Bibita delle Acque Minerali. Quindi vita dura per le comiche compagnie. La Deputazione scrive che ad una cui fu concesso questo Teatro comunale onde fare 10 recite si trova ridotta al punto di non potere partire da questo paese causa i tenui e scarsissimi incassi. A ciò il ha contribuito cattivissimo tempo, e siamo in aprile, e la venuta del Re a Bologna che aveva tratto una moltitudine di persone in città accorrente alle feste che per quello si facevano. La Deputazione ha inoltre verificato che: nel frattempo che la compagnia comica ha dimorato nel paese ha sempre vissuto in tutta la parsimonia possibile e colla massima economia. Quindi si chiede al Comune di dare un contributo perché possa partire dal paese. Comunque l’opera per la stagione della bibita, per la quale ci sono 100 scudi si fa. L’opera è Luisa Miller di Giuseppe Verdi. Si cerca di limitare le spese. Per gli artisti si richiede di utilizzare tre o quattro camere in questo Palazzo Governativo, nonchè quei 5 letti che in esse esistono. Inoltre arriva anche il lavoro volontario, in dodici promettono e impegnano la loro parola d’onore e anche la propria persona (…) onde prestare l’opera loro per l’intero corso delle 12 rappresentazioni, rinunciando espressamente ad ogni pretesa verso il Comune. Nonostante ciò le cose non vanno bene, gli incassi sono scarsi. L’impresario vuole rinunciare al proseguimento delle recite. Il Comune si deve fare carico del proseguimento, quindi deve aumentare la dote a 130 scudi e comunque alla fine si ha un disavanzo di 38 scudi. Le successive richieste di uso  del teatro vengono cortesemente scoraggiate:  di buon grado questa giunta aderirebbe al di lei desiderio se potesse assicurarle che in corso di rappresentazioni si potrebbero mettere in salvo le spese, ma la cosa è altrimenti, ed è anche passata la stagione propizia della bibita delle acque minerali, sarebbe certo d’incontrare una perdita non lieve.  Due richieste vengono accolte,  una per due serate di: Magnetismo, e di Magia in Progresso, assicurando di trattenere il pubblico eseguendo degli esperimenti degni di Maraviglia.  L’altra su richiesta della Compagnia Filodrammatica Bolognese che presenta un dramma di Gioacchino Napoleone Pepoli, nipote di Napoleone e di Murat, componente della Giunta Provvisoria di Governo, futuro sindaco di Bologna e senatore del Regno. Una data importante è il 12 ottobre 1860, la fonte Fegatella passa dalla proprietà del Nobil Uomo Conte Marc’Antonio Malvasia a quella pubblica del Comune di Castel San Pietro, dietro l’impegno tra gli altri di offrire nella vigilia del Santo Natale in perpetuo alli nobili fratelli Malvasia finché vivranno e poi ai loro eredi un paio di Capponi di ottima qualità.  Il 1861 inizia con varie richieste (di nuovo i Filomelpomeni di Felsina) e anche rinunce perché fu trovata freddezza in paese e nessuno volle incaricarsi della vendita dei palchi. L’interesse maggiore della Deputazione degli spettacoli è per la stagione delle acque per la quale si ha un buon interesse anche da parte degli impresari. Infatti arrivano 5 proposte tra le quali scegliere. Il principale criterio è sulla qualità dei cantanti, sulla quale si pongono precise garanzie. Nel contratto per le 12 rappresentazioni dell’Opera in musica (quest’anno è la Sonnambula di Bellini) si pone la condizione all’art. 4 della privata scrittura da valere come rogito che i virtuosi di canto (…) deggiono essere di pieno aggradimento e soddisfazione di detta Delegazione, ed in caso che qualcuno dei suddetti Cantanti non piacesse alla medesima quando le avrà presentato  l’elenco definitivo, come pure quando saranno intesi alle prove, sarà tenuto l’impresario a rimpiazzarlo con altri, senza che la deputazione sia obbligata a render conto veruno né a lui né a chicchessia. La dote è ancora di 100 scudi pari a 532 Lire. Viene pure emesso un regolamento per il Teatro che prevede tra l’altro che: non è permesso l’ingresso al teatro che a persone decentemente vestite (…), tutti gli spettatori che avranno preso posto nelle panche, dovranno nel tempo delle rappresentazioni rimanere seduti, e niuno potrà passare da una panca ad altra se non dalle parti laterali e non potrà sormontarla, (…) gli spettatori non potranno far replicare verun pezzo, né chiamare sulla scena quei soggetti creduti meritevoli di plauso che una volta soltanto ogni atto dell’opera, (…) gli applausi soverchiamente rumorosi, i fischi, gli urli e tutti gli schiamazzi segnatamente con bastoni battuti sul pavimento, sugli assi delle panche e sui parapetti dei palchi  sono rigorosamente vietati,(…) è proibito di fumare in teatro e di entrare nel medesimo con la pipa accesa, (…) è vietato egualmente di condurvi cani ed altre bestie.  Questi divieti sono talmente dettagliati che si può  supporre che servissero per risolvere situazioni che almeno qualche volta si erano veramente verificate. Quindi il Teatro doveva essere qualche volta un ambiente piuttosto vivace. Comunque ci sono anche problemi di manutenzione. La platea del teatro è da sempre senza poltrone fisse perché poi non potrebbe essere usata come sala da ballo, per sedere ci sono panche che, come risulta da un inventario del teatro del 1862,  sono verniciate di color rosso scuro in numero di 19, 11 grandi e 8 più piccole, che però non stanno tanto bene, sono  indecorose anzi inservibili  come pure i leggii per l’orchestra  eoccorrono anche interventi  per la riparazione di tutte le tendine dei palchi, le quali attualmente sono scolorite e malconce.  L’opera di quest’anno è Il Rigoletto e la dote è stata portata a 750 lire. Mentre nel teatro il duca di Mantova cantava la donna è mobile, il 29 agosto, sull’Aspromonte Garbaldi fu ferito in una gamba dai soldati dell’esercito del Re d’Italia, mentre tentava di risalire la penisola per liberare Roma.Nel meridione è in atto il fenomeno del brigantaggio che creerà molte vittime, oltre che tra i militari e i briganti anche tra la popolazione civile. Un castellano, il fante Fantazzini Pietro, si è reso defunto il giorno 24 febbraio 1863 in un combattimento co’ briganti, come risulta dalla comunicazione al Comune per i parenti. I filodrammatici di Castello per contribuire anch’essi alla raccolta che presentemente vien fatta pei danneggiati dal Brigantaggio, chiedono l’uso del teatro per due rappresentazioni.  Per la stagione estiva viene messo in atto un tentativo di gestione locale, il maestro di musica comunale Benfenati si propone come impresario per la produzione di ben due opere: Beatrice di Tenda di Bellini e il Trovatore di Verdi con la celebre prima donna assoluta Amalia Jachson.  La dote è aumentata a £ 1000, nonostante ciò l’operazione incontra una perdita che i Filodrammatici cercano di recuperare con due serate, iniziativa che ripeteranno anche nell’anno successivo con quattro rappresentazioni per Pasqua. Per la stagione estiva 1864 si sceglie un impresario milanese, che opererà anche negli anni successivi, forse perché potrebbe garantire artisti più noti. L’opera rappresentata è la Norma di Bellini.  Al solito il risultato finanziario è scarso per cui di nuovo intervengono i Filodrammatici per recuperare il debito. Una produzione teatrale che ottiene un buon successo, senza problemi di debiti, è sempre lo spettacolo di marionette che piace molto ai castellani. Sembra pero che invece non sia apprezzato dai componenti la giunta che forse lo considerano uno spettacolo troppo umile e poco prestigioso. Una richiesta di questo tipo del gennaio 1865 è rigettata dalla giunta con tre voti neri e uno bianco. Il motivo addotto sarebbe l’entità della compagnia composta da un’orchestra di violini di N. 15 persone, oltre agli addetti alle marionette. Però i castellani non sono d’accordo, parte una petizione con 126 firme ove si afferma: E’ desiderio unanime dell’intero Paese che nel corso del Carnevale siavi un qualche divertimento, siccome niun Castello o terra la più piccola ne va privo in tale stagione sanno i sottoscritti che un bravo Marionettista (…) verrebbe volontieri, ed anzi è sulle mosse di recarsi a questa volta per dare un corso di rappresentazioni colle marionette a filo, compreso un ballo che sarebbe assai divertente. Quindi si chiede il Teatro per il suddetto divertimento promettendo che sarà mantenuta la decenza e pulitezza del teatro stesso. Si ottiene la revoca del diniego e si faranno 15 recite. Per l’opera si sceglie di nuovo lo stesso impresario dell’anno precedente che presenta Lucrezia Borgia di Donizetti.  Anche quest’anno però ci sono problemi come relaziona la Commissione per gli Spettacoli al Sindaco: volle sfortuna che per circostanze eccezionali attuali, gli occorrenti al Teatro sono in si poco numero che avvi ragionevole motivo di vedere che lo sbilancio sarà grave. Causa principale, si è quella del grosso pericolo in cui versa la salute pubblica pel fatal morbo che si dappresso minaccia i circostanti paesi. Minaccia che al momento non è qui presente, ma basta il timore perlimitare la partecipazione. Per il momento il cholera morbus iniziato ad Ancona, proveniente dall’Egitto, non è ancora arrivato verso Bologna. Arriverà nel biennio successivo provocando relativamente poche vittime mentre sarà disastroso soprattutto nel meridione. Però ancora vivo è il ricordo dell’epidemia di dieci anni prima. Non sappiamo come sia stato risolto il problema, se con un ulteriore contributo o con una interruzione delle recite. Nello stesso periodo c’è una nuova richiesta di un marionettista che, sapendo forse quello che è successo all’inizio dell’anno, e la non benevolenza della giunta, mette le mani avanti e scrive che avendo già due anni fatto uno spettacolo con generale aggradimento, ora brama di nuovo di esibirsi in questa nobile terra. Sa bene che i signori Componenti questa Giunta Municipale non si resero schiavi dello sciocco pregiudizio che le marionette possino contaminare il teatro, quindi ardisce chiedere questo Municipale Teatro giacchè essi come amanti dell’imparzialità, banditori dell’eguaglianza, sostenitori dei diritti e della giustizia non mancheranno di concedere ciò che è stato concesso ad altri.  La sviolinata non è servita ad evitare lo sciocco pregiudizio, infatti il teatro non viene concesso. Allora il marionettista ripiega su un’altra possibile soluzione e chiede che gli sia concesso il locale, cosi detto, di S. Caterina, obbligandosi di farlo votare a proprie spese della paglia che ivi si trova, e trasportarla ove questo Regio Municipio sarà per imporle.  Il locale gli viene concesso mentre gli viene rifiutata la richiesta di avere alcune panche. Evidentemente ora il suo uso è come magazzino o fienile, ma si presta, e forse si è già prestato, come sala per eventi pubblici. In futuro questo spazio diventerà il Teatro Vallona.

Problemi di Dote per la stagione lirica. La secessione di Varignana.

Le difficoltà finanziarie nella gestione della Stagione della Bibita, induce la giunta a decidere di diminuire la dote e quindi rinunciare allo spettacolo di un’opera musicale e di limitarsi a rappresentazioni drammatiche. Però questo fatto ha commosso la parte industriante di questa popolazione, perché in tale determinazione vede un detrimento dei propri interessi. Infatti è evidente che le commedie non possono attrarre quel concorso di forestieri che un’Opera suole richiamare, e massime in questo paese come abbiamo veduto negli anni scorsi; ed è pure evidente che l’Orchestra, i Coristi e tanti altri restano privi di un guadagno sul quale erano soliti calcolare. Evvi inoltre da osservare che nella stagione estiva non si potrà mai ottenere in un paese una buona compagnia giacchè queste si collocano tutte nei teatri diurni. Se il Comune spende una somma maggiore per l’opera dà anche un vantaggio maggiore alla classe più bisognosa ed agli esercenti che sono i più carichi di spese. La parte industriante continua: Siano d’esempio le vicine Città: Bologna anziché diminuire la dote l’ha di gran lunga aumentata per avere uno spettacolo che attiri a folla i forestieri come infatti è succeduto con gran vantaggio dei cittadini perché il forestiero che accorre in luogo lascia sempre in quello del denaro: Imola, che non contenta di avere l’Opera nell’estate ha assegnato una dote per averla anche in carnevale, avendo provato negli anni scorsi l’esito cattivo delle commedie. Per queste ragioni, ed anche perché non venga meno una consuetudine inveterata i sottoscritti pregano gli Onorevoli Consiglieri Comunali a voler ritornare sulla presa deliberazione e stabilire che questo paese seguiti ad avere lo spettacolo dell’Opera. Seguono 70 firme di esercenti vari, locandieri, camerieri, un fiacarista, oltre a suonatori, coristi e semplici paesani. La petizione convince poiché la dote viene portata a 1500 lire. L’anno successivo, il 1866, è l’anno della terza guerra di indipendenza nella quale siamo alleati con la Prussia contro l’Austria. Noi perdiamo le battaglie. Custoza il 20 giugno, Lissa il 20 luglio, ma vinciamo la guerra perché l’Austria è sconfitta dai prussiani. Il risultato è l’annessione di Venezia e del Veneto, un obiettivo sfuggito nella guerra del 1859 in cui avevamo però battuto l’esercito austriaco. Per l’attività teatrale il risultato è che la stagione estiva non ha luogo, grande tuttavia è la soddisfazione e il Comune dispone che l’avvenimento sia degnamente celebrato e a tale effetto si è disposto che sia fatta una distribuzione di pane ai poveri, che alla mattina ed alla sera questa Banda Musicale nella Piazza Maggiore rallegri gli occorrenti con festevoli armonie, e che nel luogo soprindicato e nella stessa sera sieno accesi fuochi di gioia; che i pubblici edifici siano illuminati. Alla fine dell’anno si apre una piccola guerra di secessione locale. Varignana e il suo territorio chiede di essere “liberata” da Castel San Pietro e di essere annessa ad Ozzano. La cosa si presenta legalmente possibile. La nuova legge che organizza le suddivisioni territoriali di Comuni e Provincie, emanata l’anno prima, dà la possibilità che una borgata o frazione possa essere segregata da un comune , ed aggregata ad altro contermine, quando la domanda sia fatta dalla maggioranza degli elettori della borgata o frazione e concorra il voto favorevole tanto del comune a cui essa intende aggregarsi, quanto del consiglio provinciale, che sentirà preventivamente il parere del consiglio del comune a cui la frazione appartiene. Secondo la legge ciò che conta è la volontà dei secessionisti e quella del comune ospite, il comune secessionato può solo sperare che il suo parere contrario convinca il Consiglio Provinciale a negare l’operazione. I motivi che adducono i varignanesi nella loro richiesta sono di ordine geografico, la minore distanza da Ozzano, e di ordine politico-economico, la sordità di Castello ai bisogni ed agli interessi di Varignana. Inoltre c’è quello che deve essere stato vero e principale motivo per i promotori della richiesta, cioè il grave pregiudizio recato ai possidenti, che hanno quasi tutto domicilio in Bologna, dell’eseguita separazione del Censo, ora trasportato negli uffici di Imola, e quindi doversi recare per molte operazioni censuarie, loro bolognesi, fino ad Imola. Castello prende la cosa molto sul serio, per mezzo del suo segretario comunale produce un saggio a stampa di 60 pagine, in cui contesta punto per punto le ragioni dei varignanesi con dati statistici e tabelle. Inoltre produce un’ampia operazione di “intelligence” per convincere non solo i parroci, parte importante dei firmatari la richiesta, ma anche altri varignanesi a cambiare parere. Il risultato è che nel giugno del 1867 si produce un’altra petizione che smentisce quella precedente con 295 firme, 64 delle quali erano degli 87 firmatari della precedente istanza della separazione. Nello stesso anno si hanno invece richieste di ammissione a Castello delle frazioni della valle del Sillaro. Sono S. Martino, Fiagnano e Sassoleone dipendenti da Casal Fiumanese che è nella valle del Santerno, e Sassuno, Rignano, Villa di Sassonero e Casoni di Romagna che dipendono da Monterenzio, che è nella valle dell’Idice.  Ci sarebbero tutte le ragioni perché questa richiesta sia accolta, ragioni tuttora valide, ma il Consiglio Provinciale non le prende in considerazione e non le approva. Per la stagione 1867 la Commissione Spettacoli sembra avere ben precisi propositi: vuole l’opera i Puritani di Bellini e delibera di scrivere ai due progettanti che quello che presenterà migliori nomi di artisti per l’opera suddetta sarà il preferito. La scelta dei cantanti proposti dagli impresari sarà piuttosto laboriosa alla fine invece dei Puritani sarà scelta l’opera Lucia di Lammermoor coi cantanti proposti dal solito impresario milanese. La Commissione risulterà molto soddisfatta della scelta, dando attestati lusinghieri sul tenore e sulla soprano Clementina Flavis di cui si afferma essere una giovinetta che ha esordito in un modo così splendido da lasciare intravedere un bell’avvenire artistico, e in effetti sembra che in seguito abbia goduto di una certa fama. In ottobre Garibaldi, che era stato l’unico a battere gli austriaci l’anno precedente, tenta di invadere lo stato pontificio ma viene sanguinosamente sconfitto a Mentana dagli zuavi francesi al servizio del Papa coi nuovi fucili a retro carica. La tecnica militare degli assalti alla garibaldina è ormai tramontata di fronte al volume di fuoco dei nuovi fucili. Mentre l’anno precedente la Commissione rifiutava opere buffe quest’anno, il 1868 sceglie un’opera comica che non è poi diventata nel tempo molto famosa: Crispino e la Comare dei fratelli Luigi e Federico Ricci. In questa occasione il comune è riuscito in una operazione promozionale cioè ad ottenere uno sconto del 50% sui biglietti  del treno di coloro che da Bologna si recheranno a Castel San Pietro dal 6 Luglio al 15 Agosto a bere le Acque Minerali e quindi saranno favoriti anche gli occorrenti a quei mercati settimanali che si tengono nei Lunedì, quelli che volessero alla Tombola che verrà estratta Domenica 12 corrente mese, nonché gli altri che amassero godere dello Spettacolo in musica che sui primi del venturo Agosto verrà dato in questo Teatro Comunale coll’Opera Crispino e la Comare unito al Ballo intitolato la Ninfa del Bosco. Anche l’anno successivo viene scelta un’opera buffa, Il Don Pasquale di Donizetti, la dote viene alzata a 1750 lire ma non sarà sufficiente e i dilettanti castellani dovranno fare due recite per trovare i soldi  per permettere alla compagnia di partire. Nell’estate del 1870 scoppia la guerra tra la Francia e la Prussia che provoca come prima conseguenza la caduta, il 2 settembre, di Napoleone III, se ne va così il principale difensore che era rimasto al Papa.

Presa di Porta Pia, finisce il potere temporale dei papi.

Il 20 settembre i bersaglieri di La Marmora entrano, attraverso Porta Pia, in Roma. E’ un momento storico perché termina il secolare potere temporale della Chiesa, potere che si era esercitato per secoli, coi suoi pochi pregi, e i suoi moltissimi difetti sul nostro territorio, e si apre il lungo dissidio e l’aspra polemica tra il liberalismo laico e il confessionalismo. Scontro che diminuirà fino ad attenuarsi con l’arrivo, verso la fine del secolo, del movimento socialista, prevalendo allora un fronte unito contro il nuovo nemico. Sicuramente anche a Castello, come a Bologna, ci sono stati solenni pubblici festeggiamenti con banda e fuochi artificiali manca però l’appoggio delle carte d’archivio, infatti c’è un buco, uno dei tanti, di tre anni nelle carte dei pubblici trattenimenti. Dal 1873 al 1882 continuano i soliti problemi di soldi per la stagione estiva, col comune che ha sempre scarsità di risorse, impresari in difficoltà, esercenti che premono per certezza di avere spettacoli per la Bibita delle acque minerali. Nel 1873 lo spettacolo d’opera, l’Ebreo di Giuseppe Apolloni, viene interrotto dall’impresario, quindi il comune si assume l’incarico di terminare la stagione impegnando un’ulteriore cifra. Nel 1879 lo spettacolo d’opera non è stato fatto. Stessa cosa sta per succedere nel 1880 e quindi arriva una petizione con ben 297 firme che: avendo saputo l’eliminazione dal bilancio della dote del Teatro per il 1880, oltremodo dolenti considerano una sventura per questo paese il sospendere anche solo per un anno lo spettacolo d’opera, come nel 1878, poiché il paese in detto anno non ebbe neanche la quinta parte dell’affluenza di forestieri. (…)Unico cespite d’industria per questo paese è il mese di agosto, in esso tutti guadagnano, e moltissime famiglie ne ricavano il sostentamento per una parte dell’inverno così triste e desolante nei nostri paesi. Come potrà vivere l’artigiano, l’esercente, l’affitta camere, il locandiere e infine quei cittadini che prestano l’opera loro al Teatro, alle Acque Minerali ed in altri pubblici stabilimenti se non ricavano in quel mese tanto da vivere giorno per giorno? Eliminata la dote teatrale si avrà una meschinissima affluenza di forestieri, le Acque languiranno, tutti i pubblici stabilimenti ne soffriranno, gli impiegati, e specialmente del Teatro che sono numerosi, ne sentiranno un sensibile aggravio, ed in conseguenza l’intero paese si troverà immerso nella miseria. Questa drammatica petizione convince il Comune e la dote viene ripristinata e portata a 2800 lire. In questo periodo però forse una politica al risparmio viene fatta giocando sulla celebrità degli autori delle opere, anche se ora è difficile giudicare della celebrità di questi musicisti, adesso poco noti. Nel 1880 risultano 10 recite dell’opera Ruy Blas di Filippo Marchetti.  Nulla sappiamo dalle carte dell’anno 1881. Nell’anno successivo l’opera è Emma, opera propria dell’impresario che è il sig. Ercole professor Cavazza, nato a Massalombarda e domiciliato a Bologna sebbene attualmente dimori a Pietroburgo (Russia), e che oltre alla sua opera rappresenta anche il Poliuto di Donizetti su richiesta della Deputazione degli spettacoli. Così quell’anno, il 1882, la stagione estiva presenta due opere. La garanzia della dote, ora di 3000 lire, permette negli anni   successivi (1883 e 1885) opere più note ed attrattive come le verdiane Traviata e Macbeth.  Uno spettacolo che a Castello incontra sempre i gusti del pubblico è quello dei burattini. Nel 1883 un burattinaio domiciliato in questo comune, fa rispettosa istanza perché sia concesso il permesso di aprire al pubblico un trattenimento di marionette a mano, nella casa posta in via Liana n. 53 (attuale via Manzoni) facendo pagare all’ingresso cent. 5. Forse perché non impegna il Teatro, il permesso è concesso senza problemi.  Un altro locale per pubblici intrattenimenti è ormai da tempo La Vallona, forse da quando è stata utilizzate nel 1865 come sala per uno spettacolo di burattini in cui avvengono 4 feste da ballo nel carnevale del 1884, come pure nel locale detto il Sole situato nell’interno di questo Castello in via Maggiore al civico 223.  Nel 1886 il Comune abbassa la dote a 2000 lire chiedendo che sia l’iniziativa privata a completare con £.1000 la dote teatrale. Arriva una risposta nella quale si afferma che a causa della disoccupazione che travaglia il paese da qualche anno, ciò priva i sottoscritti e molti altri del piacere di concorrere a tale spesa. Inoltre con 2000 lire soltanto non si potrà avere che un meschinissimo spettacolo d’Opera. In conseguenza nessun concorso di forestieri e perciò tolto tutto o in parte l’utile che gli esercenti risentono annualmente, utile che dato un discreto spettacolo può in quest’anno aumentare per l’attivazione del Tram a vapore. Il Consiglio Comunale si convince e delibera l’aumento di spesa, ma il Sotto Prefetto del Circondario di Imola boccia la deliberazione. Degli anni successivi mancano carte, l’attivazione del servizio del tram a vapore da Imola a Bologna, il Vaporino, che durerà fino alla fine degli anni 30, migliora senz’altro l’afflusso turistico e gli occorenti alle attività del teatro, come pure la trasformazione dell’attività di Bibita delle Acque in un vero stabilimento termale con una equipe di medici. Il Teatro resta chiuso nel biennio 1890/91 per metterlo a norma di legge per quanto riguarda la salvaguardia dal pericolo di incendio e la esistenza di porte sufficienti a sgombrarlo prontamente.  Nell’estate del 1892 si ha l’inaugurazione ed apertura di un completo Stabilimento Balneario Idroterapico. Ora il Consiglio Comunale si rende conto che l’apertura del teatro all’opera nella stagione balnearia diventa quasi un bisogno. Avviene una vasta discussione tra chi ritiene giusto crescere la dote poiché i maggiori introiti verificatisi sul dazio consumo gravano tutti sugli esercenti del paese ai quali è giusto restituire sotto altra forma questi aumenti con uno spettacolo che faccia accorrere i forestieri determinando così maggior consumo e quindi maggiori introiti. e chi per difendere gli interessi degli abitanti delle campagne vorrebbe tenere basso l’impegno del comune e propone di aprire una sottoscrizione privata volontaria al fine di diminuire il concorso del comune alleviando così in parte i contributi. Il risultato finale prevede una dote massima di 1500 lire e di chiedere un concorso ai privati di 2000 lire. Per dare l’esempio i consiglieri iniziano la sottoscrizione versando complessivamente 482 lire. Ulteriori contributi non risultano nelle carte rimaste.Non si sa se o quale opera sia stata rappresentata.  Quello che si sa è che l’anno successivo non si finanzia l’opera.  Infatti in archivio nel novembre del 1893 compare la solita petizione nella quale i petenti rivolgendosi al Sindaco scrivono: si rivolge rispettosa istanza affinché nella formazione del bilancio comunale per il prossimo anno (1894) sia ripristinata l’impostazione della Dote al Teatro Comunale. Proseguono facendo notare che oltre ad attirare i forestieri da Bologna, l’opera era cagione di permanenza in paese di oltre trenta famiglie fra suonatori e cantanti, le quali approfittando della felice località di Castel S. Pietro richiamavano anche a scopo di salute parenti ed amici. Si fa poi notare che se i soldi della dote servivano per pagare i lavori fatti nel teatro, questi sono ormai stati pagati e quindi manca la ragione di un economia che si rivolge non solo a danno delle classi peggio colpite dalle tasse comunale, bensì a detrimento delle finanze dello stesso comune, poiché allo scarso consumo corrisponde il minore introito di tutti i dazi locali. Dopo questo saggio di economia locale il Consiglio, poiché anche la situazione finanziaria comunale si presenta sotto buoni auspici, si presume un avanzo di 4500 lire, delibera una dote di 2500 lire, che poi viene portato a 3000, secondo le antiche usanze, per la rappresentazione dell’opera  verdiana Rigoletto.  Alla fine dell’anno 1894 gli esercenti ripartono con le loro petizioni per premere sul Consiglio Comunale per l’anno dopo: il 1895. La discussione in consiglio è abbastanza lunga ed è ripresa due volte perché essendo la spesa per il Teatro una spesa facoltativa le norme del tempo prevedono una doppia lettura. I consiglieri sono tutti d’accordo, viste le pressioni di industriali, possidenti, esercenti e comunisti, sul contributo, ciò che li divide è l’entità.  Nel consiglio c’è una opposizione, minoritaria, rappresentata dalla parte clericale che si pone come difensore delle esigenze della zone di campagna contro quelle del centro urbano. La loro posizione, come naturale nelle opposizioni, è l’altrismo cioè  che la cosa più importante è sempre qualcosa d’altro. Si risponde che però non hanno abbastanza considerato che la popolazione del castello sopporta senza rammarico e per ragioni di giustizia distributiva la gravissime spese che importa la parte rurale del comune, per le strade, servizio medico, istruzione ecc.  Nel maggio del 1895, in prossimità dell’inizio della stagione estiva, per sollecitare il Consiglio, che sta per essere parzialmente rinnovato, c’è una nuova petizione che invita a studiare i mezzi opportuni per rendere possibile l’apertura del Teatro nella prossima stagione balnearia poichéoltre alle solite ragioni sul ristagno degli affari si prega di considerare l’eccezionale rigidezza dell’inverno dal quale si esce. Il Consiglio, superata la pregiudiziale di sospendere per attendere la nuova amministrazione, in quanto che la sospensione equivarrebbe a rinunzia per quest’anno alla idea di dare l’opera, approvauna dote di 3000 lire con l’astensione di un consigliere che ritiene che vi siano bisogni più urgenti per la viabilità. L’opera che viene rappresentata è il Faust di Charles Gounod, quindi un’opera di un musicista straniero e forse con un po’ di scelta ideologica da parte della maggioranza laico-liberale. In questa occasione viene usata per l’illuminazione del teatro l’elettricità, non sappiamo se è la prima volta, ma è la prima notizia che abbiamo. Nel contratto si scrive che l’incaricato si obbliga a tutto suo carico, spesa e rischio di illuminare a luce elettrica il teatro fornendo due lampade ad arco della forza di circa 1400 candele,(watt) nonché lampade ad incandescenza della forza ognuna di 16 candele, in modo da illuminare completamente il palcoscenico, la sala , la platea, il caffè, l’atrio, le scale (…) escludendo il petrolio in tutto e per tutto. Stanno pure a carico dell’impresa tutte le spese di personale, combustibile, consumo di macchina e materiali, trasporto e messa in opera del macchinario ecc. Il Comune però assume l’obbligo di mantenere e provvedere l’acqua necessaria alla locomobile. Dal contratto si può desumere che il teatro non è in possesso delle lampade, quindi forse è la prima volta, e l’energia elettrica è prodotta da un generatore mobile a vapore, infatti il comune deve garantire l’acqua, che deve essere prelevata dai pozzi mancando ancora le condutture di un acquedotto. Nel settembre 1895 c’è il 25°  anniversario della presa di Roma con celebrazioni a livello nazionale e il  riaprirsi delle divisioni tra laici e clericali. Anche Castello partecipa alla celebrazione e il Consiglio Comunale mette ai voti  la  delibera, di festeggiare il 20 settembre 1°- Coll’intitolare alla gloriosa data la Piazza Maggiore del Paese. 2°- Col donare al ricovero di Castel San Pietro, ora in costruzione, n. 2 letti completi. 3°- Col partecipare alla festa nazionale che si svolgerà in Roma, inviando una rappresentanza. Il Presidente del Consiglio Comunale conoscendo i suoi polli mette le mani avanti e dichiara: Io mi auguro per l’onore del paese, che noi siamo concordi nel votare, dovendo ricordarci che, eletti consiglieri,  il nostro mandato non è più quello di un partito, ma rappresentiamo un comune italiano. Il consigliere della minoranza di parte clericale premette che la giunta poteva decidere i festeggiamenti senza passare dal Consiglio come tutti gli altri anni ma poiché tale quistione è stata presentata, egli ed i suoi amici non hanno altro da fare che imitare i Cattolici di tutta Italia, i quali hanno dichiarato di astenersi dal voto. Giustifica poi l’astensione dicendo che non è un atto di ribellione contrario al sentimento nazionale e alla grandezza della patria, soltanto non si vorrebbe inasprire maggiormente il dissidio che esiste tra stato e chiesa. Il presidente, ritenendo necessario rispondere, fa notare che è vano e forse offensivo parlare di dissidio, e peggio incolparne la grandissima maggioranza degli italiani che si propongono di festeggiare questo giubileo, mentre l’osteggiare sia pure col pretesto religioso, una tale manifestazione potrebbe essere da altri giudicato ben più severamente di un semplice dissidio. La delibera è approvata con 15 si e 9 astensioni.Il dissidio tra stato è chiesa continuerà fino all’11 febbraio 1929 anno VI Era Fascista.

Iniziano le agitazioni operaie e bracciantili.

Gli anni successivi vedono un aggravarsi della crisi economica ed occupazionale, nel 1896 si susseguono le agitazioni dei braccianti e delle mondariso nella nostra pianura. Epicentro è Molinella sotto la guida e l’impulso del socialista Massarenti, le agitazioni si estendono fino a Medicina e Castel Guelfo. In marzo ad Adua il nostro corpo di spedizione coloniale è sconfitto dall’esercito abissino. Nei due anni successivi le agitazioni investono tutta la pianura padana e la nostra provincia Il 1898 è un anno tragico, a Milano in maggio l’esercito massacra i manifestanti, i morti sono tra 80 e 300, cifre ufficiali e ufficiose, quattro volte tanto i feriti. Gli arresti sono tantissimi, anche i deputati socialisti come l’imolese Andrea Costa, Turati e altri finiscono in carcere, pure a Castello alla fine di aprile c’era stata una manifestazione davanti al comune per l’aumento del prezzo del pane, diversi manifestanti, maschi e femmine, sono arrestati. Per quanto riguarda l’attività teatrale estiva nel 1896 il consiglio è disponibile a dare una dote di 3500 lire, purché ci sia anche un contributo dei privati. Continua qui il tentativo di coinvolgere chi si limita a presentare petizioni ed era il maggiore beneficiario dei vantaggi dovuti alla presenza dei forestieri. In quest’anno il risultato sembra essere solo l’impegno preso dai coristi di ridursi la paga. Però negli anni successivi l’impegno comunale si riduce continuamente divenendo un semplice contributo alle spese di funzionamento del teatro. Forse finalmente si è formato un Comitato Festeggiamenti. Comunque nei due anni successivi le agitazioni in corso non aiutano la programmazione di spettacoli, non si hanno notizie ma è molto probabile che non si attivi la stagione estiva. Nel 1899 invece ci si ricorda che è un anno molto importante per la storia di Castello: è il 7° centenario della sua fondazione. E infatti è stata nominata una commissione composta dei maggiorenti della cittadinanza presieduta dal prof. Raffaele Gurrieri che propone di accettare il suggerimento dello stesso professore di festeggiare il centenario di Castel San Pietro col pubblicarne la storia documentata bandendo un concorso con un premio di 3000 lire. Questo dopo avere messa da parte l’dea di commemorare la fausta ricorrenza con atti effimeri come rappresentazioni teatrali, luminarie ed altro. La stampa locale ne dà la notizia esprimendo giudizi positivi o perplessità sulla destinazione dei soldi col solito discorso che ben altre sarebbero le necessità. Il Consiglio Comunale se ne occupa nella seduta del 6 marzo. L’opposizione riprende gli argomenti della stampa e un suo consigliere dice che: l’idea è nobilissima però non sa decidersi a votare la spesa di £ 3.000 poiché il paese ha altri bisogni, tra i quali prima l’acquedotto e la rinnovazione delle fognature. I consiglieri di maggioranza rispondono che quando non si vuole una spesa se ne trovano sempre le apparenti ragioni per finire senza fare né l’una né l’altra  e concludono che occorre tenere presente che non si vive di solo pane e che l’educazione dello spirito è un dovere che per tutti gli onesti si sovrappone ai partiti. Il progetto viene comunque approvato con 17 voti favorevoli e 2 contrari. La maggioranza e l’opposizione rappresentata in consiglio comunale si differenziavano soprattutto per le rispettive posizioni sulla “Questione romana”, per il resto rappresentavano gli stessi interessi, l’opposizione vera, che non era rappresentata in  consiglio era il movimento della sinistra socialista e repubblicana. I socialisti si fanno sentire attraverso il giornale socialista “La Lotta” diretto da Andrea Costa. In un articolo il giornalista contesta fortemente la scelta e la spesa del Concorso e ricorda i “misfatti” dell’attuale amministrazione in un excursus storico: 1896. Si spendono circa 60.000 lire per fondare lo Stabilimento Balneare-Idroterapico che ne costa 20.000 con 18.000 di debito. 1896. Restauro della colonna e della Madonna di Piazza 20 settembre con una spesa di £ 1.400. 1897. Da parecchi anni i cittadini fuggono dal paese per non crepare dal tifo diventato endemico in conseguenza delle acque inquinate dalle filtrazioni dei pozzi neri. 1897. Il Sindaco fa atto di sottomissione al cardinale  Svampa, legato pontificio a Bologna. 1898 Il popolo affamato chiede il ribasso dei prezzi delle farine e del pane ed il sindaco sparge… carabinieri e soldati. 1898 A Castello la povera gente che ha chiesto pane e lavoro viene imprigionata sotto l’accusa di rapina e condannata a pene enormi e il Consiglio si occupa della storia del paese. L’impegno a fare opposizione, senza se e senza ma, può però portare ad effetti strani, come da un lato trovarsi assieme al nemico principale, cioè i clericali, e dall’altro essersi opposto ad un personaggio importante della propria parte, il socialista prof. Gurrieri.  Questi poi scrive agli Egregi Redattori della Lotta difendendo la sua proposta e dicendosi convinto di aver fatto opera buona sotto tutti gli aspetti, non curandomi se, chi bandirà il concorso, è persona politicamente amica o nemica. Rilevando comunque che il corrispondente della Lotta si trova d’accordo coi corrispondenti della Gazzetta dell’Emilia e dell’Avvenire a proposito del concorso, cioè con giornali politicamente e aspramente avversi. Un tale anniversario non può non interessare il paese, si forma presto un comitato sotto la presidenza del parroco. Il programma prevede che le feste che dureranno tre giorni saranno in parte religiose, in parte civili. Le prime consisteranno in un conveniente apparato della Chiesa parocchiale, ove sarà stato precedentemente trasportato il venerato simulacro del S.S. Crocifisso, e in ciascuno dei tre giorni vi sarà Messa in musica e processione solenne con banda per le vie del paese. Le feste civili poi consisteranno in una illuminazione pubblica possibilmente in tutte tre le sere, addobbi per le vie principali, banda nella pubblica piazza e fuochi d’artificio. Potrebbe sembrare un tentativo della parte di sentimenti clericali di impossessarsi dell’anniversario per cui il comitato mette le mani avanti affermando che si propone non tanto di soddisfare il sentimento religioso condiviso dalla quasi totalità dei cittadini, quanto di procurare al paese, e specialmente alla classe degli esercenti un interesse materiale per la quantità di forestieri che faranno capo al paese stesso perché pare accertato che numerosi pellegrinaggi moveranno dai paesi limitrofi.  Alla domenica alla processione solenne che percorre le strade del Castello e del Borgo, con varie Associazioni Cattoliche della provincia è presente il Cardinale Domenico Svampa, vescovo di Bologna. Anche il teatro è impegnato con una opera, di cui manca il titolo nelle carte dell’archivio, col contributo comunale di £ 1.000.  Evidentemente ormai il Comune si limita a dare o meno un contributo, le decisioni sul cartellone sono di altri, forse è la Deputazione degli Spettacoli, forse un comitato con la presenza dei finanziatori privati. Al momento non ne abbiamo trovato notizie. Il concorso per la storia di Castel San Pietro si chiude il 31 dicembre 1902. Solo un lavoro è stato presentato, quello dello storico Lodovico Frati. A questo punto, temendo che il concorso sia annullato si decide di fare verificare ad una commissione se il lavoro è valido e comunque di ridurre il premio a 1000 lire. Questa sarà la soluzione accettata da tutti e il lavoro sarà pubblicato nel 1904 dall’editore Zanichelli. Il 1900 è segnato dall’omicidio a Monza del re Umberto 1° commesso  il 29 luglio dall’anarchico toscano Gaetano Bresci, questi era tornato apposta dagli Stati Uniti per eseguire l’attentato per vendicare i morti della repressione di Milano di due anni prima. In un certo modo anche Castello è coinvolto in questa vicenda infatti a Castello abitava una sorella del Bresci, sposata ad un falegname di qui e, nel suo percorso per andare a Milano il Bresci è passato e si è fermato un poco in paese. L’anno successivo 1901 di nuovo si muove un comitato per l’opera estiva, questa volta richiede al comune una somma  per completare quella necessaria per far fronte colle spontanee offerte dei cittadini alle spese di uno spettacolo d’opera, onde dar vita al paese e aiutare gli esercenti e una buona parte di operai, procurando nello stesso tempo un beneficio al locale Spedale  Civile col destinargli l’utile netto.   Dopo la solita discussione, tenuto conto che sono quattro anni che non si fa l’opera, e non essendo dell’avviso di qualche campagnolo che pensa solo alla viabilità di campagna, il consiglio approva un contributo non superiore alle 1500 lire. Ormai  i cittadini castellani se vogliono l’opera se la debbono pagare, il comune può al massimo contribuire, ma non interviene più come nel passato in prima persona. Il flusso dei forestieri e le sue implicazioni economiche derivano dalla presenza e dal successo dello stabilimento termale. La stagione d’opera è importante ma non fondamentale per una affluenza economicamente rilevante. Le Terme si stanno affermando, ma ormai hanno strutture insufficienti che ne limitano lo sviluppo. Del problema del suo ampliamento intende farsene carico il comune municipalizzando l’azienda termale. Nel  dicembre del 1905 il Consiglio si riunisce per decidere la municipalizzazione, gli ultimi esercizi dello stabilimento sono attivi e questo fa bene sperare per il futuro, comunque per i lavori nuovi occorre deliberare un mutuo di 150.000 lire. L’impegno è pesante e condizionerà per anni il bilancio comunale quindi i consiglieri di opposizione si oppongono.  Il consigliere Prof. Gurrieri chiede a nome del Partito Socialista che siano pubblicati a stampa tutti gli atti e i documenti che si riferiscono alla gestione dello stabilimento e sia poi sottoposta al verdetto degli elettori e cioè al referendum, (…) osservando che in Svizzera, paese eminentemente civile,  si fa sempre così, ricordando in proposito che in un Cantone venne votata la proposta di costruire un manicomio speciale con abolizione dei legami per i frenetici: per tre volte la proposta non passò. Dopo però 9 anni la proposta passò ed ora il manicomio funziona con grande fortuna. La proposta della giunta viene comunque alla fine approvata col voto della sola maggioranza. Se la stagione operistica ha qualche difficoltà di realizzazione e forse perde di continuità, il teatro comunque continua ad essere utilizzato, gli spettacoli sono diversi: veglioni durante il carnevale, recite di varie compagnie di filodrammatici, che seppur con discontinuità, sono organizzate dai giovani castellani, altre rappresentazioni che animano il varietà italiano dal magnetismo, alla recitazione di poesie allo spettacolo di una: vera e unica trupè delle scimmie e cani ammaestrati, 146 artisti tra quadrupedi e quadrumani . e anche capre e maiali ammaestrati con metodi non comuni. Il teatro comincia anche ad essere richiesto per comizi ed assemblee da parte delle nascenti leghe professionali e di lavoratori. Nell’anno 1908, anno in cui è rimasto un elenco forse completo delle richieste, si hanno oltre 40 trattenimenti tra cui un comizio, nonostante ci siano problemi di agibilità della struttura.    Infatti nello stesso anno si decide che poiché il nostro teatro non presenta la sicurezza, per mancanza di uscite opportune, volute dalle recenti disposizioni e d’altronde essendo frequentissime le richieste di rappresentazioni il consiglio decide di far costruire scale di sicurezza per lo sgombero di tutte le galerie dei palchi del teatro. Il progetto prevede una spesa di 4000 lire somma un po’ troppo forte per la finanza comunale per cui si propone, o si spera, in una sottoscrizione per azioni delle quali il Comune potrebbe acquistare un certo numero, che oltre ciò la filodrammatica, tanto benemerita potrebbe concorrere col ricavato delle sue rappresentazioni. In effetti la filodrammatica si presta volentieri  e nel rendiconto al Comune di una rappresentazione del Fratello d’armi, noto dramma in versi di Giuseppe Giacosa,  al Comune presenta un avanzo netto di £ 95,85 versato per concorrere nella costruzione o modificazione del Teatro.  Il progetto che prevedeva una aggiunta sul lato sud, a ovest della torre, per collocarvi le scale, fu forse  realizzato solo in parte. Intanto il problema della fornitura dell’acqua per usi domestici, che è fornita dai pozzi presenti nei vari cortili castellani, sta diventando critica. Nel novembre 1909 L’ufficiale sanitario fa rilevare: che l’acqua potabile non viene attinta dagli ordinari pozzi nelle condizioni igieniche volute, ciò si deve al fatto che sono situati framezzo alle case ed in piccoli cortili male pavimentati e tenuti in condizioni di nettezza tutt’altro che lodevoli, spesso vicinissimi ad un pozzo nero mal costruito o ad un mal connesso condotto ad una fogna imperfetta. Ammesso quindi che l’acqua come sorge sia sana resta facile intendere come l’inquinamento delle acque possa avvenire per le filtrazioni specialmente in caso di pioggia. Quindi occorre trovare una soluzione anche per evitare che si ripeta l’epidemia di febbre tifoidea che funestò il paese. La soluzione sarebbe l’acquedotto, ma mancano i soldi. La soluzione che si adotta l’anno seguente, il 1910, è di fornire il paese di tre fontane, che assieme a quella della Fegatella, già usata dai castellani ma scomoda, dovranno fornire acqua esclusivamente per bevanda quotidiana ai 3000 abitanti del Paese escluse affatto le bestie e gli usi domestici.  Si utilizza il pozzo offerto dai  RR. PP. Cappuccini che storicamente risale alle origini del convento e che per tradizione si dice e si ritiene avere acqua abbondante e buona. Una condotta porta alle tre Fontanelle  intermittenti da attivarsi in Paese l’una nella Via di Mezzo, la seconda nel piazzale del Mercato e la terza nell’angolo della Via Floriano con la Via di San Pietro. Una carta allegata ci mostra l’ubicazione esatta:  la prima nell’angolo tra le attuali  Via S. Martino e Piazza Acquaderni, su quello che era il muro del cimitero, la seconda presso l’angolo nord-ovest del Cassero, la terza all’angolo tra via Cavour e via S. Pietro. Il 10 luglio dello stesso anno il paese viene occupato da centinaia di barocciai in sciopero provenienti dai comuni limitrofi e dalla Romagna, gli scioperanti occupano le strade e per non farsi cacciare dalla forza pubblica, smontano le ruote dei carri. Il fatto è immortalato in fotografie che poi diventeranno cartoline postali pubblicate dalla Lega Barocciai, per ricordare il suo successo. Lo sciopero è contro la associazione degli agrari sul compenso per i trasporti della stagione del raccolto, la più importante per il loro guadagno. Il 1911 inizia con un altro episodio della travagliata storia del  nostro teatro, il sindaco ha pubblicato un manifesto ove rende noto: che il teatro Comunale d’ora in avanti non verrà più concesso né per pubblici spettacoli né per privati o conferenze o comizi. Cosa è successo? A seguito della visita fatta dalla Commissione stabilita dalla legge di PS fu riconosciuto che il teatro non è in condizioni di sicurezza. Evidentemente i lavori previsti alcuni anni prima non sono stati fatti o non sono stati completati. Tutto è fermo perché la previsione di spesa è troppo alta, 7/8000 lire. Comunque di fronte alle pressioni del paese si proverà a fare con meno. I lavori urgenti  che vengono fatti si riducono a 1400 lire e evidentemente permettono la riapertura del teatro perché nell’estate si fanno 10 rappresentazioni di un opera, di cui non sappiamo il titolo, che sembra avere un buon successo poiché dopo le 10 repliche un gruppo di castellani, associati in cooperativa, si assume l’incarico di produrre altre due serate. Il tutto per un contributo comunale di 400 lire. Alla fine  di settembre inizia la guerra di Libia contro l’impero turco in difficoltà. Contro questa guerra numerosi scioperi avvengono in provincia nei comuni della pianura in cui c’è ampia disoccupazione bracciantile poiché per sostenere le spese della guerra sono sospese le opere di bonifica. A Castello sembra che tutto si limiti all’astensione dei  consiglieri socialisti al plauso del consiglio per l’impresa in cui si fa voti che il vessillo italiano libero e sovrano sventoli sulla terra africana.  Due castellani sono tra i caduti , uno quando ufficialmente la guerra è finita, forse per la guerriglia che subito inizia contro la conquista italiana. L’anno termina con l’efferato delitto qui consumato in persona del maresciallo comandante la locale stazione dei RR. Carabinieri (..) Un essere colle sembianze umane ha armato la propria mano omicida chi era degno di ben altra sorte. L’anno successivo, il 1912, avendo ormai messo in qualche modo a norma il teatro, l’opera estiva si fa di nuovo e viene rappresentato il verdiano Trovatore con un contributo di 700 lire. Nel 1913/14 forse inizia anche l’uso del teatro per proiezioni cinematografiche come si accenna in una relazione del 1916 che scrive di una concessione fattane in questi ultimi anni ad uso di spettacoli cinematografici.  

1914 Serajevo. Inizia la prima guerra Mondiale.

Il 1914 è un anno storico, sia in campo locale che internazionale.  In giugno il malcontento popolare sfocia negli avvenimenti che saranno chiamati la settimana rossa dal 7 al 14 giugno, il pretesto della rivolta fu l’uccisione di tre partecipanti ad un comizio antimilitarista ad Ancona, la protesta si espande subito in Emilia, Toscana, Lombardia. Si fermano le ferrovie, viene proclamato lo sciopero generale, ad accendere gli animi sono anche gli infuocati articoli di un certo Benito Mussolini su l’Avanti organo del Partito Socialista. Nello stesso mese si hanno le elezioni comunali e i socialisti conquistano il comune di Bologna, come pure quasi tutti i comuni della provincia. Anche a Castello i socialisti per la prima volta vincono le elezioni con 1646 voti contro i 1296 dei clerico-moderati, però non conquistano il comune. Infatti non sperando nella vittoria oppure non riuscendo a completare la lista, hanno presentato solo 10 candidati.  Quindi invece dei 24 consiglieri previsti dalla legge per la lista maggioritaria si trovano con  soli 10 consiglieri su 30.  Invece chi ha perso, che avrebbe dovuto avere solo 1/5 dei consiglieri, se ne trova 20 nominati. Le regole cavalleresche richiederebbero presto nuove elezioni per rispettare la volontà degli elettori. Per fare ciò dovrebbe dimettersi la maggioranza dei consiglieri e che queste siano accettate dalla prefettura. Per ragioni politiche ciò non è facile e infatti le nuove elezioni avverranno solo dopo un anno. Nel frattempo il 28 giugno è successo il fattaccio di Serajevo con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al Trono d’Austria-Ungheria. Il primo agosto la Germania dichiara guerra alla Russia, il 3 alla Francia, inizia la Grande Guerra. Il 3 agosto 1914 si riunisce per la prima volta il nuovo consiglio comunale. In apertura chiede la parola il capogruppo socialista  Ercolani che esordisce a nome della maggioranza dei cittadini del Comune, che qui abbiamo l’onore di rappresentare, richiamando l’attenzione sulla grave minaccia che in questa torbida ora della storia, pende sui popoli civili della vecchia Europa. Interprete della volontà popolare vi invito a protestare contro il nuovo e più grande macello umano. Interessi borghesi e dinastici compromettono in quest’ora la sicurezza dei popoli e il libero e normale corso della civiltà.(…) In nome quindi del proletariato e della civiltà, protestiamo contro l’attentato che le teste coronate d’Europa stanno organizzando contro la pace dei popoli. Auguriamoci che il Governo italiano, sappia mantenersi nella più assoluta neutralità. A questo voto fervidissimo uniamo il monito che se per folle velleità guerriera gli interessi nazionali dovessero essere compromessi, il proletariato e la democrazia saprebbero con ogni mezzo impedire l’atto criminoso. Le cose però andarono in modo diverso, il proletariato non riuscì ad impedire l’atto criminoso. Lo spirito internazionalista dei partiti socialisti non resse alle spinte nazionalistiche dei paesi in guerra. In Italia una minoranza di interventisti riuscì a prevalere e il governo decise segretamente l’entrata in guerra, sottoscrivendo il 26 aprile 1915 il patto di Londra, con le potenze dell’intesa. A Castello, dopo 6 mesi di gestione commissariale del Comune, le nuove elezioni comunali portano finalmente per la prima volta i socialisti a dirigere il comune con 1901 voti contro 1348, le elezioni sono state attivamente partecipate con un aumento degli elettori superiore al 10%. L’insediamento avviene il 9 maggio 1915, l’Italia non è ancora entrata in guerra ma ci sono ormai poche speranze di restarne fuori, molti castellani sono stati richiamati. Il nuovo sindaco, il professore Gurrieri  dopo aver fatto notare che questa nuova amministrazione è tanto difforme per principi e per finalità a tutte le precedenti dal 1859 ad oggi. soggiunge: Noi non vogliamo creare stridenti novità. Seguiremo l’evoluzione fatale delle cose umane; tutto procede, tutto si evolve su la terra, anche la rivoluzione non è che l’epilogo della evoluzione! Le cose purtroppo andranno in modo molto diverso da questo ottimismo darwiniano. Poi prosegue: Noi arriviamo al potere in un momento difficilissimo, alla vigilia forse di una tremenda sciagura: la guerra! Ebbene saremo costretti ridurre , per ora, al minimo l’effettuazione del programma annunciato, per rivolgere la nostra vigile attenzione a por mano a provvedimenti atti a migliorare le tristi condizioni di tante famiglie, già prive dei loro capi, di tanti figli, cui mancano i loro padri.      Il 24 maggio l’Italia entra in una guerra, nel consiglio comunale di alcuni giorni dopo il Sindaco dichiara che di fronte al fatto compiuto, non resta che augurare all’Italia di uscire vittoriosa dal conflitto. In questa ora non resta che coordinare le forze di tutti, senza distinzione di parte, dall’Arciprete al Socialista.  Compito del Comune è quello di intervenire a pro delle famiglie danneggiate dalla guerra. Si raccolgano denari e il Municipio contribuisca per la massima parte senza la minima preoccupazione per l’indispensabile debito da contrarsi. Il consigliere Ercolani tiene comunque ad affermare di essere contrario ieri alla guerra, pure oggi e domani ma di fronte al fatto compiuto, (…) si deve ora assolvere un compito altissimo: quello della Croce Rossa della Civiltà. Infatti uno dei primi problemi è che il grano, seminato prima della guerra, dopo la mietitura è molto salito di prezzo. Anche allora c’era chi godeva  vantaggi al succedere di disgrazie. Di spettacoli teatrali non se ne parla né ci si pensa, tra l’altro il teatro è stato adibito ad uso alloggio per militari. Il primo anno di guerra ha già portato nel paese il suo carico di morti, di dispersi, di feriti. Sono già avvenute sul fronte dell’Isonzo 5 offensive con oltre 180.000 perdite italiane e senza nessun avanzamento importante. Al fronte sono i cannoni a fare le distruzioni., qui è la natura che con un fulmine, il 24 aprile 2016 alle ore 16, colpisce la torre del Cassero. La torre sovrasta il teatro e  subito la situazione si presenta molto critica. L’ingegnere comunale nella sua immediata relazione riscontra gravi lesioni specialmente nel muro esterno verso nord, e maggiormente allarmanti ai due angoli nord-ovest e nord-est. All’interno della torre si riscontrano fessurazioni longitudinali,(…) Il crollo del rivestimento esterno in mattoni ha scoperto la interna costituzione del muro (…) cosicché si teme che l’indebolimento prodotto da questa caduta  possa essere di grave pregiudizio alla stabilità dell’intero muro, e possa perciò far temere il crollo dell’intera costruzione. Vengono immediatamente sgomberati gli edifici vicini e transennata tutta la zona circostante. Dopo i primi momenti in cui si ipotizza persino la demolizione della torre. Un esame più tranquillo, e l’intervento della soprintendenza ai monumenti, fa sì che si decida per la conservazione.  Si pensa comunque, per maggiore sicurezza,  alla demolizione del cupolino delle campane costruito nel 1842 e non sottoposto a tutela. Il comune però fa sapere che: dalla cittadinanza, orgogliosa della sua vecchia torre, che da secoli ricorda e narra le origini del paese, fu male accolta la demolizione proposta. Quindi viene chiesto che: prima di decidere il radicale provvedimento, una persona di alta competenza in materia giudichi se la proposta demolizione è proprio indispensabile. Il risultato è che con le opportune precauzioni, e la relativa spesa, è possibile evitare la demolizione. Ben diverso è il discorso per il teatro, la scossa provocata alla torre ha smosso anche i muri adiacenti, ma c’è anche altro come relaziona l’ingegnere comunale: Da parecchi anni le condizioni statiche e di manutenzione del Civico Teatro sono in deperimento, sicché oggi hanno raggiunto una situazione tale da non potersi più differire provvedimenti per la sicurezza del pubblico nel caso di riunioni e di spettacoli. Inoltre c’è un generale degradocreato dagli usi svariati ai quali si è destinarono saltuariamente i locali del teatro. In particolare ci sono problemi nelle scale, nella staticità dei palchi e nello stesso coperto più volte riparato provvisoriamente creando un groviglio di travature e, come scrive il Prof Canevazzi, tutto il sistema si trova in condizioni deplorevoli di resistenza, e in qualche punto anche di conservazione. Inoltre rispetto all’importanza dell’abitato e del vicino stabilimento balneare è piccolo e concepito in modo deplorevole nei riguardi della sicurezza (…) Le dimensioni e le condizioni generali dell’edifizio sono tali che non è praticamente possibile provvedere per adeguate uscite di sicurezza: in caso di incendio durante le rappresentazioni è prevedibile che si verificherebbe uno spaventevole disastro. Le scelta che si pone è se recuperare o meno il teatro. Alla luce delle precedenti relazioni la soluzione del recupero risulterebbe troppo onerosa e lunga , tenuto conto che l’Italia è in guerra, quindi si sceglie di demolire palchi e palcoscenico e si porta in consiglio un progetto col quale come illustra il Sindaco Gurrieri: al posto del Teatro, fra le mura dell’antico cassero coi suoi merli rimessi a giorno, verrebbe un ampio salone per uso concerti, conferenze, comizi, Università popolare e quant’altro abbisogni la pubblica vita moderna. Al posto della copertura a due falde con coppi, una splendida terrazza. Ci si propone inoltre di rimettere l’antico Cassero della Porta nella sua forma primitiva abbattendo almeno in parte quanto era stato addossato a questo antico monumento, che conserva ancora tutta intera la sua primitiva originale eleganza.  Il progetto prevede anche di ridurre la parte ovest, ove era sistemato il palcoscenico, al solo piano terra, eliminando la parte superiore forse perché ritenuta non sicura, poi però questa parte fu mantenuta per non rimpicciolire la sala. Il 1916 è l’anno che segna, per quanto riguarda le rappresentazioni teatrali, una discontinuità poiché non esisterà più per molti anni un teatro comunale. Il problema per il momento viene superato con la vaga speranza di costruirlo in altra sede. Tra i problemi collaterali che ha posto il fulmine c’è quello della fornitura del ghiaccio per l’ospedale e le macellerie, infatti interrata sotto l’edificio c’è una antica conserva , ancora presente, cioè un ambiente interrato che durante il periodo invernale veniva riempito di neve e ghiaccio, che si conservava per tutto l’anno, date le caratteristiche isolate dell’ambiente. La sospensione dell’accesso all’edificio ha creato problemi per cui il comune chiede che: sia intanto permesso di poter accedere giornalmente all’unica attualmente esistente ghiacciaia in paese, per prelevare il ghiaccio necessario all’Ospedale e per i malati del paese, nonché per mantenere la carne in conserva ai macellai. In Europa intanto, il 21 novembre 1916, muore L’imperatore Francesco Giuseppe, circolano voci su tentativi di arrivare ad una composizione del conflitto, perché continua lo stallo sui fronti e tutti sono stanchi di combattere. Questa stanchezza è tra le cause della rivoluzione in Russia, che nel marzo del 1917, rovescia lo Zar e nei mesi successivi porta al pratico ritiro russo dalla guerra. Ciò permette alle potenze centrali, Germania e Austria di depotenziare il fronte orientale. Chi ne fa le spese è l’Italia, il 24 ottobre 1917, l’esercito austro-tedesco sfonda il fronte a Caporetto, il Veneto è occupato e l’Italia rischia l’invasione. Castello sta diventando una retrovia del fronte, arrivano i profughi, in novembre sono già oltre 300 poi saliranno fino a più di 600. Il sindaco pubblica un manifesto in cui mentre scrive che La guerra oggi è una realtà che dobbiamo sopportare da forti, fino a che il più piccolo lembo d’Italia è calpestato da piede nemico. All’Esercito, all’Armata è affidata la difesa del territorio; confidiamo nei nostri fratelli in armi, contribuiamo tutti perché essi siano all’altezza del difficile compito, chiede ad ogni cittadino di dare il proprio contributo ai profughi e termina così: Lasciamo la retorica e le pericolose altisonanti parole; silenziosi e fidenti operiamo. La cosa però non è piaciuta a parte dei suoi consiglieri socialisti ligi ad una linea di contrasto comunque e sempre alla guerra. Ciò porterà alle dimissioni del Sindaco Gurrieri che nella sua lettera polemicamente scrive: Credetti doveroso interpretare il pensiero della maggioranza dei cittadini senza distinzione di parte come richiede la situazione. Nello stesso tempo esprimere quello che, deve essere il pensiero di ogni italiano senza distinzione di parte. Sono sempre stato socialista di idee e di principi, ma non ho mai creduto che per essere socialisti non si possa essere anche italiani. Nuovo sindaco viene eletto Andrea Ercolani suo principale antagonista. Nel frattempo a completare il quadro sta circolando anche da noi la letale epidemia dell’influenza spagnola. Il 4 novembre 1918 finalmente la guerra termina, i soldati castellani morti sono 288.

Inizia la guerra civile. Arriva il fascismo.

Finita la guerra contro i nemici esterni, inizia la guerra civile. Dopo 4 anni di guerra nei quali la stragrande maggioranza dei sacrifici sono stati sopportati dalle classi lavoratrici, a operai, braccianti, contadini sembra sia giunto il momento di rivendicare qualche diritto e qualche risarcimento. Ma gli agrari e gli industriali si sono trovati troppo bene durante la guerra, niente scioperi, niente diritti, chi protestava era considerato e trattato come un traditore della patria in guerra. Anche per quanto riguarda la politica chi era al governo aveva vissuto comodamente tenendo nell’impotenza l’opposizione. Niente comizi, censura sulla stampa, nessuna libertà di espressione, apparato poliziesco rafforzato e con ampi poteri.  Lo scontro avviene tra chi avrebbe voluto cambiare, migliorando le proprie condizioni di vita e chi voleva mantenere la situazione creatasi nei 4 anni di guerra. La guerra civile in realtà non è iniziata dopo la fine della guerra, ma al suo inizio quando una minoranza, appoggiata dalla monarchia,  ha imposto l’entrata in guerra. Anche nelle altre nazioni si è posto il problema delle richieste delle classi popolari, in Francia , in Inghilterra lo scontro si è combattuto e risolto coi metodi democratici, in Italia la classe dirigente dell’epoca ha preferito continuare coi metodi dello stato di guerra usando anche uno strumento, che pur non  piacendogli, era a portata di mano e disponibile a prestarsi, il movimento fascista, che faceva della violenza contro sindacati, socialisti, repubblicani e radicali vari  la sua ragione di essere. L’esito dello scontro era scontato, da un lato la violenza programmata e protetta dalle istituzioni, dall’altro la difesa caso per caso e l’impedimento ad ogni manifestazione di protesta. Tornando a Castello:  nell’ottobre del 1920 ci sono le elezioni comunali, le prime del dopoguerra. Grande vittoria socialista con 22 consiglieri su 30. All’insediamento del consiglio si riflette la preoccupazione per la situazione sociale e politica di estrema tensione, nella dichiarazione del gruppo socialista si dice: la borghesia che per istinto di grezza conservazione non ha saputo dare al proletariato, reduce dalla guerra, ancor sofferente della guerra, pane e lavoro, tenta coi suoi sicari, chiamati per l’occasione  fascisti, travolgere tutto il nostro movimento col terrore.(…)  Da questa aula mentre ci accingiamo ad assumere le redini  giuriamo sulla nostra fede di difenderci con ogni mezzo, contro chiunque tentasse intralciare colla prepotenza la volontà del popolo lavoratore. Queste espressioni sono però considerate contrarie all’ordine pubblico e quindi in base ad un’ordinanza prefettizia del 29 dicembre 1920 sono ufficialmente censurate dal verbale consigliare con righe sovrapposte in inchiostro rosso. Poco prima, il 6 dicembre, era stata assaltata e distrutta la Camera del Lavoro in via Mazzini. Nell’aprile dell’anno successivo viene arrestato il sindaco Ercolani per accuse riguardanti precedenti attività sindacali.  Il comune viene commissariato in attesa di nuove elezioni, che si tengono nel novembre del 1922, i fascisti ottengono la totalità dei consiglieri. il 28 ottobre c’era stata la marcia su Roma. All’insediamento, la vigilia di Natale, la facile vittoria entusiasma gli eletti che dichiarano di volere riparare allo sgoverno dell’amministrazione socialista (…) e risanare le finanze esauste del comune, sostituire l’ordine al disordine, far sentire la voce del dovere a coloro che in questi ultimi tempi l’ànno purtroppo dimenticato. terminano il loro dire dichiarando (…) Il consiglio passato inneggiava a Lenin e alla Russia ed il pubblico traviato cantava ‘’Bandiera Rossa’’. Noi invece inneggiamo all’Italia, e voi, o cittadini, cantate “Giovinezza”. Questo consiglio tuttavia non dura molto, nel giugno del 1924, per beghe interne, il sindaco e il consiglio si dimettono, il comune viene commissariato. Poi con  le leggi fascistissime del 1926 i consigli sono sostituiti da un podestà quindi fine della storia. Queste leggi prevedono anche lo scioglimento di tutti i partiti e associazioni, il controllo della stampa e l’istituzione del Tribunale Speciale. Il Teatro Comunale è ormai diventato il Salone del Teatro che nel maggio del 1921 viene concesso per spettacoli cinematografici  per un anno e con prelazione per i successivi due, il comune comunque si riserva di averlo a disposizione per conferenze, comizi, adunanze e il contratto si intenderà rescisso ove l’impresa stia un mese senza dare spettacolo. Il Cinematografo entra in modo stabile a far parte degli intrattenimenti castellani. Oltre al Cassero sembra sia attiva un’altra sala, nel salone a piano terreno dell’albergo Nuova Italia, che chiude alla fine del 1929, forse perché nel frattempo , almeno dal 1926 è stata aperta un’altra sala: il cinema teatro Bios. Nel 1927 con la concessione in affitto della Salone del Teatro al locale Partito Fascista, che lo intitola Casa del Fascio, sappiamo che non era più usato come sala cinematografica. La passione per l’opera lirica profondamente radicata si mantiene viva, mancando il teatro si trovano soluzioni alternative. Il 3 giugno 1924 la solita petizione, con 103 firme, chiede che sia dato anche quest’anno lo spettacolo d’opera. Siamo durante la crisi istituzionale in comune , comunque dando corso a decisione già presa, il commissario prefettizio: ritenendo che lo spettacolo d’opera durante la stagione balneare risponda ad una ininterrotta tradizione paesana ed apporta sensibili vantaggi al traffico ed al movimento cittadino concede, per l’allestimento dell’Arena Estiva, l’area retrostante al palazzo comunale, curandone la sistemazione in opera del palcoscenico e assumendo le spese relative. Il cortile è stato sicuramente già usato altre volte in precedenza, anche perché si presta bene essendo chiuso tra l’edificio comunale e la mura  ad ovest. L’opera realizzata per  10 repliche è la Traviata. Secondo le carte dell’archivio abbiamo di nuovo una rappresentazione nel cortile della Boheme  nel 1927 , è probabile che questa soluzione sia stata effettuata altre volte. Nel 1931 abbiamo carte su una proposta di  rappresentazione della Carmen alle Terme che comunque non avrà luogo per ragioni economiche. L’anno successivo, il 1932,  c’è la richiesta di  un contributo per la rappresentazione di un’opera con il cantante castellano Mario Vergoni, al quale l’anno successivo è concesso un contributo per completare i suoi studi di canto a Milano sotto la direzione e la guida di uno dei maestri della Scala.  Non sappiamo se l’opera fu rappresentata, il Vergoni era noto per la sua timidezza di fronte al pubblico. Sempre nel 1932 si concede il permesso di dare pubblici spettacoli teatrali all’aperto col “Carro la volante” nell’arena della Montagnola Viale Roma C. S. Pietro a totale beneficio delle Opere Assistenziali del Fascio.  All’epoca  viale Roma era la precedente ed attuale viale Terme, che aveva cambiato nome per una istruzione data da S.E. il Capo del Governo (il Duce) perché in ogni centro urbano una via principale venga intestata col nome “Roma”. Quindi il podestà poiché una delle via principali del capoluogo è quella che conduce alle terme, delibera: di denominare tale via “Viale Roma” a decorrere dal 28 ottobre p.v.  Quanto alla arena della Montagnola non abbiamo indicazioni precise, tenuto conto che si trattava di una compagnia itinerante poteva trattarsi di uno spiazzo come l’attuale parcheggio delle scuole nell’area che il comune aveva acquisito e dove sorgeranno le scuole Albertazzi, il campo sportivo e il teatro Arena. I primi anni 30 sono anni di importanti opere pubbliche si eseguono le scuole nelle frazioni, si progettano e si costruiscono le scuole nel capoluogo, il campo sportivo e lo stadio, il carico dell’acquedotto, il viale Roma, principale accesso al Castello, il teatro Arena. L’indebitamento è spaventoso, ma la scelta alla fine si rileverà corretta perché…arriverà la guerra e l’inflazione nel dopoguerra ridurrà enormemente il peso dell’ammortamento dei mutui. Di questo va dato merito, forse inconsapevole, al podestà dell’epoca Enea Lenzi, che poi verrà sostituito per avere troppo indebitato il comune. Il 1934 inizia con una strana scelta: viene dato l’incarico ad un architetto di: studiare la possibilità di adattare l’antico castello all’entrata di C. S. Pietro a Casa del Fascio di utile capienza e di usufruire della parte a Nord-ovest già adibita a sala per divertimenti, inoltrandosi sulla piazza con una nuova costruzione per creare con essa un teatro cinematografico di circa un migliaio di spettatori.  Questa decisione è stata presa: Visto che il Fascio ha sede nel Cassero, visto che i locali sono insufficienti, e considerata la necessità di ampliarli con la costruzione anche di una sala ad uso teatro; ritenuto opportuno corrispondere in tal modo alle richieste del Fascio locale  Cioè si progetterebbe di costruire una appendice al Cassero verso ovest,  in stile novecento, raddoppiando circa  il fronte attuale.

Il progetto costerebbe circa 400.000 lire, l’entità della spesa ma soprattutto le prime reazioni da parte della Soprintendenza ai Monumenti e persino di un organo tecnico come il Genio Civile che scrive: la mascheratura sull’atrio dell’antico Castello con una costruzione stile novecento non poteva neppure essere pensabile(…) sapendo che su tali edifici la Sovrintendenza ai Monumenti non avrebbe certamente mai permesso una simile manomissione, fanno abbandonare l’attuazione del progetto. Nelle pesche rimane il progettista che farà una bella fatica a farsi pagare il lavoro fatto. L’anno precedente, il 1933,  da una relazione  del Dopolavoro Comunale, gestore del  Cinema Teatro Bios,  sappiamo che: in seguito ai noti danni cagionati dalla nevicata del febbraio u.s. al fabbricato del sig. Parenti Paolo si dovette trasferire il cinematografo nel salone della Casa del Fascio per non lasciare privo il paese del più popolare genere di divertimento.  Quindi sappiamo che chiude il Cinema-Teatro Bios, che risulta adibito a magazzeno e  che riaprirà, con nuova gestione solo nel 1938. Nel 1934 la situazione delle sale cinematografiche vede la presenza solo del salone della Casa del Fascio non funzionante nei mesi estivi nei quali  le proiezione si svolgono all’Arena, ove, terminata la costruzione del palcoscenico, finalmente si potrà organizzare in modo continuativo la stagione operistica estiva. Nel settembre abbiamo  notizia di una rappresentazione del Barbiere di Siviglia, che forse è l’opera di inaugurazione dell’Arena come teatro.  Lo stesso anno il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma e fine dell’anno XII dell’Era Fascista, viene inaugurata la scuola del Capoluogo, i ragazzi castellani la useranno solo fino all’estate del 1940 quando l’edificio verrà requisito dall’autorità militare e trasformato in ospedale militare territoriale perché Benito il 10 giugno entrerà in guerra. Sarà poi usato anche per prigionieri di guerra. Nel 1935 inizia , in modo continuativo la stagione operistica estiva. Il Teatro è gestito dall’Azienda di Cura e Soggiorno quindi ci manca il dettaglio delle opere e della partecipazione, abbiamo solo un documento del 1939, che però si può considerare tipico dal quale si ricava che le opere rappresentate  in 4 serate sono la Traviata e l’Amico Fritz assieme alla  Cavalleria Rusticana, con una partecipazione nell’ultima sera di questa rappresentazione di 1532 spettatori.  Nel 1937 risulta presente un altro luogo di trattenimento: il teatrino educativo cattolico detto la Vallona, per il quale si richiede il permesso per dare uno spettacolo di burattini, e nell’anno successivo l’Arciprete chiede di ottenere il permesso di riattivare il teatrino della Vallona, che negli anni successivi sarà attivo, come nell’inverno 1940, per un corso di oltre 19 rappresentazioni teatrali (piccoli spettacoli di prosa).  Il  Bios riapre ma per il momento solo per il tradizionale veglionissimo dell’ultimo di carnevale organizzato dal Corpo Bandistico, il che significa che non era più usato come magazzino e tra poco riprenderà la sua destinazione come Cinema-Teatro.  Negli anni 1939/40 arrivano a Castello anche i  Circhi, nel 39 il circo Orfei per dare un breve corso di spettacoli istruttivi e morali. e l’anno dopo il Circo Togni che chiede il 21 maggio di dare spettacoli pubblici col Circo Equestre Nazionale (…) per il tempo che va dal 8 giugno al 16 stesso mese dell’anno 1940 XVIII°. 

Mussolini fa entrare in guerra l’Italia.

Non sappiamo se gli spettacoli hanno avuto luogo. Il  7 giugno la prefettura con un biglietto urgente di servizio comunica che: per ordine del Ministero della Cultura Popolare sono state sospese con effetto immediato tutte le manifestazioni musicali e drammatiche progettate. (…) Di tale sospensione è vietata la comunicazione alla stampa. E’ evidentemente il preludio alla dichiarazione pubblica del Duce, del 10 giugno, dell’entrata dell’Italia in guerra. I primi anni di guerra, il 1941/42, a Castello non cambiano molto la vita, c’è l’angoscia per i giovani nei militari, in zone di guerra, c’è la scarsità dei viveri, le tessere per i cibi e il vestiario, ma le bombe sono lontane. Le sale da spettacolo sono in funzione: Il Cassero, il Bios, anche all’aperto, la Vallona, che è indicato nell’“Indicatore della provincia di Bologna” come Teatro Acquaderni, l’Arena ove nel 1942 è rappresentata la Butterfly.       L’anno successivo le cose cominciano a cambiare, la guerra si avvicina a casa. Il gestore del Bios allo scopo di far funzionare il cinema all’aperto chiede il 24 giugno, di tenere presso il Gruppo della Batteria Antiaerea di Castel S. Pietro una persona che possa comunicare lo stato di allarme appena questo si verifichi per prendere i provvedimenti richiesti in simili casi. cioè spegnere e mandare tutti a casa. Ovviamente la proposta non è accettata.      Il 10 luglio gli alleati sbarcano in Sicilia, il 15 Bologna è bombardata, il 25 luglio Mussolini è arrestato, il fascismo è caduto. L’8 settembre l’Italia firma l’armistizio con gli alleati. Il 15 settembre a Castello arrivano i tedeschi e il podestà:  d’ordine del comando tedesco rende noto che tutti i possessori di armi da fuoco (anche da caccia) dovranno consegnarle entro le ore 12 di domani 16 settembre, (…) I contravventori sono punibili con la pena di morte.  Inizia l’occupazione tedesca e la resistenza. La situazione causa curiosamente un aumento dei posti di impiego pubblico. Il Comune è obbligato ad assumere 32 Vigili Urbani Ausiliari per la vigilanza della linea ferroviaria contro i tentativi di sabotaggio, sabotaggi che non avvennero, alla ferrovia ci pensavano gli aerei alleati, ma il servizio armato divenne una piccola fonte di armi per i partigiani, che trovarono facile disarmare i vigili, che non avevano nessuna voglia di opporsi. Finché il fronte era lontano la vita dei castellani era ancora sopportabile, le formazioni dei bombardieri ci sorvolavano ma andavano a bombardare Bologna. Forse le sale cinematografiche erano, pur con molte limitazioni, ancora aperte. Il 21 marzo 1944 c’è un attentato al cinema Bios. Il commissario prefettizio relaziona così : ad iniziativa del locale Fascio Repubblicano era stato programmato un modesto spettacolo di arte varia in onore del presidio tedesco partente per altra zona. Circa alle ore 20,45 e cioè a metà dello spettacolo fu fatta esplodere una bomba collocata ad un ingresso laterale del locale, all’altezza della barcaccia dove usualmente prendono posto le gerarchie locali. L’attentato provoca un morto, il figlio dell’ex podestà Lenzi e diversi feriti. Come conseguenza sono sospesi tutti gli spettacoli pubblici ed imposto il coprifuoco dalle ore 20 alle 5, il coprifuoco sarà riconfermato nei mesi successivi. Nel 1944 anche a Castello cominciano a cadere le bombe, man mano che il fronte si avvicina.  Il 4 giugno è liberata Roma, in agosto gli alleati sono a Firenze.  Il 19 ottobre le truppe americane conquistano Monte Cerere, poi Monte Grande e Montecalderaro. Castello è diventato la immediata retrovia della prima linea, e tale resterà fino al 17 aprile 1945. Sono sei mesi di isolamento, le strade di ingresso al paese sono tagliate da fosse anticarro, tutti gli edifici che fronteggiano a est il fiume sono demoliti per realizzare posizioni difensive nelle parti sotterranee, le cantine. I bombardamenti  sia dagli aerei che battono la ferrovia e la via Emilia, sia dalle batterie poste a Montecalderaro, sono continui. Gli ultimi piani delle case sono abbandonati, si abita nei piani inferiori e si dorme nelle cantine al lume di candela perché manca l’energia elettrica, anche la distribuzione dell’acqua è discontinua e si utilizza l’acqua dei pozzi, scarseggia il cibo, l’ospedale è stato demolito, si sviluppa una epidemia di difterite e tifo. Il 16 marzo del 1945 da Castello si comunica a Bologna che: il locale Comando Germanico delle fortificazioni ha provveduto a minare, per un successivo brillamento di mine, la civica torre dell’orologio pubblico, il campanile della chiesa parrocchiale e il campanile di un’altra chiesa posta nelle vicinanze di questa residenza municipale, nella quale si trova un concerto di ben 55 campane unico in Europa e di valore inestimabile. Si chiede di salvare almeno campane e orologio, ma i pompieri bolognesi hanno altro da fare. I tedeschi vogliono abbattere tutto ciò che può sporgere per non offrire punti di riferimento per aerei e artiglieria, quello della ex chiesa di San Francesco nella parte est del paese è già stato abbattuto. L’abbattimento della torre e dei campanili avrebbe danneggiato gravemente sia il Cassero che le chiese. Si fanno pressioni verso le autorità perché siano evitate le distruzioni ed in ogni caso dare esecuzione al provvedimento soltanto nel momento in cui fosse necessario per evidenti necessità di guerra , si  riesce perciò ad ottenere che per il momento non vengano effettuate nuove distruzioni (…). Poi il precipitare degli eventi farà ritirare in fretta i tedeschi e i nostri monumenti resteranno minati ma salvi.

La liberazione e il dopoguerra. Di nuovo il Teatro.

Il 17 aprile 1945 Castel San Pietro è liberato, è una bellissima e limpida giornata di primavera, ancora più luminosa perché negli ultimi giorni i castellani erano tutti rifugiati nell’oscurità delle cantine. Il bilancio delle distruzioni è pesante, ma ancora di più quello delle vite umane, 287 i morti per cause belliche e 21 per l’epidemia di tifo e in più quelli, non contati, per stenti e malattie. Il giorno dopo, il 18, il Governatore Militare Alleato nomina, su proposta del CLN locale il sindaco e la giunta formata da rappresentanti del PCI, PSI, DC e P. d’Azione, che si mettono subito al lavoro. Uno dei primi compiti è la bonifica delle mine e dei numerosi ordigni bellici lasciati dai tedeschi a cominciare dai campanili e dalla torre del Cassero fortunatamente non fatti brillare. Un lavoro prioritario e pericoloso, il 5 maggio a Varignana scoppia un carico di mine raccolte e muoiono 11 sminatori, i morti  per mine e altri ordigni bellici entro la fine dell’anno saranno 49 di cui 7 minori e 50 feriti di cui quasi la metà minori. Altro problema è quello sanitario, si cerca di riattivare l’ospedale proponendo, in attesa della ricostruzione della sede precedente,  soluzioni provvisorie come il trasferimento della sede dell’ospedale nel fabbricato della Perdisa, posto in via Riniera 59-60, offerta in uso dal proprietario. Mentre il servizio di trasporto dei malati potrà avvenire a mezzo dell’autolettiga tutt’ora esistente e di lettiga a cavallo o a mano. L’attività scolastica riprende il 9 maggio, in locali di fortuna, per un anno scolastico di pochi mesi che così non sarà perduto. L’autore di queste pagine ha fatto la quarta elementare in un magazzino seminterrato, destinato al ricovero ed alla lavorazione della canapa, posto in piazza XX settembre, all’angolo con via Ugo Bassi. Il maestro veniva da Bologna e gli mancava una mano. La prima cosa che fece fu proibirci di fare, al suo ingresso, il saluto romano che era divenuto per noi ragazzi quasi un automatismo. Il Cassero da Casa del Fascio viene immediatamente riconvertita. Al piano terra, sede soprattutto del sindacato fascista,  già infiltrato da persone incaricate dal CLN, diventa la sede dalla Camera del Lavoro.  Il salone dell’ex teatro torna ad essere al servizio della comunità. Al suo recupero, dopo i danni della guerra provvede un’associazione di volontariato, gli Attivisti del Sillaro  già Belli di Notte. Questo era il nome di una delle diverse compagnie, che prima del fascismo, univano gruppi di giovani il cui scopo principale era fare feste da ballo, pranzi ecc. ossia stare in compagnia, altre di lunga tradizione erano la  Zocca e la Primula. Gli Attivisti del Sillaro si assumono l’incarico di ristrutturare la sala, riparano i danni, costruiscono una balconata che dà sulla sala, la barcaccia e il 15 gennaio 1946 scrivono alla giunta, al CLN, ai sindacati, ai partiti, alle associazioni dei reduci e dei partigiani, all’UDI, al Fronte della Gioventù e all’Unione Sportiva, rendendo noto che il Salone del Cassero viene ceduto gratuitamente per trattenimenti (riunioni, veglie, commedie) a loro richiesta , quindi la sala è già utilizzabile. In effetti la sala è già in uso poiché in un’altra lettera agli stessi destinatari del 28 gennaio, si ringraziano le Autorità per la fiducia, alcuni dipendenti comunali che si sono prodigati con impareggiabile zelo e gli innumerevoli fornitori e prestatori d’opera che ànno praticato dei prezzi di favore e anche delle offerte. Inoltre si rende noto il notevole afflusso in questo ritrovo, nonché le cospicue somme realizzate, che consentono il pagamento dei rilevanti debiti contratti. Per questi interventi il comune aveva deliberato la richiesta di un mutuo di 1.250.000 lire. Invece le spese che gli Attivisti del Sillaro hanno incontrato risultano di circa 600.000 lire, che si stanno pagando con l’utile dell’attività del ritrovo. Attività che consiste nel ballo.  La guerra e l’occupazione tedesca hanno significato per 6 mesi vivere nell’incertezza tra la vita e la morte. L’unica difesa era il fatalismo. Modo di dire corrente per commentare la morte di qualcuno era che era stato staccato il suo cartellino, un accidente che poteva succedere in qualsiasi momento per una bomba, una granata, il nervosismo di un soldato, il tifo. Ora ci si trovava con la casa danneggiata, o peggio distrutta, senza lavoro, con pochi vestiti ed alimenti, sperando negli aiuti umanitari della UNRRA, ma si era vivi e con la voglia di vivere e divertirsi. Il ballo era una espressione di questa voglia, anche prima si ballava , c’erano i veglioni, le feste private ma ciò succedeva soprattutto per carnevale, ora invece, anche perché l’ultimo carnevale lo si era passato sotto le bombe, si ballava sempre e ovunque ci fosse lo spazio, nel capoluogo e nelle frazioni, Varignana, Palesio, Poggio. La sala del Cassero era perfetta. Si ballava il sabato pomeriggio, la domenica, ma soprattutto il lunedì. Si iniziava al mattino e si continuava fino a notte. La ragione era molto semplice, il lunedì è il giorno del mercato settimanale e tutti gli abitanti della campagna venivano in paese, quelli maturi facevano la spesa e gli affari i giovani andavano a ballare. In paese si ballava al Circolo Corona, al Bios, al circolo del PSI, famigliarmente chiamato il Cipollone, al Dancing Nuova Italia con, per l’apertura autunnale 1946,  un “The Danzante” con danze rallegrate  col “Quintetto Sillaro, melody and swing” al microfono Lino Vespignani. Era arrivata la musica americana e i la lingua inglese. Qualche volta, su invito del sindaco comunista e a richiesta del parroco, si stava fermi come in occasione della festa della Madonna del Rosario il 6 ottobre. Intanto la sala del Cassero è diventata automaticamente Circolo ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori) che aveva sostituito la fascista Opera Nazionale Dopolavoro, quindi ora la gestione non era più di un gruppo di privati, come i Belli di Notte, ma di un’articolazione di un ente pubblico nazionale, pur non cambiando le persone  che gestivano le attività. Attività che diventa quella di principale sala da ballo del paese, attiva in modo continuativo, esclusi i mesi più caldi dell’estate. Diventa la Lanterna Verde, nota in tutta la provincia, si esibiranno artisti che diventeranno famosi. La serata più prestigiosa  è quella in cui si elegge la più bella del paese la Signora del Castello, il cui risultato sarà poi oggetto di commenti per varie settimane. In quei mesi dell’immediato dopoguerra tutto sembra possibile anche la richiesta di aprire una Casinò. La proposta è fatta da possibili finanziatori della ricostruzione delle terme, come subordinata alla possibilità di coinnestare l’azienda termale con la gestione di una CASA DA GIOCO. Si ha già una ipotesi di localizzazione: una sontuosa villa, con ampio ed alberato  parco circostante, particolarmente adatta perciò allo scopo e della cui disponibilità si è certi, distaccata dal paese, essendo distante circa due chilometri da questo capoluogo. Arriva anche la proposta di un imprenditore del luogo di costruire un nuovo teatro di 1200 posti, nella zona del foro boario, a ovest del centro storico, il comune sarebbe d’accordo di cedere l’area necessaria. Segue quella del gestore del Bios di ampliare il suo locale fino a 1800 posti. A questo punto però tutto si ferma. Siamo alla fine del 1946. Tra i pubblici intrattenimenti ormai prevale il Cinematografo. Il Cinema-Teatro Bios non ha mai cessato la sua attività e da ora in avanti, sistemato il palcoscenico, giustificherà la sua etichetta di teatro. Rappresentazioni teatrali, soprattutto di filodrammatiche locali, spettacoli di varietà e di avanspettacolo si susseguiranno. Famosa sarà l’esibizione di Claudio Villa nel 1966. Doveva presentarsi alle 22 davanti ad un pubblico che riempiva il teatro in ogni spazio, a causa della nebbia arrivò all’una e trenta e, da serio professionista cantò fino alle tre davanti ai pochi rimasti ed in un teatro piuttosto in disordine. Nel 1947 riapre il teatro parrocchiale la Vallona per il quale, essendo ritornato al suo uso dopo aver servito durante la guerra per scuole elementari e alloggio di truppe, si richiede che la relativa licenza abbia la sua continuità. Per il momento si limita  a spettacoli teatrali di poca importanza, più raramente a proiezioni.    Nello stesso anno si riattiva il teatro Arena che continuerà fino al 1963 con cinema e spettacoli vari, come nel  1954 l’esibizione di Nilla Pizzi, recente vincitrice di due Festival di San Remo, e nel 1958 un concerto dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna. Nel 1949 riapre, ora come sala cinematografica, la Nuova Italia e nel 53 la Vallona si amplia, con una sala superiore e una inferiore, e diventa cinema a tutti gli effetti. L’anno successivo inaugura una sala all’aperto in via U. Bassi. A metà degli anni 50 nel capoluogo ci sono tre cinema al chiuso (Bios, Nuova Italia e Vallona) e tre all’aperto  nel periodo estivo (Bios, Vallona nel giardino di Via Ugo Bassi, e Arena).  Inoltre ci sono  sale a Varignana, Osteria Grande e Poggio, sale parrocchiali e a Osteria Grande anche una sala gestita da privati, (Roli, Pedrini). È il momento migliore per il cinema, la televisione ha appena iniziato a diffondersi, Lascia o Raddoppia è del 1955 ed ha già mostrato cosa succederà quando gli apparecchi televisivi entreranno in ogni casa, ma per il momento tutti vanno al cinema e quindi nel 1959 viene costruita una nuova sala, il cinema Astra che sostituisce la vecchia Nuova Italia, che aveva problemi di agibilità. All’inizio degli anni ’60 la sala Cassero e tutto l’edificio mostrano qualche problema, che la fretta della ripresa post bellica aveva trascurato,  è necessaria una grossa operazione di restauro, il suo utilizzo abituale diminuisce. Nel 1964 iniziano i lavori per ripristinare, per uso pedonale, l’antico ingresso al Castello, quello che dava sul ponte levatoio e che era stato chiuso nel 1776, con l’apertura della porta grande. Altri lavori importanti avvengono negli anni successivi nel salone in previsione di ristrutturarlo in una sala polivalente. Viene demolita la barcaccia, al suo posto viene costruita una gradinata, il palco, che può essere allargato, è posto sul lato sud della sala, quindi la zona della platea è girata di 90 gradi rispetto a quella precedente. L’ingresso principale è posto all’interno del nuovo passaggio pedonale al Castello, viene recuperata le vecchia conserva, la cui cupola è visibile salendo la rampa d’ingresso. L’uso è molto elastico, si può fare teatro non tradizionale, convegni, conferenze, riunioni, mostre e questo sarà il suo uso fino almeno al 2005. La storia degli altri locali di spettacolo è quella comune a tutte le sale cinematografiche. Nei primi anni ’80  la televisione commerciale invade l’etere, ormai  a tutte le ore si possono vedere film stando in casa. La sala cinematografica che resiste di più è il Bios, che tenterà alla fine la carta dei film a “luci rosse” poi anche lui dovrà chiudere.  La sua area sarà utilizzata per edilizia residenziale, come quella del cinema Astra, ma nel suo caso nel corso dei lavori ci sarà una sorpresa. Sotto il pavimento della sala si sono scoperte le fondazioni di una basilica paleocristiana del VI secolo . Ora al posto del Bios si possono vedere le fondazioni dell’abside, della navata centrale e di una laterale della basilica. Nei primi anni del 2000 l’amministrazione comunale comincia a sentire la mancanza di un teatro. Per l’Arena, ormai in stato di abbandono, si era pensato ad una soluzione radicale: un grande teatro coperto, progetto presto messo da parte. Quindi si ripiega su un progetto di recupero più soft, che è quello che poi è stato attuato, quindi ora l’Arena è in funzione nei mesi estivi col cinema e il teatro. Per il Cassero invece si progetta un ritorno ad una sala  con un palcoscenico  tradizionale se pur di piccole dimensioni, con una platea con le poltrone fisse, e con una gradinata , il tutto col vecchio orientamento est-ovest. I lavori iniziano e il 18 aprile 2008 avviene la sua inaugurazione da parte delle autorità religiose e civili e di tutta la popolazione. Il resto è storia recente. Di nuovo Castello ha il suo Teatro Cassero, sono passati 260 anni dal quando vari giovani del paese, dilettanti di musica figurata, si produssero al pubblico per la prima volta e fu nella festa di S. Antonio 13 giugno 1748.


Riferimenti bibliografici:
 Samoggia Luigi: Il Teatro di Medicina dal 600 al  900. Bologna 1983.Cavazza Ercole.  Raccolto di memorie istoriche di Castel S. Pietro, Biblioteca Universitaria di Bologna, manoscritto 4304,  trascrizione a cura di Zuppiroli Eolo. Castel S. Pietro 2018/20
Bortolotti Luigi. Appunti storici di Castel S. Pietro, 1937 Bologna,