La resistenza

MEMORIE DI ALDO BACCHILEGA PRIMO SINDACO DELLA LIBERAZIONE

Nel mese di ottobre del 1943, mio fratello Giocondo venne a stabilirsi provvisoriamente a Castel S. Pietro, perché Bo­logna era frequentemente bombardata; siccome lavorava a tempo pieno per il partito, fu inserito nel C.N.L. ed eletto presi­dente.

Io ebbi invece la responsabilità di dirigere i Gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.), per i quali eravamo collegati con quelli di Bologna, col dirigente dott. Aldo Cucchi.

I rifornimenti del materiale di propaganda politica e de­gli esplosivi per le azioni di sabotaggio ai treni usati dai tedeschi per rifornimento di materiale bellico, venivano smistati dalle nostre donne, capeggiate da Ermelinda Bersani, Bianca Borzatta e Maria Scarpetti.

Iniziammo in quel periodo le prime azioni di sabotaggio ai convogli ferroviari, usati dai tedeschi.

La prima azione di sabotaggio avvenne nei pressi della Magione, ma lo scopo fallì, perché la carica esplosiva fu in­sufficiente. Il treno che marciava lentamente per il forte carico di armi ed esplosivi, subì solamente un lieve deraglia­mento.

In seguito le cose andarono meglio, perché ogni carica esplosiva riusciva ad attorcigliare le rotaie e ad interrom­pere così l’afflusso dei rifornimenti. Si poteva operare solo di notte, perché lungo la ferrovia c’erano pattuglie in con­tinuo servizio di guardia; pattuglie composte da due persone armate, per ogni tratto definito di binari. Quindi, gli uomi­ni dei G.A.P. dovevano restare nascosti e dopo il passaggio della pattuglia, agire in modo rapido, andandosene poi alla svelta. Per procurare le armi necessarie, i G.A.P. davano una continua caccia ai tedeschi isolati o che a piccoli gruppi che circolavano per le nostre strade.

Le armi che riuscivamo a conquistare erano molto importan­ti per due aspetti: il primo, era quello di acquisire armi valide, necessarie per la futura formazione della brigata partigiana; il secondo, era che ogni tedesco disarmato subiva un forte shock, che influiva negativamente sul suo morale di combattente, facendolo sentire un braccato, in continuo peri­colo.

In quel periodo, l’Italia settentrionale era diventata la Repubblica di Salò. Il governo repubblichino emise il bando di chiamata alle armi delle classi giovanissime. La maggio­ranza di quei giovani decise di non partecipare a militare nell’esercito di Mussolini. Fu così costretta a nascondersi, se voleva salvare la pelle.

Quindi, se è vero che diversi giovani diventarono parti­giani per sfuggire al bando fascista, è però altrettanto ve­ro che ve ne furono molti che con entusiasmo diventarono par­tigiani per combattere il fascismo ed i tedeschi, per contri­buire a porre fine ad una guerra ed a un’occupazione che trop­pi lutti, troppe distruzioni, troppi dolori aveva arrecato alla gente.

Se non fosse stato così, la nostra brigata, come tante altre, non avrebbe potuto formarsi e soprattutto reggersi, perché i problemi erano molti e di natura complessa.

Il primo problema era quello di ampliare e rafforzare l’u­nità antifascista; il secondo era quello di reperire armi per poter combattere, ma soprattutto per difendersi; il terzo era quello, non certamente meno importante, di reperire il vetto­vagliamento necessario alla vita degli uomini della brigata.

Il primo problema fu avviato dall’azione dei G.A.P. e dal­la costituzione del C.N.L.  locale. Il secondo, relativo alla necessità di reperire un numero maggiore di armi, fu avviato dai G.A.P. e successivamente dalle prime pattuglie partigiane e dalla grande collaborazione fornita dalla popolazione, attra­verso segnalazioni ed informazioni varie. Il terzo problema, relativo al reperimento dei viveri, al fabbisogno di scarpe e indumenti, venne risolto in parte dalla Brigata stessa, ma un notevole aiuto lo diede il C.N.L. locale con la costituzio­ne di due centri di raccolta, uno in centro del paese, che faceva capo a Luigi Frascari ed alla famiglia Galavotti; il secondo a S. Martino, che faceva capo a Guido Bassi.

Il C.N.L.  ed il sottoscritto, hanno sempre riconosciuto il grande e valido apporto dato dalle persone citate alla lotta partigiana ed alla lotta antifascista.

Alla famiglia Frascari-Galavotti, si deve un altro ricono­scimento, quello di aver ospitato e favorito l’inserimento del primo comandante della nostra Brigata, Colonello dei Ber­saglieri, signor Felici.

Fin dall’inizio, col Colonnello, abbiamo collaborato stret­tamente con armonia di intenti e spirito di fraternità.

Dopo la costituzione della Repubblica Sociale e dell’eser­cito repubblichino, i giovani vennero allettati da notevoli promesse affinché aderissero spontaneamente alla Repubblica Sociale che, a dire della propaganda fascista, si ispirava ai principi del socialismo!

Quelli che aderirono furono pochi e fra questi ci furono parecchi delinquenti comuni, che trovarono così la possibili­tà di compiere impunemente i loro misfatti.

Per salvare i giovani dalle rappresaglie e dai rastrella­menti bisognava fare qualcosa di concreto, ma le possibilità erano molto limitate. Avevamo bisogno di armi non tanto per la frenesia di fare la guerra, quanto per creare le migliori condizioni di salvare i giovani, creando strumenti di possi­bile difesa.

Con i G.A.P. escogitammo l’eventualità di disarmare tutte le pattuglie di guardiani al tratto di ferrovia, compresa nel nostro Comune. Ci accordammo con alcuni nostri simpatizzanti che erano costretti, contro la loro volontà, a svolgere quel servizio e, per il resto, mobilitammo tutti i G.A.P.

Con un’azione improvvisa e simultanea, riuscimmo a disar­mare tutte le pattuglie e portare al sicuro le armi conquista­te.

Nella primavera del 1944, il nostro C.L.N.,in accordo con il C.U.M.E.R. di Bologna (Comando Unico Militare Emilia Roma­gna) , decise di dare vita ad una nostra formazione partigiana con il nome di 66a Brigata Garibaldi, Piero Jacchia.

Questa, aveva il compito di operare sui crinali di Monte Grande e Monterenzio per dominare le vallate del Sillaro e dell’Idice.  Su proposta del C.L.N. locale, il C.U.M.E.R di Bologna mi assegnò l’incarico di Commissario politico della 66a Brigata, la cui funzione principale consisteva nel mante­nere l’equilibrio, la coesione e l’unità fra tutte le corren­ti politiche e indipendenti, che combattevamo per un unico scopo: quello di accelerare la fine della guerra, cacciare i tedeschi dal nostro Paese e cancellare il fascismo, per con­sentire il ritorno alla democrazia.

La formazione del primo nucleo della 66a Brigata Garibaldi, non fu un grosso problema organizzativo, in quanto si era già sviluppato in modo naturale un vivo fermento antifascista, scaturito spontaneamente come reazione alla politica nefasta del governo fascista e soprattutto dall’azione politica uni­taria condotta dai partiti antifascisti.

Il primo nucleo della 66a Brigata Garibaldi si insediò al­la Pieve di Monte Cerere (zona di Montecalderaro), nei locali della canonica e della chiesa, già da tempo in disuso.

La mia designazione a Commissario Politico della Brigata fu accolta favorevolmente da tutte le correnti politiche ed in modo particolare dall’amico Gilberto Rimondini  (Gil), che capeggiava il gruppo del Partito d’Azione.

Purtroppo, nel periodo iniziale, erano sorti degli screzi fra Gil e Attila (tenente dei Bersaglieri), rispettivamente comandanti di due gruppi partigiani ed entrambi aspiranti al­la supremazia del comando. Di questa situazione, cercò di ap­profittarne il partigiano Golinelli, ufficiale di collegamento della 36a Brigata Garibaldi, che frequentemente veniva a con­tatto con il nostro gruppo, per indurlo a trasferirsi nella 36a brigata.

Quest’ultima, operava sui crinali che dominano la vallata del Santerno, in una zona di maggiore sicurezza ed in condizione di poter nuocere maggiormente l’esercito tedesco (così af­fermava Golinelli).

La prospettiva di poter iniziare la lotta contro i tedeschi entusiasmava sia Gil che Attila; però Gil era del parere di non doversi distaccare dalla 66a Brigata, mentre ad Attila questo non interessava affatto.

Nel mese di luglio, la nostra brigata fu fortemente rinfor­zata con l’arrivo simultaneo di alcuni gruppi provenienti dal­la bassa bolognese, circa 160 partigiani, parte dei quali, fu inserita nei gruppi di Gil e di Attila.

Verso la fine di luglio, Gil mi propose un piano per attac­care la roccaforte fascista di Sassoleone, presidiata anche da forze tedesche. Il piano mi parve realizzabile e diedi pa­rere favorevole.

Gil, che era stato designato comandante di un battaglione, con Attila vice comandante, partì con il gruppo dei suoi par­tigiani per l’impresa che ebbe esito positivo con la cattura di 9 tedeschi, 5 fascisti ed un notevole bottino di armi, di cui avevamo grande necessità. Dopo quell’impresa ben riuscita, Gil mi prospettò il desiderio di recarsi a visitare la sede operativa della 36a Brigata per avere la possibilità di com­battere apertamente contro i tedeschi, con l’intento però di non distaccarsi dalla nostra brigata.

Avuto l’assenso, si portò con tutti i suoi uomini nella zona della 36a, dove fu accolto con grande favore, in quanto, con l’apporto delle nostre forze, la 36a veniva ad irrobustir­si notevolmente.

Successivamente, fui informato che il tenente Attila ed altri partigiani, avendo constatato che quella zona era effettiva­mente più sicura e quindi più idonea a combattere i tedeschi, esprimeva la volontà di rimanervi e di essere inserito in quel­la formazione.

Pertanto, il Comando della Brigata decise di andare sul posto per constatare direttamente come stavano le cose.

Con una marcia piuttosto forzata, in una sola notte, ci portammo vicino alla zona della 36a brigata ed al mattino già avanzato, giungemmo sul suo territorio nel momento in cui tutta la brigata era schierata in attesa di un attacco tedesco proveniente dalla base del comune di Palazzuolo.

Incappammo in una giornata sfavorevole, perché vi erano intensi banchi di nebbia che, salendo dal fondo valle, ostaco­lavano la visualità e coprivano l’avanzata delle forze tedesche.

Fortunatamente, noi venivamo dalla parte opposta del fronte d’attacco e riuscimmo agevolmente ad entrare nella zona presi­diata dalla 36a.

Purtroppo, il peggio dovevo ancora vederlo; infatti, non appena fummo nella zona dove erano schierati i nostri parti­giani, vidi portare a braccia il corpo esanime di Gil.

A quella vista fui come colpito da una tremenda mazzata e non solo per aver perso un valoroso capo partigiano.

Dai compagni della 36a e dai partigiani che erano con Gil, fui informato degli avvenimenti. Gil, come sempre, era ansio­so di combattere e, siccome tutti i partigiani erano schiera­ti in attesa dell’attacco tedesco, e la visibilità ostacolata dai banchi di nebbia, egli chiese di scandagliare le pendici coperte dalla nebbia, allo scopo di evitare un attacco di sorpresa.

Dal Comando di Brigata fu sconsigliato, perché considerava troppo pericoloso scandagliare una zona a lui sconosciuta.

Gil fremeva d’impazienza e volle fare un tentativo d’uscita nella parte dove erano schierati i propri partigiani; prese quindi una pattuglia di sei uomini fra i quali c’erano i due compaesani: Raffaello Romiti e Dante Casadio e, cautamente, iniziò la discesa facendo poi un ampio giro esplorativo per riprendere poi la via del ritorno (che purtroppo, fu tragica).

Come potei constatare personalmente, Gil vestiva una sahariana e portava un berretto tedesco. Dai suoi compagni seppi che egli marciava in testa alla pattuglia; inoltre, co­sa comprensibile per chi non ha troppa esperienza di montagna, nel ritorno dalla sua ispezione, sbagliò sentiero ed anziché sbucare verso le postazioni dei propri partigiani, sbucò ver­so un’altra postazione che nulla sapeva della sua uscita.

Venne scambiato per un tedesco e, nella sparatoria che ne seguì, fu colpito a morte. Gli altri partigiani riusciro­no a salvarsi, perché fecero in tempo a buttarsi a terra ed a gridare per farsi riconoscere.

Fu un grave e triste incidente ma, purtroppo, non il solo della nostra attività partigiana. Un errore involontario che produsse sgomento e dolore fra tutti i partigiani. Di fronte a questo fatto, misi immediatamente i miei uomini a disposizione del Comando della 36a brigata e chiesi all’amico e compagno Moro (Commissario della 36a) di lasciarmi l’incarico di provvedere alla sepoltura di Gil. In quell’opera pietosa mi fu di grande aiuto il compagno Venzi, un marmista di Bologna che già conoscevo, ricco di grande sensibilità umana, trasfusa anche nelle sue belle canzoni partigiane: era un poeta!

Per prima cosa pregai i compagni del Partito d’Azione e studenti in medicina, come il pover Gil, di curare il suo corpo con ogni mezzo a loro disposizione, per cercare di con­servarlo nel modo migliore; poi, cosa insolita per i partigiani feci costruire una bara in legno di castano ed assieme a Venzi, cercammo il luogo migliore per la sua sepoltura.

Lo collocammo su un poggio sabbioso all’apice del displu­vio, per evitare le infiltrazioni di acqua piovana. Finita la mesta cerimonia della sepoltura, presi l’iniziativa di in­formare personalmente la sua famiglia, alla quale ero legato da profonda amicizia fin dall’infanzia.

Rientrare in paese, poteva costituire per me un grave rischio, in quanto tutti conoscevano la mia attività. Partii a piedi e giunsi fino alla vallata del Sillaro, poi presi una bicicletta e con andatura sostenuta, arrivai nel pomeriggio nelle vicinanze di castello. Quando fui vicino al cimitero, improvvisamente, vidi uscire dallo stesso una pattuglia della milizia fascista, dietro la quale, vi erano tutti i fascisti del capoluogo.

Seppi poi che venivano dall’aver dato sepoltura ad un mili­te morto in un incidente d’auto, avvenuto a S.Martino in Pedriolo. Ebbi un fugace momento di apprensione, ma continuai il mio cammino con pedalata sciolta e deciso ad ogni evenienza.

Fu il primo colpo di fortuna della mia vita partigiana, nessun fascista cercò di ostacolare il mio passaggio ed arri­vai senza difficoltà a casa dell’Ernesta, che abitava in via Mazzini.

Le comunicai la dolorosa notizia e le consegnai le cose personali di Gil che avevo premurosamente raccolto, poi la dovetti lasciare col suo grande dolore, perché dovevo rientra­re in brigata. E’ troppo difficile trasmettere ora il trava­glio dei sentimenti che vissi in quei giorni e se una perso­na ha dell’umanità, mai si abitua a considerare “normale” la morte di un giovane.

Dopo il triste episodio della morte di Gil, non cercai di recuperare alla mia brigata i suoi partigiani e nemmeno quelli di Attila, perché servivano lo stesso scopo e la causa comune.

Tornai nella nostra zona iniziale ( Monte Cerere )con tutti i partigiani che avevo quando eravamo partiti, come da disposizioni del C.U.M.E.R. di Bologna.

La nostra brigata continuava ad ingrandirsi per il conti­nuo afflusso di giovani; pertanto, prendemmo l’iniziativa di trasferire la sede in una zona di maggiore respiro e affida­mento, per la migliore riuscita della nostra attività.

La nuova zona comprendeva:  Cà del Vento, l’Anzisa, Cà di Miele e altre.

Tratto dal libro ” Memorie di un cooperatore “