Ercole Valerio Cavazza

Trascrizione in italiano corrente di Eolo Zuppiroli

RACCOLTO di MEMORIE ISTORICHE di CASTEL SAN PIETRO

nella giurisdizione di Bologna

compilate da Ercole Valerio Cavazza nel 1798

dal 1501 al 1700

VOLUME 2

 Raccolto di Memorie istoriche

di Castel S. Pietro

Nella Circoscrizione di Bologna

dal 1501 fino al 1600

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Argomento della Centuria IV

Il Duca Valentino si impadronisce di Castel S. Pietro e lo saccheggia. Viene sconfitto dagli ecclesiastici. Castello è difeso dai paesani. Preso dal Gonzaga. Accadono molti tumulti. Si chiudono le chiese nel contado di Bologna interdetto dal Papa. Tumulto perciò a Castello. Assolto viene esentato da alquante tasse. Si introduce nel Castello il mercato che prima si svolgeva nel Borgo. Si fa una nuova porta. Sono esentati gli artisti di Castello e della sua giurisdizione dalla dipendenza dalle Arti di Bologna. I M.M. O.O.  introducono in Castello un Ospizio. Molti valorosi castellani vanno nella Norcia, in Germania, contro il Turco. Annibale Bruni, loro insigne capitano e condottiero, vi milita strenuamente, poi passa al soldo di Francesco II Re di Francia poi sotto Clemente VII quindi sotto Carlo V e al soldo dei Veneziani e finalmente sotto papa Paolo III. Il Governo democratico a Castel S. Pietro si trasforma in quello aristocratico. Torre e Rocca piccola donata dal Papa a Giovanni Rota di Castel S. Pietro, Chierico di camera. Paolo III passa da Castel S. Pietro, lo benedice e conferma per suo Breve le esenzioni del Mercato. Il Cardinale Alessandro Farnese dichiarato arciprete di Castel S. Pietro.  Da la Chiesa a Marc’Antonio Malvezzi. La Madonna di Poggio appare a Antonia Bendini. Le parla e quotidianamente la mantiene provvista di pane. La Villa di Poggio tenta di smembrarsi dal comune di Castel S. Pietro. Esenzione del Dazio Pesce. Il Cardinale Ascanio Marchesini, visitatore apostolico, viene a Castel S. Pietro e descrive le chiese del suo plebanato. La Compagnia della Cintura, del Rosario sono instituite in Castel S. Pietro. Monte di Pietà proposto e decretato in Castel S. Pietro. Fonte della Fegatella famosa, viene beneficata dal Senato di Bologna. Fuorusciti al confine di Castel S. Pietro incendiano e fanno ostaggi. Si reclutano castellani per Vienna contro il turco. Frate Cherubino Ghirardacci, nativo di Castel S. Pietro, dopo avere compilata la Storia di Bologna muore nell’anno 1598. Ed altre notizie.

Centuria Quarta

1501 – 1503. Il Duca Valentino occupa Castel S. Pietro. Si fa la pace e lo riconsegna, ottiene Castel Bolognese. Non rispetta i patti, Vitellozzo e gli altri si ribellano. Il duca si riconcilia e li uccide. Muore il Papa Alessandro VI Borgia. Giuliano della Rovere eletto papa col nome di Giulio II.

Il Bentivoglio vedendo il malanimo del Duca Valentino contro Bologna pensò a come meglio difendersi. In accordo col Senato spedì il 3 gennaio 1501 Mino Rossi al Re di Francia al fine di ottenere la sua protezione contro il Valentino.  Anche se questi aveva promesso che non lo avrebbe molestato se non avesse prestato soccorso ai faentini. Il Rossi, ottenuta la parola dal Re, riferì del suo buon cuore al Senato ed al Bentivoglio. Questi non stette tuttavia con le mani in mano e fece guarnire maggiormente Castel S. Pietro di genti e munizioni da bocca e da guerra e così fece delle altre frontiere del contado.

La notte del 2 febbraio venendo al 3 apparve la luna in cielo come attraversata da un dardo ed era rossa come il fuoco. La punta del dardo era rivolta dalla parte di Roma cioè al levante. Ciò fece grande stupore alle persone.

Il Valentino, che era molto arrabbiato contro Faenza per non averla potuto avere nelle mani e sottometterla, nuovamente mosse il 23 aprile il campo contro essa ma la ritrovò ben guarnita di fosse, bastioni, terragli e ripari. Cominciò a batterla gagliardamente ma con poco vantaggio.

I faentini stremati e privi di soccorso e di vettovaglie alla fine trattarono l’accordo col Duca, salva robba e persona. Accettò il Duca ma poi mancò di fede poiché, ottenuta la città ed entrato il 25 aprile, prese il sedicenne Astorre Manfredi, signore di quella e dopo pochi giorni lo fece uccidere[1].

Sentito questo fatto i bolognesi si consultarono se dovevano far resistenza al Valentino a Castel S. Pietro e al confine oppure no, fu deciso per il no, anzi essendo rassicurati dal Re di Francia, spedirono come ambasciatori Giovanni Marsigli ed Angiolo Ranuzzi a rallegrarsi col Duca dell’ottenuta vittoria.

Questi, spedì a Bologna un frate di Castel Bolognese dell’ordine dei Conventuali che domandò, a nome del Duca, Castel S. Pietro. Il Senato, che vedeva la malevolenza del Duca, licenziò il frate dicendogli che per questa richiesta avrebbero spedito un’ambasciata al Duca. A questo scopo nella stessa sera vennero a Castel S. Pietro il Marsigli e il Ranuzzi ed il frate partì a riferire al Duca la risposta.

Egli, senza attendere, venne con Vitellozzo Vitelli[2], suo condottiero, da Imola subito a Castel S. Pietro. Monsù D’Allegri, che era coi guardiani nel nostro Castello, avvisò subito il Senato esortandolo a mandar gente. Il giorno 27 aprile sul far del giorno il Duca, essendo aumentati i suoi soldati, fece intendere ai castellani, alla guarnigione e agli ambasciatori che come esercito amico voleva alloggiare nelle terre della Chiesa, salva roba e persona.

Aperte le porte del Castello, abbandonato dall’Allegri, fece subito prigionieri gli ambasciatori. La Rocca, essendo stato colto alla sprovvista il castellano Alessandro Mazzovillani, fu presa senza colpo d’armi e saccheggiata. Poi cominciarono i suoi soldati a predare bestiami e vettovaglie per tutto il comune senza alcuna pietà.

Gli ambasciatori furono tosto condotti a Casalfiumanese. Infine, spogliato il nostro Castello di viveri e di tutto, partì l’esercito e andò a Varignana, Medicina e Castel Guelfo facendo, ovunque capitavano, infiniti danni.

Giunta la notizia a Bologna il popolo, senza suono di campana, si armò in numero di 20.000 uomini, oltre le genti d’arme.  Corse parte alla piazza parte al palazzo Bentivoglio, che fece subito raccogliere molte provviste e mise in ogni luogo buonissime guardie.

Poi scrisse al Duca di Ferrara, ai fiorentini e al Duca di Mantova per essere soccorso ma nessuno gli dette bada. Solo Eleonora[3], moglie di Giovanni Giberto dei Pii da Sassuolo, Lorenzo Penachi e Ramazzotto Ramazzotti[4] da Scaricalasino vennero con fanterie a Bologna. Al Bentivoglio, avendo un buon corpo di soldati, venne in animo di attaccare il Valentino che si tratteneva nel nostro Castello. Il Duca però, udito ciò, mandò il 29 aprile Paolo Orsini[5] al Senato col pretesto di trattare un accordo ed intanto spiare la situazione. Questi, mentre era nel palazzo Bentivoglio, vide la truppa e la città ben guardata, tergiversò sull’accordo senza concludere e ritornò il giorno 30 a Castel S. Pietro.

Il Senato mandò due ambasciatori cioè Alessandro Buttrigari e Giovan Francesco Aldrovandi che, concluso l’affare, stipularono il primo maggio a Castel S. Pietro il documento per rogito del notaio Cesare Nappi. Il 2 maggio l’Orsini tornò a Bologna ove alle ore 18 alla Ringhiera degli Anziani fu annunciata la pace e la coalizione fra il Duca e il Bentivoglio con queste condizioni

1° – I bolognesi consentono al Duca Castel Bolognese.

2° – I nemici dell’una e dell’altra parte si intendono comuni nemici.

3° – Il Duca restituisce Castel S. Pietro, i prigionieri, la preda fatta a Castel S. Pietro e negli altri castelli occupati.

4° – I bolognesi pagheranno per tre mesi al Duca cento uomini d’arme per rimettere i Medici a Firenze.

Ciò fatto il Duca partì contento per la Romagna lasciando libero Castel S. Pietro ed il resto del contado.

Ma perché il Bentivoglio non si fidava del Duca fece riparare e provvedere di nuovo di vettovaglie e munizioni da guerra i castelli presi dal Valentino, e sopra tutto Castel S. Pietro.

Spiacque un tale fatto (la cessione di Castel Bolognese) a tutta la città e al popolo di Bologna perché era un bel paese e forte di Rocca e mura.

Il Duca, essendo uomo dedito alla lascivia, trovandosi fra Rimini e Ravenna rapì una damigella della Duchessa di Urbino, Elisabetta Gonzaga, che andava a sposarsi, uccidendo gli accompagnatori. Dopo averla violata la chiuse nella Rocca d’Imola.

Il Senato di Venezia e molti Signori chiesero la liberazione della donna ed egli la negò sempre trattandola vituperosamente.  Anche questo fatto contribuì ad aumentare l’ostilità contro di lui.

Il Duca non aveva rinunciato a volersi impadronire di Bologna e, venuto a Imola, il primo settembre fece citare a Roma, con Breve apostolico, il Bentivoglio con la famiglia per fargli lasciare il governo. Questi invece mandò ambasciatori al Papa ed al Valentino ricordandogli la pace e patti segnati a Castel S. Pietro. Il Valentino, nulla curando l’ambasciata, rimandò senza risposta gli ambasciatori.

Il Bentivoglio vista la mala fede del Valentino, rinforzò Castel S. Pietro di guardie poi, l’anno seguente 1502, spedì una nuova ambasciata al Duca invitandolo a non provare a infrangere la pace non avendogli dato alcun motivo.

Il Duca si adirò e replicò di volere assolutamente il Governo di Bologna. L’Orsini[6], Vitellozzo, Petrucci[7] e Baglioni[8], che erano dell’esercito del Duca e che erano intervenuti alla pace fatta a Castel S. Pietro, non vedendo ragione di infrangerla, si ribellarono al Duca e si offrirono a Bologna.

I bolognesi, in questa occasione, si armarono ed il Bentivoglio fece molte provviste per la città e contado di viveri e munizioni. L’11 settembre ordinò che tutti i cittadini ed altri portassero alla città e ai castelli i frumenti, le robe e si vuotassero le teggie e i fienili, poi il 21 ottobre, fatto un numeroso esercito, lo mandò a Castel S. Pietro sotto la condotta di Annibale e Ermes Bentivoglio[9].

La notte del 21 ottobre il Duca, che si era avanzato verso il nostro Castello, vedendo la situazione sfavorevole si ritirò abbandonando l’impresa.

L’Orsini, il Vitellozzo e il Baglioni che si erano ritirati dal Duca e andati con la loro soldatesca fino a Dozza, scorrevano nell’imolese azzuffandosi con gli altri soldati del Duca. Questi vedendo accrescersi le forze nemiche si ritirò a Imola perdendo muli e bestiami.

I Bentivoglio, fermato a Castel San Pietro l’esercito di 1.200 cavalli fra uomini d’arme e cavalleggieri ed altre bande di pedoni armati in numero di 6.000 con sei bocche d’artiglieria, aspettarono al nostro Castello l’Orsini, il Vitelli e gli altri ribelli al Duca.

Intanto avevano già spediti ambasciatori al Papa per non essere i primi a rompere gli accordi fatti l’anno scorso come anche per conoscere il suo pensiero.

Il Duca che aveva saputo dei tanti armati a Castel S. Pietro e che i confederati avevano battuti i suoi, si ritirò nella Rocca d’Imola.  Quindi procurò di riconciliarsi con l’Orsini ed il Vitellozzo[10]. Giunsero a Imola intanto quattrocento lance francesi per la via di Ferrara sotto il comando di Ciamonte[11].

Il Legato Giovan Battista Orsini intromessosi tra fra il Bentivoglio ed il Duca fece tra loro la pace e, restituiti i muli e i bestiami, furono richiamate le genti da Castel S. Pietro. Saputo ciò il Papa restò contento e nel gennaio 1503 a Bologna e nel contado si fecero grandi feste.

Quindi il Papa elesse nel mese di giugno per Legato di Bologna Federico Sanseverino, nemico mortale dei Bentivoglio che scrissero al Papa di non volerlo.

Il 18 agosto 1503 Papa Alessandro VI morì. Si disse avvelenato inavvertitamente dal vino preparato dal Duca Valentino per i cardinali più ricchi, per averne poi egli le entrate ecclesiastiche. Nello medesimo convito anche lo stesso Duca risultò avvelenato ma prese tanti rimedi che scansò la morte.

Nel conclave entrarono 24 cardinali italiani e 12 oltramontani, elessero il 22 settembre Papa il cardinale di Siena Francesco Piccolomini col nome di Pio III. Il suo pontificato fu breve, morì il 18 ottobre.

La S. Sede restò vacante per poco tempo poiché, adunato il conclave in ottobre, i cardinali alla fine del mese elessero pontefice il cardinale Giuliano della Rovere che prese il nome di Giulio secondo.

Un gruppo di 40 balestrieri del Duca di Ferrara, poco amico dei bolognesi, che andavano verso la Romagna, furono assaliti, per ordine del Bentivoglio, dai terrazzani di Castel S. Pietro e, dopo poca resistenza, svaligiati.

Al Bentivoglio premevano molto i seguaci del suo partito, fra questi c’era Ottavio Riario, Signore di Imola, cacciato dalla sua città dal Valentino. Voleva rimetterlo nella sua signoria e togliere la città al Duca.

Quindi il 13 novembre spedì il figlio Ermes Bentivoglio con molta gente a Castel S. Pietro con l’intenzione poi di fare una sorpresa ad Imola oppure averla per trattativa. Non riuscì ed altro che dare gran spesa a Castel S. Pietro e dovette ritornare a Bologna con le trombe nel sacco.

1504 – 1507. Scontri a Imola tra i Sassatelli e i Vaina. Tremendo terremoto che dura per 40 giorni. Segue una grave carestia. Uccisione dell’ebreo Salem e altri crimini. Il Bentivoglio convocato a Roma rifiuta. Papa Giulio II assolda gente ed ha l’appoggio del Re di Francia. Bentivoglio resiste e il papa interdice la città. Marchese di Mantova assedia e prende Castello. Bentivoglio abbandona Bologna. Giulio II a Castello poi a Bologna.

All’inizio di gennaio 1504 fu mandato a Bologna come governatore Giovanni Lumellino al posto di Cesare Naccio. Narra la Cronaca Secondinari che alcuni di Castel S. Pietro, carcerati per una questione che non ci è nota, il 12 marzo furono avvelenati con altri 12 prigionieri fra quali Ser Delfino di Nicola di Munzone. Furono così puniti per evitare disordini popolari.

A Imola c’erano due forti famiglie i Sassatelli e i Vaina, questi ordirono una congiura per cacciare i Sassatelli. Radunarono molta gente e un buon numero di bolognesi. Al principio di maggio entrarono in città e, scorrendola per ogni dove, si fortificarono. I Sassatelli chiamarono in aiuto i forlivesi. Si venne a battaglia e furono sconfitti gli armati dei Vaina dei quali ne morirono sedici e molti furono feriti fra quali Messer Antonio Magnani.

 Allo spirar dell’anno si videro molti segni celesti che furono avvisi dell’ira di Dio. Si cominciarono a sentire

terremoti, insoliti in inverno, tanto violenti che sembrava che la terra avesse perduta la sua stabilità. Il timore negava la fuga e si vedevano ed udivano, ora qua ora là, aperture della terra da cui uscendo muggiti, sembrava che si aprissero gli abissi. Non si trovava luogo sicuro nelle abitazioni, cadevano le case sopra e sotto le macerie morivano le povere creature.

Il 2 gennaio 1505 per un’ora intera dalle ore 9 fino alle 10 continuò a scuotersi la terra, durò questa funesta vicenda quaranta giorni, come lasciarono scritto i nostri cronisti bolognesi. I castelli di Fiagnano, Corvara, Galegata, Vedriano ed altri furono lasciati dagli abitanti e restarono quei municipi abbandonati.

Nel nostro Castello i merli delle mura pubbliche e delle torri si rovesciarono. Le case del Beneficio di S. Biagio poco distanti dalla arcipretale furono distrutte e molti altri edifici patirono la stessa sorte. Così Iddio dimostrò che fuori di lui ogni cosa è instabile.

Non bastando il terremoto venne al principio dell’anno una neve così alta che non se ne ricordava una eguale e durò fino a febbraio. Poi i fiumi, i torrenti e i condotti, gonfi d’acque, annegarono le vicine campagne.

Non si trascurarono in queste lacrimevoli circostanze le orazioni e le penitenze. Fu rinnovato l’uso della Salutazione Angelica nel mezzo giorno colle campane, usanza che si era tralasciata in occasione delle guerre. Ma non bastarono questi atti di pietà per placare l’ira divina. Infatti, essendo in gran parte rimasti incolti i terreni e trascurati i lavori, seguì una grande carestia nella quale non solo si alzò il prezzo delle vettovaglie ma neppure si trovavano. Andò il valore del grano a 34-36 paoli la corba.

Le radici dell’erbe, le poche che si trovavano, erano una squisitezza per i miserabili. All’avanzarsi del freddo si sentivano, di giorno e di notte, voci orribili che esclamavano: io mi mojo di fame. Per lo stento del freddo e la mancanza di alimento, cadevano le persone senza vita.

Lorenzo Campeggi, nobile cittadino bolognese, riuscì a portare soccorso. Procurò da lontano dei frumenti, parte ne assegnò alla città e parte al contado distribuendone nel territorio ai quattro principali castelli cioè S. Giovanni in Persiceto, Castel Franco, Castel S. Pietro e Crevalcore. Alle taverne e ai forni furono poste le guardie per difenderli dal popolo affamato.

Abbiamo, dalle memorie dei nostri agostiniani di Castel S. Pietro, che questa comunità dette loro più di 600 lire per dispensarle ai poveri e le famiglie dei Comelli, Fabbri, Ghirardacci e Dalforte fornirono sessanta corbe di granelle, di cui non sappiamo la specie, che, ridotte in farina, se ne fecero focacce.

Era allora priore del convento Frate Adiodato Battisti e suo vicario Fra Bartolomeo, ambi di Castel S. Pietro, che furono i dispensatori delle elemosine tanto ai paesani che ai territoriali di Castel S. Pietro.

A codesta calamità si aggiunse una epidemia nei bovini che, durando tutto luglio, agosto e settembre, recò incalcolabili danni.

Non ostante che il bolognese con la città fosse flagellato dalla Mano Suprema, si perpetuavano gli infiniti mali dei sostenitori bentivoleschi. Marsilio Nardi, uomo facoltoso ma facinoroso, molto seguito nel paese anche per i tanti parenti, aveva inteso che l’ebreo Salem, residente nel ghetto di questo castello, per paura dei saccheggi, aveva inghiottito dei preziosi, perché non gli fossero tolti. 

Il Nardi, col compagno Messer Ugo, presero assieme il giudeo e lo uccisero.  Nulla temevano dai paesani, ciò non ostante sentendo dei brontolii, fuggirono verso Castel Guelfo. In quel territorio il Nardi vide un certo Egesio Cesari che essendo alla guardia dei suoi frumenti, stava cacando. Credendo che gli facesse la posta, lo assalì, gli tagliò la gola e gli tagliò anche i genitali.  Il Bentivoglio, che amava teneramente il Nardi col suo compagno Ugo, nascose tali fatti, per ciò molti mali si facevano grazie a questa protezione.

I Malvezzi, i Marescotti ed altri nobili, banditi dalla città non che privati dei loro beni, che si trovavano a Roma benvoluti dal Papa, non mancarono di preparare la vendetta.

Giulio II era stato a Bologna e aveva, nel tempo che era stato vescovo, sperimentato sia Giovanni Bentivoglio, che voleva il totale governo della città, sia il vivere licenzioso dei suoi figli. Sapeva anche che il Legato non poteva far fronte a questa situazione.

Tutte queste cose irritavano l’animo del Papa tanto più che il Legato Giovanni Lomellini aveva abbandonato la legazione mettendo Altobello Avenoldi di Brisighella come suo sostituto. Il Pontefice revocò Altobello e mise come Legato Nicolò Lomellini, parente del precedente legato, per vedere se colle maniere di questo si mettessero in sesto i Bentivoglio.

Giunto l’anno 1506 il 15 gennaio il Legato venne a Bologna accolto umanamente da tutti eccetto che dal Bentivoglio che, pur continuando a comportarsi come prima, non poté evitare di incontrarlo. Questi con Carlo Malvezzi e Sebastiano Agochi, istigarono tanto il Papa che citò a Roma Giovanni coi suoi figli.

Egli disprezzò la chiamata del Papa, persuaso anche dalla moglie Ginevra.  Allora il Papa deliberò di venire a Bologna e restituire il suo governo alla Chiesa. Assoldò Giulio molta gente, lo stesso fece il Bentivoglio. Ma il cardinale francese Giorgio d’Amboise[12] procurò aiuto da Lodovico XXII[13], Re di Francia, che subito ordinò a Carlo di Ciamonte, suo luogotenente in Italia, di avviarsi con tutto l’esercito, che si trovava nello stato di Milano, alla volta di Bologna al servizio del pontefice.

Ciò saputo il Bentivoglio fece pubblicare la grida che il Re di Francia veniva col papa contro i bolognesi e incitò tutti i ministri del governo a sostenere intrepidamente il loro ministero.

Poi mandò a tutti i castelli i suoi figli ad animare gli abitanti a stare forti per difendere la libertà. A Castel S. Pietro venne Ermes Bentivoglio, accompagnato da Carlo Bianchi che lasciò per commissario. Chiamò il popolo in piazza e parlò così ai paesani: Non vi spaventi genti di Castel S. Pietro la grandezza delle prossime miserie e delle nuove calamità. Non perdetevi d’animo per danni ricevuti dal nemico in passato. Se misurate i loro insuccessi colle vostre vittorie più volte riportate, sono persuaso che pure questa volta darete prova del vostro valore. A buon conto nulla vi manca di provviste. Bologna non è lontana e anche se nulla avete perduto potrete ora rifarvi sopra un ricco nemico. La comune salvezza vi sia di stimolo alla vittoria, onde oltre la gloria ne riporterete dal Senato il dovuto compenso.

Alla fine del breve discorso tutti promisero di stare saldi fino allo spargimento del sangue sicuri di riportare una degna retribuzione.

Nello stesso tempo il Senato mandò a Roma Ser Giacomo del Pambaro a saggiare la volontà del Papa verso la città. Rispose il Papa che voleva Bologna in proprie mani e rimediare al suo mal vivere a costo di perdere la mitria e il papato. L’ambasciatore riferì il tutto al Senato ed al Bentivoglio. Questi si infuriò più che mai e cercava ogni giorno di offendere quelli che aveva in sospetto di esser vicini alla chiesa e al papa.

Il 30 settembre fu preso a Castel S. Pietro un famiglio di Bernardino Gozzadini e, col pretesto che portasse lettere di Giovanni Gozzadini al Papa contro Bologna, fu fatto ammazzare. Il Gozzadini temendo che un simile caso potesse accadere a lui volle fuggire di città. Montato a cavallo si levò un rumore dietro e accadde proprio ciò che temeva, fu atterrato da cavallo, gli fu segata la gola e cavati gli occhi. I suoi panni, tagliati e insanguinati, furono portati in una sporta alla di lui infelice moglie.

Una tale barbarie unita alle altre che giornalmente si commettevano sollecitò il viaggio del Papa a Bologna. Passata la Marca e giunto a S. Arcangelo sul principio di ottobre mandò Antonio Dalmonte, Uditore di camera, al Senato di Bologna a fare intendere che il Papa veniva a Bologna come a casa sua perciò si disponessero a riceverlo come padrone. Il Senato e il Bentivoglio risposero all’ambasciatore che se il Papa voleva venire venisse ma senza truppa. Replicò l’Uditore che tali ordini non riceveva chi comandava. Il Papa, intesa la baldanza bentivolesca, affrettò il viaggio nella Romagna e giunto a Forlì spedì l’Interdetto al Senato, alla città e al contado. Pervenuto che fu l’Interdetto, il Senato e il Bentivoglio ordinarono a tutta la truppa di mettersi in difesa.

Papa aveva fatto suo generale il Marchese di Mantova[14] e gli aveva imposto che venisse contro Bologna avendo già preso Castel Bolognese e Casalfiumanese. Arrivato ad Imola, passò l’11 ottobre sopra Castel Guelfo, Medicina ed il 12 venne verso Castel S. Pietro predando bestiami ed altro. Quindi, fingendo di non voler far altro, si ritirò a Imola.

Ma la notte seguente, alle ore 4 di notte, si approssimò al Castello e chiese al commissario Carlo Bianchi la resa. Negò questi dargliela anzi disse essere prontissimo alla difesa della terra e, perché la notte non favoriva per la sua oscurità, fece accendere molte fascine ai capi strada del Borgo e al Castello in modo che si poteva vedere come a chiaro giorno.

Avvicinatosi il nemico al Castello, cominciò a battere la porta maggiore, ma questa era stata ben chiusa internamente con legni, terra e materiali e non poté essere presa. Vi si pose il fuoco ma anche dopo avere preso il Cassero la truppa non poteva averne l’ingresso. La resistenza che fecero i paesani non era valorosa come quella dei soldati, ciò non ostante si durò per un bel pezzo a battere l’ingresso.

Finalmente, compreso di non potere più resistere, il commissario Bianchi cedette l’ingresso al nemico salva roba e persona. Militarono strenuamente entro il Castello per le parte bentivolesca, secondo ci lasciò scritto il Vanti, Ercolesso Bruni, Rondone Rondoni, Eliseo Barbieri, Guidotto Zachiroli, Ferro de Fabbri, Cavazzino Cavazza, Sprone Chiari e Nanne Martelli che dalle ore 4 ½ fino alle sette della stessa notte resistettero ad ogni assalto.

il Senato ed il Bentivoglio, avuta la notizia che il Duca di Mantova era a Castel S. Pietro con un forte esercito e che i presidi e i terrazzani difendevano valorosamente la terra e le rocche, preparò tutta la truppa e la mattina del 13 mandò in soccorso alla volta di Castel S. Pietro trecento cavalleggieri e trecento fanti al comando di Ermes Bentivoglio.

Avevano questi divisa bianca e gialla con un bellissimo stendardo su cui era ricamata la Impresa inventata dallo stesso Ermes cioè una vespa sopra una testudine col motto sopra: Non penetrat.  Quando fu ad Idice seppe che sull’ore 7 della notte antecedente il Duca di Mantova aveva preso Castel S. Pietro e quindi ritornò in città.

Nella truppa del Duca poi si assoldarono alquanti di Castel S. Pietro che saranno poi dopo banditi come sospetti dello stato indi segnati nella nota dei fuorusciti cioè Marsilio Nardi, Bartolomeo degli Scrigni, Ugo di messer Ugo e Cavazzino Cavazza.

Il 20 ottobre il Papa entrò in Imola accompagnato da 20 cardinali col resto dell’esercito condotto dal Marchese Colonna di dove pubblicò la scomunica ed interdetto alle chiese della città e contado di Bologna.  Poi Carlo Ciamonte (Chaumont) generale dei francesi spedì a nome del Re di Francia un messo a Bologna in compagnia di un esecutore di Camera apostolico. Il messo fece sapere al Bentivoglio per parte del suo Re come la sua corona era obbligata con giuramento alla difesa di S. Chiesa contro chiunque, che perciò non si meravigliasse se questa volta gli mancava la sua protezione. Inoltre, per parte del suo sovrano, l’ammoniva a rinunciare a quello che malamente poteva perdere e a conservare il suo onore piuttosto che affrontare un mare di miserie e restare a mani vuote, essendo ormai le armi superflue alla sua difesa.

Ciò fatto l’esecutore affissò l’interdetto a vista di tutti. In tutti i castelli presi fu fatta simile affissione onde restarono interdetti i divini offici e chiuse le chiese. Ciò produsse nel popolo spavento e rammarico. Il giorno 31 il Marchese di Mantova, capitano delle genti del Papa venne a Castel S. Pietro indi passò una banda di soldati a Liano ove, sentita la presa di Castel S. Pietro, i lianesi aprirono le porte ai papalini.

Il Bentivoglio vedendosi alle strette ed abbandonato da quella corona in cui aveva posto tutte le sue speranze, il primo novembre, per evitare anche un turbamento del popolo per essere privo dei divini offici e chiuse le chiese, la notte fra le ore 9 e 10 con tutta la sua famiglia e 400 cavalli uscì di Bologna lasciando al Papa il libero dominio della città.

Il dì seguente la partenza del Bentivoglio, i bolognesi, preoccupati per la tranquillità della patria, mandarono ambasciatori al Papa non solo per il riconoscimento della loro sottomissione ma anche per averne il perdono e l’assoluzione dalle censure. Furono per ciò spediti Francesco Aldrovandi ed Angiolo Ranuzzi, cavalieri di somma fiducia del popolo, che si portarono ad Imola al Papa che li accolse con paterno amore e subito spedì a Bologna Galeotto Franciotti dalla Rovere, suo nipote cardinale e Giorgio d’Amboise dai quali furono levate le censure e il 4 novembre furono aperte le chiese della città e del territorio.

Liberata Bologna e territorio l’11 novembre il papa arrivò al nostro confine di Castel S. Pietro sopra una sedia seguito da molti principi e 22 cardinali fra quali era Giovan Stefano Ferreri vescovo della diocesi bolognese. Trovò qui una grande turba di nostri villani che, disposti in due ali, tenevano rami di olivo in mano e gridavano ad alta voce: Viva il Papa! Viva la S. Sede!

Arrivato al Borgo ebbe un simile incontro coi religiosi cioè il parroco col suo clero e gli agostiniani di S. Bartolomeo a cui seguì la pubblica rappresentanza che, genuflessa, ricevette la papale benedizione. Seguì un alto schiamazzo di evviva e di battimani. Giunto alla chiesa dell’Annunziata si rivolse colla sedia alla porta del Castello e lo benedì colla mano e diede l’assoluzione dall’Interdetto, seguì a questo fatto un nuovo clamore di evviva. Nel Castello entrò monsignor Zabarella, gli furono offerte dal castellano le chiavi della Rocca grande, egli toccatele le restituì subito e se ne ritornò al Papa che proseguiva il viaggio a Bologna.

Quando il Papa fu a metà della strada da Castel S. Pietro a Bologna, cominciò una dirotta pioggia che lo accompagnò fino alla città. Si fermò agli Scalzi e fece solennemente il suo ingresso. Il 18 ordinò che il Senato non fosse più composto di sedici componenti, denominati Riformatori, ma di quaranta. Esso li nominò tutti a vita e decretò che non potessero concludere alcuna cosa senza il permesso del Legato. Poi il giorno successivo fu fatto giurare fedeltà in forma solenne alla città e al contado. E poiché il contado era composto da diverse sezioni, territori e castelli per questi promisero Dandolo Calderini e Nicolò Simoni.

Successivamente, perché nella città come pure nei principali castelli vi erano stemmi ed arme gentilizie del Bentivoglio, il Papa ordinò il 3 dicembre che ciascun luogo abolisse e levasse via tali arme e stemmi sotto la pena di scudi 10 d’oro per ciascuna arma.

La comunità di Castel S. Pietro che l’aveva nel prospetto inferiore della porta maggiore del Castello esternamente alla Roca piccola tosto la levò e la sostituì con quella di Giulio II rappresentante una rovere, che ancora si vede incisa su macigno, benché corrosa dal tempo.

Il 24 dicembre i partitanti bentivoleschi, che non si erano ancora voluti sottomettere furono confinati cinquanta miglia lontani di Bologna. Fra questi vi erano, al riferire del Vanti, Teseo Barbieri, Nane Tampolini, Sante Ghirardacci ed altri con Marsiglio Nardi che fu nominato nell’elenco dei banditi come uno dei capi.

Nello scorso anno 1506 non si era radunato il Governo per formare i nuovi ufficiali e ministeri.  il Papa che desiderava sistemare il tutto, ordinò che si procedesse all’estrazione degli Uffici Utili della città e contado, quindi il 2 gennaio 1507 alla sua presenza si fece l’estrazione delle podesterie.

Il 12 gennaio essendo ancora il Papa a Bologna fece pubblicare alla ringhiera del Podestà un Breve che quelli che avevano seguita la parte bentivolesca e fossero ritornato in patria avrebbero avuto il perdono. Chi invece si fosse ostinato sarebbe stato dichiarato ribelle di S. Chiesa e subito la confisca dei beni. Nello stesso breve furono elencati i principali fazionari in numero di 80. Fra questi c’era Marsilio Nardi di Castel S. Pietro e i figli di Ramazzotto con altri suoi colleghi di Castel S. Pietro. Il Nardi che fu micidiale al servizio bentivolesco, fu poi confinato a Tossignano.

Il 16 gennaio il Papa per suo Breve deputò in castellano della Rocca di Castel S. Pietro Carlo Prati. Questi poi aveva fatto sapere al Papa della sua sostituzione con Giovan Antonio Galassi.

Il Pontefice al suo ingresso in Bologna aveva levati molti Dazi e fra questi quello delle moline, per il quale accadevano nel contado infinite spese ed estorsioni. Si tassava 28 soldi per ogni bocca di quelli che avevano più di 7 anni e che non passavano i 70, tanto maschi che femmine eccetto i garzoni.  Il Papa lo ridusse a 21 soldi per bocca, imposta che fu poi abolita, e furono tassati i buoi e le vacche a ragione di lire 6, 10 per ogni paio e 12 soldi per ogni bocca di braccianti, eccetto quelli minori di 10 anni.

Il 22 febbraio, dopo avere sistemato le cose di Bologna, se ne partì alla volta di Roma accompagnato fino a Castel S. Pietro dal Legato cardinale Antonio Dalla Rovere.

Bernardo e Giovanni Muzzo comprarono terreni dagli uomini di Castel S. Pietro in vicinanza del fiume Sillaro ove edificarono una tintoria da panni, lane e tele. Questa è la prima officina per colorare tessuti che fu eretta nel nostro Castello, dove i discendenti dei Mazza hanno sempre esercitata questa arte fino alla fine del 1600. Questo edificio ampliato poi passò in mano di Girolamo Dalle Vache con altri terreni adiacenti.

1508 – 1511. Riprendono le lotte tra le fazioni, cacciata dei Marescotti. Tentativi dei Bentivoglio di rientrare a Bologna. Trasferimento del mercato dal Borgo al Castello. Giulio II torna a Bologna e concede esenzioni. Il Papa alla conquista di Mirandola.

Essendo stato estratto per vicario o sia Podestà di Castel S. Pietro per l’anno 1508 Claudio Achilini ed essendo però egli molto vecchio il nuovo governo lo sostituì col figlio Giovanni.

Sedati i tumulti il Papa aveva lasciato Bologna in pace. Non passò però molto tempo che ripresero le lotte tra le fazioni. I Marsigli coi loro aderenti detestavano i Marescotti, perché fedeli al legato. Questi perciò il 5 gennaio si armarono e i Marsigli, i Pepoli ed altri fecero lo stesso. Il Governatore comandò all’una e all’altra parte a non muoversi da casa, ma Ercole Marescotti con due figli, lasciati sei in Bologna, partì per Roma. Erano i Marescotti i più valenti uomini della città.

Per tale partenza Galeazzo e Francesco Preti uniti ai Pepoli, Felicini, Fantuzzi, Pianesi, Chiari, Bazani, Martelli e Malvasia si armarono in 200 andarono a casa Marescotti e vi posero fuoco, rubando tutto quello che poterono. Poi andarono alla porta di S. Mamolo e ivi si fortificarono eleggendo per loro capitano Gaspare Scappi, uomo animoso e valente. Successivamente ad essi si unirono molte altre famiglie, che avevano introdotto in città uomini valenti e facinorosi. Il Governatore veduto un tale scompiglio si adoperò con ogni mezzo per che ritirassero le armi. Alla fine i ribelli capitolarono a condizione che fossero perdonati e che tutti i Marescotti fossero mandati fuori di città.  Inoltre che le loro case fossero lasciate rovinare fino all’ultima pietra. Tutto fu accordato e la città si ricompose.

In questo fatto si erano mischiati i castellani Galeazzo Serpa e Giacomo Campana, che non si vollero adattare non fidandosi del Legato, e perciò furono banditi come ribelli. Partiti poi dal bolognese si assoldarono con i veneziani nella guerra contro i tedeschi sotto il comando del Conte Ugo Pepoli.

 Il 20 gennaio i Marescotti furono condotti da 100 balestrieri del sig. Lodovico da Carpi, Alberto Castelli ed Antonio Fantuzzi fino a Castel S. Pietro ove, ricevuti da questa guardia, furono accompagnati fino ad Imola.

Per la nuova imposizione sui buoi fatta da Giulio II, venne a Castel S. Pietro il dott. Giovanni Campeggi per l’esazione di 200 lire di tasse.

Il Papa intanto che aveva saputo di tale sedizione e molto più perché temeva che si intendesse con essa rimettere i Bentivoglio a Bologna, spedì a Castel S. Pietro Ramazzotto con 400 fanti e dichiarò Legato di Bologna il cardinale imolese Francesco Alidosio con amplissima autorità pontificia. In questo tempo i fratelli Riniero e Nicola Ranieri figli del fu Giovanni, vedendosi poco sicuri a Castel S. Pietro per le fazioni che sembravano volere risorgere, chiesero di essere fatti cittadini di Bologna. Il nuovo Senato ne segnò il decreto il 5 giugno. Da questi fratelli venne la discendenza di Valerio Rinieri che fu scrittore accreditato dagli uomini illustri di Bologna.

L’8 giugno il nuovo Legato pontificio di Bologna passò da Castel S. Pietro ed andò immediatamente a Bologna. Al suo ingresso fu fatto non meno onore che fosse stato il Papa. Appena giunto chiamò il Senato e gli propose che si trovasse il modo di rifare la casa dei Marescotti ma perché vi furono diverse opinioni, niente si risolvette. Il Legato comunque fece in seguito carcerare molti padri e fratelli dei congiurati anti Marescotti.

Tale fatto spiacque a molti e perciò si accese in alcune famiglie nobili un nuovo desiderio di far rientrare i Bentivoglio. L’intento fu scoperto e alcuni dei nuovi congiurati fuggirono. 

Perché la Rocca di Castel S. Pietro non era stata mai così ben guardata come al tempo della castellania di Carlo Prati, così i Senatori il 10 luglio lo elessero di nuovo come castellano per un triennio.

Ai Bentivoglio, che sapevano quanto era successo, fu fatto cenno di accostarsi velocemente alla città. Perciò vennero il 16 agosto fra Mirandola e il mantovano con molta gente per tentare il rientro, non sapendo che il loro progetto era stato scoperto. Furono assaliti dal Duca della Mirandola e, dopo un lungo combattimento, furono sconfitti. In questa battaglia, valorosamente combatté Andrea Campana da Castel S. Pietro con Taddeo Vighi da Medicina, ma la mala sorte volle che restassero prigioni entrambi con Guido Bargellini e Nicolò da Bazzano. Furono fatti prigionieri con altri 18, dei mirandolani molti restarono feriti.

La notizia fu subito riferita a Bologna alle ore 22 italiane per cui si fece gran festa, molto più perché tutti quei prigionieri erano i più bravi che avessero i Bentivoglio. Il 27 furono menati a Bologna per porta S. Felice ove vi fu tanto popolo quanto se vi fosse stato il Papa. Erano legati a cavallo senza sella, furono condotti attorno alla piazza poi alle carceri e il giorno 30 fra le ore 14 e 15 italiane furono impiccati ad un paio di forche quadrate in piazza.

Il 2 ottobre Francesco Maria Dalla Rovere, Duca d’Urbino nipote del Papa, venendo a Bologna fu incontrato Castel S. Pietro da molta nobiltà e dal Legato col quale passò poi alla città.

Il 14 ottobre fu emessa una Bolla pontificia che dichiarava scomunicati Principi, Marchesi, Comunità e territori e chiunque desse ricetto ai Bentivoglio. Fu fatta l’affissione in Castel S. Pietro il giorno di Ogni Santi alla chiesa parrocchiale.

Contemporaneamente fu pubblicata una grida, emanata il 22 ottobre d’ordine Papale, che tutti i contadini del contado venivano esentati da tasse inferiori alle 10 lire. Essendo molto odiato il cardinale Legato per la sua crudeltà fu improvvisamente chiamato a Roma e nel seguente novembre passò di nascosto da Castel S. Pietro per la Romagna lasciando al governo della città Angiolo Leonini.

Gli uomini della comunità di Castel S. Pietro, avendo sofferto danni e spese nei tempi addietro a motivo della guerra, ricorsero al Senato al fine di averne il ristoro.  Ascoltò il Senato la giusta richiesta e perciò decretò il 4 novembre che per 10 anni fossero esentati col loro Comune delle tasse solite a pagarsi per i cavalleggieri papalini stanziati a Bologna e la loro tassa fosse ripartita alle altre comunità, come fissato dal Conte Ercole Bentivoglio, dal Cavalier Giacomo Dall’Armi e da Alberto Albergati. A costoro fu pure fu concessa la facoltà di farsi rimborsare le spese sofferte per avere ospitato il Legato, da distribuirsi e ripartirsi tali spese alle altre comunità soggette a Castel S. Pietro,

Nell’anno seguente 1509 abbiamo poco da narrare perché le cronache e carte degli archivi non ci danno che scarsa materia.

Il 29 giugno, festa di S. Pietro, venne una pioggia così forte che allagò le vicine campagne. Il rio della Scania, quello dei Ghiraldi, la via del Cariolo e via Viara nel nostro comune di Castel S. Pietro furono tutte allagate ed abbattute le siepi di confine. Il torrente Sillaro, gonfiandosi più di ogni altro, superò le sponde e fece un lago presso al ponte.

Il 25 agosto Bertonio figlio del notaio Ser Pier Antonio dalla Muzza di Castel S. Pietro fu assolto dal Podestà di Bologna previo pagamento della multa di lire 200 per le ferite inferte a Maestro Rondone.

Dalli atti della podesteria del nostro Castello ritroviamo che fu Carlo Zambeccari estratto Podestà o sia Vicario per il primo semestre 1510.

La compagnia di S. Caterina che officiava nella sua Cappella presso la parrocchia, per non disturbare le funzioni di questa, supplicò il vescovo Card. Giovanni Stefano Ferrario per avere la facoltà di erigere in alcune sue case un oratorio ove recitare i divini offici e celebrare la messa. Il vescovo aderì il 16 febbraio alla istanza salvo l’assenso del parroco e diritti parrocchiali. Aveva questa compagnia oltre gli stabili rurali anche due ospitali nell’abitato di questo paese, uno nel Borgo per i viandanti e l’altro entro il Castello per i preti.

Il mercato si faceva da tempo immemorabile nel Borgo di questo castello nella via romana. Qui a volte accadevano tumulti e baruffe mentre il Castello declinava di abitanti e di fabbricati. La Comunità perciò fece istanza al Senato affinché il mercato venisse trasferito entro il Castello.  A questo ricorso il Reggimento aderì prontamente con un decreto in data 13 maggio 1510. 

Ma perché non bastava questo decreto fatto dal Senato se non era approvato dal Legato, la Comunità ricorse con supplica al Legato per la sua approvazione. Esso rilasciò il Decreto in data 23 maggio 1510. Nell’archivio municipale si conserva l’autenticato fra gli altri documenti del paese. Si enuncia in esso la facoltà e si conferma il diritto comunitativo di pesare, misurare le merci che intervengono al mercato e le altre esenzioni accordate nell’anno 1411 alla università degli uomini di Castel S. Pietro.

Il Papa che aveva assoldato nuove genti e raccolte nella Romagna, volendo cacciare d’Italia il Re di Francia, ne fece qui l’adunata. L’19 agosto arrivarono 400 spagnoli nel bolognese e nel passare da Castel Guelfo e Castel S. Pietro fecero tanto male come fossero stati nemici.

Giulio II fece poi sapere ai bolognesi che voleva venire a Bologna e perciò il 10 settembre mandò una Grida che ognuno pulisse ed accomodasse le vie perché era a Loreto e veniva a Bologna. Così infatti avvenne poiché, essendo stato ad Imola il 21, nel seguente giorno 22 settembre passò a Castel S. Pietro ove fu incontrato da Gozzadini e Ghisilieri che gli presentarono il pubblico ossequio. Sedeva il Papa sopra una sedia bellissima col triregno in capo accompagnato da 20 cardinali e 6 ambasciatori delle potenze imperiali.

Il 15 ottobre morì il card. Stefano Ferrario vescovo di Bologna. Intanto il Papa, essendo in Bologna e sentendo che i Bentivoglio e i loro alleati si trovavano a Spilamberto, chiamò a sé alcune truppe che erano nella Romagna. Quindi Messer Gentile Sassatelli imolese passò tostamente dal nostro Castello con 600 fanti che poi andarono a Bologna ad unirsi agli altri per rigettare i bentivoleschi che erano avanzati e coi francesi erano entrati nel contado a Castelfranco.

Il 19 novembre il Duca di Armes mandato da Massimiliano[15] in soccorso del Papa per andare nella Romagna con 400 uomini d’arme, non ostante che fosse al soldo pontificio, danneggiò i dintorni di Castel S. Pietro come un nemico.

La viglia di Natale arrivò una grida del Papa con la quale dava molte esenzioni ai bolognesi, al suo contado e ai castelli a richiesta del Confaloniere e dei Massari dell’Arti. La grida tra le altre cose prevedeva:

1° – Che tutti i Comitatini fossero liberati da tutte quelle spese che solevano pagare ai soldati.

2° – Che l’imposta dei buoi ai contadini fosse permutata in altre gravezze come fosse piaciuto ai collegi di Bologna senza però danno delle finanze della Camera.

3° – Che le cause civili e criminali si facessero da Giudici ordinari, mentre prima si facevano dal Senato e dovendosi osservare gli Statuti della città.

4° – Che i deputati alla custodia delle fortezze non durassero più di un anno, mentre per l’addietro vi stavano a piacimento e che i custodi fossero bolognesi e non forestieri.

All’inizio di gennaio del 1511 il Papa partì da Bologna per la volta della Mirandola[16]. Il 5 gennaio venne una neve all’altezza di tre piedi e le truppe pontificie non potevano muoversi.  Il Papa se ne ritornò ben presto a Bologna.

Angelo David di Tossignano, banchiere ebreo, che soggiornava in Castel S. Pietro, vedendosi inviso e temendo che le convenzioni seguite fra esso e la Comunità andassero a monte, stante il cambiamento dei tribunali, ricorse al Papa per la conferma delle sue convenzioni di dare ad usura. Il Papa ascoltò la petizione e il 7 gennaio acconsenti a favore del giudeo.

 L’11 febbraio il Papa partì per Roma tenendo questa strada e, perché la neve era alta, fu portato sopra una treggia o sia slitta di legno condotta da due paia di buoi e ben protetto dall’aria.

Giunto a Castel S. Pietro si fermò al Borgo ove, rinnovato il fuoco che era tenuto in un recipiente di ferro per evitare il gran freddo, se ne andò ad Imola. Nella stessa treggia vi erano due cardinali.

Il 12 d. Alessandro Cavazza assoldò 500 fanti per andare a Bondeno al campo della Chiesa, ma poi andò alla Mirandola. Da quest’altra parte i Bentivoglio si avanzavano perché avevano sostenitori entro la città. Sentendosi poco sicuri gli uomini di Castel S. Pietro chiusero le strade e spedirono al Papa, che era a Ravenna, Francesco Comelli, Cristoforo Rinieri, Cesare Zoppi e Chelo Cheli, affinché prevenisse le incursioni dei nemici. Furono accolti dal Papa che in seguito, il 15 marzo, ordinò a Guido Vajna di portarsi alla difesa del nostro Castello con la truppa che si trovava contro Lugo,

1511 – 1512. Ritorno dei Bentivoglio a Bologna. Ramazzotto assedia e occupa Castello. Gastone di Foix a Bologna. Bentivoleschi e francesi rioccupano Castello ma per poco. I Bentivoglio abbandonano Bologna. Castello si arrende alle truppe del papa.

Intanto Annibale Bentivoglio con 1500 cavalli ed altrettanti fanti saccheggiava di là da Bologna e venne fino alle porte della città.  Avuta tale notizia il Papa si indignò e decise di ritornare a Bologna. Alessandro Aldrovandi, commissario a Castel S. Pietro, che era andato su alla montagna, sentita la imminente venuta del Papa, scese subito al nostro Castello.

 I Bentivoglio non si intimorirono, anzi incoraggiati per essere la città poco provvista e fidando sugli appoggi interni, si accostarono ad essa e, coll’aiuto dei francesi, guidati da Giangiacomo Trivulzio[17], presero la porta di strada S. Felice.

Il Legato, saputo ciò, alle ore 6 di notte fuggì a Castel S. Pietro accompagnato dalle genti del Duca di Urbino. Da qui fu portato a Imola da Guido Vajna, accompagnato da 100 cavalli.  Sentitasi la fuga del Legato, i bentivoleschi entrarono in città ed inseguirono le genti del Papa fino a Castel S. Pietro e di qui fino alla Toscanella[18].

Entrarono nella città 1402 bentivoleschi fra cittadini e comitatini, nel numero dei quali vi era Cavazzino Cavazza. Il Trivulzio intanto, che aveva inseguito le genti della chiesa fino ai confini della Romagna, si fermò a Castel S. Pietro per avere gli ordini dal suo capo che furono di ritornare indietro, come fece dopo avere rovinato tutto il contado.

Intanto il Papa che aveva radunate le sue genti nella Romagna, le fece concentrare a Imola al comando di Marc’Antonio Colonna, Giovan Paolo Baglioni, Giovanni Sassatelli[19] e Ramazzotto. Quindi vennero tutte a Castel S. Pietro di dove andarono fino ad Idice predando tutto ciò che trovavano e qui il 15 luglio posero il campo aspettando il nemico. Ma non vedendosi alcuno, ritornarono a Castel S. Pietro e la mattina seguente replicarono le scorrerie fino a S. Nicolò predando e bruciando case. Capi di questi saccheggiatori erano il Ramazzotto e Giovanni Sassatelli.

Per tali cose la città andò in subbuglio. Il 7 agosto i Bentivoglio emisero una Grida che tutti i partitanti della Chiesa fuggiti dovessero ritornare in città sotto pena di ribellione e il 28 dello stesso mese furono chiamati alla Ringhiera del Podestà (condannati pubblicamente) tutti quelli che erano andati fuori con i partitanti della Chiesa.

Il 4 settembre verso le 2 di notte si spiccò dalla luna un gran vapore che cadde a terra e sembrò che ardesse il mondo e fu veduto da tutto il territorio bolognese.

Il Papa per recuperare tutta la provincia di Bologna si collegò con la Spagna, l’Inghilterra e i Veneziani, questo anche per cacciare i francesi dall’Italia.

Per cominciare il recupero di Bologna e del suo contado nel mese di ottobre mandò a Faenza il cardinale Giovanni Medici (futuro Leone X), che condusse con sé molti guastatori e rifornimenti per servizio della truppa. Poi vi andò, circa la metà di ottobre, don Raimondo di Cardona, Viceré di Napoli, e gente dell’esercito con Fabrizio Colonna[20], generale di S. Chiesa.

Ugo da Castel S. Pietro, uno dei 53 bentivoleschi cacciati da Bologna, finì i suoi giorni, imprigionato nella Rocca di Faenza. Aveva fama di essere stato un bravo soldato.

Il 10 dicembre Ramazzotto con molti spagnoli venne sotto Castel S. Pietro tentando l’impresa di prenderlo ma gli fu fatto fronte in tal modo che rinunciò e passò avanti a S. Nicolò.  Il 13 scorse con la fanteria fino a Varignana, ove fece bottino per più di tremila ducati. Ritornando indietro il 14 dicembre pose il campo a Castel S. Pietro. Qui i paesani con i presidi fecero resistenza. Il Ramazzotti non poté averlo che il 19 salva roba e persona. Erano state battute continuamente le mura ma le Rocche e i terrazzani avevano resistito per 5 giorni.

Arreso Castel S. Pietro fecero lo stesso Medicina, Varignana e Liano. Avuti questi castelli, le genti pontificie si riunirono a Castel S. Pietro e fatto un corpo di 20 mila combattenti andarono alla volta di Bologna, al comando di Marc’Antonio Colonna, Giovanni Vitelli, Malatesta Baglioni ed altri.

Non ostante che il nostro Castello si fosse arreso alle armi pontificie, restarono a guardia il Sassatelli e il Ramazzotti, temendo un attacco dei Bentivoglio. Questi avevano scritto al Re cristianissimo (Titolo del Re di Francia) per avere aiuti, essendo ben fortificati in Bologna. Il Re mandò Gastone di Fois[21] suo luogotenente e gran Mastro di Milano che il 14 febbraio 1512 entrò in Bologna tanto segretamente che gli spagnoli non se ne poterono accorgere.

 Avevano i francesi 600 lance e 6000 fanti che era tutto l’esercito del Fois. Gli spagnoli avevano saputo che qualche armato era entrata in città, ma che fosse stato tutto l’esercito del Fois sembrava loro impossibile, tanto più che non vedevano alcuna sortita dalla città. Stettero tutti i francesi chiusi in città a tutto il 15 febbraio. Poi, a insaputa del Fois, due cavalieri uscirono di città per predare. Lo spagnolo ne catturarono uno dal quale seppero la situazione. Quindi si ritirarono subito colle artiglierie e levato l’assedio di Bologna si posero in guardia di Castel S. Pietro, Budrio e Medicina.

I bentivoleschi vista la ritirata uscirono di città e il 21 febbraio Annibale Bentivoglio venne fino a Castel S. Pietro dove era il Ramazzotti e Sassatelli e qui, attaccata una battaglia, Annibale prese 80 carri di viveri ai nemici e fece 40 prigionieri, tutti contadini romagnoli. I pontifici e gli spagnoli, molto irritati per questo, strinsero di nuovo il cordone attorno alla città.

Intanto poiché l’esercito francese era andato alla presa di Brescia parve opportuno al Ramazzotto cercare di scoprire l’entità delle forze nemiche entro la città. In città però potevano entrare solo i fornitori di viveri non sospetti. Propose di spedire uno dei suoi più fidati, che ne avesse voluto l’impegno, entro la città. Piacque la sua proposta ed egli mandò travestito Tomaso d’Alboro di Castel S. Pietro, suo primo capo squadra. Purtroppo fu scoperto, fu carcerato e il 13 marzo fu ucciso.

L’esercito papalino si era già esteso anche nelle parti inferiori del territorio bolognese ed aveva occupato le strade di Minerbio e il ponte polesano detto comunemente: Il Bentivoglio. Ma per poco vi rimasero poiché, ritornati i francesi alla volta di Bologna, convenne agli ecclesiastici il 19 marzo abbandonare i posti e ritirarsi a Budrio ed a Castel S. Pietro dove si fortificarono. Ma poi crebbe la truppa nemica e convenne abbandonare Budrio.

Ciò veduto l’esercito bentivolesco si fece sempre più avanti cercando di venire ad un fatto d’arme, che invece cercavano di evitare le genti spagnole e pontificie non vedendovi alcun vantaggio. Quindi si ritirarono a Castel S. Pietro ove avrebbero anche potuto venire allo scontro ma, avvisati delle superiori truppe nemiche che stavano arrivando, il 28 marzo sloggiarono pure da Castel S. Pietro ed andarono ad Imola. Nei loro alloggiamenti, nel nostro Castello, subentrarono immediatamente i francesi col proposito di inseguire la retroguardia dell’esercito pontificio.

Poco stettero i francesi e i bentivoleschi al nostro Castello perché il 21 aprile si ritirano a Budrio per timore del ritorno del Sassatelli e del Ramazzotto.  Poi il 19 maggio, fatti arrivare a Bologna quattrocento cavalli leggeri francesi, li mandarono a Castel S. Pietro poiché si aspettavano le truppe della Chiesa condotte da Marc’Antonio Colonna. Dal 19 maggio fino al 10 giugno vi stettero in guardia.  I Bentivoglio però, sentendosi poco sicuri e vedendo di giorno in giorno crescere le forze della Chiesa, partirono da Bologna e si diressero a Ferrara con mille cavalli. Presero questa risoluzione anche perché erano malvisti per le loro soperchierie pensarono fosse meglio cedere che sfidare la fortuna che essendo instabile bastava niente per farle mutare verso.

Il Confaloniere Francesco Fantuzzi, spalleggiato dal Castelli, Bianchi, Graffi, Volta e Bargellini, avvisò di ciò Sigismondo Gonzaga, generale dell’esercito ecclesiastico, che si trovava ad Imola, perché avanzasse alla presa di Bologna. Questi affrettò la marcia e il 12 giugno 1512 si avanzò a Castel S. Pietro. I terrazzani non si opposero perché furono assicurati di non essere molestati se si arrendevano tranquillamente. Il giorno seguente 13 giugno passarono il Legato e il Duca di Urbino[22] con 300 uomini d’arme e 5.000 fanti e seppero che la città era andata a rumore con il popolo che aveva gridato: Chiesa! Chiesa!

Il Papa, saputa la sottomissione di Bologna, aprì il tesoro delle grazie coll’assoluzione dall’Interdetto. Affinché poi fosse di maggior profitto alle anime obbligò ciascuno a porgere una singolare soddisfazione a Dio, cioè che per un mese recitasse un Pater ed un Ave, col digiunando un venerdì di quel mese e così fu levato l’Interdetto e assolta la città e il contado.

Il 29 luglio poi giunse a Castel S. Pietro tutto l’esercito del Papa e del Re di Spagna, condotto dal Colonna e dal Cardona, ed era composto di 12.000 combattenti fra fanti e cavalieri. Il Duca di Urbino che si era alloggiato a Castel S. Pietro si ritirò per lasciare posto. Il 25 il card. vescovo di Bologna Achille Graffi prese possesso del suo vescovato.

Il Papa aveva mandato a Bologna come Vice Legato il fiorentino Francesco Frescobaldi, uomo iniquo al sommo grado che, appena giunto, cominciò a tiranneggiare i cittadini col pretesto di essere ribelli a S. Chiesa per cui ne faceva catturare giornalmente, imponendo loro pene pecuniarie ad arbitrio, per modo che accumulò 40.899 ducati, come lasciò scritto il Secondinari nella sua Cronaca. Il 25 settembre furono chiamati alla Ringhiera del Podestà come ribelli di S. Chiesa cento quaranta persone, fra le quali il notaio Ser Marchione Nardi e Giovan Maria Sembeni ambi compatrioti e aderenti bentivoleschi. Il Legato Medici, spiacendogli una tale condotta, se ne partì per Firenze adducendo varie scuse.

Il 19 ottobre vennero improvvisamente a Castel S. Pietro mille svizzeri che erano stati al soldo pontificio e qui si accamparono. Lagnandosi di non avere avute le sue paghe fecero intendere al tesoriere di Bologna che avrebbero saccheggiato il Castello non fossero stati pagati. Furono subito pagati mille scudi e quelli tolsero il campo e proseguirono il loro viaggio verso Bologna.

Il 2 novembre Teofilo Marini e altri suoi fratelli di Castel S. Pietro, esercenti l’arte di speziali, furono fatti cittadini di Bologna per le loro attenzioni fatte alla truppa ecclesiastica.

Il Papa Giulio, nell’anno 1510, aveva imposto ai contadini una tassa in proporzione del bestiame che tenevano.  Questi, per non pagare la imposizione, cessavano di tenere il bestiame necessario e restavano incolti per i terreni. Fu quindi fatto ricorso al Papa che ridusse le imposte su buoi, vacche e braccianti in questo modo cioè nella pianura un certo quid sopra la seminagione riferita alla quantità e quanto alla montagna riferita alle bocche delle persone. Questa decisione fu universalmente apprezzata.

Bernardino e Carlo dalla Muzza di Castel S. Pietro allo spirar di quest’anno, cioè il 23 dicembre 1512, furono fatti cittadini di Bologna.

1513 – 1517. Muore Giulio II, succede Giovanni de’ Medici col nome di Leone X. Francesco I nuovo Re di Francia viene in Italia per conquistare il Ducato di Milano. Si allea col Papa contro l’imperatore e si incontrano a Bologna. Guerra di Urbino trai i nipoti del defunto Giulio II della Rovere e Leone X de’ Medici.

Il 3 febbraio dell’anno seguente 1513 il Papa, che si era alleato col re di Spagna e con l’Imperatore contro il Re di Francia, si ammalò gravemente. Venuto ciò a notizia dei Bentivoglio questi cominciarono nuovamente ad armarsi.

Saputo questo il Vice Legato di Bologna introdusse subito nella città 400 uomini d’arme e poi ancora 400 fanti che andarono alla Rocca della porta di strada Maggiore. Risale a questo fatto e a questa epoca l’uso di introdurre alla difesa della città i militari del contado durante la sede vacante e in simili casi di sospetto di invasione ed aggressione, uso che durò fino al tempo di Clemente XIII (metà del 1700).

Dopo una infermità di 18 giorni Papa Giulio II terminò la vita in età di anni 70 e dieci di papato. Fu uomo dotto ed assai lodato per avere sempre difeso ed accresciuto le cose della Chiesa, l’unico rilievo che gli si fece fu che era stato armigero più di quello che si conveniva. Ma che si doveva fare in questi tempi che lo Stato pontificio era più pieno di piccoli tiranni che di legittimi padroni?

L’11 marzo seguente fu assunto al pontificato il cardinale Giovanni Medici col nome di Leone X. Finché stette la Chiesa vacante, Orlando Dal Caretto Governatore di Bologna ordinò che si levassero tutti i battagli alle campane onde non si potesse col suono delle stesse chiamare il popolo all’armi.

Giovanni Bernardi da Castel S. Pietro nato nel 1495, aveva fin da fanciullo cominciato ad intagliare legni asprissimi riuscendovi felicemente. Fazio Zecottini, suo compatriota, lo portò a studiare il disegno sotto la scuola di Giacomo Francia a Bologna. Appreso questo, studiò l’arte dell’incisione da Amico Aspertini, passò poi sotto la disciplina di Marc’Antonio Raimondi a lavorare nei rami con ammirazione di tutti. Fu amico stretto di Giovan Battista Dossi, chiaro pittore ferrarese, col quale aveva contratto familiarità.

Calmati i rumori in città i 40 Riformatori del Reggimento di Bologna provvidero di commissari i castelli. A Castel S. Pietro deputarono per commissario Scipione Castelli dal 22 luglio. Fu il suo governo così placido e giusto che non abbiamo cose da narrare in contrario.

Nell’anno che seguì 1514 Luigi XII Re di Francia si preparava a tornare in Italia sia in aiuto dei Bentivoglio ed anche per propri interessi. Fu colpito da un grave infermità e all’entrare dell’anno 1515 finì la vita dopo avere regnato 17 anni. Fu principe valoroso ma molto ostinato nelle sue opinioni. Ebbe nel suo governo moltissime tribolazioni e fu talora in pericolo di perdere il regno. Gli successe Francesco Duca di Angouleme[23], figlio di Carlo di Valois e di madama Lodovica sorella di Carlo Duca di Savoja, uomo magnanimo, generoso e da fanciullo sperimentato nelle cose di guerra.  Appena incoronato, sapendo quanto doveva temere l’Imperatore, procurò subito la pace con esso.

Andrea Dalla Rosa e Domenico Battisti di Castel S. Pietro banditi con la confisca dei beni, furono cancellati dal bando. La famiglia Muzza era assai presente nel nostro Castello e si distingueva sia nei beni di fortuna che nell’armi. Fra gli altri in questo tempo si distingueva Lodovico Muzzi detto volgarmente dalla Muzza che oltre che essere un bravo militare aveva pochi che l’eguagliassero nel giostrare nei tornei.

Perché per le guerre passate non si era potuto dar mano al lavoro della nuova porta nel nostro castello prescritta nel Decreto del card. Alidosio e nel Sen. Cons. del 1510, così, sedati i rumori di guerra, si cominciarono i lavori. Furono fatti i muretti e il ponte sopra la fossa, congiungendoli dalla strada alle mura, in tale occasione furono anche accomodate le merlature intorno alla porta.

Il Papa, sentita la Lega del Re di Francia fatta coll’Imperatore, si collegò pure lui con quelli. Una tale coalizione diede anche speranza ai Bentivoglio di rientrare in città con i propri aderenti. Cominciarono perciò nell’anno seguente 1515 e riprendere le prepotenze e soverchierie dei loro partitanti anche perché il Papa sembrava inclinare a lasciare tornare i Bentivoglio.

Il Re di Francia, al quale stava molto a cuore impadronirsi del ducato di Milano e di fare restituire ai veneziani le terre perdute nelle guerre passate[24], mosse un forte esercito in Italia e giunto nel milanese se ne impadronì dopo alcuni scontri[25]. Saputo ciò l’Imperatore cominciò ad allestire genti per venire anch’esso in Italia.

Il Re di Francia temendo la sua venuta, fatta alleanza con Leone X, venne ad incontrarlo a Bologna per firmarla. Intanto il Papa ordinò di assoldare gente a Bologna e suo contado per mandarle in Lombardia. Ramazzotto, a cui era stato affidato l’incarico, raccolse 2.000 fanti e 1.000 cavalieri leggeri, dei quali ne mandò 500 e 1.500 fanti in Lombardia tenendo il resto in Bologna. In questa spedizione vi andò Annibale Bruni di Castel S. Pietro in qualità di capo squadra o sia capitano.

Venuto a Bologna Leone X per la via di Romagna con 18 cardinali e 62 vescovi per incontrarsi con Francesco I, fu accolto a Castel S. Pietro. I Bentivoglio, ricordando le promesse fatte di essere rimessi in Bologna, rinnovarono le loro istanze e suppliche. Il Papa era disposto ad accordargli il ritorno a condizione che dessero una garanzia di 80.000 scudi. Garanzia che fu offerta dal Duca di Ferrara e dagli Orsini di Roma. Il Papa però voleva denaro contante e rifiutò la proposta.

Il Re di Francia arrivò a Bologna l’11 dicembre con seguito di 18.000 persone, appena giunto seguì l’incontro il 14 dello stesso mese, fatte le funzioni di sanare molti della scrofola[26], se ne partì.

Il Papa poi, dopo avere fatta fare la estrazione degli uffici utili della città e contado, il 16 dicembre diede a vari nobili bolognesi il titolo di Conti di castelli del bolognese.  Al Senato spiacque molto questa disposizione, poiché era un a privazione del diritto pubblico sopra i castelli nominati contee.  Fra queste creò la contea di Liano e suo conte il Senatore Lodovico Gozzadini la cui signoria durò fino al 1526.

Nell’aprile del 1516 fu aperta la nuova porta superiore del nostro Castello e fu munita di tutto il necessario. Questo lavoro fu affrettato perché si prevedevano movimenti di truppe nemiche.

Francesco Maria dalla Rovere, Duca di Urbino e nipote del defunto Papa Giulio secondo, aveva assoldato armati e bravamente difendeva i suoi stati dai quali lo voleva spodestare l’attuale Papa. Quando poi ciò avvenne fu costretto a fuggire a Mantova presso quel Marchese suo suocero, non avendo forze bastanti per resistere ai francesi e alle altre truppe condotte da Lorenzo de Medici[27]. Queste truppe ai primi di giugno, dopo avere tenuto il campo a S. Nicolò presso la Quaderna, vennero il giorno 4 alla volta d’Imola danneggiando questa nostra contrada, consumando quanto trovavano non altrimenti che fossero nemici. In occasione di tale passaggio nel nostro Castello si tennero chiuse le case e le taverne e le donne coi fanciulli stettero sempre nelle chiese e nel prato interno del convento di questi frati eremitani di S. Bartolomeo.

Troviamo nelle carte di questo archivio della parrocchiale che la Compagnia del SS.mo Sacramento aveva un piccolo oratorio unito alla chiesa, di fronte all’altro oratorio di S. Caterina, che attualmente è in cornu evangelii (lato destro guardando l’altare) e forma la sacrestia alla stessa parrocchia. Questo oratorio del SS.mo serviva anche alla Compagnia del Bongesù.

Il 29 dicembre Cesare di Ser Francesco Zani, estratto vicario di Castel S. Pietro per il primo semestre 1517, fu sostituito dal Senato da Ser Francesco Zani.

L’Imperatore, dopo avere occupato Verona, la diede a veneziani dietro pagamento di 200.000 ducati. Nella città c’era Marc’Antonio Colonna con molti spagnoli al servizio dell’Imperatore, usciti che furono si assoldarono con Francesco Maria dalla Rovere, Duca cacciato da Urbino. Poiché questi sembrava volesse passare per Bologna per andare verso Urbino, il governatore di Bologna fece raccogliere a Ramazzotto 2.600 fanti e fece sapere a Giacoma moglie di Ermes Bentivoglio, figlia di Giulio Orsini, ed alla signora Eleonora, figlia di Giovanni Bentivoglio, che il giorno seguente sgombrassero da Bologna. Ubbidirono prontamente e appena partite il governatore fece chiudere tutta le porte della città ponendovi 50 fanti del Ramazzotto. Ordinò lo stesso in ogni altro luogo ove bisognava.

Il Duca di Urbino mandò per ciò avanti 5.000 fanti che arrivati alla città il 29 gennaio, non furono lasciati entrare dal governatore. Il giorno seguente andarono alla volta di Castel S. Pietro, dove pernottarono, andarono quindi a Imola e poi seguirono altre truppe.

Alla fine di gennaio arrivò Il Duca al nostro Borgo con 800 cavalli 2.000 fanti e settanta uomini d’arme. Aveva con sé Federico da Bobbio comandante di tutte le fanterie del Re di Francia in Italia ed il capo degli Stradiotti dei veneziani. Altro male non fecero che rubare ogni sorta di bestie.

Alla metà di febbraio vennero altri tre capitani del Re di Francia e andarono alla volta di Romagna e Marca contro Lorenzo de Medici che era stato investito del ducato d’Urbino dal Papa. I capitani erano questi: Monsieur di Lotrectè, il Conte di Musocco, Teodoro Trivulzio e il Conte Ugo Pepoli[28].

Il 16 febbraio giunto Francesco Maria della Rovere presso Cesena ove erano le genti di Lorenzo de Medici si attaccò una ardente battaglia in cui morirono oltre 2.000 persone e quelli del partito Medici restarono svaligiati per più di 50.000 scudi. In questa battaglia, essendo stato in mischia, il Medici restò ferito[29]. Altri soldati che erano rimasti a Bologna e sparsi per il contado, avuta la notizia, marciarono anche loro verso Cesena. Durante questo passaggio e permanenza di truppe non si sentì suonar campana per impedire tradimenti.

Nella stessa battaglia si trovò Annibale Bruni di Castel S. Pietro in qualità di ufficiale coi francesi e riportò tre bandiere del nemico. Successivamente passò al soldo dei veneziani.

Il 13 maggio i francesi in numero di 6.000 ritornarono nel bolognese.

 Questa arcipretale di Castel S. Pietro aveva nel Medesano una possessione detta il Roseleto che era incomoda alla chiesa. L’arciprete Don Orfeo Rossi ne fece il cambio con un’altra possidenza rurale nel comune di Castel S. Pietro chiamata la Pellegrina.

Fatta la pace nel mese di settembre 1517  fra il Duca e il Papa le truppe vennero al bolognese. Trovando Castel S. Pietro senza viveri fu saccheggiato nei beni e nelle robe.

Sante Ghirardacci che dal 1507 era stato bandito con pena capitale per omicidio nella persona di Matteo Dalforte, fu pure bandito capitalmente l’anno 1515 dal Podestà e condannato alla confisca dei suoi beni e alla restituzione dei beni tolti.  La condanna era dovuta perché con altri compagni introdusse in Castel S. Pietro i nemici e, dopo avere danneggiato le famiglie dei Muzza, aveva ucciso Bonifacio e Bertonio Dalla Muzza. Avuta la pace, fu assolto il Ghirardacci con i suoi compagni pagando cinquanta lire ciascuno alla Camera.

Astorre Volta aveva dato saggio della sua fedeltà verso la chiesa nella custodia delle rocche a cui era stato deputato, perciò Leone X, con suo speciale Breve, lo deputò in castellano della Rocca grande di Castel S. Pietro. Durò il suo ministero fino alla fine dell’anno.

1518 – 1521. Chelo Cheli concede alcuni edifici come ospizio ai frati Minori Osservanti. Muore l’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, lascia erede il nipote Carlo re di Spagna. Impegno di Carlo V contro Martin Lutero. Vertenza tra le Arti di Bologna e gli artisti di Castello. La Lega tra il Papa e Carlo V riprende Parma e Milano.

Nel 1518 l’oratorio dedicato a S. Giovanni Evangelista presso le case di Galeotto Cheli in faccia la piazza detta ora di S. Francesco e allora di Saragozza, si trovava in cattivo stato. Chelo di Galeotto Cheli non solo lo fece riparare ma pure ampliare tanto che successivamente vi si potesse celebrare. Poi, avendolo concesso ai Minori Osservanti che di qui transitavano dalla Romagna a Bologna, assegnò loro anche alcuni edifici per ospizio.

La Comunità in questo stesso anno fece dipingere su legno il quadro all’altare maggiore della arcipretale per mano dell’imolese Gaspare Sacchi

Lo stile del suddetto pittore fu così preciso che da alcuni è stato giudicato di Lavinia Fontana. L’abate Cesare Branchetta ne pubblicò su ciò un articolo ma prese errore poiché nell’archivio della Comunità si trova un libretto di spese in cui è notato che nel 1519 furono pagate al Sacchi, a saldo del suo avere, 100 lire. Inoltre poi nello stesso dipinto, presso il ginocchio di S. Gerolamo si legge la seguente inscrizione: Gaspar Sachius anno 1519.

Pietro Rondoni di Castel S. Pietro, essendo stato il 28 giugno del 1494 bandito col taglio della testa e la confisca dei beni, come si disse, per omicidio di Vandino di Melchione Giachini, fu assolto l’anno 1518 pagando alla Camera venti lire.

Essendo poi stato deputato per i tre seguenti anni come castellano della Rocca di Castel S. Pietro Agostino Dalla Volta, questi espose il 10 ottobre la sua obbligazione di difenderla durante il suo officio.

Il 12 gennaio 1519 morì di una dissenteria l’imperatore Massimiliano di anni 60 di sua età e 25 di imperio, lasciando erede per testamento Carlo V[30] suo nipote d’anni 19, Re di Spagna e Napoli. Fu Massimiliano principe liberalissimo e devoto, visse cattolicamente e tale morì.

Per tale morte i principi dell’Impero si riunirono a Francoforte per eleggere il nuovo Imperatore. Nella elezione nacque concorrenza fra Carlo d’Asburgo e Francesco I d’Orleans Re di Francia il quale con danari cercava di corrompere gli elettori.  Ma i principi tedeschi non volevano lasciare uscir l’impero dalle loro mani e quindi fu eletto Imperatore Carlo d’Asburgo.

In questo tempo perché la fonte della Fegatella veniva sporcata dagli animali, la Comunità di Castel S. Pietro fece costruire un piccolo edificio per proteggerla.

Agostino Dalla Volta, castellano del nostro Castello, prevedendo discordie fra i principi per la elezione del nuovo imperatore, temendo che nuovamente nascessero disordini anche nelle provincie d’Italia, fece bastionare di nuovo i capi strada che esternamente portavano alla Rocca grande del nostro Castello. La torre, che era sopra il cassero della rocca, aveva le sponde laterali all’ingresso sfasciate e furono rinnovate. All’ingresso del cassero invece dei muretti vi fece apporre alcune spranghe facili a levarsi. Fece pure sì che le mura del Castello fossero accomodate. Per questi lavori utilizzò degli operari del paese, questo fatto spiacque molto agli artisti di Bologna perché in passato erano essi che avevano l’incarico di eseguirli.  Nacquero in seguito questioni tra gli artisti del paese e le Arti di Bologna.

Terminato l’anno 1519 nel successivo 1520 il Papa, a seguito della elezione di Carlo V e della sua investitura nel regno di Napoli, molto si dolse poiché l’investitura nel regno di Napoli a Carlo I Duca di Angiò fu fatta da Urbano IV a condizione che nessun Re di Napoli potesse essere anche imperatore. Tuttavia Carlo quinto fu creato imperatore e perciò ne nacquero forti discordie fra principi cristiani. Contrasti che furono di rovina per l’Europa e di vantaggio per il turco. Ciò non ostante il Papa mandò Martino Caracciolo, suo Legato, e Girolamo Aleandri, uomini dottissimi, a rallegrarsi con Carlo e pregarlo di essere protettore della fede cattolica massime contro la eresia di Martino Lutero[31]. Accettò l’Imperatore l’ambasciata colla massimo favore e, senza perder tempo, ordinò sotto rigorose pene che in tutti i suoi Stati fossero bruciate le opere di Lutero. Il 24 febbraio 1520 in Aquisgrana fu solennemente incoronato dall’arcivescovo di Colonia. Nello stesso giorno a Costantinopoli fu incoronato gran Sultano Solimano[32] per la morte di suo padre Selim.

Le Arti di Bologna avevano sollevato una vertenza contro i muratori e gli altri lavoranti di Castel S. Pietro. Si unirono tutti e ricorsero al Senato facendo presente le loro prerogative di non essere mai stati soggetti ad alcuna obbedienza né fiscale né virtuale. In caso di necessità avevano sempre lavorato per la manutenzione dei fabbricati del paese, se non avessero operato al bisogno, non solo il paese ma tutte le fortificazioni sarebbero state distrutte negli scontri coi nemici.

Il Senato ascoltò la petizione e le giuste lamentele e per ciò il 28 giugno decretò la totale esenzione da qualunque legge che facesse riferimento alle regole di Bologna.  La deliberazione fu approvata con 19 voti bianchi contro 2 neri su 21 presenti. Era contenta la università di Castel S. Pietro di questo Senato Consulto. Lo volle avvalorare anche da una decisione del Legato il quale lo confermò con suo decreto il 28 luglio.

Il Papa vedeva che Francesco I Re di Francia continuava ad opporsi all’elezione di Carlo V, aiutando e proteggendo i popoli che contro esso si erano ribellati in Spagna. Non gli piaceva pure che i francesi regnassero in Italia avendo occupati gli stati nella Lombardia ove inoltre il Lotrech, governatore di Milano, si era impadronito dei benefici ecclesiastici e li dava a chi voleva, ricusando le ammonizioni Papali.  Il Papa perciò prese occasione per lamentarsi di quanto accadeva, ma il Re fece il sordo. Quindi il Papa fu costretto a rinunciare a far parte della sua Lega e a unirsi a Carlo V come di fatto seguì.

Dopo avere accomodata la piccola chiesa dedicata a S. Giovanni Evangelista, Sebastiano e Chelo Cheli fecero nell’anno 1521 accomodare alcune loro case ad uso di ospizio per i Minori Osservanti che da qui in avanti ne cominciarono a prendere possesso.

Il 23 marzo 1521 il Senato concesse a Lodovica Rossi di Castel S. Pietro, vita natural durante, l’uso ed abitazione della torre posta nelle mura del castello a levante.

In aprile Il Papa col Duca di Urbino, mandò mons. Antonio Pucci, vescovo di Pistoia, con 300 svizzeri nella Romagna i quali, passando per Castel S. Pietro, fecero non poco danno alla nostra campagna.

Carlo per cacciare i francesi da Parma, Piacenza e Milano mandò in Lombardia Federico Gonzaga[33] Marchese di Mantova, questi unito ai papalini l’8 settembre 1521 diede battaglia sotto Parma e fu presa la città dal papa. Proseguendo poi gli alleati a incalzare il nemico lo costrinsero a ritirarsi a Milano, da dove fra non molto lo fecero decampare con un’altra battaglia.

Il Papa festeggiata la presa di Milano morì a Roma il 2 dicembre avendo lasciata la Chiesa esausta di danaro ma però ricca di Stati. Questo pontefice fu eletto di anni 37 e mesi 9, visse nel pontificato 8 anni e 20 giorni. Fu liberale ed amante della virtù e, per avere danari, creò in una sol volta 31 cardinali dai quali ebbe molte migliaia di ducati.

Le differenze che si erano create fra i bolognesi e gli imolesi per la via divisoria di Dozza con Castel S. Pietro furono superate come fissato nella Bolla di Sisto IV.

1522 – 1525. I Frati Minori Osservanti aprono il nuovo oratorio. Interventi dei castellani contro i lianesi. Il Re di Francia torna in Italia per riprendersi Milano. Clemente VII si allea con la Francia contro Carlo V. Battaglia di Pavia, Francesco I è fatto prigioniero.

Era stato estratto per Vicario di Castel S. Pietro, nella ordinaria estrazione degli uffici utili il 16 dicembre, Battista del fu ser Giovanni da Marzolino, che però era stato giustiziato, come era scritto nel Libro de Partiti del Senato con queste parole: quem fama est fuisse morte mulctatum. Il Senato perciò elesse il 20 dicembre per Vicario lo spettabile nobile uomo Lodovico Mino Rossi che all’inizio del 1522 prese possesso della carica.

Morto Papa Leone X, il 9 gennaio 1522 fu creato pontefice il card. Adriano Fiorenzo (Adriaan Florenszoon) di nazione fiamminga che fu maestro di Carlo V. Appena avuta la notizia di essere stato eletto Papa esclamò che l’aveva eletto Madonna Discordia, stante le discordie che erano fra Principi e Cardinali. Volle essere chiamato Adriano VI tenendo il suo primo nome. A tale notizia l’Imperatore Carlo V si rallegrò molto essendo stato suo discepolo. Quindi cercò subito di rinnovare la Lega col papato per potere con più comodo cacciare i francesi d’Italia.

Terminata la fabbrica dell’ospizio nelle case dei Cheli, vicino al nuovo oratorio dedicato a S. Giovanni Evangelista, Maria Vergine e S. Francesco, i Minori Osservanti chiesero a Monsig. Rinaldo Graziani, vescovo di Bologna, il permesso di aprire tale oratorio, seppellirvi i morti, tenere campane e fare altre cose. Ascoltò il bon Vescovo la petizione e così il 26 febbraio 1522 fu concessa la facoltà richiesta col seguente decreto: Rainaldus de Gratianis Dei et apostolice Sedis gratia Archiep. ecc. ecc…. Dat. Bonon. in Episcop. Palatio die 26 mensis Febrari 1522. 

Questo pio luogo francescano, che è il 25° della provincia, si trova sopra i terrapieni del Castello a levante, terrapieni che furono poi chiusi coll’assenso del Senato quando il 28 ottobre 1618 fu dichiarato convento sotto il provinciale Padre Alessandro Nicolino da Brisighella come si dirà a suo tempo.

I primi due mesi del 1523 furono tranquilli ma poi ai primi di marzo la quiete fu scompigliata.  Il 26 febbraio, lunedì di mercato, nacque un diverbio fra alcuni uomini di Liano ed alcuni altri del paese a motivo di questioni mercantili. Si venne presto alle mani in modo che il paese fu tutto in subbuglio. Furono calmati gli alterchi ma i lianesi non dimenticarono le offese. Aspettarono la buona occasione che si presentò quando dei nostri paesani andarono per affari nel loro castello. I nostri furono provocati dalle famiglie Alberici, Dalla Costa, Prati ed altri e maltrattati.

Il fatto fu portato alla attenzione della pubblica rappresentanza di Castel S. Pietro, questa se ne risentì in tal modo che la causa, da particolare che era, divenne pubblica, sollevando una forte voglia di rivalsa.

Prima però di intraprendere qualsiasi azione la Comunità volle sentire il parere della popolazione quindi, siccome si governava il paese democraticamente, fu riunito il popolo il giorno 5 marzo mediante il pubblico suono dell’arengo. Nell’assemblea fu posto il quesito: Se la rissa dovesse essere considerata offesa pubblica o privata.  Poiché qualcuno mise in dubbio la validità dell’atto, questo fu fatto stipulare dal notaio Giacomo Burgolochi affinché poi non si potesse impugnare la decisione. Dagli atti si sa che furono presenti. Bastianus Rondonus massarius d. Comunis, Antonius de Comellis, Antonius Dominici Fabbri soci d. massari, Benedici Zopo, Christophorus de Raineriis, Tomas de Lasiis, Hieminianus de Rotis magister Magnanus de Magnanis, Chelo de Galeotto, Vincentius Dalforno, Christophorus de Guittis, Marcus Antonius Dalle Campane, Cirillo Traffalino, Cesar Tripondanus, Andreas Toparinus, Jo. de Comellis, Antonius Rondonus, Vincentius Rondonus, Simon de Guittis, Clemens de Papia, Cesar Zopo, Jo. de Gnettis, Gulielmus de Gnettis, Benedictus de Farneto, Nicolaus Toppo, Bartolomeus Gasparinus, magister Andreas murator, Nicolaus de Comellis, Dominicus Mattei Sarti, Tonius Zoppo, Sanctes Rugius, Baptista Toppo, Marchinus Murator, Bologninus de Landinellis Petronius Toppo, Dominicus Pignatarius, Baptista Gasparinus, Petrus Antonius Toppo, Joanes de Robesanus, Evangelista de Zanis, Rizo de Soversato, Jo. Landinellus, Bendictus Tesei, Marco Randone, Joannes de Nicolis, Nicolaus de Soldini, Dominicus Tripondanus, Andreas de Comellis, Marcus de castello, Bastianus de Magnanus, Andreas de Giustis, Petronius Scarsella, Maghinardus de Facinis, Vincentius Falcuni, Jo. Maria de Muzolis, Gregorius Fornaxarius, Babtista Facinus, Melchion de Jachinis, Alexander Bantus, Babtista Trigondano, Jacobus della Roxa, Martinus Topo, Adreas de Pirazolis, Jacobus Foldineis, Stephanus Pirazzolus, Baronus de Baronis, Vincentius Xondus, Franciscus de Pagia, Babtista de Rolis, Achilles de Farneto, Murellus Barbarius, Dominicus Franciscus Dal Sarto, Babtista Iacobi Toppo, Gaspar Antonius de Rainerio, Nicolaus de Nicolis, Antonius de Laxiis, Ludovicus de Ricardi, Petrus de Righis, Franciscus de Fabbris, Matteus de Casella, Franciscus Bonellus, Jo.Cremoninus, Franciscus Dalforno, Galantius Scarsella, Antonius Landinellus, Bartolomeus Bagnius,  Cortexius Bellinus, Jo. de Fabbretis, Laurentius Ragnerius, Jacobus Pirazzolius, Zanonus Della Cecha, Matteus Andriolus, Domenicus de Gnetis, Anibal de Brunis, Franciscus Tripondanus, Franciscus Gasparinus, Jacobus Rondonus, Ludovicus Rondunus,

La votazione avvenne mettendo nell’urna una fava per il sì all’offesa pubblica o un lupino per il no. Il risultato fu di 79 fave contro 15 lupini.

Presa questa decisione gli uomini della Comunità di Castel S. Pietro iniziarono a fare scorrerie contro i lianesi, facendo imboscate. La torre, detta anticamente di Faciolo Cattani e poi dei Moscatelli, posta sul confine fra queste due comunità ma nel comune di Liano, serviva da vedetta ai lianesi che di qui scoprivano i movimenti dei nostri sampierani e vi tenevano di guardia molti uomini.

I Gozzadini che erano stati investiti della Contea di quel paese erano preoccupati che non fossero battuti i lianesi. Più volte quelli di Castel S. Pietro alla guida di Annibale Bruni, dei Pirazzoli e Trapondani erano avanzati alla porta di quel castello tentando la presa di quel luogo. Antonio Gozzadini che era il Conte investito di questo luogo da Leone X si mosse per ottenere la pace.

I nostri non si prestarono molto ma chiesero una tregua fino alla fine dell’anno dato che la stagione si avanzava e questa fu accordata.

Intanto l’Imperatore che aveva quietato le cose in Spagna, decise di far Lega col Papa e i veneziani per difendere il ducato di Milano e il suo duca Francesco Sforza[34] e cacciare d’Italia il Re francese. Ma questi che aspirava riconquistare Milano, per niente spaventato di avere perduto Genova, città tanto importante, assoldò un esercito di 32.000 fanti e 10.000 cavalieri, fra quali c’erano molti svizzeri, per ritentare la sorte in Italia.

Ma giunto l’estate il suo progetto fu interrotto dalla defezione di Carlo Duca di Borbone[35] che era di notte tempo fuggito da Parigi e tenendo la strada di Borgogna si era trasferito in Italia al servizio dell’Imperatore. Il Re, per timore dei compagni e parenti del Borbone che minacciavano insurrezioni, mandò in Italia col suddetto esercito Monsù Bufferio detto Bonivetto[36] uomo di sottile ingegno ed esperto nelle cose di guerra e di pace. L’imperatore preparò anch’esso un buon esercito al comando Prospero Colonna[37]. Il Papa collegato con i fiorentini e i lucchesi fece generale della Chiesa Federico Gonzaga. Pure i veneziani si unirono al Papa ed all’Imperatore e fecero loro generale Francesco Maria Duca di Urbino.

Il 13 settembre 1523 morì Papa Adriano VI. Il 19 novembre fu eletto Papa il Card. Giuliano de’ Medici che prese il nome di Clemente Settimo. Era questo il figlio naturale di quel Giuliano de’Medici che fu ammazzato l’anno 1478 nel Duomo di Firenze da Francesco Pazzi. Anche lui si alleò con l’Impero e per cacciare i francesi assoldò truppe nei suoi stati. Si assoldò anche Annibale Bruni di Castel S. Pietro in qualità di capitano dando prova della sua prodezza.

Terminato l’anno 1523 nostri castellani ripresero le ostilità contro lianesi e questi nel successivo anno 1524 non arrischiavano più venire ai mercati. Antonio Gozzadini Conte di Liano prevedeva che il nuovo Papa avrebbe spogliato i nobili delle contee del bolognese avute da Leone X, e poiché gli stava a cuore la concordia fra i lianesi e gli uomini del Comune di Castel S. Pietro, procurò la pace fra di loro.  Pace che seguì con comune soddisfazione. Ciò non ostante il Senato procurò di spogliarlo della contea. Ricorse a Roma il Gozzadini ma ebbe sentenza contraria e perdette ogni diritto sopra Liano.

Carlo di Borbone venuto in Italia si impegnò contro il Re di Francia, che l’aveva cacciato, sollecitando l’Imperatore e la sua Lega a impegnarsi in una terribile guerra.  L’Imperatore non esitò punto anche per vendicare dei torti avuti nella sollevazione della Spagna, quindi ordinò ai suoi generali Marchese di Pescara[38]  e Don Ugo di Moncada[39] di mettersi a disposizione del volere del Borbone.

Furono in questo esercito ammesse sette compagnie italiane di 300 fanti ciascuna in una delle quali era il nostro capitano Annibale Bruni.

Il Re di Francia, attaccato in Francia dagli imperiali, vedendo di non poter far fronte a tutto pensò di venire di nuovo in Italia che era al momento sprovvista di truppe. Nell’ottobre 1524 venne nel milanese e si impadronì di vari luoghi. Gli italiani furono richiamati per difendere la Lombardia col Duca di Borbone.

Il Papa vedendo in pericolo i suoi stati si collegò colla Francia e i veneziani contro Carlo V. Il motivo principale fu il timore per il suo troppo potere e grandezza. Generale della Lega pontificia fu fatto il Duca Francesco di Urbino. Carlo di Borbone seguito da tedeschi e 5.000 fanti spagnoli passò il Po nel cuore dell’inverno ed ebbe dalla Lega pontificia infinite difficoltà.

Giunto l’anno 1525 Papa Clemente VII celebrò il giubileo (l’Anno Santo) per la settima volta.

Gli imperiali, sentendo che il Re di Francia faceva grandi progressi, si avanzarono nella Lombardia e, posto il

campo sotto Pavia, vennero a battaglia il 25 febbraio. Gli svizzeri e tedeschi dell’esercito del Re in principio si comportarono egregiamente ma poi attaccati dagli spagnoli, cominciarono a perdersi di coraggio.

Ciò vedendo il Re entrò in battaglia vestito di sovra veste d’argento e con la sua cavalleria, affrontando quelli che gli venivano incontro. Combattendo con sommo valore uccise Fernando Castriota illustre capitano della stirpe degli antichi re di Macedonia. Nel combattimento fu anche ammazzato Don Ugo di Cardona, luogotenente del Marchese di Pescara. Avanzò la fanteria italiana ed in quel momento furono strappate due bandiere ed una portata via. Infine restò vincitore l’esercito imperiale. Si narra che le bandiere suddette furono quelle che riportò il nostro capitano Bruni per cui si accrebbe la sua reputazione. Nella battaglia fu fatto prigioniero Francesco Re di Francia che fu poi portato sotto buona custodia in Spagna nella fortezza di Madrid.

Il Catasto delle Possidenze del comune di Castel S. Pietro, fatto l’anno 1492, era diventato assai confuso per le annotazioni in esso fatte per i passaggi di proprietà. Occorreva rifarlo per potere addossare le collette ai nuovi possessori dei terreni. Perciò dalla Comunità fu fatto rinnovare e fu scritto a mano con bellissimi caratteri e cifre da Fra Nicola priore di S. Bartolomeo. Nelle lettere iniziali del nome del possidente vi sono in molte lo stemma dei medesimi come in quella dei Rinieri, dei Rondoni, dei Ghirardacci.

Nel frontespizio sono elencati i componenti del Consiglio cioè: Giovan Battista Fabbri Massaro, Ricardo de Ricardi compagno, Francesco Forni compagno, Matteo Comelli decano, Clemente Fiegna, Fioravante Tomba, Andrea Pirazzoli, Girolamo Cuzzani, Gaspare Gottardi, Lorenzo Dal Prà, Domenico Simbeni ed Antonio Corneta, sono inoltre disegnati i protettori del paese e lo stemma della comunità.

Essendo vacante la chiesa Arcipretale di Castel S. Pietro per la morte di Don Orfeo Rossi, eletto arciprete nel 1492, fu l’8 novembre assegnata a suo nipote Giulio Rossi.

1526 – 1528. Carlo di Borbone con 40.000 soldati invade il bolognese. Prende e saccheggia Castello. Sacco di Roma. Il papa si rifugia a Castel Sant’Angelo. Il Borbone è colpito da una archibugiata e muore. Pace col papa.

Il 19 dicembre fu estratto Vicario di Castel S. Pietro Giovanni Antonio del Saraceno per il primo semestre 1526 con obbligo di esercitare l’ufficio personalmente e non per sostituto perché, essendosi introdotto questo abuso di sostituire persone e vicegerenti nel ministero, accadevano molti disordini e la popolazione reclamava.

Il Re di Francia, prigioniero a Madrid, si adoprò tanto che, lasciati i figli in ostaggio presso l’Imperatore, fu liberato nel mese di marzo. Non appena fu in libertà cominciò ad assoldare gente. Scrisse poi di pugno all’Imperatore affinché gli restituisse i figli, scusandosi se adunava gente perché era così forzato dai principi del suo regno.

Mentre si trattavano queste cose Carlo V cominciò a preparare gente facendo capitano generale il Duca Carlo di Borbone. Questi mandò 8.000 fanti spagnoli a Napoli sotto comando del viceré Carlo da Lanoja[40].

Poiché si diceva che il Papa voleva mettere in quel regno un suo parente, tutti i Principi d’Italia presero subito le armi per attaccare la Lombardia. Il Duca Carlo per tanto anche esso mosse le sue genti per fermarli.

Antonio Marescalchi alias Dalle Campane di Castel S. Pietro, fonditore di metalli e maestro in tal arte, aveva dei terreni presso la via corriera attaccati alla fossa del Borgo a ponente. Desiderando ampliarsi e fabbricarsi una casa, supplicò il Senato a concedergli due pezzi di terra, uno fronteggiava la strada, e l’altro aderente alla Viola del Lupo, impegnandosi a fare manifatture per il Senato. Questi ascoltò la supplica e approvò con decisione del 29 agosto 1526. Questi pezzi di terra erano di mezza tornatura ciascuno.

Mentre si facevano i suddetti movimenti d’armi nella Lombardia, Don Ugo de Moncada, movendosi da Napoli, andò ad assaltare Roma col favore del card. Pompeo Colonna, fuoruscito che serviva l’Imperatore e nemicissimo del Papa. Entrò per la porta di S. Giovanni Laterano, malgrado la resistenza dei capitani papalini, scorse fino al palazzo apostolico saccheggiando senza ostacoli. Il Papa confuso fuggì in Castel S. Angelo con alcuni chierici di camera fra quali c’era Giovanni Rota di Castel S. Pietro che mai l’abbandonò e ne ebbe poi segni di riconoscenza.

Il Moncada fu poi chiamato dal Papa e con esso trattò una tregua per quattro mesi col patto che i seguaci del Colonna partissero da Roma ed il Papa ritirasse le sue genti da sotto Milano al di qua del Po.

L’Imperatore però non pensò di doversi fermare a questo e scrisse a Ferdinando suo fratello che gli spedisse 10.000 tedeschi da mettere al comando del Duca Borbone suo capitano generale in Italia.  Ferdinando non tardò molto a mandarli, infatti giunsero alla fine dell’anno 1526 alla volta di Milano. 

Il Borbone li spedi nel mese di marzo 1527 nel bolognese anche per vendicarsi del Papa. I bolognesi non si opposero poiché si era protratta per altri otto mesi la tregua fra il Papa e gli imperiali. Il Borbone invece, arrivato nel contado con 40.000 persone fra imperiali, tedeschi e spagnoli, cominciò a saccheggiare e bruciare terre, case, chiese e fare mille mali non lasciando alcun luogo sacro che egli, come eretico che era, non guastasse e contaminasse.

Alla metà del mese passò a Castel S. Pietro, la prima cosa che fece piantò due bombarde contro la porta maggiore del Castello e, cannonandola, le sfasciò le porte e i cancelli.  Poi ne piantò altre due contro la porta e il cassero della Rocca distruggendo i palancati e le caselle, quindi poi entrato nel castello mandò alquanti dei suoi guastatori al nuovo Ospizio dei Frati di S. Francesco e distrusse un pezzo della chiesa e dell’abitazione. Danneggiò la torre delle campane e portò via i grandi metalli. Spogliò gli agostiniani e sforzò le persone ad abbandonare le loro abitazioni.  Passando alla campagna fece prigionieri alcuni villani ostinati che non vollero fuggire sulle montagne. Incendiò fienili e distrusse alquante case nel paese. Furono condotte via ragazze e spogliate le chiese degli arredi più preziosi. Furono portati via quanti viveri trovarono e munizioni da guerra.  Il castellano e il commissario abbandonarono il paese per salvare la loro vita in tanto scompiglio.

Passarono poi i suoi guerrieri a Liano, Casalecchio e i castelli vicini ai quali smantellarono tutte le porte. Il primo saluto che davano erano colpi di bombarda. Dove trovavano resistenza spianavano e distruggevano fino alle fondamenta quei luoghi. In questo modo fu danneggiato il contado per più di 200.000 scudi.

Passarono per un po’ nella vicina Romagna da dove ritornando si diressero verso Roma valicando le montagne. Ciò sentito il Papa si ritirò in S. Angelo coi cardinali ed altri prelati.  Il Borbone, avanzato sotto la città, la assaltò ma fu sfortunato perché, ferito a morte, dopo poco terminò la vita.

I suoi soldati senza freno, entrati in Roma, la saccheggiarono e commisero infiniti mali, non perdonando né a chiese né a reliquie e nemmeno alle vergini sacre a Dio. Il sacco fu considerato di quindici milioni di scudi. Fu assediato il Papa in Castel S. Angelo.

Questa vicenda lacrimevole diede occasione anche ai paesani di diventare insolenti e farsi più audaci nelle loro iniquità. Per la qual cosa Antonio Maria Gozzadini, affinché fosse assicurato il luogo, chiese al Senato di essere creato commissario del paese per dare così mano a suo figlio estratto Vicario del nostro Castello. La richiesta fu accettata il 7 agosto 1527 col peso di donare una candela di mezza libra alla B. V. di Galliera.

Il Papa, assediato in Castel S. Angelo riuscì ad uscire il mese di dicembre travestito da prete e si rifugiò ad Orvieto accompagnato da Luigi Gonzaga capitano dei cavalieri francesi.

Dopo la presa di Roma Dio non tardò a punire quegli empi soldati poiché cominciò la pestilenza a cagione del gran puzzo di morti e per la carestia che affliggeva lo stato pontificio onde le genti morirono anche di fame.

Fra la città e il contado perirono più di 30.000 persone. Perché non perissero di fame nelle strade, furono raccolti molti fanciulli e fanciulle a Bologna e anche nel contado. Il Senato poi impose una imposta ad ogni fornaio cioè che pagassero in avvenire perpetuamente per ogni corba di frumento un bolognino d’argento che si chiamò il Bolognino del Morto. Lo scopo fu di avere, se venisse qualche altra pestilenza, una cassa per soccorrere la povertà.

L’anno seguente 1528 il Loutrec sentito il Papa al sicuro venne in Lombardia e quindi a Bologna. Il Duca Lodovico Conte di Vaidimonte generale dei tedeschi nella Lega ecclesiastica venne a Castel S. Pietro il giorno 10 gennaio e poco dopo venne ad unirsi il Loutrec nella Romagna per andare in Puglia.

Liberato il Papa e la sua corte colla taglia di 500.000 scudi, seguì dopo poco la pace anche perché Solimano si avanzava a danni della Cristianità ed approfittava della discordia del Cristianesimo. 

1529 ­– 1531. Pace di Cambrai tra Francesco I e Carlo V. Papa e Carlo V a Bologna per l’incoronazione a Imperatore. Terminato l’oratorio della Compagnia di S. Caterina. Cerimonia di incoronazione di Carlo V. Castellani vanno a combattere contro i Turchi.

Nel successivo anno 1529 il 5 agosto fu firmata la pace[41] fra l’Imperatore ed il Re Francesco e furono licenziate tutte le milizie che erano nel napoletano.

Finalmente si cominciò a riposare dai tormenti per il continuo passaggio di truppe e gli sconvolgimenti locali.

In seguito l’Imperatore venne in persona in Italia sia per confermare l’amicizia coi nuovi alleati sia per ottenere la corona e lo scettro imperiale dal Papa, che non aveva ancora ricevuto causa le vicende passate.  Fu stabilito che la cerimonia di incoronazione avvenisse nella città di Bologna. Si cominciò perciò ad assestare le strade nel bolognese.

Il 17 marzo 1529 Antonio Campana da Castel S. Pietro, che era il bombardiere e caricatore della bombarda del Senato, chiese di essere esentato dalle imposte sui piccoli pezzi di terra che gli erano stati concessi nella parte della fossa del Borgo già interrata.  Il Senato acconsentì colla condizione che servisse il Regimento gratis secondo i suoi bisogni.

Bartolomeo Rota di Castel S. Pietro, allo stesso modo del suo congiunto Giovanni Rota, chierico di Camera pontificia, l’8 giugno fu creato cittadino di Bologna.  Esso faceva lo speziale in Castel S. Pietro col genero Bolognino Landinelli.

La Comunità di Castel S. Pietro si governava a volte democraticamente a volte aristocraticamente per cui nascevano disordini. Per risolvere il problema si ricorse al Vice legato Uberto Gambara che il 6 luglio formulò alcune leggi per il buon governo. Il Senato il 16 dello stesso mese confermò la riforma del Consiglio che fu ridotto a 24 consiglieri e poi a 16, numero che durò fino al 1713.

Il 24 ottobre arrivò a Castel S. Pietro, proveniente dalla Romagna, per andare a Bologna Clemente VII con 28 cardinali, molti vescovi, prelati e la sua corte nella quale era il nostro chierico Giovanni Rota.  A richiesta di questo si fermò il pontefice nel Borgo, presso la chiesa della SS. Annunziata, e dette la benedizione papale alla popolazione ed al paese.

Giunto il Papa a Bologna non tardò molto a seguirlo Carlo V che il 5 novembre arrivò a Bologna con una moltitudine di Principi e Signori.

Il 10 novembre restò vacante la chiesa arcipretale di Castel S. Pietro per la rinuncia fatta da Don Orfeo Rossi. Subentrò Don Sebastiano Scarpa al quale fu data la conferma per Bolla pontificia il 29 dicembre.

Essendo terminata la costruzione dell’oratorio della Compagnia di S. Caterina, questa, desiderando di potere ascoltare in essa la S. Messa, ricorse al card. Lorenzo Campeggi, vescovo di Bologna, per avere la facoltà tenere un sacerdote o prete o frate per celebrarvi la S. Messa. Ascoltò il buon prelato la supplica e nel dì 18 gennaio 1530 ne firmò il decreto.

Essendo Carlo V a Bologna per essere coronato Imperatore, si fece la solenne funzione il 24 febbraio 1530, giorno per esso sempre felicissimo essendo in tale giornata nato. Preparate in S. Petronio tutte le cose necessarie per questa cerimonia il Papa cantò messa servito dall’Imperatore in vestito sacro.

La funzione consistette in questo: il Papa fece una solenne orazione davanti al trono, il nuovo Imperatore, genuflesso, ricevette lo scettro d’oro col quale comandare religiosamente le genti, poi la spada nuda con la quale perseguitare i nemici del nome di Cristo, quindi il globo d’oro figurante il mondo, affinché con pietà, virtù e costanza lo reggesse. Infine il pontefice prese la imperiale corona in mano e glie la pose in capo ed egli inchinandosi e baciandogli il piede adorò il Papa. Poi, avendo indosso il manto ricco di perle e gioie, fu condotto alla sinistra del Papa, in luogo più basso, a sedere in una sedia di broccato e fu indi proclamato Imperatore romano.

Erano nella piazza di fronte alla chiesa di S. Petronio tutte le fanterie e cavallerie di Antonio di Leyva[42],  che attendevano che venisse fuori la voce che l’Imperatore era stato coronato.  Appena saputo si sentì gridare: Viva Carlo V invittissimo e potentissimo Imperatore e difensore della fede! Nel frattempo sparò tutta l’artiglieria e la moschetteria in modo che con quel terribile strepito, colle grida, il suono di tamburi e di tutte le campane sembrava che il cielo cadesse e la terra si scardinasse.

Finita la messa il Papa andò a Palazzo e l’imperatore a S. Domenico. I castelli e le fortezze del territorio parteciparono a tanto giubilo col fare esse pure allegrezze e sparare con le bombarde delle Rocche.

A Castel S. Pietro Baldisserra Rota, padre del Giovanni chierico di Camera, manifestò la sua gioia dispensando pane e vino alla plebe. Ercole Bruni, padre dell’egregio capitano Annibale, e Virgilio Pirazzoli, anch’esso capitano di ventura, manifestarono la loro allegrezza facendo sparare ai soldati del paese i moschetti, i mortai e le spingarde della armeria locale del Conte Ramazzotto.

Non bastò al Bruni e al Pirazzoli questo festeggiamento di profana esaltazione ma ne resero anche grazie al Signore e, essendo entrambi confratelli della compagnia di S. Caterina, vollero il 27 febbraio fare eseguire la prima solenne messa nel nuovo oratorio e poi intonare dal clero il salmo davidico 97 Jubilate in conspectu Regis, al terminare del quale seguì la sparatoria di molti fucili.

Nel seguente marzo Carlo V partì da Bologna per la Lombardia e Clemente VII se ne ritornò a Roma passando il 21 marzo da Castel S. Pietro.

Mentre che il Papa era a Bologna Francesco Dalbambo gli presentò un memoriale esponendo che gli uomini di Castel S. Pietro occupavano molti beni soggetti ad un fidecomisso Dal Bambo e che per eludere la disposizione avevano assoggettati tali beni all’enfiteusi della chiesa di S. Giacomo e Filippo al ponte del Sillaro. Chiedeva il Dalmambo che fosse risolta la questione. Il Papa deputò per tale causa il Vicario generale di Bologna il quale decise favorevolmente la causa.

L’anno 1531 fu estratto Massaro, a norma dei nuovi Capitoli, Giovanni Rinieri. Intraprese egli il suo governo nel primo giorno di gennaio. Antonio Ghirardacci e ser Andrea Ghirardaccio, padre dello storico Fra Cherubino Ghirardacci dell’ordine eremitano, nazionale di Castel S. Pietro, avendo ottenuta la cittadinanza di Bologna il 29 luglio 1530, partirono dal paese e si stabilirono in città da cui poi Fra Cherubino si chiamò da Bologna.  Castel S. Pietro restarono però altre famiglie dello stesso casato.

Troviamo nei rogiti di quest’anno che c’era un beneficio laicale sotto l’invocazione di S. Girolamo di cui ne era rettore Don Marc’Antonio Comelli, ma non ne sappiamo l’origine. È certo che questo beneficio laicale era eretto all’altare maggiore, perché nella sua tavola è dipinto, per mano del Sacchi, S Girolamo. Non sappiamo nemmeno il fondatore per mancanza di carte e memorie. Successivamente dovette restare incorporato, come tanti altri benefici, nel beneficio parrocchiale.

Il Campione degli estimi del territorio di Castel S. Pietro, aveva bisogno di aggiornamento per i cambiamenti avvenuti negli anni. Fu rinnovato per mano di Fra Nicola da Bologna priore del convento di S. Bartolomeo in esso con bellissimo carattere si riscontrano tutti gli estimi reali e personali, imposte delle possessioni, soci e buoi esistenti.

Sono elencati pubblici rappresentanti: Giovanni Riniero Massaro, Tomaso Lasi, Annibale Bruni, Benedetto Topi, Luca Landini, Antonio Fabbri, Giovanni Dalla Muzza, Battista Rondoni, ser Francesco Comelli, Lodovico Ricardi, Orazio Barbieri, Domenico Dalsarto, Matteo Baldazzi e Matteo Andrini.

Troviamo nell’archivio parrocchiale che cominciò a segnare il nome de nascenti battezzati in un piccolo libretto di pergamena col titolo: Memoriale Baptizatorum, che prosegue fino all’agosto 1537.

Perché il Turco faceva grandi progressi contro il Cristianesimo il 12 marzo 1531 fu pubblicata in Bologna e nel suo contado la crociata contro quello che si stava muovendo verso l’Ungheria, minacciando di assalire Vienna con 300.000 combattenti e 30.000 guastatori. Si fecero per questo ovunque solenni processioni di penitenza. Fu fatta una Lega fra veneziani, spagnoli, italiani ed imperiali e si assoldarono molti capitani dei più bravi d’Italia e degli Stati pontifici.

Fra questi c’era Annibale Bruni con molti di Castel S. Pietro nel reggimento del Marchese Dulvasto ed andarono tutti nell’Austria a spese del Papa e poi nelle vicinanze di Belgrado ove era diretto Solimano. L’Imperatore da buon principe volle portarsi in persona a quella impresa. Quindi, preceduto dalla compagnia italiana speditagli in appresso da Clemente VII, arrivò a Vienna ove divise le sue genti in tre campi aspettando qui il nemico. Ma avuta la notizia che i boemi da una parte e i tedeschi dall’altra facevano gran danno ai turchi, si ritirò con una parte del suo esercito. Sebbene fosse diviso in due schiere l’esercito assalì i turchi e li sconfisse.

A tale notizia Solimano si diede alla fuga, fu inseguito per la Norea dai nostri italiani che lo cacciarono a Belgrado. In questa battaglia vi era Annibale Bruni al quale fu affidata una valorosa brigata di papalini. C’erano di Castel S. Pietro Nicola Fereri detto Guastamondo, Ercolesse Pirazzoli, Marc’Antonio Bandini, Francesco Comello detto il Bizarro, Domenico Zogoli detto Barbone, Tono Balduzzi, un certo Campana e Rondone Rondoni.

L’imperatore vedendo che Solimano si era ritirato e non aveva voluto affrontarlo, approssimandosi l’inverno, deliberò di tornare in Italia facendo la via di Venezia.

1532 – 1538. Carlo V e il papa si incontrano a Bologna, provvedimenti contro il Turco. Il Barbarossa prende Tunisi, Carlo glielo leva. Partecipa il nostro Annibale Bruni. Restauro delle maestà del nostro territorio. Peste a Venezia, Fra Angiolo da Castel S. Pietro si adopera e muore. Formazione della Lega Santa contro il Turco.

Arrivato l’anno 1532 fu eletto per Podestà del primo semestre Antonio Gozzadini, Massaro fu Pietro Frassini.

Il Papa sapendo che erano state ripartite molte terre e castelli del contado a diverse famiglie nobili bolognesi al tempo di Sisto V e ed erano state confermate con titolo di contee da Leone X e che accadevano spesso liti col Senato a motivo di contrasti sulla sovranità, con un suo Breve, segnato 20 gennaio, revocò e abolì tali contee.  Le famiglie erano queste: Castelli, Isolani, Piatesi, Caldarini, Bargellini, Felicini, Gozzadini ed altre e così restò loro il solo titolo.

Quest’anno le campane degli orologi, che fino ad ora battevano fino a 24 colpi, cominciarono a suonare a sei a sei in città e nel contado.

Clemente VII, che amava grandemente Giovanni Rota, suo chierico di camera, lo volle gratificare e prima di ritornarsene a Bologna e, essendo morta Lodovica Rossi concessionaria dell’uso della torre del nostro Castello, gli donò la medesima torre come si ha dal Breve datato 4 ottobre 1532. 

In questo documento si rileva quanto abbia favoleggiato Gian Lorenzo Vanti quando scrisse che questa torre era stata donata dal pontefice a certa Madonna Rizza perché mettesse a posto alcune sue figlie nubili per cui onde sarebbe stata chiamata la Torre delle Madonne e Zia Rizza.

È ben vero che nel 1616 certa Rizza Garetti esercitava in affitto presso questa torre l’arte di ostessa e magazziniera di vino come si legge in scrittura autentica fatta il 20 novembre 1616 nella quale risulta debitrice a Francesco Cuzzani di lire 7675 per 25 corbe Vino. Crediamo che il P. Vanti ed altri che su questa torre hanno scritto abbiano confuso la pertinenza del fondo con la locazione. Non bisogna sempre prestare fede alle tradizioni delle persone, che spesso sono travisate, mutilate ed alterate.

Perché il Turco non desisteva di attaccare la Cristianità ai confini dell’Austria, fu necessario che l’Imperatore decidesse provvedimenti col Papa, a questo effetto concordarono un abboccamento a Bologna. Clemente VII arrivato da Roma a Faenza avvisò il 6 dicembre i bolognesi che egli veniva a Bologna con 18 cardinali ed altri prelati. Il giorno 8, festa della Concezione, arrivò a Castel S. Pietro nel mezzogiorno e passò direttamente sopra una chinea bianca a Bologna. Il 13 dicembre arrivò Carlo V con molti signori e soldatesche che fece star fuori Bologna.

Nacque in quest’anno Orazio Samacchini in Castel S. Pietro, figlio di Domenico di Pietro Samacchini. Suo padre prese presto la cittadinanza di Bologna, ove si portò colla famiglia.  Fu celebre pittore a suoi giorni le cui opere lo distinguono per l’eccellente pennello. Fu maestro nell’arte e fu matricolato nell’Arte de’ bombasari e pittori nell’anno 1571 e morì nel 1577 in età di anni 45.

Nel seguente 1533 dopo molti incontri tra Carlo V e il Papa fu conclusa la Lega fra entrambi e con tutti gli altri principi d’Italia, esclusi i veneziani, per altri sei mesi.  Questo affinché l’Imperatore si occupasse della guerra col Turco nell’Ungheria. Decisero di assoldare gente a spese comuni nominando Capitano Generale di tutta l’armata d’Italia Antonio da Lera. Ciò fatto Carlo V partì l’ultimo di febbraio e Clemente VII il 3 marzo da Bologna ritornando alla Romagna per questa via consolare. Il Papa fece poi Generale dell’armi ecclesiastiche Pier Luigi Farnese[43] Duca di Castro.

Dove la Compagnia di S. Caterina aveva edificato il suo Oratorio vi erano di fianco rovine di edifici di Matteo Ronciani, Giangiacomo Dalla Rosa e Cristoforo Rondoni ove si facevano misfatti e si disturbavano le funzioni sacre. 

Tali rovine furono comprate dalla compagnia l’11 agosto e vi fu costruito attorno un contorno di mura levando ogni occasione di disordini.

Nell’anno poi che seguì 1534 fu definita la causa tra gli Uomini della Comunità e Francesco Dal Bambo a favore di questo.  La Comunità fu condannata non solo alla restituzione dei beni controversi, ma anche al rimborso dei frutti percepiti dall’anno 1496 fino a questa epoca. Si appellò la Comunità avanti il Prolegato ma poi le parti si accordarono.

Il 25 settembre 1534 morì Papa Clemente VII, gli successe il 12 ottobre il card. Alessandro Farnese d’anni 70 prese il nome di Paolo III.

La città di Bologna per tale elezione cambiò governatore. Infatti partì il fiorentino Francesco Guicciardini[44] uomo erudito e scientifico.  Venne Benedetto Bontempi come Luogotenente che rimase poco e il 12 novembre arrivò come Vice legato Giovan Maria Dalmonte. La legazione era ancora del card. Innocenzo Cibò. Respirò la città e contado di Bologna alla partenza del Guicciardini, che quanto era uomo letterato altrettanto era austero, rigido e per ciò malveduto. Egli fu l’unico non ecclesiastico che i pontefici mandarono al governo di Bologna.

Resasi vacante questa chiesa arcipretale per la morte di Don Orfeo Rossi, la Comunità di Castel S. Pietro, a cui spettava la presentazione del nuovo parroco, presentò al Capitolo di Bologna Don Agostino Comelli il 13 novembre 1534 ma il Capitolo non attese la presentazione e, nominato Don Leone Leonori gli conferì la chiesa. La Comunità e si sentì lesa e ricorse agli atti giudiziali facendo esaminare testimoni sopra suo diritto, ponendo la causa avanti il Vice legato Vincenzo Gambara. Questi perché la chiesa non restasse intanto sprovvista del suo capo locale, la conferì al suo segretario Vincenzo Bovi con la deroga allo Jus patronato per questa sola volta.

Nelle carte dell’archivio pubblico troviamo che fino a questo anno i Castellani dovevano risiedere nelle rispettive Rocche, l’ultimo per Castel S. Pietro fu Vincenzo Orsi che il 4 gennaio 1535 fu confermato castellano della Rocca grande.

Il pirata rinnegato Ariadeno Barbarossa[45], essendosi collegato con Solimano che avanzava negli stati dell’Austria, prese Tunisi e la Goletta e si avanzava ai danni del Cristianesimo. L’Imperatore Carlo V fu costretto assoldare molta gente e capitani italiani che, avanzati coi tedeschi e alleati, quest’anno lo sconfissero e gli levarono Tunisi. In questa spedizione fu arruolato il nostro Annibale Bruni e fu l’ultima campagna che egli fece, le sue gesta le riferiremo al fine della sua vita nel 1555.

Volendo il Vice legato Giovan Maria Dalmonte sistemare la giudicatura delle cause civili di Bologna per i grandi disordini che vi erano, ordinò, colla approvazione del Papa, un Consiglio di cinque legali forestieri che fu poi detto la Rota. Successivamente provvide al Tribunale Criminale che fu levato di mano ai Civici bolognesi e ai Giusdicenti del contado, che avevano facoltà di punire fino alla pena capitale.

Don Vincenzo Bovi, divenuto parroco di questa chiesa plebana, la prima cosa che fece fu di ordinare alla Comunità il restauro di tutte quelle cellette dette comunemente maestà, che erano edificate sul suolo pubblico nelle vie maestre. Tra queste troviamo la maestà della Crocetta che era quasi sul mezzo della via romana poco distante dal Borgo di fronte la via Cupa che porta a Poggio. Questa per essere di intoppo ai viandanti è stata abolita ai nostri giorni e solo resta ai terreni vicini il nome di Crocetta. Una maestà levata pure essa ai giorni nostri, era ove esiste un piccolo pilastro nell’angolo della via circondaria la fossa del Castello, nella via che porta al canale in faccia al palazzo Vachi. Abbiamo poi la maestà detta di Virgilio Dalforte nella via che porta a Medicina, ora detta di S. Carlo, fuori del Borgo. La maestà detta della Sega, la maestà di Poggio, alla quale fu sostituita la chiesa della B. V. di Poggio a spesa della Comunità. Infine la maestà esistente nell’angolo della imboccatura della strada che dalla via romana porta a Castel Guelfo detta la Madonnina di Carnone, dedicata a S. Maria Lauretana.

Poiché la facoltà giudiziaria e l’autorità del Giudice civile di Castel S. Pietro era poco ampia e quindi era opportuno ampliare la sua giurisdizione, fu fatto ricorso al Senato onde a ciò provvedesse. Era anche necessario che gli estratti a questo ministero venissero sul posto a rendere ragione anche perché i poveri territoriali dovevano portare le loro cause alla città con spese tali che era più conveniente subire il torto. Il Senato riconobbe la verità del fatto e con decreto del 4 gennaio 1536 ampliò la giurisdizione, accrebbe il salario mensile ai Podestà estratti e concesse a medesimi la facoltà di esercitare la Pretura conforme le altre del contado.

Il 15 febbraio Vincenzo Fabbri ottenne la cittadinanza di Bologna.

Filippo Strozzi che cercava il comando di Firenze e aveva una mortale inimicizia con Cosimo de Medici, fu cacciato coi suoi aderenti e partigiani.  Furono inseguiti e si venne allo scontro con le armi a Monte Murlo e furono battuti i strozzeschi. Fra i partitanti di Filippo vi era Domenico Bartolucci che, vedendo la mala parte, fuggì colla famiglia nel bolognese tenendo la strada dalla parte di Sassoleone e poi si stabilì in Castel S. Pietro.

Si usava in questo tempo, quando si portavano fanciulli al sacro fonte per battezzarli, presentarsi alla chiesa con piccole porzioni di sale allo scopo di eseguire le funzioni ecclesiastiche. Quando si portavano esposti alla Ruota gli appendevano al collo un sacchettino di sale per denotare che l’infante non era battezzato.

Accadde quest’anno 1536 che in primavera furono portati cinque neonati provenienti dalla Romagna alla Rota ed Ospitale di S. Caterina nel Borgo del nostro Castello, che furono tutti in una volta esposti col noto segnale.  Accortosi di ciò il custode di quel pio luogo, avvisò il Massaro e si cominciò a battere la campana e, sapendo che l’uso del sacchettino era romagnolo, si diedero alcuni col Massaro ad inseguire i malfattori. Li trovarono avanti nella strada aspettati da tre cavalli sui quali, subito montati, si diedero ad una fuga veloce verso Imola. Non riuscirono a raggiungerli ed affrontarli, cosi ché rimase alla compagnia di S. Caterina il peso dei cinque esposti. L’offerta del sale si pratica tutt’ora nel Comune della Selva nel bolognese. Questa offerta iniziò dai primi giorni che nelle pievi di campagna con scarsi redditi si eressero i fonti battesimali.  Simile uso che fu poi abolito nel nostro paese, lo ritroviamo annotato non più oltre 1570.

Il 26 agosto di questo anno 1536 troviamo nuovamente riformato il Consiglio di Castel S. Pietro dal Regimento di Bologna, ma questa riforma non la ritroviamo nel Libro dei Partiti né sappiamo scioglierne l’enigma.

Fu estratto Massaro per il primo semestre anno seguente 1537 Francesco Comelli e Podestà Andrea Angelelli.

La famiglia Zanini di questo luogo prese la cittadinanza bolognese il 29 aprile 1537 come abbiamo nelle carte in questi termini: 1537. 29 Aprilis. Gregorius Magistri Zanini de Castro S. Petri factus fuit civis. È da notare che il titolo Magister si dava ai solo Dottori, infatti Magister in latino significava come Dottore in toscano.

All’entrare di luglio fu Massaro per il secondo semestre Benedetto Zoppi e Podestà Nicolò Bargellini

Gli annali cappuccini riferiscono che, trovandosi la città di Venezia colpita dalla pestilenza con grande mortalità di persone, i ministri del culto non si prestavano facilmente ad assistere gli appestati. Fra Angiolo da Castel S. Pietro, sacerdote del nuovo istituto cappuccino, che fu uno de primi che vestì quelle ruvide lane, mosso da ardente carità si portò con un suo compagno a quella città ad amministrare i sacramenti che, per la fierezza del morbo erano rimasti in pochi disposti a somministrarli.  Tanto si adoperarono con vero ardore cattolico che, cessato il morbo, apparve loro il Redentore, senza che l’uno sapesse dell’altro, e loro comandò che ritornassero alla loro patria ove, dopo quindici giorni avrebbero ricevuto il premio delle loro fatiche. Ritornati a Bologna furono chiamati alla vita eterna e Frate Angiolo finì i suoi giorni il primo giorno di gennaio 1538 in aspetto di santità. Ebbe il suo sepolcro nella città di Bologna. Il luogo preciso non ce lo segnano. A questo degno sacerdote, che si vuole sia della famiglia Cheli noi ne abbiamo scritto un piccolo elogio al quale dirigiamo l’amante lettore dei nostri scritti, con tutte le altre notizie che di questo soggetto abbiamo potuto recuperare.

Riconoscente Papa Paolo III del buon servigio militare prestato dal capitano Annibale Bruni di Castel S. Pietro alla S. Chiesa, tanto sotto il pontificato di Clemente VII, quanto sotto lo stesso Paolo III, il 6 gennaio 1538 lo dichiarò benemerito di S. Chiesa mediante Breve apostolico, inoltre lo dichiarò nobile e cittadino bolognese e infine lo esentò dal pagamento di tutte le imposte sui suoi immobili.

Il Turco intanto assaltava le coste napoletane e minacciava il veneziano. L’Imperatore sollecitò col Papa la formazione della Lega[46]. Fu questa fatta nel seguente febbraio con queste condizioni: che l’Imperatore armasse 82 galere, altrettante i veneziani e 36 il Papa per un totale di duecento. Che il Papa vi mettesse i marinari e i soldati. Che le città libere e Principi d’Italia dovessero contribuire a questa spesa[47]. In questa armata si assoldò pure Annibale Bruni di Castel S. Pietro in qualità di capitano e andò alla difesa di Corfù con 15.000 italiani. In questa occasione passò pure al soldo dei veneziani Lodovico Dall’Armi nobile bolognese con Alessandro Campana da Castel S. Pietro, uomo di grande coraggio e fedeltà non che bellicoso.

Resasi vacante la chiesa plebanale di Castel S. Pietro fu tosto conferita ad Ippolito Malvezzi colla deroga del Jus patronato, come scritto nell’Archivio comunitativo in questi termini: Hipolitus Malvitius obtinuit cum derogatione Juris Patronatus 1538.

Avendo cominciato a fare miracoli la immagine di M. V. fuori di strada Maggiore di Bologna, che ora è nella chiesa degli Scalzi, tantissimi vennero dai paesi vicini a visitarla come pure tutte le pie corporazioni della diocesi. Troviamo nelle memorie della soppressa compagnia di S. Caterina del nostro Castello che, con quella di S. Bartolomeo, nel settembre fecero ancor esse tale visita.

 1539 – 1546. Abbattuto il rivellino in piazza e merlature in pericolo. Passaggio del Papa per incontro con Carlo V a Bologna. Decisione di demolire la Rocca per evitare le spese di mantenimento. Istituita a Castello la Compagnia del SS.mo Sacramento. I Morelli chiedono di usare il suolo della Rocca. Muore Annibale Bruni, sue imprese.

Chi fosse il Massaro del P. S. e del S. S. non sappiamo. Il Podestà per il primo semestre 1539 fu Paolo Poeti e per il secondo semestre fu Alesandro Gozzadini.

Lo stipendio dovuto al Castellano della Rocca del nostro castello quest’anno fu dato a Giacomo Laudo, segretario del cardinale di S. Fiore poco fa Legato di Bologna.

Nel mese di luglio, avuta scarsa raccolta, il frumento ascese a lire 15 la corba, prezzo esorbitante in questi tempi ed era di cattiva qualità.

Lorenzo Campeggi vescovo di Bologna, avanzato in età, essendo a Roma per affari della S. Sede, gravato da podagra e tormentosa dissenteria, passò il 19 luglio all’altra vita. Il dispiacere fu comune alla città e alla diocesi che ne testimoniò al popolo mediante il suono di campane di cordoglio in ogni luogo pio. Il Papa riconoscente dei suoi meriti lo dimostrò nella elezione a vescovo di Bologna di Alessandro Campeggi, figlio del defunto vescovo, prima che fosse sacerdote, e di Francesca Guastavillani.

Lodovico Dall’Armi, che aveva servito in qualità di ufficiale maggiore nella truppa pontificia, avendo avuto parole con Matteo Bernardi, gentiluomo veneziano nobilissimo e ricchissimo, lo fece uccidere a Venezia da Alessandro Campana di Castel S. Pietro suo fedelissimo scudiero. Però dopo poco tempo questi fu preso e, condotto in città, ucciso. Il Dall’Armi non molto tempo prima, unito al valoroso Campana ed altri nobili senesi, tentò di far ribellare la città di Siena a Carlo V e darla a francesi. Ma il suo disegno fallì ed essendo in Venezia dopo l’omicidio del Bernardi, fu preso e mandato a Carlo V che lo fece decapitare nell’anno seguente.

Il 30 novembre 1539 Papa Paolo III ordinò per sua Bolla che si erigessero le compagnie del Santissimo Sacramento ove non c’erano.

Cesare Calzolari, oste nel Borgo di Castel S. Pietro, era creditore di 200 lire per sussistenza passata ai militari in occasione della morte di Leone X, dopo replicate istanze fu dalla cassa pubblica di Bologna soddisfatto.

Perché il portello col levatoio nel fianco destro dell’ingresso della Rocca grande era inutile per la sua qualità, come pure la porta, fu fatta chiudere a spese pubbliche e terminato il lavoro fu segnata la data, 15 febbraio 1540, scritta in calce dall’operaio sul vertice della leva della stessa porta.

Il 21 aprile Giovanni Tempesta da Castel S. Pietro, famoso ladro oltre che uomo facinoroso, essendo stato preso dalla Corte e condannato all’ultimo supplizio, fu condotto per la esecuzione della sentenza alle carceri di questa sua patria.  Egli cominciò a simulare pazzia battendo tutto il giorno e notte coi piedi e colla catena il suolo della cella. I custodi non ci fecero caso.  Ma la notte del 23 il Tempesta fece un foro sotterraneo nella parete divisoria della cella che corrispondeva coll’altra sotto il portico della residenza pubblica. Passò da quella a questa forse con animo di fuggire e gli sarebbe riuscito se la notte fosse stata più lunga. La mattina seguente del 24, le guardie accortesi del fatto, gli strinsero i ferri e lo incatenarono al muro. Avvisato il cardinale Ferrero Legato di Bologna, questi ordinò alla Compagnia della Morte di ultimare la condanna.  Quindi si portò a Castel S. Pietro Messer Giovan Antonio Casali priore della compagnia con molti altri. Pianta le forche in mezzo la piazza, assistito dai confortatori, fu impiccato. I suoi consanguinei per evitare la vergogna e le provocazioni degli altri paesani emigrarono dal comune.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre 1541 Romeo Foscherari che ne prese il possesso il primo gennaio. 

Qui riscontriamo da una piccola carta nell’archivio comunitativo che furono pagate lire 10 ad Innocenzo Francucci per una Madonna su tavola, pensiamo che fosse quella di M. V. di Poggio.

La Comunità aveva comprato da Graziadio Forni una piccola casetta per unirla alla residenza pubblica del Giusdicente e poiché questi prestava il suo ministero a tutte le comunità soggette alla Giusprudenza di Castel S. Pietro dovevano pure esse concorrere alla spesa, ma rifiutarono.

Fu fatto ricorso al Senato dimostrando che tutti i vicariati sottoposti alla Giurisdizione di Castel S. Pietro dovevano contribuire all’acquisto della casa, fu ordinato perciò che pagassero la rispettiva quota.

Quali fossero i vicariati sottomessi a Castel S. Pietro l’abbiamo di sopra elencato cioè Liano, Varignana, Casalecchio, Ozzano e Castel de’ Britti colle sue ville. Siccome nei restauri fatti ad alcune Rocche del territorio vi erano rimasti rottami ed altri materiali, il Senato decretò che dal ricavo della vendita di tali materiali si pagassero 300 lire al sig. Alessandro Mangioli Questore pontificio di Bologna.

Nel nostro Castello furono abbattute fino al suolo le mura della piccola torre quadrata che era in mezzo la piazza del Castello della quale se ne vedono i fondamenti a livello del selciato, furono pure levate le merlature degli altri edifici che erano in pericolo e questi materiali caddero tutti sotto la vendita di cui sopra.

Nel mese di aprile fu fatta la campana maggiore del nostro comune. La fusione fu fatta nell’orto degli Serpa ora Calderini, poi Ghisilieri e Pasi. L’autore fu Anchise Censore che era miglior fonditore di metalli in questo tempo.

Fu estratto Podestà per il secondo semestre 1541 Alessandro Pepoli, che fu però sostituito da Achille Bianchetti. Questi oltre avere ben sistemato le cose della podesteria, fece anche restaurare il suo ufficio e, perché si riconoscessero i lavori fatti fare da lui, fece dipingere a scacchi, significanti lo stemma pepulesco, tutta quella parte che aveva fatto restaurare e perfino le carceri corrispondenti sotto il portico della residenza pubblica, colla sola diversità che gli scacchi bianchi erano colorati in giallo. Il tutto fu ripulito nel 1760.

La setta luterana faceva grandi progressi ed era anche appoggiata dal Turco, che voleva pure impadronirsi della Germania. Carlo V Imperatore e le altre potenze cattoliche decisero di incontrarsi in un concilio[48]. Fu informato il Papa ma perché era necessario un abboccamento fra Carlo ed il Papa questi pensò perciò di venire a Bologna per incontrarsi. Venne egli dalla parte di Romagna e Il giorno 25 settembre partì da Imola accompagnato da quella nobiltà, prelati, clero e magistrato imolese. Il seguito del pontefice era di 16 cardinali, chierici di Camera, uditori di Rota e molti alabardieri.

Arrivato al nostro ponte sul Sillaro fu salutato collo sparo di alcuni cannoni, portati dalla guardia bolognese. Fu ricevuto dalle autorità principali della città al Borgo al cui ingresso c’era un bellissimo arco fatto da eccellenti apparatori bolognesi. Tutta la contrada era ripulita e piene le finestre e il porticato di tantissime persone. Tutta la montagna e la collina era qui discesa. Perché non seguisse affollamento e quindi imbarazzo al seguito papale, il lato nord della strada ove non c’erano fabbricati, fu recintato con lunga sprangata di travicelli lungo i quali, perché non fossero superati, camminavano le sentinelle e i militari paesani sotto il comando del capitano Ercole figlio di Annibale Bruni.

Il Papa era portato sopra una sedia dai suoi palafrenieri e precedeva il tabernacolo col SS.mo attorniato da lampioni. A chiunque si genufletteva dispensava la Papale benedizione. Giunto in fronte alla porta del Castello si fermò e, come i suoi predecessori che di qui erano passati, diede al Castello la Papale benedizione. A seguito della quale risposero con allegrezza i baluardi del Castello mediante lo sparo di spingarde e lo scoppio dei cannoni bolognesi. Quindi proseguì immediatamente il suo viaggio a Bologna.

Stette nella città fino al 6 ottobre di dove partito ripassò dal nostro Borgo solennemente accompagnato dalle autorità militari e civiche di Bologna. Dalla Cronaca Cattani abbiamo che i cannoni di Bologna furono dodici con due bombardieri e ventiquattro spingarde, queste artiglierie non si mossero dal Castello finché il Papa non fu ritornato nella Romagna.

L’anno seguente 1542 venne a Bologna come Legato Gaspare Contarini veneziano, questi si mise a punire rigorosamente i malvagi. Benedetto Cortapelle da Castel S. Pietro con Francesco Baratino per avere violentata Diamante Bicurelli, furono entrambi impiccati.

In passato il palazzo del Legato era guardato da truppa tedesca, questa fu licenziata per ordine pontificio e furono fatti arrivare gli svizzeri che furono vestiti di uniforme rossa con trine di velluto nero. Il Legato Contarini, che si era ammalato, morì in Bologna il 24 agosto 1542.

Vista la Bolla del Papa sopra le confraternite del SS.mo SS.to, non fu indolente l’attuale arciprete Ippolito Malvezzi a formarne un particolare corpo in questa arcipretale. Troviamo in un piccolo campioncello un elenco di confratelli destinati al servizio delle funzioni e sono i seguenti Galeazzo della Serpa, Antonio Samacchini, Bernardino Muzza, Cristoforo Rinieri, Teofilo Marini, Pietro Ghirardacci, Carlo Bertuzzi, Giacomo Muzzi, e Don Antonio Comelli. Quale fosse il loro officio e ministero non si accenna se non che sono indicati nel foglio: Confratelli del SS.mo per l’anno 1542

Nelle carte comunitative troviamo per Massaro del primo semestre anno 1543 Giovanni Rondoni e Podestà Giovanni Francesco Fantuzzi in luogo del padre senatore Carlo Antonio Fantuzzi.

Avutasi notizia che il Papa ritornava a Bologna furono fatte accomodare le strade guastate dall’inverno.  Venendo da Imola il Papa passò il 17 marzo 1543 nel bolognese e su le ore 18 italiane arrivò a Castel S. Pietro accompagnato da 20 cardinali. Fu ricevuto col saluto di dodici spari di cannone trasferiti da Bologna al nostro Castello, in tale occasione vi fu grande concorrenza di popolo a ricevere la benedizione Papale che dispensava passando.

Perché erano divenute inutili le spese per le fortezze del contado e per il mantenimento dei castellani, il Senato fece ricorso al Papa per avere la facoltà di demolirle. Questi, riconosciuto giusto l’esposto, accordò il permesso. Quindi il Senato deputò l’Assonteria di Munizione all’esecuzione. L’11 aprile 1543 furono deputati Carl’Antonio Fantuzzi ed il Bianchini con i due guastatori Giovanni e Leonardo Muratori da Piacenza che, visitata la rocca, decisero la estensione, la quantità e la qualità del lavoro.

Il Papa abbisognava di contanti per sostenere la guerra col Turco.  Ne ricevette da varie comunità del contado che compensò col graziarle di privilegi. Questa di Castel S. Pietro per confermare maggiormente le esenzioni da ogni dazio e gabella per i giorni di mercato ricorse al Papa per la conferma dei privilegi sborsando 3.000 scudi raccolti dai paesani. Ebbero la grazia mediante Breve apostolico dato in Bologna il primo giugno 1543.

Per la grazia ottenuta dal Papa di conferma delle esenzioni si fecero festeggiamenti particolari e i Rinieri, i Fabbri e i Bruni distribuirono pane alla bassa popolazione. Per tale concessione molte famiglie dei vicini paesi ed anche bolognesi si stabilirono in Castel S. Pietro non solo per il traffico ma anche per l’esercizio delle loro professioni e smercio delle manifatture. Troviamo perciò che Paolo Marini pellacano[49] di Bologna venne con suo fratello ad abitare in Castel S. Pietro. Così pure il fabbro Vanduzzi e la famiglia Serenari.

Dopo essersi il Papa incontrato con Carlo V in Bologna[50] e decise molte cose, partì da quella città e l’11 giugno ripassò da Castel S. Pietro alla volta d’Imola. Gli evviva e gli applausi che riscosse dai nostri castellani per la conferma delle esenzioni furono entusiastici.

Il primo luglio fu Massaro Francesco Comelli per il venturo semestre, Podestà fu Gian Andrea Bolognini.

L’28 agosto Leonardo di Piacenza risultò debitore verso l’Assonteria di Bologna della somma di 120 lire per valore di pietre ed altri materiali avuti nelle demolizioni della Rocca grande di Castel S. Pietro.

Don Antonio Comelli, volendo dimostrare alla Compagnia del SS.mo SS.to la sua amorevolezza le donò un’immagine in stucco di Cristo Crocefisso agonizzante. La Compagnia la espose sopra il suo altare nel piccolo oratorio unito all’altare di S. Biagio e della Compagnia del buon Gesù.

Spianata la parte della Rocca che si estendeva nella piazza del Castello, Orazio Morelli e fratello chiesero al Senato il suolo della medesima. Si offersero di fabbricarvi allo scopo di introdurvi poi il mercato. Il Senato il 15 ottobre 1543 concesse il richiesto suolo ai Morelli, che abitavano di fronte, con facoltà di potervi fabbricare un portico lungo piedi 60 e largo 12 per ornato della piazza et pro comodo mercatus .

Giunto l’anno 1544 non abbiamo alcuna notizia di quelli che coprivano le cariche di Massaro e Podestà. Abbiamo nei libri degli atti giudiziali di questa Pretura che fu eletto dal governo per tutto l’anno Angiolo Michele Guastavillani.

Per rendere più sensibile al cuore dei fedeli la rappresentazione della Passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo fu introdotta nella chiesa arcipretale la rappresentazione della Passione nella settimana Santa. Non sappiamo il preciso tempo né l’autore solo che per questa funzione il giovedì santo arrivavano anche i popoli vicini. Alla fine si accompagnava al sepolcro un crocifisso deposto dalla croce, dopo essere stato portato processionalmente per il Castello e Borgo dalla Compagnia di S. Caterina sopra un cataletto.

Accadde che sia per il comportamento del cappellano parrocchiale che per la perorazione del predicatore sopra di un palco, alcune donnicciole di montagna presenti, compassionando le afflizioni di Gesù Cristo, con voci sommesse e lamentevoli, lacrimavano.  Queste furono prese di mira da Michelino Lasi e Teofilo Comelli che cominciarono a imitare i loro lamenti e a deriderle. Una di esse, stancata, diede uno schiaffo a Michelino. Fu tale la vergogna che provò e il dispiacere del suo collega Teofilo che al momento non fecero parola ma nell’uscire di chiesa urtarono le donnicciole sulla porta e una cadde supina. Nacque dello scompiglio e i villani che le accompagnavano vennero a parole con i su detti e dalle parole alle minacce. Incamminandosi i villani alla volta della montagna quando arrivarono alla svolta che conduce a Liano furono assaliti dai Lasi e Comelli che avevano con sé Enea Astorri e Nanne Bicurelli.

Si cominciò una baruffa di pugni, ma i villani, armati di bastoni, percossero gli avversari. A tale rumore e rissa accorsero dei paesani e convenne a quelli fuggire velocemente verso la montagna, furono inseguiti fino presso Liano e, abbandonati dalli inseguitori, andarono alle loro abitazioni. Le donne sbigottite presero un’altra strada per ritornare al loro paese.

I villani di Sassuno si chiamavano Benedetto Casoni e Francesco Fiorini, giovinastri di grande ardore ed erano dei più bravi di Sassuno. Questo luogo era un forte Castello sopra le vicine montagne, cinto di mura che ai tempi addietro era guardato dai bolognesi.  Era in una situazione tale che per la ripidità del monte non poteva essere preso dai nemici per assalto. Fu questo forte edificato dalla nobile famiglia Sassoni di Bologna, la quale nel modo che è rovinato quel castello così si è estinto il casato.

Nel seguente 1545 fu eletto Podestà di Castel S. Pietro Tomasasso Marescotti per tutto l’anno.

Si voleva pure nel presente anno replicare la funzione della rappresentazione della passione di Cristo Signore nostro, ma il card. Muroni Legato di Bologna avvisato dell’accaduto dello scorso anno, proibì al cappellano Don Alessandro Butorini ed a Fra Gregorio predicatore di rappresentare la Passione come lo scorso anno ma di predicare secondo la consuetudine.  Fra Gregorio era priore di questo convento di S. Bartolomeo.

La figura di questo Cristo, con la quale la compagnia di S. Caterina faceva la processione la riconosciamo in quella immagine che anche a nostri tempi si conserva nella chiesa della suddetta soppressa compagnia. La si vede appesa ad una grossolana croce di legno. La figura è flessibile nella giuntura delle braccia ed a mezzo del corpo, doveva essere così flessibile per adattarla alla bara e cataletto durante la processione ma anche per poi deporla in un avello che nella settimana santa si poneva nella cappella della Compagnia. Abolita la rappresentazione restò solamente la processione della Immagine che si proseguì a fare fino al 1692.

Il capitano Annibale Bruni nel mese di luglio si ammalò gravemente e terminò la sua vita all’età di 48 anni. Lasciò due figli maschi Marc’Antonio ed Ercole. Fece testamento e lasciò per curatrice sua moglie Cornelia Comelli. Le sue gesta furono lasciate in epilogo scritte dal Vanti. Militò in primo luogo sotto Francesco di Valois nella guerra d’Italia in diversi luoghi e sotto il Re di Napoli, sotto i veneziani nel regno di Cipro e Dalmazia contro il Turco. Militò sotto Carlo V nella Germania e Norea. Militò sotto i pontefici Clemente VII e Paolo III nelle guerre della Chiesa. Meritò da quest’ultimo la cittadinanza di Bologna. Se ne legge di tutto ciò la memoria nella chiesa de P. P. de Servi di Bologna alla sinistra dell’ingresso maggiore incisa in macigno in fronte della quale vi è lo stemma del suo casato rappresentante un leone rosso rampante in fondo turchino e sopra tre stelle. I suoi figli Marc’Antonio ed Ercole furono ancor essi bravi militari e vissero fino al 1607.

L’anno 1546 entrò Massaro ser Francesco Comelli e Podestà per tutto l’anno Giovan Battista Bianchini.

Il Papa Paolo III che era buon governatore non solo nel temporale ma anche nell’ecclesiastico, avendo singolare devozione al Santissimo Sacramento ordinò che ogni prima domenica del mese si dovesse fare nella città e diocesi di Bologna la processione con l’augustissimo Sacramento.

La compagnia eretta nel nostro castello sotto lo stesso titolo non fu negligente ad eseguire sì bell’istituto e perciò la prima domenica di aprile l’arciprete Don Ippolito Malvezzi fece entro tutto il Castello tale processione alla quale intervenne anche la compagnia di S. Caterina e i frati di S. Bartolomeo dell’ordine agostiniano.

Erano in questo tempo confratelli della compagnia, Battista Rondoni, Conte Pompeo Ramazzotti, Vincenzo Mondini, Matteo Fiegna, Giacomo Muzzi, Francesco Comelli, Battista Farnè, Francesco Cavazza detto Cavazzino, Giovanni Morelli, Francesco Gavoni, Giovan Battista Fabbri, Riniero Rinieri, Antonio Topi, Virgilio Dalforte, Gnitto Gnitti ed altri.

Il primo di luglio entrò Massaro per il secondo semestre Matteo Ronzani.

L’arciprete Ippolito Malvezzi ammalatosi gravemente dopo un mese finì i suoi giorni all’inizio di ottobre1546.  La Comunità non tardò la nomina del nuovo parroco. Il 28 ottobre presentò Don Giambattista Comelli. Ma saputa una tal nomina il cardinale Alessandro Farnese, nipote del regnante pontefice e cancelliere di S. Chiesa, si fece nominare a questa chiesa non ostante la presentazione della Comunità. Di qui avvenne poi che questa chiesa fu anche nominata cattedrale, perché quantunque non avesse qui la sua residenza, il porporato vi teneva alcun tempo la cattedra.

1547 – 1551. Per la pestilenza il Concilio da Trento si trasferisce a Bologna. Corpo Comunitativo portato a 40 componenti. Castellani per la guerra al Turco partono per Cipro. Il nuovo papa Giulio III conferma i privilegi di Castello. A Poggio appare le Madonna ad Antonia Bandini. Si fa la nuova chiesa.

Francesco Comelli fu estratto Massaro per il primo semestre 1547 e Gerolamo Guidonico Podestà per tutto l’anno, l’uno e l’altro presero il loro possesso il giorno primo gennaio alla presenza dei pubblici rappresentanti che erano Battista Farnè, Mattia Ricardi, Michele Lavia, Battista Rondoni, Cristoforo Rinieri, Orazio Morelli, Gaspare Pirazzoli, Sante Gnitti, Lodovico Riccardi, Carlo Balduccio, Sebastiano Cheli, Giovanni Lasi, Marc’Antonio Fabbri e Giacomo Muzzi.

Essendo morto Antonio Campana di Castel S. Pietro, chiaro fonditore a Bologna di metalli e cannoni, il Senato nel il 5 marzo deputò per pubblico bombardiere suo figlio Pier Francesco.

La pestilenza si stava espandendo nel trentino, perciò i padri che a Trento stavano uniti in Concilio[51], per il timore di essere contagiati chiesero al Papa di trasportare il Concilio a Bologna. Il Papa lo ordinò e nell’aprile si trasferirono a questa città ove nel palazzo Campeggi, già di Annibale Bentivoglio in via S. Mamolo, fecero alcune sessioni.

Era usanza dei pontefici concedere a loro piacere a vescovi ed a cardinali in beneficio chiese parrocchiali ove si facevano poi sostituire da cappellani e vice parrochi. Il Papa approfittò del Concilio per togliere questo disordine.

Questa nostra arcipretale, che era stata conferita al cardinale Alessandro Farnese fu subito rinunciata a Marc’Antonio Malvezzi che nel settembre ne prese la tenuta e allora cessò la cattedra nella nostra chiesa.

Il primo luglio 1547 entrò Massaro Battista Farnè per il secondo semestre

Verteva lite civile tra la famiglia Toni compadrona del Beneficio di S. Biagio eretto nella arcipretale con l’arciprete a motivo dell’incorporazione dei fondi del Beneficio con quelli della chiesa. Il nuovo arciprete Malvezzi, desideroso della pace coi suoi parrocchiani, venne ad accordo il 27 settembre a rogito di Bartolomeo Algardi.

Orazio Morelli divenuto tanto facoltoso da potersi stabilire in città, chiese al Senato la cittadinanza che gli fu accordata il 19 dicembre.

Per la nostra podesteria di Castel S. Pietro che da qualche tempo veniva conferita dal governo per un anno fu, nell’anno 1548, ripreso l’uso dell’assegnazione semestrale. Fu estratto Lodovico Masetti per il primo semestre e non potendo esso attendere al ministero, il Senato lo sostituì con suo figlio.

Nella via maggiore del Castello, nella parte inferiore nel quartiere piccolo, c’erano due pozzi che oltre ad avere cattivo aspetto erano anche d’intralcio. Il cittadino bolognese Giacomo Adamanzia, detto poi Amaduzzi, fece istanza alla Comunità, dovendo fabbricare la sua casa, di levare i pozzi e farne un altro a confine della sua proprietà e quella dei Fabri con i suoi pilastri ed orlo. La Comunità si prestò alla domanda e l’Adamanzio subito li interrò. Il popolo di quel quartiere, vedendosi privato di questo beneficio perché non si faceva il pozzo promesso, andò a rumore cosi che le donne dei Forni e dei Bendini assalirono l’Adamanzio e lo maltrattarono in modo che non molto tempo dopo perse la vita.

La campana dell’orologio pubblico nel Castello che si era rotta fu rifusa da Pier Francesco Campana, fonditore paesano e accresciuta di peso fino a 300 libbre.

Alla chiesa dei SS. Giacomo e Filippo al ponte del Sillaro che, per la trascuratezza dei proprietari non era più usata, fu vietato l’accesso all’interno ed all’esterno.

Le ruberie e i furti che si commettevano non solo nella campagna ma anche nel Castello, facendo buchi nei muri delle botteghe e dei magazzeni, erano frequenti e si temeva che ladri così audaci potessero anche assassinare le persone. Si fece la guardia con maggior diligenza e furono scoperti gli autori che furono Giovan Maria (…) e Marino Magnani che presi e giudicati poco dopo furono impiccati a Bologna. L’ultimo furto che commisero fu alla casa di Ramazzotto Ramazzotti che qui risiedeva.

I 24 individui componenti il corpo comunitativo non si adunavano che di rado a motivo delle loro diverse opinioni. Quelli che sempre intervenivano alle assemblee, cioè Francesco Comelli, notaio, Battista Farnè, Mattia Ricardi, Michele Pavia, Battista Ronconi, Cristoforo Rinieri, Orazio Morelli, chirurgo, Gaspare Pirazzoli, Sante Gnitti, Lodovico Ricardi, Carlo Balduccio, Bastiano Cheli, Pier Lasi, Marc’Antonio Fabbri, Giacomo Muzzi, fecero ricorso al Governo. Questi, prendendo in considerazione il disordine, portò il corpo comunitativo a 40 componenti. Il 9 gennaio 1548 si fece una nuova imborsazione da cui venne estratto per Massaro Sante d’Alborro. Il Massaro estratto in precedenza fu deposto.

Gli uomini rappresentanti l’università di Castel S. Pietro furono i seguenti: Sante d’Alboro, Massaro, Matteo Ronzani, Nicolò da Pavia, Battista Dalforno, ser Francesco Comelli, Zoanne de Morelli, Tomaso de Boldrini, Vincenzo de Comelli, Zoanino de Fiagnano, Comello de Comello, Nicolò de Comello, Battista de Battisti, Battista Farnè, Sante de Gnitti, Lorenzo de Fabbri, Francesco Topo, Gaspare Pirazzoli, Andrea de Laxi, Zoanne de Cava, Zampolo de Laxi, Bastiano di Chelo, Francesco de (…), Bartolomeo de Fabbri, Paolo de Fabbri, Jacomo de Fabbri, Galeazzo Topo, Anton de Tagarini, Andrea de Zapo, Galiazzo Nardi,  Bastiano Topo, Cristofaro de Ricardi, Petronio de Fabbri, Battista de Fabbri, capitano, Carlo Balduzzo, Vincenzo de Nicoli, Julio de Nicoli, Domenico Rondon, Battista Rondon, Zoane de Comello.

Il Papa, per la guerra col Turco, abbisognava di gente per unirle alle truppe delle altre potenze alleate, così fece battere cassa nei suoi Stati per assoldare militari. Ercole Bruni figlio del capitano Annibale e il capitano Giovan Battista Fabbri si assoldarono con 100 uomini parte di Castel S. Pietro e parte dei vicini luoghi di Casale, Sassoleone, Frassineto, Fiagnano e Corvara e andarono nel veneziano ove si imbarcarono per l’isola di Cipro.

I due ospitali della compagnia di S. Caterina, che erano uno nel Borgo per i pellegrini e neonati esposti l’altro in Castello per i preti erano diventati presso che inabitabili e sforniti del bisognevole a motivo delle contingenze passate. Furono perciò dalla Compagnia restaurati e forniti delle suppellettili necessarie.

L’anno seguente 1549 estratto Massaro Zoanino Fiagnano dal numero dei 40 imborsati, decretò la Comunità che per tutto l’anno dovesse fare la esazione della coletta comunitativa. Questi fu il secondo estratto della nuova imborsazione dei 40 rappresentanti, nel cui numero si riscontra imitata la pubblica rappresentanza dei 40 senatori di Bologna, poi il numero fu ridotto a 24 e infine a 16.

I finanzieri della città e contado, non ostante il Breve di Paolo III, mal soffrendo la totale immunità dai dazi e gabelle che godeva i giorni di mercato Castel S. Pietro, andavano comunque a disturbare il paese. Stanca la pubblica rappresentanza dei tanti cavilli che si inventavano i dazieri ricorse al Legato che il 7 febbraio 1549 emise il seguente editto: (…) Comandiamo a qualunque Giudice, ufficiale ed esecutore ed a qualunque persona di egual grado e condizione (…) , non debba per modo alcuno turbare né molestare o far turbare il Massaro et uomini del Comune di Castel S. Pietro e qualunque altra persona, qualunque forestiero nella possessione della esenzione di qualunque Dazio e Gabella di ogni Domenica e Lunedì deputati al Mercato di quel luogo .Ciò pubblicato nessuno più si oppose ai privilegi.

Alla fine di ottobre ammalatosi gravemente Papa Paolo III il 10 novembre 1549 passò a miglior vita. La sua morte spiacque a tutta l’Italia perché fu savio pontefice e perché tenne le guerre fuori d’Italia. Si sarebbe potuto chiamare Papa Felice se non fosse accaduta la morte del suo figlio naturale Pier Aloisio Farnese, creato duca di Parma e Piacenza nel 1541 e ucciso vergognosamente nel 1547.

Il Legato Giovanni del Monte, dovendo intervenire al Conclave di Roma, siccome era scarso di danaro, chiese a Matteo Amorini un prestito, questi ricusò adducendo di non avere contante.  Venuto a notizia di ciò Cornelio Malvasia, che era assai ricco e gestiva un banco a suo nome, subito prese un sacchetto di scudi e lo portò al Legato che stava partendo. Glielo presentò offrendogli una somma maggiore. Il Legato prese il puro bisognevole, lo ringraziò della generosità e, promessogli di restituirlo, se ne partì per Roma.

Il primo gennaio 1550 entrò Massaro Sebastiano Cheli Fu Podestà per quest’anno Tomaso Banchetti.

La S. Sede fu vacante per 3 mesi e 4 giorni. Il 14 febbraio 1550 fu assunto al pontificato il nostro Legato Giovanni del Monte col nome di Giulio III. Questi appena eletto spedi per le poste a Bologna il Breve del Quarantato al Conte Cornelio Malvasia riconoscendogli la sua liberalità e inoltre lo fece tesoriere della Romagna. Il Senato diede segni di pubblica allegrezza e spedì ambasciatori al Papa per congratularsi e nello stesso tempo a chiedere la conferma delle Convenzioni e Capitoli di Nicolò V, Eugenio IV e di Leone X, che furono subito approvati.

Il Senato cominciò da quest’anno a tenere continuamente a Roma presso il Papa un ambasciatore, che doveva essere sempre del ceto senatorio. Il primo fu Giorgio di Marchione.

Nella Villa di S. Biagio di Poggio si trovava una devota vecchiarella cieca, di nome Antonia Bandini.  Stava quella, per essere mendicante, davanti alla piccola celletta dedicata a Maria Vergine, restaurata dalla Comunità nel 1535, a chiedere elemosina ai passanti. Il 25 marzo 1550 successe che, nulla avendo avuto, incamminandosi a casa le apparve M. V. in figura di nobile matrona che dopo averle risanata la vista, le assicurò che il pane che chiedeva elemosinando mai le sarebbe mancato finché fosse vissuta. Così di fatti accadde ed essa ritrovò quotidianamente provvista la sua madia di pane. La vecchiarella, pura di anima, si dedicò sempre più nella divozione a Maria, visse santamente fino alla fine dell’anno, cioè per nove mesi dal giorno della apparizione.

Corse la voce a Castel S. Pietro di questo luminoso fatto e il Massaro si adoperò subito perché quella S. Immagine nella celletta ricevesse maggiore e migliore oratorio e per ciò del fatto avvenuto ne fu fatto un dipinto su tela, come ancora si vede e legge nella iscrizione cioè:

Anno Domini MDL Octavo Kal. Marti

B. Virgo Maria qua forma hic apparet Antonie frustum panis petendi

se se exibuit, cui Mater SS.ma ait Domum inpredere

et in arca quod petis invenies, nec dum vives amplius indigebis,

Que quamdiu vixit, numquam panis in arca defecit

Vixit autem novem menses, obiit kal. jannari MDLI

Troviamo in questa iscrizione una contraddizione tra la data all’inizio (Octavo Kal. Marti) e la chiusa della stessa iscrizione. Si legge che l’epoca della apparizione sarebbe all’octavo Kal. Marti, che secondo il calendario latino sono otto giorni avanti il primo giorno del mese che deve seguire, quindi secondo il calendario italiano sarebbero il 20 febbraio. Nella parte finale della inscrizione si trova che visse ancora 9 mesi e morì Kalen. Januari MDLI quindi sarebbero dieci mesi e non più nove. Ma se si sostituisce la parola Aprilis invece di Marti e si dice VIII Kal. Aprilis allora torna benissimo il calcolo dei 9 mesi in cui sopravvisse Antonia alla apparizione.

Crediamo per ciò che questo sbaglio sia stato una svista dell’estensore della annotazione e teniamo per certo che tale prodigio avvenne il 25 marzo che è giornata importantissima per tutto il Cristianesimo, perché in questo giorno iniziò il principio dell’umana redenzione.  Certamente in questo giorno il Signore volle esaltare più che in ogni altro la gloria della sua SS. Madre.

Il Consiglio della Comunità era stato ampliato, ma erano state emanate anche nuove disposizioni e leggi onde ne avveniva che per la molteplicità dei pareri e degli individui nascevano confusioni. Fu fatto ricorso al Governo per avere rimedio. Fu decretato il 24 maggio 1550 che il numero dei consiglieri nuovamente fosse di 16 individui. Gli uomini del consiglio furono questi: Sebastiano Cheli, Francesco Comelli, notaio, Battista Rondoni, Carlo Ricardi, Battista Farnè, Gaspare Pirazzoli, Sante Gnitti, Giovanni Morelli, Carlo Baldazzi, Matteo Ronzani, Tomaso Boldrini, Matteo da Pavia, Giovanni Topi, Antonio Topparini, Giovanni di Rainieri, Antonio Fabbri.

Alla fine di giugno 1550 fu estratto Massaro per il secondo semestre Giovanni Rinieri.

Sparsa la voce della apparizione di M. V. ad Antonia Bendini e della miracolosa fornitura del pane giornaliero cominciarono le genti a correre a folla da ogni parte a questa S. Immagine per implorare grazie e consolazione agli afflitti. Le tabelle, i voti e le offerte in breve divennero innumerabili per cui convenne alla Comunità porre un custode ed una guardia alla piccola cella. Poi si pensò di costruire una chiesa adatta ad essere officiata. I signori Banzi, nobili per la loro antica e nobile stirpe bolognese, ma ancora più nobili e generosi per la pietà in ogni secolo, essendo possessori di terreni in questo luogo, donarono il suolo per la fabbrica di questa chiesa. Alla costruzione concorse anche Orazio Morelli di Castel S. Pietro ed altre famiglie del paese unite alla Comunità. Così in brevissimo tempo fu compiuta la nuova chiesa e ne fu proprietaria la Comunità come si riscontra non solo da libri nell’archivio della Comunità ma anche nell’archivio di codesta arcipretale ove al Lib. de decreti pastorali del 1579 sta registrata la seguente memoria: Ecclesia S. M. de Podio que est Oratorium sub parotia S. Balsi de Podio et que est oratorium Comunitatis Castri S. Petri.

Nel seguente anno 1551 il primo gennaio rese l’anima a Dio in odore di santità Antonia Bendini. Ove fosse sepolto suo corpo ne siamo all’oscuro per mancanza in questi tempi di registri mortuari.

Il Massaro di questo primo semestre le carte comunitarie non ce lo riferiscono.  Non sappiamo chi fosse il Podestà del primo semestre Per il S. S. abbiamo che fu Carlo Lodovisi. Le carte altro non ci presentano che l’affluenza delle offerte fatte alla S. Immagine di Poggio per i continui miracoli e prodigi operava, offerte che la pubblica rappresentanza se incamerava come padrona della chiesa e usava nella fabbrica ed ogni altro bisogno

Il 14 giugno fu estratto per Massaro del secondo semestre Giovanni Morelli che il primo luglio iniziò il suo ministero. Lo stesso fece il Conte Carlo Lodovisi come Podestà che perché dovette assentarsi da Bologna l’11 settembre fu sostituito da suo figlio Conte Nicolò.

1552 – 1556. Stipulazione dei Capitoli con il banchiere ebreo. Scontri con i villani di Poggio per le collette. Istanza dei poggesi per separazione da Castello, respinta dal Governo. Uso delle offerte alla Madonna di Poggio, dote per Zitelle. Aggiunta portico Chiesa Madonna di Poggio. Chiusura serale del ghetto.

Il primo gennaio 1552 entrò Massaro Carlo Balduzzi, Podestà Alessandro Bianchi, per il secondo semestre fu Podestà Lelio Vitali, cavaliere aurato. In questi tempi la pubblica rappresentanza eleggeva due individui del suo ceto che affiancavano il Massaro ed erano chiamati Visitatori dei Danni dati ed Estimatori che, su istanza dei danneggiati, peritavano il misfatto su cui poi si giudicava per il risarcimento del danno. Per dare legittimità alla nomina si faceva per essi una imborsazione particolare quando si faceva l’estrazione del Massaro. L’origine di ciò viene dalla Bolla di Eugenio IV in cui si accordava alla università ed uomini del comune che: possint eligere sibi milites damnorum datorum. Furono quest’anno estratti Innocenzo Fabbri e Gaspare Pirazzoli.

Abitavano in questo Borgo gli ebrei in un quartiere separato dai cristiani che si chiamava, come oggi giorno, il Ghetto.  Qui si chiudevano e tenevano il loro banco di prestito. Per non essere espulsi dovevano avere il permesso della Comunità. Questo anche per non essere molestati dai fanciulli la settimana santa. Perciò si faceva un contratto o capitolato con la comunità. Si rileva ciò da pubblici documenti e specialmente da un rogito stipulato il 3 febbraio 1552 fra la Comunità ed il banchiere ebreo Moisette. I capitoli sono i seguenti:

 1°- Che l’ebreo debba prestare, a chiunque del Comune li richieda, lire venticinque e non possa pretendere più di cinque denari per dette lire senza pegno o col pegno. 2°- Che debba tenere il pegno sicuro. 3°- Che sia obbligato tenere registri dei debitori e delle cifre per mese ed anno in lettere cristiane e fornirli a chi li domanderà. 4°- Che detto Mojsette ebreo sia obbligato pagare al nostro comune 32 lire in due rate la prima alla metà di gennaio e l’altra alla metà di giugno a S. Giovanni e ciò per gli anni 15 prossimi avvenire. 5°- Che d. Mojsette sia tenuto pagare ogni anno durante soldi 10 per comprare tante castagne la settimana Santa da dare ai ragazzi per non essere molestato a casa sua. 6°- Che il comune di Castel S. Pietro sia tenuto a reintegrargli tutti i danni patiti per le ruberie fatte dalla gente del comune. 7°- Che in tempo di guerra sia lecito all’ebreo farsi pagare denari sei per lira e che sia tenuto a salvare la roba impegnata, ed altri capitoli.

Allorchè Papa Giulio III si portò con la truppa alla presa della Mirandola[52] crebbero non poche le spese, che furono ripartite tra le Comunità del territorio. Non essendo state sufficienti fu necessario fare un nuovo riparto che fu detto taglione. Alla Comunità nostra toccarono 100 lire (somma vistosa in quei tempi). Furono tosto pagate nel Banco di messer Rinaldo dalla Viola.

Il 24 giugno 1552 fu estratto Massaro per il venturo semestre Battista Rondoni che il primo luglio rivestì la carica. Fu Podestà Lelio Vitali, cavaliere aurato.

Gli uomini della Villa di Poggio, a motivo delle collette, si sentivano oppressi e si lagnavano continuamente contro la Comunità di Castel S. Pietro. Quando occorreva andare in quel villaggio per affari pubblici accadevano per lo più rumori. Fra gli altri Giovanni Tabellini, colono alle Ringhiere, dovendo pagare per la coletta sopra i raccolti, fece resistenza al Massaro Battista Rondoni.  Adirati per questa cosa gli uomini della Comunità mandarono alquanti armati alla possessione per effettuare il sequestro. Il villano Tabellini unito con Bertone, Benedetto Bello e altri villici, assieme ai loro familiari, vennero alle mani con gli inviati del Castello. Seguì fra l’una e l’altra parte una grossa baruffa con bastonate e ferite d’armi, cosi che restarono soccombenti i poggesi. In seguito a ciò, per evitare ulteriori risse, furono ricomposti gli animi e fu fatta solenne pace a rogito di ser Cristoforo Peggi d’Imola.

Nella baruffa fu gravemente ferito Sandrone dal Gallo e temendo della sua vita per un taglio alla testa, questi si raccomandò tanto alla S. Immagine di Maria di Poggio, per il cui mezzo Dio operava miracoli, che ottenne la grazia e guarì.

I poggesi però non dimenticarono l’affronto ricevuto e si rafforzarono sempre più nell’intenzione di separarsi da Castel S. Pietro, parlandone spesso tra loro. Dall’altro canto la Comunità si preparava a documentare la incorporazione e subordinazione di Poggio a Castel S. Pietro.

La vendemmia fu così scarsa nel nostro comune che si vendette l’uva 5 scudi la castellata. Morto il 28 giugno 1552 il cardinale Crescenzi, Legato di Bologna, il Papa nel giugno nominò Legato Innocenzo Del Monte, suo congiunto.

Cristoforo Ricardi, Massaro l’anno 1553, essendosi lesa, per l’uso continuo, la campana grossa del comune, decise, piuttosto che rifonderla, di girare il battaglio. Ciò fu fatto, seguendo la richiesta del parroco Marc’Antonio Malvezzi, da messer Francesco detto Dalle Campane, fonditore bolognese.

Estratto per Podestà per il primo semestre Gaspare Marsigli, rifiutò la carica ed il Senato il 19 gennaio lo sostituì con Alessandro Sandri, il primo luglio 1553 gli successe Cornelio Albergati

Gli uomini di Poggio continuavano ad essere malcontenti della subordinazione alla Comunità di Castel S. Pietro.  Sollecitati dal loro cappellano Francesco Mengoli e da Domenico Dal Gallo, decisero di chiedere al Senato la smembrazione della loro Villa e Comunità dal Comune di Castel S. Pietro. Quindi il giorno 6 agosto 1553 si radunarono nella canonica tutti gli uomini di quel villaggio e fecero solennemente una procura, a rogito di ser Costaneo Calcina, a due mandatari cioè Francesco Mengoli e Domenico Dal Gallo. Questi presentarono supplica al Governo chiedendo la separazione della loro Villa dal Comune di Castel S. Pietro. Il Reggimento, sentite in seguito le ragioni dell’una e dell’altra parte, dopo aver dibattuto a lungo rigettò l’istanza, per gli atti di Bernardino Fondazza cancelliere e notaio di Governo.

Giovan Marco Marini, cittadino bolognese, essendo venuto a risiedere a Castel S. Pietro con la sua famiglia, chiese alla Comunità di potersi stabilire a Castello e godere di tutte le prerogative del paese. La pubblica rappresentanza condiscese alla richiesta.

Nell’anno 1554 fu Massaro per tutto l’anno Giovanni Lasi. Questi, avendo a cuore che la gioventù del paese venisse educata, procurò che la pubblica rappresentanza, da qui in avanti, tenesse a pubblico stipendio un maestro di scuola stabile e non volontario o occasionale. Infatti fu presa la decisione in Consiglio e, fatto il pubblico concorso, fu nominato Don Giovan Battista Locatelli, sacerdote bolognese, che fu il primo professore pubblico che troviamo segnato nelle carte. Nelle stesse carte troviamo che la Comunità manteneva un orologiaio coll’annuo stipendio di lire 12.

Estratto per Podestà per i primi sei mesi Bartolomeo Volta fu poi sostituito dal Conte Filippo Pepoli

Battista Pavia di Castel S. Pietro, volendo godere dei privilegi civili di Bologna domandò al Senato la cittadinanza che gli fu concessa il 26 aprile 1554.

La miracolosa immagine di S. M. di Poggio, collocata da ormai due anni nella nuova chiesa, riceveva moltissime offerte ed elemosine, per cui si era raggiunta la somma di 400 lire. Ne fu data la notizia a monsignor Giovanni Campeggi, vescovo di Bologna. Questi scrisse al Massaro Giovanni Lasi che facesse sapere al corpo comunitativo che voleva impiegare tale somma. In ottobre fu convocato per ciò il Consilio che era così composto: Cristoforo Ricardi, Carlo Balduzzi, Andrea Fossarini, Battista Rondoni, Giovanni Morelli, Sebastiano Cheli, Nicola Pavia, Matteo Rondoni, Tomaso Boldrini, Matteo Comelli e Sante Gnitti.  Furono esposte le intenzioni del vescovo che voleva che la somma attuale di 400 lire, e quanto si fosse in futuro aggiunto, fosse destinata a donare la dote a delle fanciulle bisognose del paese.  A questo scopo il consiglio doveva eleggere 16 ragazze, la cui lista doveva essere consegnata al vescovo.

Fu fatta immediatamente la lista e furono queste: Domenica di Pietro Andrini, Caterina di Domenico Dignitti, Bartolomea di Pietro Righi, Laura di Francesco Rondoni, Orsolina di  Francesco Comesi, Domenica di Vincenzo Landi, Isabella di Giovanni Barbignani, Diamante di Benedetto Battisti, Lucrezia di Domenico Battisti, Laura di Pietro Frassini, Marta di Andrea Dignitti, Francesca di Sebastiano Ruggi, Francesca  di Gabriele Nicoli, Cattarina di Domenico Ruggi, Vincenza di Bartolomeo Fabbri, Cornelia di Bartolomeo Modelli. La lista fu spedita al vescovo che, venendo il 15 ottobre dalla visita pastorale alla santa immagine di Poggio, fu incontrato al Borgo dal corpo comunitativo ed accompagnato alla arcipretale. Poi cominciò in paese la sua visita pastorale nella quale ordinò che i danari fossero depositati nel Monte di S. Pietro a Bologna in credito di quelle fanciulle da pagare al momento del loro maritaggio e a beneplacito di esso monsignore.

Si riscontra, dai decreti di questa visita, che la Comunità di Castel S. Pietro era padrona della chiesa ed oratorio della B. V. di Poggio ed erano gli uomini di Castello e non quelli della Villa di Poggio che ne amministravano i proventi.

Giunto poi l’anno 1555 entrò Massaro Matteo Ronzani e stimatori dei danni furono Battista Rondoni e Nicola da Pavia. Podestà fu Girolamo Visani per il P. S. e per il S. S. Sforza Borgellini.

Ammalatosi gravemente Giulio III finì i suoi giorni il 23 marzo 1555, l’8 aprile fu eletto pontefice il card. Marcello Cervini col nome di Marcello II.  Il suo pontificato durò solo 22 giorni poiché all’ultimo di aprile in età di anni 54 finì la sua vita. I cardinali radunatisi di nuovo elessero il 9 maggio il cardinale napoletano Gian Pietro Carafa col nome di Paolo IV. Appena eletto Papa mandò a Bologna per governatore Paolo Pallavicini.

Lo stesso Papa per distinguere gli ebrei dai cristiani ordinò che venissero contrassegnati i maschi con una beretta gialla e le donne con un velo dello stesso colore al collo.

Morì nella seconda festa di Pentecoste in Faenza alla età di 60 anni Giovanni Bernardi[53] nazionale di Castel S. Pietro. Come scrisse Paolo Masini ed il padre Vanti, fu un famoso intagliatore di cammei. All’inizio della sua gioventù stette tre anni allo stipendio del duca di Ferrara ove fece meravigliosi lavori fra i quali incise il fatto d’arme, in un cristallo di rocca, seguito fra le genti del duca e gli ecclesiastici nella riconquista della Bastia a fossa Giliola nel ferrarese. Poi, stimolato dal Giovio[54] per mezzo del cardinale Ippolito Medici, andò a Roma dove incise il ritratto di Clemente VII, da cui si ricavarono bellissime copie, per questo fu ricompensato da quel Papa col dono di una Mazza Ufficio che poi vendette per 200 scudi. Ritrasse pure Carlo V da cui ne riportò un grosso premio.

Di questo soggetto, altre il Vanti ed il Masini, ne scrisse il Vasari con la sola diversità che lo fa di Castel bolognese. Noi però crediamo di più ai primi due scrittori.  Il motivo è che il Masini nelle altre notizie dei pittori e scultori che sono bolognesi o del territorio le ricava dai libri dell’Arte de Bombasari della città dove si scrivevano i professori che erano abilitati ad aprire scuola. È poi certo che la famiglia Bernardi è antica di Castel S. Pietro, come si rileva dai catasti delle possidenze che tuttora contengono il nome di Bernardi, conservato anche negli antichi libri delle primizie.

La Comunità Intenta a perfezionare la fabbrica della chiesa a S. Maria di Poggio, fece aggiungere il portico che costò, oltre le offerte, 45 lire dalla cassa comunitativa, che parificate ai presenti tempi equivalgono a cento lire.

Soggiornava in questo luogo di quando in quando il capitano Giacomo Guicciardini con uomini d’arme per tener freno ai malviventi e ai fuorusciti. La Comunità volendolo gratificare gli diede una mancia di circa 50 lire.

Per tutto l’anno seguente 1556 fu Massaro Matteo Comelli.

Abbiamo quest’anno 1556 la reviviscenza delle formalità antiche che si usavano nell’insediamento dei Podestà estratti, finora trascurate a motivo forse delle spese. Infatti risulta dalle carte e dalle memorie manoscritte che Nicolò Aimerico, estratto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre, volle essere riconosciuto con tutti gli onori previsti dagli Statuti per la sua autorità. Quindi il 12 gennaio 1556 si  presentò al nostro Castello con  spiegata la bandiera pubblica di Giudice locale, fu ricevuto al Borgo dai pubblici rappresentanti che erano questi: Matteo Comelli, Matteo Ronzani, Gaspare Pirazzoli, Innocenzo Fabri, Sante Degnitti, Domenico Toparini, Giovanni Lasi, Carlo Balduzzi, Sebastiano Cheli, Tomaso Boldrini, Giovanni Morelli, Cristoforo Riccardi, Battista Rondoni et Andrea Fossarini e da essi fu condotto alla sua residenza, lo seguirono il suo Notaio ed il Ministrale del paese. In appresso poi fece tutti quegli atti di giusdicenza sia civile che mista, in compagnia del Massaro e degli Stimatori de Danni dati per il presente anno Carlo Balduzzi e Giovanni Morelli.

Il vescovo Giovanni Campeggi nella sua visita pastorale aveva raccomandato caldamente agli uomini della Comunità la fabbrica della Madonna di Poggio. Questi volendo farne memoria delle grazie che, a nome di Dio, questa S. Immagine operava ai suoi devoti, fecero dipingere su tela il fatto cospicuo della apparizione ad Antonia Bendini. Questo fu eseguito e compiuto nella metà del corrente gennaio e fu esposto al pubblico con la iscrizione, che si vede e che si può leggere da chiunque:

Questa è quella similitudine della Madonna che appare

a Puozo alla Cia Antonia mogliera di Barla Bedia, la quale

fa tanti miracoli, come al presente si vede a chi gli va devotamente

a far Orazione e domandarle la Grazia licita et onesta e pregare

Dio e Madonna S. Maria che ci scampi e guardi da ogni malattia

Alli 14 Zenare 1556

Erano in guerra tra loro l’Imperatore, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra[55] ed altre potenze per cui poi ne erano derivati anche tumulti a Napoli e nel fiorentino. Pure il Papa aveva in armi più di 8.000 soldati per la difesa dei suoi Stati. Spesso si soffrivano danni e, durando alquanti anni questa guerra, molti ne patì il nostro territorio di Castel S. Pietro dal passaggio delle truppe. Il capitano Giacomo Guicciardini passò di qui alla fine di febbraio e convenne alla Comunità fornirgli il suo approvvigionamento. Non tardò molto a seguirlo il Conte Alessandro Rangoni[56] con i suoi soldati e pure a questi convenne che la Comunità gli facesse somministrare legna ed altro.

In tale contingenza Matteo Ronzani, deputato della Comunità, corse pericolo di vita. La truppa non essendo contenta della razione della legna per scaldarsi, ritenendo responsabile il Ronzani, fu denudato e mandato in camicia al corpo comunitativo. A molti paesani spiacque un tal fatto e avevano in animo di vendicarsi per tanta ingiuria a un ministro pubblico. Intervenne a quietare il parroco Don Marco Malvezzi che ricorse al Conte Alessandro Rangoni, nobile modenese e capo di questi soldati. Questi fece sì che furono puniti severamente i colpevoli, questo perché fra il Malvezzi e Rangoni c’era qualche parentela.

Il buon Malvezzi, forse ripreso dal vescovo Giovanni Campeggi, decise di abbandonare questa chiesa col rinunciandola a favore di Annibale Malvezzi.

Il primo luglio 1556 Annibale Marescotti, nuovo Podestà, non cambiò dall’operato del suo predecessore, fece egli la stessa cerimonia e dalle mani dello stesso antecessore ricevette la bandiera pubblica della Giusdicenza.

Si era già provveduto a distinguere gli ebrei dai cristiani durante il giorno, restava il problema della divisione nelle ore notturne. Il Papa ordinò che in avvenire dovessero gli ebrei pernottare e vivere separati dai cristiani rinchiusi entro un determinato quartiere. A Bologna fu perciò ad essi destinata la contrada detta dell’Inferno ove all’oscurar del giorno si chiudevano sino alla mattina. Su tale esempio si procedette nel nostro Castello ove essendo sempre spalancato in ogni tempo l’ingresso del ghetto nel Borgo vi furono fatte le porte ed ogni sera venivano chiuse dai due Visitatori dei danni.

Erano alquanti anni che dal Corpo comunitativo si estraeva un solo Consolo che serviva poi per tutto l’anno e ciò in virtù di una determinazione comunitativa, contraria agli Statuti e Capitoli fatti dal Regimento.

Fu fatto ricorso al Governo sia per il rispetto dovuto alla legge sia perché una tal carica riusciva gravosa ad un solo e per un anno intero e gli altri comunisti rimanevano inoperosi. Il Governo ordinò che si dovesse fare l’estrazione di un Massaro ogni sei mesi e così sempre continuare in avvenire. Il 27 dicembre fu fatta l’estrazione e uscì Massaro per il primo semestre 1557 Gaspare Pirazzoli, che rifiutò l’ufficio. Quindi fu estratto Innocenzo Fabbri. Questi pure rifiutò e fu svuotata la borsa. Fatta poi una nuova imborsazione fu estratto Sante Dignitti il quale accettò l’ufficio.

1557 – 1563. Passaggio di truppe francesi con gravi danni. Ottenuto sollievo nei dazi. Miracolo della Madonna di Poggio al muratore. Rifatto il coperto alla parrocchiale.

Il primo gennaio 1557 il nuovo Massaro Sante Degnitti, perché aveva riconosciuto esservi cose poco chiare nella amministrazione passata dei redditi comunitativi, fece ricorso al Governo affinché si controllassero i conti arretrati. I Governo prese in considerazione la istanza e poco dopo si procedette al conteggio.

Negli Atti della Comunità e nei Libri dei Mandati troviamo che la Comunità aveva il diritto di nominare il Predicatore quaresimale. Nominava perciò alternativamente un soggetto delle due Religioni del paese, agostiniana e francescana. Quest’anno fu nominato Fra Antonio della Concordia, Minore Osservante.

Disgustatosi Filippo II[57] Re di Spagna col Papa, gli mosse guerra dal napoletano. Il Papa si associò coi francesi e li chiamò in Italia. Vennero al comando del Duca di Omala luogotenente del Duca di Ghisa[58], con 10.000 fanti e 2.000 cavalli fra francesi e svizzeri. Alla fine di febbraio 1557 si fermarono sotto Faenza per prenderla, ma non potendo averla, le truppe facevano scorrerie con gran danni fino a Castel S. Pietro. Essendo la stagione cattiva la truppa patì molto per le malattie e perciò dovette acquartierarsi.

Nell’aprile seguente ricominciarono a passare truppe. Il 9 passò da Castel S. Pietro un reggimento francese al comando del capitano Alessandro Rompsè diretto in Romagna da dove, ritornando il 26, partì il 29 alla volta di S. Nicolò per dare il passo a soldati guasconi diretti in Romagna.

Il 24 giugno 1557 fu estratto Massaro per il secondo semestre Andrea Fossarini che al termine del suo officio terminò anche i suoi giorni. Sotto il suo governo, per l’istanza fatta dal suo predecessore al governo di Bologna per il rendiconto dei massari passati, il Confaloniere Agostino Ercolani inviò a controllare una commissione che, riviste le partite che riguardavano più la spesa avuta per il passaggio dei soldati che le straordinarie del paese, addebitò queste alla Cassa Pubblica. La Comunità per tale conteggio mostrò la sua riconoscenza con un’offerta di pernici, quaglie, e capponi dati al Confaloniere ad agli Assunti Conte Ercole Malvezzi, Conte Nicolò Lodovisi, Romeo Pepoli, Marchese Alessandro Lugari, Marchese Rinaldo Lugari e Marchese Bartolomeo Castelli.

In tale occasione furono anche addebitati alla Cassa Pubblica le spese sostenute per il Conte Ercole Bentivoglio con dieci persone, commissario alle truppe francesi le quali, col detto Conte, alloggiarono in casa del Gnitti.  Furono anche aggiunte a queste spese le altre avute per l’alloggio di Rinaldo Marsili, commissario agli svizzeri. Una tale favore usato dalla Comunità ai suddetti Signori fu un forte appoggio per ottenere dal Reggimento di Bologna un ristoro e sollievo alla popolazione del nostro paese per i gravi danni causati dal passaggio e presenza delle truppe.

Poiché si stavano decidendo i Capitoli universali dei Dazi in tutto il bolognese, la pubblica rappresentanza chiese al Senato un sollievo nei dazi e nelle gabelle. Grazie alle calde premure dei precitati nobili fu decretato dal Senato, nell’aggiunta dei Capitoli dei dazi sotto la rubrica dei pesci, di tassare Castel S. Pietro a pagare 3 lire ogni anno al Daziere e così fosse incamerato tale dazio per l’avvenire per cui il Daziere non dovesse e potesse fare angustie ed estorsioni. Questa deliberazione che si trova segnata nel Libro dei Dazi è la seguente: (…) sia obbligato e debba il Daziaro del Pesce riscuotere ed esiggere lire 3 di bolognini ogni anno durante la sua condotta della Comunità di Castel S. Pietro per ogni lor Dazio ordinario et augmento del Pesce et altre robbe sogette a d. Dazio, che si venderanno in d. castello e Comune per qualsivoglia persona e da ogni tempo, senza gravarli in altra denunzia o pagamento. Pubblicato nelli incanti dei dazi adì 23 novembre 1557.

Ne seguì poila approvazione, per la sua validità, del Vice legato e la pubblicazione giuridica il 26 novembre 1557. Questa immunità durò fino all’anno 1787.

Estratto Massaro il 27 dicembre Matteo Ronzani prese il possesso il primo gennaio 1558.

L’ebreo Moisette, banchiere soggiornante in questo luogo, pagava alla Comunità un tributo di lire 32 annue. Credendo fosse gravoso ne chiese la diminuzione per poter continuare la sua presenza. La Comunità rigettò la richiesta. Vedendosi così rifiutato e in più odiato e schernito dalla ciurmaglia dopo poco abbandonò il paese.

Morto Carlo Balduzzi, uno dei comunisti, coprì il suo posto il figlio Domenico Balduzzi.

Nelle memorie di Don Alessandro Boldrini cappellano e nazionale di Castel S. Pietro, abbiamo la seguente memoria: Riccordo a laude di M. V. nostra Madonna come Vicenzo Zabarella di Novara, muratore, lavorando nel Comune di Castel Guelfo nel coperto della Serpa con altri manuali, da quali raccontandosi li prodigi che Madonna S. Maria di Poggio operava e la apparizione della med. colla provista del pane quotidiano ad Antonia Bendini, replicò Zabarella che sempre non era vero tutto quello che si narrava e che Cia Antonia doveva essere una vecchia furba, come è solito delle vecchie raccontare solo per accreditare li loro detti (…) appena finito il discorso, nel mentre Zabarella voleva appostare un legno, gli tolse la mano e volò col med. giù dal coperto restando ivi come morto.

Corsero gli altri operai e cominciarono a suggerirgli di invocare di cuore la Madonna, riconoscendo il suo errore. Fu portato in casa a letto ove, domandando al Signore perdono, fece voto che, se salvava la vita, voleva fare alla madonna la tavoletta[59] ed una brava elemosina a quella chiesa lavorando in quella per un mese senza paga. Poi si cominciò ad ungere con l’olio della lampada della madonna e presto si risanò.  Quindi manifestò a tutti il gran miracolo. Questo miracolo avvenne il 9 settembre 1558.

Carlo V, invittissimo Re ed Imperatore il cui nome mai perirà presso gli uomini per le sue gesta soprattutto a favore della chiesa, finì i suoi giorni il 21 settembre 1558 nel monastero di S. Giusto della diocesi di Toledo.

Nel seguente 1559 entrò Massaro Sebastiano Cheli.  

Il Papa Paolo IV dimostrò e fece conoscere al mondo e a tutta Roma quanto fosse grande la sua rettitudine e quanto amasse la giustizia.  Essendosi scoperto che il card. Carlo Carafa, suo nipote legato di Bologna, aveva malamente maneggiato gli affari di S. Chiesa ed indotto a far cose pregiudiziali, chiamò il 26 gennaio a concilio i cardinali e revocò il Carafa dalla Legazione di Bologna privandolo di tutte le altre cariche.

Al suo posto venne Girolamo Melchiorri, chierico di Camera. Appena arrivato in città fece convocare il Senato e poi carcerare Tomaso Conturbio vescovo d’Atri e Penna. Furono pure carcerati Giulio Capoccio, Auditore del Torrone, col suo notaio. Per tali carcerazioni venne Pietro Donato Cesi romano a farne il processo a Bologna. Tomaso Conturbio fu deposto dal vescovato e l’uditore con gli altri fu bandito. Un tale fatto fece la massima impressione in qualunque luogo degli stati pontifici.

Chi fosse Podestà di Castel S. Pietro, tanto del primo che del secondo semestre, non ce lo indica l’elenco che abbiamo. Il primo luglio 1559 fu Massaro Matteo Comelli.

Il 18 agosto morì Papa Paolo IV. Fu vacante la Santa Sede sino al 26 dicembre in cui fu eletto pontefice il card. Gian Angiolo Medici, detto il cardinal Medichino, col nome di Pio IV. Questi l’anno seguente 1560 mandò Legato a Bologna Carlo Borromeo di Milano nipote di una sua sorella.

La Compagnia di S. Caterina, oltre l’ospitale per i viandanti che teneva in Borgo, ne aveva un altro entro il Castello. Era questo ospitale una piccola casetta alla destra dell’ingresso maggiore del Castello al terzo edificio ed era destinato per i preti ed altri sacerdoti. L’edificio era confinante a mezzogiorno con gli eredi Magnani, a borea con gli eredi Graggi e a mattina con la strada maggiore.  Questa abitazione era in rovina ed inabitabile. La Compagnia la fece ricostruire e sopra la porta vi fece porre la seguente indicazione: Sacerdotorum et eclesiaticorum Nosocomium.

La scuola pubblica, che era stata per un po’ vacante, finalmente il primo maggio fu conferita a Don Giovanni Molinari.

 Nella proposta fatta al vescovo delle 16 donzelle, non essendogli piaciuta, procedette egli ex officio alla nomina della altre e furono Margarita di Ercole Pirazzoli, Tadea di Battista Tisè, Elisabetta di Domenico Tisè e Bartolomea di Antonio Sandrino.

Il Massaro Giovanni Rinieri per la sua età si riconobbe inabile al maneggio degli affari pubblici e quindi rinunciò alla carica e al posto di comunista.  Trovandosi il Consiglio in mancanza di numerosi consiglieri, furono ammessi i seguenti: Luca Dal Forni nipote di Battista morto, Domenico Balduzzi in vece dello zio Carlo Balduzzi morto, Giovan Paolo Lasi invece di Giovanni. Lasi morto, Francesco Rinieri invece dl padre Giovanni Rinieri che aveva rinunciato. Erano loro colleghi Tomaso Boldrini, Sebastiano Cheli, Battista Rondoni, Gaspare Pirazzoli, Francesco Topparini, Innocenzo Fabbri, Cristoforo Ricardi, Matteo Comelli, Matteo Ronzani, Zoanne Morelli e Sante de Gnitti.

Morì Antonio Malvezzi che come parroco di questa arcipretale aveva rinunciata la sua carica a favore Annibale Malvezzi, questi il 2 giugno prese il possesso della cura come ci indica la lista dei parroci tanto nell’archivio parrocchiale quanto nel comunitativo senza indicare però l’assenso e l’interpellazione alla Comunità.  Col passare del tempo, tante rinunce andarono a pregiudizio del suo diritto nelle nomine.

Nel dì primo luglio 1560 entrò Massaro Tomaso Boldrini e Podestà fu Carlo Bianchi che, essendo inabile, fu sostituito da suo fratello Bianco

La elezione fatta dei comunisti, in sostituzione dei mancanti, non era però legittima per ciò per sanarla secondo le leggi, la Comunità ricorse al Senato affinché fosse legittimato l’atto come seguì con decreto del 20 dicembre 1560.

Il primo gennaio 1561 Cristoforo Riccardi incominciò il suo officio di Massaro. Podestà fu Nicolò Aloisio Campeggi.

Giacomo Muzza si era stabilito con l’abitazione fuori del Castello sulla riva del Sillaro fra la fossa pubblica ed il canale e vi aveva fatto una bella torre che fu terminata nell’aprile 1561, ne incise la data sotto lo stemma gentilizio in macigno. Questo stemma fu inventato da ser Pietro Muccia detto dalla Muzza notaio di Castel S. Pietro nel 1400, proavo del detto Giacomo, e rappresenta un braccio con mano impugnata e tre dita alzate indicanti tre gigli sopra, la mano è allacciata da una fascia con la frase: Tuta fides. Questa torre, per essere stata poco curata dai successori Vachi, è stata distrutta ai miei giorni.

Il cardinale Carafa, di cui si parlò in precedenza, il 5 marzo 1561 fu fatto strangolare a Roma per ordine del Papa ed il giorno dopo fu fatta la stessa giustizia col taglio della testa al Duca Poliano, suo fratello. Un tale fatto fece grande impressione ovunque.

Filippo Gini abitava all’inizio del Borgo dalla parte verso Bologna, ove era anticamente la porta di questo abitato che dal 1297 al 1300 fu circondato da un fossato. Sulla sponda esterna di questo vi era la strada che si congiungeva ad un’altra strada detta la Viola del Lupo che attraversava i terreni del Gini. Questi chiese alla Comunità di comprare tale strada per unire la sua abitazione con i medesimi terreni. La Comunità approvò e il 21 luglio vendette detta strada alla condizione che il Gini facesse un ponte di pietra sopra lo scolo delle acque della fossa attraversante la via pubblica. Detta strada staccava dalla via romana ed andava ad unirsi direttamente alla Viola superiore ove scolano le acque discendenti dai cappuccini e, sotto passando la via corriera, sboccava, svoltando nella fossa inferiore del Borgo, alla via S. Carlo che porta direttamente a Medicina.

Il 22 settembre 1561 Battista Rondoni morì avvelenato con un piatto di sughi[60].  Fu incolpato Bernardino Scarselli il quale, vedendosi ormai incriminato, fuggì nel mantovano ove sotto quel Duca Gonzaga si assoldò e ne radicò ivi il suo casato.

Vennero in quest’autunno grandissime piogge al monte che formarono tali correnti che non le potevano tenere gli alvei dei torrenti e danneggiarono i terreni vicini. Patirono in queste contingenze le sponde del ponte sul Sillaro.

Il primo gennaio 1562 intraprese l’officio di Massaro Matteo Ronzani. I Podestà furono Angelo Guastavillani P. S. e Filippo Orsi S. S.

Bernardino Scarselli, assicurata la vita nel mantovano, chiese la divisione ai suoi cugini Annibale ed Ippolito Scarselli abitanti in questo Castello che fu perfezionata a rogito di Ulisse Gerardi.

Il 28 aprile Gaspare Pirazzoli uomo del Consiglio finì la vita e subentrò suo figlio Virgilio che fu poi capitano di truppa pontificia nel veneziano contro il Turco.

Il capitano Giovan Battista Fabbri junior si era sposato con Galicella di Valerio Ceruni della stirpe dei signori di Ceruno[61]  e stava venendo verso castello accompagnato dalla parentela.

Fu assalito da un distaccamento di soldati che il Duca di Firenze aveva mandato contro i Cerunesi per questioni che avevano fra loro da parte dei Palleschi, Pazzeschi e Strozzi. Scoppiò uno scontro e i soldati portarono via tutta la mobilia della sposa e al Fabbri e ai suoi più di cinquanta scudi.

Nel secondo semestre di quest’anno fu Massaro Tomaso Boldrini che, essendo in Consiglio due posti vacanti, sostituì il 19 dicembre 1562 Battista Dal Forno con suo fratello Antonio e Gian Paolo Lasi con suo fratello Antonio.

Il primo gennaio 1563 entrò Massaro Andrea Lasi per il primo semestre.

Il 7 settembre 1563 morì mons. Giovanni Campeggi vescovo di Bologna.

La chiesa arcipretale era in cattive condizioni e presso che scoperta. L’arciprete Malvezzi fece tali e tante premure al Corpo comunitativo che fu fatta non solo ricoprire, ma anche rimettere a posto nelle pareti a spese comunitative. Mentre si facevano i lavori, poteva appena il parroco officiare per il culto di precetto. La Compagnia del SS.mo dovette sospendere per diversi mesi le sue funzioni. I suoi capi, perché non di raffreddasse l’onore di Dio, chiesero all’arciprete in prestito un camerone unito alla canonica Questo camerone confinava a mezzogiorno con Carlo Serpa, a mattina con la canonica, a nord con il vicolo tra la chiesa e la canonica ed a sera con la via maggiore del Castello e aveva due occhi di portico sotto. L’arciprete accolse la richiesta e qui la compagnia cominciò a fare le sue funzioni senza disturbi di quelle della parrocchiale. Tale camerone serve presentemente di fienile all’arciprete e sotto ha la stalla per i suoi cavalli e la rimessa per la carrozza.

Giunto il primo luglio 1563 entrò Massaro Matteo Comelli, Podestà fu il Senatore Angelelli.

A Bologna era cominciato il rito che le Compagnie accompagnassero in processione alla sepoltura i cadaveri dei loro confratelli.  Questo nuovo rito lo inventò la compagnia di S. Nicolò di S. Felice di Bologna. La Compagnia di S. Caterina di Castel S. Pietro, essendo che anch’essa era una corporazione e vestiva la cappa, imitò il rito suddetto e fece lo stesso di Bologna. Il 23 dicembre, morto Giulio de Graggi suo confratello, quella corporazione in forma levò il cadavere e, salmeggiando il de profundis, lo trasportò a questa arcipretale ove dopo le esequie fu sepolto nella sua cappella.

1564 – 1568. Crocefisso del tedesco Valier donato all’Annunziata. Nuove regole della Compagnia di S. Caterina, sua approvazione ed erezione canonica. Decisione di fare processione con l’immagine della Madonna di Poggio.

Per il primo semestre 1564 fu estratto Massaro Matteo Ronciani, Podestà fu Alberto Angelini.

Il Papa, per diminuire la autorità d’alcuni cardinali, sospese tutte le legazioni e in conseguenza fu dichiarato governatore di Bologna Pietro Donato Cesi, romano, in luogo del card. Carlo Borromeo. Questi fu nominato arcivescovo di Milano.

Il 17 aprile 1564, si trovava gravemente infermo nell’ospitale di S. Caterina un certo Japale (che vuol dire Giuseppe) Valier di nazione tedesca.  Questi ritornava dalla visita dei Santi Luoghi di Roma e portava con sé una immagine di Cristo crocefisso a cui portava grande venerazione e lo dava da baciare a chiunque cattolico che incontrava.  Venuto a morte, assistito dal cappellano parrocchiale Don Angelo Boldrini, gli affidò questa sua sacra immagine perché da essa ne aveva riportato grandi consolazioni. Il buon cappellano donò il Cristo alla chiesa della Annunziata ove fino ad ora si conserva. Ripetiamo questa memoria da carte nell’archivio della soppressa compagnia di S. Caterina.

Essendosi resa vacante la chiesa episcopale di Bologna, per la morte di Giovanni Campeggi, fu eletto vescovo di Bologna il card. Ranuccio Farnese.

Nel dì primo luglio 1564. entrò Massaro Matteo Comelli

Il 25 luglio 1564 morì a Vienna l’Imperatore Ferdinando I d’Asburgo[62], gli successe il figlio Massimiliano II[63].

Prese il possesso dell’officio di Massaro per il primo semestre dell’anno 1565 Priamo Baroni e Podestà fu Girolamo Guastavillani.

Al principio di quest’anno venne per Governatore di Bologna Francesco Crassi milanese che dopo pochi mesi si dimise dalla carica e di nuovo ritornò il 17 agosto 1565 il card. Carlo Borromeo, il Santo.

L’anno scorso Fra Simone, cappuccino, aveva a Bologna istituita la Orazione delle 40 ore nella settimana Santa. A così bella e pia devozione non mancarono di aderire le due nostre compagnie di S. Caterina e del SS.mo SS.to per ciò questa fu incominciata la domenica della settimana santa e proseguì, esclusa la notte, per tre giorni interi.

Era troppo disdicevole che nella città e contado nei giorni santi si dovessero, da parte di cattolici, rivolgere contro gli ebrei ingiurie e contumelie che finivano anche in risse.  Per ciò fu ordinato che in tali giorni gli ebrei dovessero tenere i banchi chiusi e così levare l’occasione di ogni male.

Gian Giacomo Guizzardino, uomo d’arme al servizio pontificio, aveva chiesto dei pagamenti a questa Comunità. Essa non potendo corrispondere alle forti pressioni e minacce che le erano rivolte, decise perciò di prendere ad usura da Abramino e Grassegato, ebrei banchieri locali, 150 scudi che furono pagati sul momento al cassiere Simone Fiegna.

Estratto Massaro per il secondo semestre Andrea Lasi e Podestà Valerio di Giulio Saracino entrambi investirono il loro ministero il primo luglio 1565. Sotto questo governo, essendo bisognoso di riparazione il ponte sopra il Sillaro nella via corriera dalla parte di ponente, fu necessario aggiungere un pezzo di ala e così fu riparata anche la strada che veniva minacciata dalla corrente.

Defunto Pio IV nello scorso dicembre, successe ad esso nel pontificato il card. Michele Ghislieri il 7 gennaio 1566 col nome di Pio V che fu poi santo.  Essendo pure vacante questa chiesa episcopale di Bologna, essa fu conferita dal Papa al card. Gabriele Paleotti con la pensione di 5.000 scudi.

Alla fine di marzo si pubblicò a Roma una bolla contro i bestemmiatori ed altre persone simili e il 20 aprile 1566 fu pubblicata a Bologna.  Al capitolo IV si comanda che tutti i giorni di domenica e feste principali di Maria V. e SS. Apostoli si frequentino le chiese e si astengano i mercati.

Poiché gli ebrei erano contenti col loro commercio e soprattutto le donne che allattavano altri bambini, Gabriele Paleotti ordinò il 17 maggio 1566 che nessuna più ricevesse fanciulli da altri parti e che si dovessero distinguere gli uomini dalle donne con i segnali prescritti nella Bolla.

Francesco Rossi che aveva servito come Vice legato il card. Carlo Borromeo, fu revocato e vi successe Giovan Battista Doria col nome di Governatore.

Il terremoto che si era cominciato a fare sentire a Genova, replicò in questo mese gagliardamente e nel territorio di Castel S. Pietro rovinarono diverse case, nel quartiere della Lama a Riva Rossa, Croce Cocona e Alborro. Patì molto anche il Castello di Vedriano, Galegata e Liano.

Siccome la Comunità aveva il diritto fino dal tempo di Eugenio IV di eleggere gli Stimatori de danni dati il che faceva annualmente.  Accadeva però che gli estratti, invece di agire personalmente, deputavano altre persone e ne accadevano pregiudizi ai danneggiati.  Per ciò fu ordinato che gli Stimatori, ai quali la Comunità pagava annue lire 100, dovessero essere uomini del corpo comunitativo e non esterni, dovessero andare quattro giorni di ogni settimana alla campagna ad osservare se vi erano danni, soprattutto in tempo di vendemmia e, trovando delinquenti, li dovessero denunciare ai propri padroni. Furono perciò eletti Domenico Passarini e Giacomo Pirazzoli.

Il nostro comune doveva fare una revisione all’estimo dei terreni, furono perciò dalla Comunità eletti quattro soggetti dal suo seno tra i più pratici ed anziani del comune affinché rinnovassero tale estimo e furono Domenico Passarini, Nicolò Aborro, Zoanne Righi e Sebastiano Cheli.

La Comunità affittava l’emporio del mercato all’incanto ma perché gli affittuari commettevano angherie sopra il peso e misura, nessuno voleva più pagare la coletta adducendo che la riscossione era iniqua. Perciò la Comunità rinnovò la tabella e riformò la tassa sopra gli articoli che erano soggetti al peso e misura e, perché avesse forza maggiore, fu fatta autorizzare e comunicare dal Podestà.

Perché c’era di nuovo bisogno di restauro nella residenza del Podestà per cui si avrebbe dovuto spendere la somma di duecento lire, fu perciò fatto ricorso al Senato perché ne ordinasse la partecipazione alle Comunità soggette alla podesteria.  Ciò fu decretato il 2 dicembre 1566.

In tempo di carnevale si facevano tanto nella città quanto nel territorio mascherate ogni giorno e ciò era disdicevole soprattutto nelle feste dichiarate e molto più il venerdì, giorno dedicato alla passione di Cristo. Fino dall’anno scorso era stato ordinato di non mascherarsi.  Ma però poco si rispettava tale legge, fatta sotto il governatore Francesco Rossi come che, cessato esso di governare, dovessero anche essere cessate le sue leggi.  Fu quindi 1567 nuovamente pubblicato tale Bando dal presente governatore che ordinò l’osservanza di quell’editto sotto più rigorose pene.   

Nella quaresima seguente predicò con molto frutto nella parrocchiale il Padre Giacomo Concordia o dalla Concordia, lettore agostiniano. Predicò il culto a Maria SS.ma sotto il titolo della Cintura.

Annibale Malvezzi affaticato dalle fatiche parrocchiali decise di rinunciare a questa chiesa a favore di un suo consanguineo e fu Don Lodovico Malvezzi che il giorno 2 giugno venne a prenderne il possesso.

Il 15 agosto, giorno dedicato al titolare di questa arcipretale, fece la sua prima funzione solenne il nuovo arciprete Lodovico Malvezzi alla quale intervennero molti nobili bolognesi. Non mancò il Corpo comunitativo che era composto dai seguenti individui: Virgilio Pirazzoli Massaro, Cristoforo Riccardi, Andrea Topi detto Topparini, Matteo Ronciani, Zoanne Morelli, Innocenzo Fabbri, Antonio Balduzzi, Nicolò da Pavia, Matteo Comelli, Francesco Rinieri, Angiolo Boldrini, Domenico Rondoni, Domenico Gasparini, Chelo Cheli, Tono Dalforno e Andrea Lasi.  Assistettero alla funzione anche i confratelli di S. Caterina e del SS.mo.

Nel mese di novembre cominciarono grandissime piogge e grandi fiumane che produssero molti danni e minacciarono rovina al ponte sopra il Sillaro. Fu quindi necessario intervenire e fu fatta una riparazione provvisoria. Le acque furono tanto impetuose che estirparono grosse querce e distrussero edifici soprattutto quelli che erano vicino ai corsi d’acqua.

Nel 1568 fu Massaro per il primo semestre Matteo Comelli. Podestà fu Giovanni Saraceni.

Girolamo Farnè di Castel S. Pietro avendo avuto un forte litigio col Podestà ed Alessandro Santini fu carcerato. Si interpose poi Sebastiano Morelli già fatto cittadino di Bologna. Seguì la pace a rogito di Gaspare Masini. Fu questa definita nella guardiola del Torrone nel palazzo del governatore. In questo rogito il Farnè viene onorato col titolo di Signore, che si dava in questi tempi solamente a chi aveva ragguardevoli possidenze, agli altri, di mediocre sostanza, si dava il titolo di Messere.

Poiché i mercati più importanti del territorio e le fiere si facevano soprattutto nei giorni festivi, così il vescovo di Bologna, premuroso della santificazione delle feste, pubblicò un bando che proibiva fare tali mercati i giorni di domenica ed altre feste di precetto. Occorreva spostarli il giorno precedente o successivo.

La Compagnia di S. Caterina, fino dalla fondazione, si governava liberamente da sé con regole che si era data autonomamente. Ai confratelli sembrò che servissero correzioni a queste vecchie norme per adattarle ai tempi. Inoltre la compagnia abbisognava di una erezione canonica. Fu perciò presentata una istanza al vescovo Cardinale Gabrielle Paleotti perché approvasse la modifica di tali regole. Egli stesso, colla sua autorità di superiore ecclesiastico, firmò il decreto di approvazione ed erezione canonica della Compagnia di S. Caterina il 14 aprile 1568.

Il principale compito di questa compagnia fu di soccorrere le miserie dei poveri, essendo stata ben fornita dai paesani di fondi urbani e rurali, e di soccorrere anche i pellegrini oltre che i paesani.  Infatti al capitolo 9° delle norme è scritto: Dovendosi le entrate di questa dispensare e distribuire in servigio del Sig. Iddio e suoi SS. Offici ed in soverimento de poveri di essa Compagnia e di tutto il nostro Castello ed anco de forestieri e allogarli e servirli secondo il loro bisogno ecc.

Il 9 maggio il Padre Serafino di Pennabilli, provinciale agostiniano, venne a visitare questo convento di S. Bartolomeo ove era priore Padre Agostino d’Alessandria. Ordinò di accomodare tutto il monastero e la chiesa perché tra poco sarebbe giunto in visita il Generale dell’Ordine.

I tre giorni delle Rogazioni, che furono inventate da Papa Leone III fino dal 815, si facevano negli stati pontifici prima della festa dell’Ascensione mediante semplice processione e col trasporto di qualche immagine sacra.

Matteo Comelli, capo della Comunità, ben memore delle continue grazie che Dio operava a questa popolazione mediante la S. Immagine di Poggio propose alla pubblica Rappresentanza locale di fare con questa S.  Immagine la processione.

Piacque l‘idea e fu proposta dall’ottimo arciprete Don Lodovico Malvezzi al card. Paleotti, vescovo di Bologna, il 16 maggio l’approvò. Saputa la notizia in paese non vi era persona che non ne giubilasse. Il 22 maggio, giorno di sabato, la pubblica rappresentanza coll’arciprete andò prendere da Poggio la S. Immagine che fu portata, con concorso di popolo al calare del sole al nostro Borgo ed ivi deposta nella chiesa di S. Maria dell’Annunziata. Qui stette fino alla metà della mattina della seguente domenica 23 maggio.

Quindi, presa in consegna dal clero, fu accompagnata alla chiesa parrocchiale davanti la quale si celebrarono i divini offici. Poi nei tre giorni seguenti, lunedì, martedì e mercoledì che furono li 24, 25, 26 maggio fu portata processionalmente per il Castello e il Borgo. Il 27, giorno dell’Ascensione, data la benedizione al popolo, fu riportata alla sua chiesa a Poggio accompagnata da molte offerte ed elemosine con le quali si completò la sua chiesa.

La corrente del Sillaro minacciava sempre più il ponte sulla via corriera. Furono moltiplicate le istanze al Senato che decretò l’11 giugno 1568 di delegare quattro colleghi coll’incarico di trovare un prestito di almeno 1.000 lire per il riattamento del ponte.

Il 5 agosto Giovanni Antonio Fiegna, essendo esule dalla patria per perpetrato omicidio ed abitando nel fiorentino, chiese al Podestà locale la divisione dei suoi beni col fratello Ercole Fiegna.

Il convento e la chiesa di S. Bartolomeo furono accomodati e il 30 settembre arrivò il generale dell’Ordine Padre Cristoforo da Parma con quindici religiosi dell’ordine

Il 16 dicembre venne una neve così copiosa che coprendo le case molte rovinarono. La chiesa di S. Bartolomeo minacciò la rovina del tetto sopra l’altar maggiore a motivo del troppo peso, restò quindi per qualche tempo non in condizioni di officiare.

1569 – 1573. Cacciata degli ebrei da Castello. Processione della Madonna di Poggio assegnata alla compagnia del SS.mo. Vittoriosa battaglia navale a Lepanto. Partecipazione di castellani alla guerra al Turco. Visita pastorale alle chiese di Castello e loro descrizione. La Compagnia di S. Caterina ordina il quadro della Santa a Prospero Fontana. Lite coi poggesi per l’inghiarazione della via maestra.

Terminate le imborsazioni dei massari comunitativi, si procedette ad una nuova imborsazione dalla quale il 22 dicembre fu estratto Matteo Comelli per il prossimo semestre. Egli, accettato l’impegno, ne prese il possesso il primo gennaio 1569.

Il 12 gennaio 1569 gli Statuti della Comunità, non essendo molto adeguati alle circostanze presenti, furono modificati dal Governo.

Il 26 febbraio 1569 il Papa aveva, con motu proprio, bandito da suoi stati tutti gli ebrei, eccetto Roma ed Ancona. Nel mese di maggio cominciarono a partire dal bolognese. Dalla città furono oltre 900 e andarono verso il ferrarese. Da Castel S. Pietro ne partirono 5 famiglie delle quali abbiamo notizia solo delle tre che formavano il Banco da danaro nel ghetto in Borgo cioè Grassegato, Abramino e Moisette. Il Papa volle che prima della loro partenza riscuotessero tutti i loro crediti e così fu fatto.

Questi frati Minori osservanti, che stava costruendo il loro convento, ricorsero alla Comunità ed alla Compagnia di S. Caterina per avere un aiuto e furono accontentati.

Matteo Comelli, che era stato un anno fa il promotore delle processioni con la Immagine di M. V. di Poggio, pensò che, essendo padrona di quella la Comunità, questa potesse affidare la funzione delle Rogazioni alla sua Compagnia del SS.mo SS.to.  Compagnia che, sebbene non avesse particolari prerogative, era però stata fondata dalla stessa Comunità. Quindi fu fatta la proposta alla pubblica Rappresentanza, fu universalmente approvata.  Ma non solo le fu affidata la funzione ma le fu pure donata la S. Immagine. La Compagnia, onorata di sì grazioso tesoro, proseguì sempre più ad onorare questo santuario.

Per questo fatto ne vennero in seguito liti e ricorsi legali fra la medesima compagnia del SS.mo e quella di S. Caterina.

Nel secondo semestre fu Massaro Andrea Lasi.

Il raccolto di quest’anno fu così scarso che andò subito il prezzo del grano a 20 lire la corba. 

Il muro di cinta del cimitero parrocchiale trovandosi aperto in alcuni punti fu accomodato a spese pubbliche. Pure la chiesa arcipretale fu accomodata dalla Compagnia di S. Caterina e dalla Comunità che vi fece fare tutto il coperto di assi di abete coi suoi travicelli. Vi spese la Comunità 500 lire.

Crescevano di giorno in giorno la miseria e la fame nella popolazione. Per le proteste che si sentivano nel paese l’arciprete Don Lodovico Malvezzi si presentò in persona al Consiglio a chiedere di intervenire per il sollievo dei poveri dalla fame. Il Consiglio differì la risoluzione alla imminente estrazione del nuovo Massaro che fu Domenico Rondoni che il primo gennaio 1570 assunse l’incarico.

In tal giorno l’arciprete Malvezzi rinnovò di persona al Consiglio il bisogno della povertà e ne ottenne un sussidio di cento lire. Abbiamo dagli atti comunitativi che furono pagate 50 lire ai soldati che qui vigilavano per la tranquillità del paese.

Il 20 gennaio Giovan Battista Doria governatore di Bologna partì dalla città e il 22 arrivò Alessandro Sforza come legato pontificio il quale ebbe per vice Legato Alticozzo degli Alticozzi. Fu accolto ai nostri confini dai cavalleggieri e dagli ambasciatori del Senato, i cui nomi ci tacciano le carte del nostro archivio ma solo notano la spesa degli stallatici ed il casotto di assi qui fatto per riceverlo. Poi partì per la città e fu ricevuto con molte solennità all’uso di questi tempi.

La nostra Comunità non mancò pure essa di ossequiarlo all’ingresso dei confini. Era rappresentata dai seguenti soggetti cioè Domenico Rondoni Massaro, Cristoforo Ricardi, Domenico Gasparini, Andrea Lasi, Matteo Comelli, Chelo Cheli, Andrea Topi, Matteo Ronzani, Angelo Boldrini, Virgilio Pirazzoli, Innocenzo Fabbri, Antonio Balduzzi, Giovanni Novelli, Antonio Farnè e Domenico Gasparini

Perché nessuno dei partecipanti al mercato del lunedì voleva osservare la tassa fatta sopra il peso e misura dei generi che si contrattavano, la Comunità per ciò la fece di nuovo pubblicare a suono di tromba perché tutto il popolo ne fosse a conoscenza, modificando la vecchia tassa in quei generi che sembravano troppo tassati. La nuova tabella fu la seguente cioè: il Lino paga 4 soldi per cento, il Gargiolo soldi 2 per cento, la Stoppa soldi 1 per cento,  le Carra delle cipolle soldi 4 per carra,  le Some di cavallo soldi uno per soma, li Pignatari hanno a pagare soldi 1 e danari 6 per cadauna,  li Marzatelli e formento per corba danari 6, l’Olio soldi 1 e danari 4 per cento , il pesce soldi 1 e danari 4 per cento, li polaroli soldi 1 per somma, li Polaroli che portano in spalla per Omo danari 6, li Ortolani per somma soldi 1, li Merciari per Omo danari 4, li Capellari per Omo soldi 2, li piccioni o siano arelloni soldi 4 per carro, li Calzolari per Omo soldi 2, li Pettinari per Omo danari 6, il Bisello e mezalana per braccio denari 2, le some che vanno fori dal contado soldi 1 per soma

La carestia di viveri era cresciuta a tal segno che i mendicanti gridavano per la strada: mi mojo di fame e cadevano svenuti. Mosso a compassione di questa luttuosa vicenda il buon arciprete Malvezzi si presentò nuovamente in Consiglio e qui ottenne dalla Comunità un sussidio di cinquanta lire che furono impiegate in tanta fava per fare la minestra giornaliera ai paesani miserabili nella settimana santa che era imminente. La fava in questo mercato si vendeva a 20 paoli la corba, prezzo a quelli giorni carissimo e fu contenta per ciò la povertà. A paragone di oggi giorno, agosto 1800, in cui si hanno almeno mille famiglie bisognose, ve ne erano allora a Castel S. Pietro poco più di 30 come si riscontra nell’archivio parrocchiale.

La corrente del Sillaro minacciava sempre più ogni giorno la rovina del ponte. Il Senato ordinò che si riparasse col prendere la Comunità il denaro in prestito, ciò seguì e si diede subito inizio al lavoro, come risulta da rogito celebrato il 24 luglio 1570 dal notaio Camillo Dalfante.

Questa spesa avrebbe dovuto competere al beneficiario dell’Oratorio dei SS. Giacomo e Filippo possessore dei beni destinati al ponte per fare la sua manutenzione.  La Comunità credette perciò di dovere intimare il lavoro al beneficiario per via giuridica, quindi, per rogito di ser Francesco Comelli segretario della medesima, fece mandato ad lites in testa di Sebastiano Landi.

Estratto Massaro Virgilio Pirazzoli per il secondo semestre occupò subito la carica. Lo stesso fece Francesco Mattuliani che, non solo come Podestà ma anche come commissario del Legato, venne a Castel S. Pietro a provvedere ai tanti abusi che si erano introdotti. Quindi ordinò che che ognuno dal suo canto oltre il tenere purgate le strade e case debba levare e portare fori al fiume tutti li materiali, sfacimenti, cozzi che ingombrano le vie ed il libero passaggio. Item che sotto li portici non si ponghino materie, instrumenti, legnami ed altre robbe che ingombrino e così pure li lavoranti esercitino il loro officio entro le taberne sue, siano uomini che donne.

Il consigliere Andrea Topi era molto anziano. Il Consiglio Pubblico (bolognese) lo sostituì con il nipote Agostino. Ciò dispiacque molto alla comunità sentendosi privata dal Senato dello Jus eligendi. Questo nominato fu perciò sempre visto di mal’occhio dai suoi colleghi.

Nel primo semestre 1571 entrò Massaro Domenico Gasparini e il 3 gennaio per Podestà il Conte Ippolito Piatesi,

Fino dal 1566 Papa Pio V aveva proibito i mercati nei giorni festivi.  Tale proibizione era poco rispettata sopra tutto nei paesi dei mercati più importanti. Il Legato card. Alessandro Sforza ed il card. Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna, decisero di provvedere a tanto disordine.  Il 17 febbraio 1571 promulgarono un bando nel quale ordinavano che tutte le domeniche dell’anno, feste di M. V. e di N. S. non si potessero fare mercati ma si trasferissero nel giorno antecedente o posteriore. Nello stesso bando fu annotato Castel S. Pietro, che poi trasferì il mercato al venerdì d’ogni settimana che non fosse però festivo di precetto. Di ciò se ne conserva fra i documenti della Comunità il seguente manifesto: Attento che sono stati sospesi li Mercati e Fiere per sua Signoria Ill.ma Card. Legato Sforza e sua Sig. Ill.ma Card. Gabriele Paleotti Vescovo in vigore di ordini papali colla facoltà di permutarli nel giorno immediato doppo e come sarà creduto, così restano intese tutte le persone e commercianti che trovandosi festivo di precetto il Lunedì e seguente Martedì per precetto di ogni settimana il mercato solito di Castel S. Pietro viene trasferito e sostituito il venerdì della stessa colle solite sue prerogative, alle quali non si intende in verun modo pregiudicare.

Il Cassero della porta maggiore del Castello era rovinato la Comunità lo fece riparare, come pure fece riparare la porta superiore.

La famiglia Morelli di Castel S. Pietro era stata fatta cittadina di Bologna e si era stabilita sotto la parrocchia di S. Lucia nella via di Cartoleria Vecchia. Aveva acquistato lo Jus sepolcrale nella chiesa di S. Stefano col Jus patronato dell’altare di S. Giovanni Battista. Altare che fu fatto restaurare da Orazio Morelli, soggetto illustre e chiaro per le sue poesie latine stampate per il Bonardi, che finché visse volle sempre essere ammesso alle cariche maggiori di questa sua patria.

Il Conte Pompeo Ramazzotti per liberarsi del fetore che producevano le immondizie e i concimi che si ponevano in uno stradello che separava la sua abitazione da altri suoi edifici posti nella via Framella, domandò il 19 agosto 1571 alla Comunità la facoltà di chiudere tale stradello che portava sul terraglio a levante del castello. La Comunità aderì favorevolmente con la condizione che il Conte mettesse due porte di cui una all’ingresso dello stradello, di fronte alla strada che da via Framella porta direttamente alla via maggiore e a piazza Liana ove è la chiesa di S. Bartolomeo. Il Ramazzotti ottenuto ciò adempì la promessa. Successivamente qui fabbricò il suo palazzo, che fu poi ampliato dal Locatelli e la loggia inferiore era lo stradello di cui sopra.

Il 3 settembre 1571 in Forlì rese santamente l’anima a Dio ed il tributo alla natura, lasciando singolare credito di santità, Fra Giovan Battista Fabbri di Castel S. Pietro, chierico cappuccino, ornato di una candida purità di mente, di singolare umiltà, esatta disciplina, senso di mortificazione e frequenza di orazione, che da suoi compagni religiosi era estremamente ammirato.

Il sultano turco Selim[64]  nella sua guerra mossa alla Cristianità era avanzato fino ai possedimenti veneziani. Per ogni dove si facevano orazioni ed erano invitati i valorosi cattolici ad andare all’armi.  Da Castel S. Pietro vi andarono il capitano Giambattista Fabbri che seco condusse in qualità di capitano Pompeo Fiegna, uomo animoso e prode. Si assoldarono entrambi sotto l’Ammiraglio Marc’Antonio Colonna[65] e andarono alla volta di Cipro. Gli attacchi e le battaglie che seguirono per nave e per terra alle quali si trovarono presenti si possono osservare nella storia veneta.

Finalmente, a Dio piacendo, per le grandi orazioni che si fecero e soprattutto dal sommo pontefice Pio V, il giorno 7 ottobre di quest’anno 1571[66] restò superato il crudele e barbaro tiranno.  La vittoria fu attribuita a miracolo ottenuto per intercessione del Papa che ne avrebbe avuta la rivelazione mentre celebrava la S. Messa. Poi seguì la formidabile giornata fra la Lega Cristiana[67] contro il Turco nel golfo di Lepanto ove restò distrutta tutta la flotta turchesca composta di 322 navi e di alcune grosse maone. La flotta cristiana non ne aveva che 216 galere e sei galeazze. Le navi turche fatte prigioniere furono 180 e 90 furono quelle affondate. I morti furono 30.000, parte uccisi dalle cannonate e parte trucidati, 6.000 fatti schiavi. Infine 15.000 cristiani furono liberati dalla schiavitù.

Ottenuta tale vittoria i nostri due capitani rimpatriarono. Pompeo Fiegna prese subito moglie da cui ne venne un figlio di nome Lodovico che fu dello stesso sentimento bellicoso del padre.

La raccolta del guado nel nostro territorio fu abbondantissima al segno che si vendette il suo seme dieci soldi lo staio, come ritroviamo annotato nei Libri de Conti del convento di S. Bartolomeo ove ne fecero una vendita di cinque staia per cinque paoli.

Si segnalava in questa sua patria di Castel S. Pietro nella presente epoca Sebastiano Cheli, che fu scolaro del Samacchini, nell’arte di pittore figurista.  Tra le sue opere ci fu un ritratto di S. Carlo Borromeo, che abbiamo visto in questo convento dei francescani locali. Dipinse anche un Cristo con una Madonna nell’Ospitale dei pellegrini in Borgo. Le altre sue opere ci sono ignote come ci è ignota la sua morte e dove avvenne.

L’anno 1572 Chelo Cheli fu Massaro per il primo semestre. Podestà fu Giulio Fabbri, suo sostituto fu Andrea Gallucci. Il secondo Podestà fu Alessandro Gazelli che fu poi sostituito da Lucio Guidotti.

Il terremoto si fece sentire in modo sensibile. Le mura nei castelli di Varignana e Fiagnano crollarono dove erano più deboli. Così accade a Castel S. Pietro alle mura alla destra dell’ingresso maggiore per il tratto di alcune pertiche.  Furono poi rifatte a spese comunitative e dalla podesteria come pure furono ricostruite le mura di Varignana di Monte Armato, Monte Calderara e Stifonti.

I fuorusciti e i malviventi, che non la perdonavano ad alcuno e nemmeno alle vergini quando le trovavano, si erano fatti così audaci che rischiavano di venire fino nelle vicinanze del Castello e Borgo. Per ciò i paesani cominciarono ad andare in giro a gruppi e dove trovavano più di due persone li arrestavano e li conducevano alla città. Inventore di ciò fu Zachirolo Zachiroli, famiglia che troviamo qui radicata dal 1560 e la troviamo continuata fino alla metà del 1600 di dove emigrò ed andò a Castel Guelfo.

Questi malviventi si nascondevano nelle vicine grotte di Casalecchio e nelle boscaglie e a volte si fortificavano nei ruderi di fortificazioni e rocche dei vicini castelli distrutti.  Fu per questo che furono interamente distrutte le torri di Castel di Gaggio e di Vedriano.

Allo spirare di aprile morì il sommo pontefice Pio V, fu uomo di singolare santità ed unico sostegno presso Iddio della Cristianità, avendo avuto guerre accanite contro gli eretici della Francia e col Turco.

Intesa tale morte immediatamente partì da Bologna il Legato Sforza. I cardinali elessero il 13 maggio 1572 per pontefice Ugo Boncompagni, cardinale bolognese, che assunse il nome di Gregorio XIII che fu grande per probità e scienza e protesse molto i letterati.

Nello stesso tempo in cui si trattava della sua elezione a papa, si scorsero a Bologna nell’orto di Petronio Pasi un dragone con due piedi che sibilava del quale Ulisse Aldrovandi ne riportò l’effige e la descrizione. Questa scoperta predisse la elezione di Gregorio XIII che aveva appunto un drago nel suo stemma gentilizio.

La Compagnia di S. Caterina, essendole di imbarazzo e di spesa maggiore, decretò 6 luglio di unire l’ospitale per preti che teneva entro il Castello all’altro in Borgo trasportandovi i tre letti e le altre suppellettili.

 Per il passaggio del Legato Alessandro Sforza fino ad Imola spese la Comunità di Castel S. Pietro con le altre Comunità della podesteria 326 lire per i tanti carriaggi fatti per tale passaggio. Pagò anche Medicina e Budrio la somma di 420 lire e 15 soldi.

Nel 1573 il primo gennaio intraprese la massaria Angelo Buldrini. Per il primo semestre fu Podestà Ercole Filicini e per il secondo Enea Marsili.

Dichiarato dal Papa governatore di Bologna Latanzio Latanzi da Orvieto venne alla volta di questo suo governo per la via di Romagna e il 23 maggio partì da Imola e fu incontrato a Castel S. Pietro dai cavalleggeri e dai nobili.

Gregorio XIII, per ringraziare Dio della vittoria ottenuta contro l’ottomano ed anche per perpetuarne la memoria, decretò che ovunque fossero consacrate chiese alla B. V. del Rosario e si dovesse solennizzare la sua gloria la prima domenica del mese di ottobre che si doveva chiamare la Domenica del Rosario.   

 Nello stesso tempo il pontefice, per avere una esatta descrizione di tutte le chiese, benefici laicali e semplici dei suoi stati, ordinò una visita generale delle medesime. A questo scopo deputò visitatore generale apostolico mons. Ascanio Marchesini che, munito di breve papale, immediatamente si portò per tutto lo Stato ecclesiastico.

Circa la metà di ottobre venne alla Villa di S. Biagio di Poggio ove, dopo avere visitato quella parrocchiale, passò alla visita della chiesa della Madonna della quale ne fece la seguente descrizione ove canonizza che la proprietà di quella spetta alla nostra Comunità di Castel S. Pietro nei seguenti termini: Ecclesia S. Marie de Podio, que est Oratorium Communitatis Castri S. Petri est satis pulcra cum domo canonicali (…).

Il giorno 27 ottobre venne a Castel S. Pietro come risulta dalla descrizione della visita: Die Sabbati 17 octobris R. D. Visitator prossequendi Visitationem Diocesis accessit ad Cas. S. Petri et supervenienti nocte distulit Visitationem ad sequentem diem. Il giorno seguente visitabit Eclesiam S. Marie, fu accolto dal parroco Ludovico Malvezzie,celebrata la messa, fece un sermone al popolo ed ordinò una processione che fu subito fatta. Quindi la relazione prosegue con la descrizione degli altari e dei benefici. 1° altare, senza immagine. 2° altare, S. Biagio o Buon Gesù, patronato Magnani. 3° altare, S. Bernardino. 4° altare, S. Croce, dei Bolognini. 5° altare, S. Giacomo, dei Muzza (questo altare ha mutato dedica a S. Vincenzo Ferrario e SS.ma Trinità dopo che passò in dominio di Girolamo Dalle Vacche). 6° altare, S. Stefano, patronato dei Serpi (questo altare passò poi in eredità alla casa senatoria Caldarini che la cedette all’Arte dei Gargiolari. (Presso a questo altare al fianco destro della porta maggiore della chiesa viera il fonte battesimale). 7° altare, S. Michele, patronato dei Rota. (Questo fu poi distrutto per fare la Cappella del Rosario). 8° altare, S. Agata. 9° altare, S. Andrea, dei Comelli, (quest’Altare trasferito nell’interno della capella del Rosario ora si gode dall’arciprete Calistri). 10° altare, S. Lorenzo, patronato dei Bruni: (Questo altare è abolito ed ora vi è l’altare di S. Caterina). 11° altare, S. Lucia, dei Morelli. (Era questo altare alla sinistra dell’altar maggiore in Cornu Evangeli, che fu poi distrutto dai Gesuiti dopo il 1700). 12° altare, S. Caterina, patronato della Compagnia omonima (Questo altare era in cappella grande ove officiavano i confratelli della Compagnia ed ora serve di sagrestia alla parrocchia).

In seguito all’invito di mons. Marchesini la Compagnia fece fare il quadro della disputa della Santa all’egregio pennello di Prospero Fontana, che nemmeno sembra suo per maestria con cui è stato fatto. Fu lavorato in questa guisa per impegno ed emulazione di Lodovico Caracci che forse doveva farlo lui, come accenna il Malvasia nella sua Felsina pittrice. Si rileva dal testo di questo decreto che la divisata cappella era a coppi all’uso di questi tempi, onde per ciò il Visitatore ordinò il baldacchino sopra l’altare. Aggiunge ancora la visita che questa compagnia possiede stabili che gli furono donati per erigere e sostenere un ospitale nel Borgo onde albergare pellegrini e curare infermi: Institutum Hospitalis est modum excipere peregrinos sed etiam curare infirmos.

E perché la chiesa parrocchiale era a coppi, cioè a tegole e tavoloni, il Visitatore ordinò che vi fosse posto il solaio il che si eseguì poco dopo spendendovi la Comunità 100 scudi in tanto legname di abete.

Visitata la parrocchia passò il Visitatore alla chiesa della compagnia dedicata a S. Caterina.

Dopo passò alla chiesa di S. Bartolomeo. Pervenit etiam ad Capellam Societatis S. Bartolomei que est in eclesia eiusdem tituli Frat. Ord. S. Augustini, in qua sodales diebus festivi recitant divina officia et se exerceant in operibus piis (…). L’origine di questa Societatis S. Bartolomei, qui citata non si ritrova canonicamente eretta. Crediamo fosse piuttosto una semplice unione, poiché non ne vediamo della med. alcuna abolizione giuridica né alcuna carta nell’archivio di questi agostiniani che di essa ne parli. Si vuole dalla tradizione dei paesani che questa compagnia di motu proprio si incorporasse con quella di S. Caterina poiché in questa si trova il quadro antico di una figura, grande al vero di buona mano di questi tempi, rappresentante S. Bartolomeo che doveva servirle da insegna oppure di protettore della compagnia stessa.  Si può aggiungere in prova che la confraternita di S. Caterina solennizzava il giorno della festa di questo apostolo il che si è sempre effettuato finché è esistita. Il Visitatore passando al Borgo cita l’Eclesia S. Petri col suo reddito e il Sacellum sive Orat. S. Marie Annuntiate.

Il papa Gregorio XIII aveva regolato in un Breve il modo di fare le inghiarazioni nel contado di Bologna per togliere i disordini che accadevano fra i villani e i ministri pubblici. Si era ormai alla fine di ottobre e non ancora si era inghiaiata la via maestra consolare perché i villani di Poggio, sempre ostili, con varie scuse avevano dilazionato i lavori.  Furono perentoriamente invitati dal Massaro Matteo Comelli.  Vennero costoro e, senza prestarsi alla direzione del Massaro, cominciarono a loro talento a inghiaiare la strada consolare.  Nacquero altercazioni e dalle parole, uno della famiglia Paoli per nome Pippone, passò ai fatti e percosse malamente il Comelli.

Arrivò la voce al Castello, uscirono molti paesani con armi e legni e cominciò una ardente baruffa di bastonate fra castellani e poggesi. Ma poi, essendo cresciuto il numero dei paesani, convenne agli uomini di Poggio darsi alla fuga, lasciando le bestie e gli attrezzi nella pubblica strada che furono poi recuperati da altri di quel villaggio. Ma perché l’incidente si stava trasformando in una questione da tribunale, si interposero i proprietari di quei villani e furono tutti pacificati.

1574 – 1580. Riniero Rinieri costruisce la Riniera. Chiusura del paese per la pestilenza nel ferrarese. Presenza di malviventi, arrivano per contrastarli cavalieri corsi. Erezione della Compagnia della Madonna del Rosario. Disordini a Bologna contro il Legato, nobili banditi.

L’anno 1574 entrò Massaro Matteo Ronzani, Podestà furono Ercole Bandini per il primo semestre e per il S. S. Alessandro Volta per il secondo. In questi tempi cominciarono i Podestà estratti ad evitare la residenza personale nel paese, per cui si perdeva la loro autorità e le persone facevano quello che volevano non avendo timore di una superiore autorevole.

Perché poi poco si rispettava l’osservanza delle feste e nuovamente si facevano i mercati, fu di nuovo rinnovato il Bando e più strettamente proibiti i mercati. Venivano pure contestate le collette del nostro mercato per cui venne ripubblicata la tariffa ed ordinato il pagamento a norma di quella. Riscontriamo anche che gli uomini della Comunità abilitavano i Sensali ad esercitare la senseria.

Il capitano Pompeo Fiegna che fu alla guerra contro il Turco, ebbe un figlio maschio a cui fu imposto il nome di Lodovico. Diede segni del suo giubilo mediante una copiosa elemosina di pane e danaro alla popolazione povera.

Don Lodovico Malvezzi, stanco di governare questa chiesa, fece la rinuncia a favore di Don Sabatino Meneganti al quale fu conferita il 27 agosto 1574 per indulto apostolico

In questo stesso mese il Padre Maestro Ambrogio di Bologna, provinciale agostiniano, venne in visita a questo convento e chiesa di S. Bartolomeo e fra l’altro ordinò che si facessero dipingere nelle pareti i miracoli più cospicui di S. Nicola. Si spesero lire cento ma non si conosce l’autore della pittura della quale se ne vedono frammenti sotto gli altari laterali della Annunziata e di S. Giovan Battista decollato.

La Comunità soleva fare un collettore delle imposte comunitative incaricato per tutto l’anno. Poiché l’impegno riusciva gravoso si decretò che si facessero due collettori, uno per semestre e fossero i rispettivi massari estratti. Per i primi sei mesi dell’anno seguente 1575 fu Matteo Comelli. L’officio di Podestà fu coperto in questo semestre dal capitano Filippo Malvezzi, il notaio giusdicente fu Camillo Sassatelli.

Il governatore di Bologna Latanzio Latanzi fu nominato Presidente della Romagna. Il 31 gennaio 1575 partì dalla città accompagnato da alcuni Senatori e fu ospitato nella pubblica residenza. A seguito della sua partenza fu subito nominato Governatore Fabio Mirti.

A Venezia si scoprì la pestilenza negli uomini, i cappuccini, che di recente erano stati istituiti, si adoprarono assai e fu loro consegnata la chiesa del Redentore. La pestilenza fece spargere scapestrati, ladri e malandrini in ogni dove e soprattutto nel territorio bolognese ove, uniti con altri del contado, depredavano, assalivano ed uccidevano persone. Quindi bisognava stare sempre all’arme e sempre chiamare il popolo. Perciò fu così eccessivo il battimento della campana maggiore del Castello che si ruppe.

Le stragi, le aggressioni e gli assassinii erano al sommo.  I perfidi si inoltravano fino entro i piccoli luoghi e i sobborghi. Perciò furono fatti ricorsi al Papa per avere un aiuto tanto più che pure Alfonso Piccolomini[68], fuoruscito di Firenze, teneva coi suoi aderenti in continuo pericolo la Toscana. Ascoltò il papa le istanze e mandò Giacomo Boncompagni, suo figlio naturale, con truppe alla volta di Bologna.

In questo tempo la nostra Comunità fece rifondere la campana rotta. La fusione fu fatta nell’orto degli Serpa.  L’autore fu Anchise Censi famoso fonditore di metalli che fuse anche la statua di Gregorio XIII sopra la porta del palazzo pubblico di Bologna. Costò la fattura 700 lire e pesò 3.000 libbre. Si leggono nella campana le seguenti scritte: sopra in due linee: Ave Maria gratia plena, Dominus tecum / Benedicta tu in mulieribus MDLXXV, più in basso: Mattheo D. Comelli Massario e di fronte: Anchises F.

Riniero Rinieri per evitare la pestilenza si costruì un bellissimo Casino nel quartiere della Lama che mantiene tutt’ora il nome del suo autore cioè Riniera. Servì questa villeggiatura di abitazione per la prima volta a Giovanni di Vincenzo Rinieri per le nozze con Leona di Annibale Scarselli.

Il Padre Maestro Giulio di Bologna, agostiniano, che era stato predicatore quaresimale con gran fervore evangelico, ritornò sul finire di maggio a predicare per tre giorni nelle presenti circostanze di pestilenza e giubileo.

Giacomo Boncompagni venuto a Bologna per reprimere i malandrini, era accompagnato da una numerosa soldatesca.  La Comunità spese 192 lire per il suo passaggio.

Il 15 settembre la compagnia del Corpo di Cristo di S. Pietro di Bologna andò a Roma alla visita dei luoghi santi con un numeroso drappello di nobili e cittadini fra quali il senatore Bartolomeo Castelli, Alessandro Volta, Marc’Antonio Calderini, canonico di S. Pietro, Marchino Bentivoglio e molti preti del contado e città. Partirono in forma di processione, portando avanti uno stendardo cremisino coll’arma del Papa, tenendo questa via di Romagna.

In ogni luogo murato si fermarono a rinfrescarsi. La prima fermata fu a Castel S. Pietro da dove andarono direttamente a Imola. Giunti a Roma presentarono al Papa lo stendardo in ricompensa del quale ne riportarono uno di broccato d’argento del valore di 500 scudi. Questo stendardo nel ritorno alla città fu portato da Giovanni Calderini. I partecipanti erano 160, avevano cavalli, cariaggi e 16 musici che arrivando ai luoghi murati ed alle città cantavano e suonavano. Da Castel S. Pietro parteciparono Pompeo Fiegna, Matteo Comelli e Battista Fabbri. Nel loro ritorno, che fu il 25 ottobre, prima di entrare nel nostro abitato furono incontrati al ponte da molta nobiltà bolognese. L’accoglienza fu assai fastosa per il suono degli strumenti musicali ed il rimbombo di molti fucili e mortaretti.

Alla fine dell’anno partì da Bologna il Governatore Fabio Mirti. Venne poi governatore a Bologna l’anno successivo 1576 Ottavio Mirti Frangipane, napoletano. Massaro del primo semestre fu Agostino Topi. Podestà Annibale Marescotti.

Intanto la pestilenza si stava propagando nel ferrarese. Furono messe guardie ai confini dello stato ma anche le barriere ai passi e agli ingressi degli abitati. Al nostro Borgo, sia da levante che da ponente, si fecero due baracche di legno e vi si posero le sentinelle. Fu incaricato il Massaro a presiedere al buon ordine. Il capitano Biagio Sgarzi ebbe l’impegno della milizia paesana, che aveva sempre in giro due pattuglie. Fu chiusa la via di Medicina detta di S. Carlo, la via che porta al Sillaro, detta del Canale, le altre attorno al paese furono tagliate e barricate.  Le persone erano fra loro molto sospettose nel conversare.

Fu l’inverno 1576 più nebbioso che acquoso e nevicoso e mise ancora di più in pericolo la salute umana. Al terminare di febbraio si sciolsero le nebbie in copiose acque che danneggiarono il nostro ponte sopra il Sillaro dal lato a ponente e fu necessario fare una immediata riparazione.

Cominciò la mortalità nella bassa pianura del Bolognese e vi furono molte vittime. I becchini avevano più lavoro di ogni altro lavoratore. Ma le difese degli uomini non bastano se non vengono rafforzate dall’aiuto supremo. Così il cardinale Paleotti, vescovo di Bologna, supplicò il Papa per un amplissimo Giubileo di penitenza, perché Dio non manda castighi se non ci sono stati peccati. Ordinò quindi processioni di penitenza e prescrisse alla diocesi che i giorni di mercoledì, venerdì e sabato di ogni settimana fossero destinati a ricevere il S. Giubileo.

La Compagnia del SS.mo, che era spiritualmente governata da Don Alfonso Cuzzani, suo cappellano, era in continuo moto per il ministero della S. Eucarestia.

 Non ostante tutte le tribolazioni Marco Genovesi ed Alessandro (?) di Castel S. Pietro, commettevano qualunque malvagità senza vergogna e timore della giustizia. Avendo ucciso proditoriamente con archibugiate Gaspare Geti, furono presi ed in Bologna impiccati.

Per le riparazioni al ponte erano state spese settecento lire. Il Senato il 14 luglio 1576 ordinò il riparto delle spese.  

In questo mese venne a Castel S. Pietro in visita al convento di S. Bartolomeo il provinciale degli agostiniani Padre Maestro Gian Stefano da Pennabilli. 

In queste circostanze furono infinite le grazie che ebbero le persone dalla Immagine di M. V. di Poggio che per numerarle bisognerebbe farne un opuscolo per quante abbiamo rilevato da una raccolta di tavolette fatte e descritte dal Padre Barbieri dell’ordine dell’Oratorio di Bologna.

Cessato il timore della pestilenza e le guardie per precauzione, avendo la Comunità spese 123 lire per le baracche e le barriere, fu fatto il comparto con decreto dell’Assonteria a tutte le Comunità soggette a questa podesteria.

Morì in quest’anno Massimiliano II Imperatore al quale successe Rodolfo II d’Austria[69].

Ottavio Mirti fu richiamato da Bologna. Gli successe nell’anno 1577 Giovan Battista Castagna che fu ricevuto con tutti gli onori al Borgo di questo nostro Castello dai Senatori incaricati.

Nel mese di marzo, come riferisce la Cronaca Carradori di Budrio, apparve in cielo una stella cometa dalla parte del levante coi raggi volti a mattina e durò molto a farsi vedere.

Terminata la volta alla cappella di S. Caterina, unita alla chiesa parrocchiale, vi furono fatti due sepolcreti per i quali la compagnia pagò al parroco cento lire.

La nobiltà di Bologna era diventata arrogante per avere nel suo ceto Boncompagno Boncompagni, fratello del Papa e già Senatore ed ex Confaloniere. Il Governatore Giovan Battista Castagna, vedendo di non potere contrastare la nobiltà come si conveniva, si levò dal Governo.

Il Papa nominò poi Governatore di Bologna Francesco Sangiorgio Casalasco che venne alla sua residenza in gennaio 1578 ricevuto a Castel S. Pietro da due Senatori.

Il Massaro Matteo Comelli non mancò, al passaggio di tale superiore, di presentarsi e manifestargli le angustie in cui era questa popolazione per i fuorusciti e malandrini che infestavano queste parti. Ascoltò egli le istanze e poco dopo mandò al nostro Castello sbirri e soldati a cavallo di nazionalità corsa. Albergarono questi nella residenza del Podestà Alessandro Barbazza al quale lasciarono per le udienze una cameruccia in corrispondenza del portico del palazzo comunitativo.  I soldati cominciarono subito a battersi e a sbaragliare i malandrini tanto che assicurarono la via corriera da un canto all’altro del nostro abitato. Gli sbirri agivano fino alla Claterna e i corsi fino al confine della Romagna.

C’era in paese una unione di persone dell’uno e dell’altro sesso che, in figura di compagnia larga, offrivano a M. V.  sotto il titolo della Cintura annualmente offerte e devozioni. Questa Unione della Cintura, era desiderosa di fruire delle indulgenze che da sommi pontefici erano state concesse ai Cinturati.  Era questo anno predicatore quaresimale nel paese il Padre Lettore Romano di Bologna, agostiniano, che si adoperò affinché l’unione venisse aggregata alla compagnia della Cintura di Bologna e di fatti tanto avvenne. Perché i devoti fecero supplica al Capo e Custode della Cintura su accennata e domandarono la aggregazione questa fu concessa, in data 22 marzo 1578, come da chirografo papale.

Perché gli affittuari del dazio plateatico del nostro Castello alteravano le riscossioni da come normate nei capitoli della Comunità, la stessa decretò che qualora i Daziari trasgredissero dovessero pagare la penale di lire venti per ciascuna trasgressione e ciò tante volte quante fossero le frodi.  Le penali dovevano essere erogate alla Compagnia del SS.mo SS.to del paese.

Non cessavano i malandrini di infestare le campagne ed assassinare le famiglie nonostante i provvedimenti presi. Il Governo di Bologna, non riuscendo ad estirparli, abbandonò l’impresa.

Suor Maria da Veggio, nel convento delle monache di Lojano, era gravemente inferma per pleurite con flusso di sangue. Ormai abbandonata dal medico non si attendeva che la sua morte. Nel sesto giorno della malattia fece ella voto a M. V. di Poggio che se risanava avrebbe digiunato quindici sabati a pane ed acqua. Confidò questa sua intenzione alle altre monache e fu approvata. Appena ciò ebbe asserito si sentì migliorare ed il dì seguente fu liberata dalla febbre. Nello stesso maggio, dopo le Rogazioni, cominciò le sue orazioni e a digiunare.

Gregorio XIII aveva negli anni addietro, ordinato che in ogni luogo dello Stato ecclesiastico, in memoria della celebre vittoria ottenutasi contro il Turco, si dovesse fare la festa di M. V. sotto il titolo del Rosario ogni anno la prima domenica di ottobre.  Inoltre aveva ordinato che si erigessero Unioni di fedeli, Congregazioni, Compagnie ed altari sotto la invocazione del Rosario.

I buoni cattolici di Castel S. Pietro cominciarono con questa Pia Unione ad onorare M.V. sotto tale titolo e si elesse per suo altare quello dedicato a S. Biagio nella parrocchiale, altare che era da sempre il prediletto della popolazione.

Questa nuova unione sapeva che i devoti di M. V. della Cintura, per fruire dei beni spirituali della religione agostiniana e delle indulgenze date alla Compagnia della Cintura di Bologna, si erano fatti aggregare alla Confraternita di Bologna. Perciò questi nuovi devoti del Rosario pensarono nello stesso modo di erigersi in Compagnia, quindi interposero la Contessa Ginevra Ramazzotti e Don Gian Tomaso Lambertini, nobili bolognesi, onde procurassero la fondazione canonica a norma del Chirografo pontificio. La interposizione fu più che ottima, infatti questi ricorsero al Procuratore Generale dei domenicani in Roma Padre Sisto Fabbri il quale, essendo a ciò delegato, ne comunicò la Bolla di erezione sotto il giorno 8 agosto 1578. 

L’abitazione del Podestà era divenuta inabitabile per essere servita come quartiere dei corsi qui presenti contro i fuorusciti, perciò la Comunità decretò che fosse restaurata come seguì e furono anche accomodate le carceri.

Per il primo semestre 1579 fu Massaro Matteo Ronzani e Podestà Cesare Bianchetti.

   Fra le molte superstizioni che regnavano tra i contadini nella campagna bolognese c’era questa. Quando avevano un infermo molto grave, mettevano un giogo delle loro bestie sopra il letto intendendo così di facilitare la morte al paziente.  Poi, dopo la sua lui morte, scoprivano il tetto della casa perché pensavano che altrimenti l’anima non poteva uscire dall’abitazione e non poteva volare in cielo. Erano comunque certi che la sua ultima dimora fosse il carcere del suo purgatorio. Ponevano pure sotto al capo dell’agonizzante duo o tre pietre se avesse avuta l’accusa di avere rimossi e variati i confini dei terreni da esso lavorati. Infine si accendeva un lume presso il cadavere che non doveva essere spento se non dal più vecchio della casa, coll’opinione che questi dovesse essere il primo, come più vecchio, a seguirlo. Si usavano anche altre cose che più diffusamente si leggono nell’Episcopale Bononie del card. Paleotti che le estirpò nella massima parte mediante ordini pastorali.

Il Governatore Francesco Sangiorgi, richiamato a Roma, fu accompagnato il 26 giugno 1579 da due Senatori fino al nostro Castello.

Appena giunto nella città il nuovo governatore fece molti bei provvedimenti per liberare il territorio dagli assassini e fuorusciti. Ai provvedimenti unì anche il suo operato, infatti andava di persona nei luoghi più bisognosi di difesa. Si portò a Budrio, ove in quei folti canapai si nascondevano i ladri. Il 17 luglio venne pure a Castel S. Pietro, ove stette fino al 21, perché molti malviventi erano imboscati nella folta boscaglia del Macchione, Castelletto, Alborro e vicini luoghi fino a Monte del Re.  Questi furono da queste parti sloggiati coll’aiuto dei villani, che al suono della campana correvano al luogo ove si facevano le baruffe.

Sull’esempio di Alfonso Piccolomini, nello Stato ecclesiastico si erano divise le famiglie in partiti così che alcune parteggiavano per il Papa ed altre per l’Impero. Nacquero disordini, inconvenienti, risse e baruffe soprattutto nella città di Bologna ove le famiglie nobili, fra di loro puntigliose, avevano perso la buona armonia e ne seguirono perciò duelli e scontri spalleggiati da territoriali e da sicari.

Al Papa premeva sommamente la quiete della città che vedeva dispersa in un tale scompiglio. Spedì perciò a Bologna Giacomo Boncompagni con ampie facoltà di mettere d’accordo le famiglie sollevate e porre ogni temperamento ove bisognava. Vi riuscì felicemente.

L’ufficio della podesteria di questo luogo era divenuto inservibile per essere servito di quartiere ad alloggio di cavalli nel tempo dell’intervento contro i banditi. Fu ristorato a spese della podesteria con una spesa di 189 lire.

Mancavano poi nel Consiglio alquanti comunisti, perché parte erano defunti ed altri per la loro età non intervenivano alle riunioni per cui non si potevano più fare sedute legittime. Quindi fu fatta istanza al Senato per il provvedimento.

Intanto finito l’anno 1579, la Compagnia di S. Caterina terminò la sua Cappella congiunta alla parrocchiale. Virgilio Pirazzoli, Priore di quella, fece esporre il quadro dell’indicato Prospero Fontana, con una cornice di macigno lavorato a meandri greci e dorati, che all’occasione di convertire la Cappella in sagrestia, dopo la soppressione della compagnia, Don Mauro Calistri fratello dell’arciprete, più per livore che per ignoranza, la fece distruggere e perdersi malamente fra rottami ed altri materiali.

Chelo Cheli all’inizio di gennaio 1580 investì la carica di Massaro per il primo semestre e così fece Eliseo Mattuliani come Podestà estratto.

Don Sabatino Meneganti, che aveva servito fino a questo punto da parroco nella arcipretale di questo Castello, fece la rinuncia a Don Lattanzio Campana che entrò il 14 gennaio 1580.

La Comunità, premurosa, per quanto poteva, del bene della popolazione, pensò di erigere un Monte di Pietà ove ricevere al bisogno pegni e concedere prestiti. I giudei dal paese che ricevevano pegni, soccorrendo con prestiti ai bisogni della povertà, erano stati sloggiati. Volendo utilizzare il Monte di Pietà di Bologna, occorreva perdere la giornata per andare in città e spendere più del valore del pegno. Fu fatto ricorso al Senato e chiesto il locale del tronco della torre della demolita rocca nella pubblica piazza. Il Senato, veduta giusta la domanda, aderì favorevolmente e il 2 febbraio 1580 fece il relativo decreto.

Dimesso Monti Valenti da Governatore di Bologna, arrivò il cardinale Pietro Donato Cesi che, appena giunto, rinnovò tutti i bandi e specialmente quello della denuncia delle armi, la nobiltà sentì questa cosa molto di mal animo. Il Cesi in seguito fece processare molti indistintamente, per cui si procacciò molta avversione.

C’erano fra i bolognesi ed il Duca di Ferrara pareri diversi sulla regimentazione delle acque e, non essendosi potuto conciliare le parti, ognuno faceva i propri progetti. Fra i migliori ci fu Andrea Ambrosini che, dopo avere fatto i livelli di queste terre fino al Cesenatico, propose al Senato di Bologna un porto navile dalla parte di strada Maggiore venendo dalla Romagna. In questo modo, collegando le acque al mare, condurre con navi le merci a Bologna. Fu applaudito ma non fu adottata la proposta per la contrarietà degli altri ingegneri idraulici locali.   

Nel seguente marzo Alessandro Serpio della Serpa di Castel S. Pietro, uomo valoroso in armi, che aveva servito, in qualità di scudiero, il Duca d’Urbino, dopo essere rimpatriato si accasò con Lena Comelli ed ebbe un figlio maschio che fu battezzato al S. Fonte in Bologna da Giacomo Boncompagni a nome della Duchessa di Urbino.

Il 6 maggio il card. Gabriele Paleotti instituì ed ordinò che per tutta la diocesi, al primo colpo dell’ora di notte, si dessero da tutte le parrocchie per tre volte nove tocchi alla campana maggiore delle stesse e ogni cattolico dovesse recitare il salmo De profundis in suffragio delle anime del purgatorio oppure il Pater noster. Si cominciò per tanto a dar esecuzione a quest’opera pia nel nostro Castello il giorno 11.

La nobiltà di Bologna era molto scontenta del Legato Cesi a motivo che continuamente si facevano processi criminali. La notte del 19 venendo al 20 ottobre furono schiodate tre porte nel Torrone e portate via tutte le scritture e carte dei processi. Così accadde alle carte del notaio della Grascia e cancelliere del Legato.  Il sigillo del Legato fu poi appeso con un filo alla ringhiera del palazzo del Podestà ove si appiccavano i ladri. Con quel sigillo si bollavano dal notaio Giovan Maria Monaldini le licenze delle denunce delle armi.  Furono rubati anche i registri. Parte dei libri, scritture e carte processuali si videro la mattina tuffati nella vasca della fontana del Gigante[70] e parte bruciati dietro la chiesa di S. Pietro. Si pose perciò la taglia di 200 scudi a chi accusasse il responsabile. Si sospettò di Giovanni Dall’Armi ed Alessandro Dall’Armi, suo parente. Molti furono i banditi. Vari dei Pepoli, fra quali Giulio e Girolamo che credendosi poco sicuri nel loro feudo di Castiglione, andarono a Venezia con Basotto Fantuzzi. 

Anche il Legato si sentiva poco sicuro, accrebbe la guardia dei suoi svizzeri e pose anche guardia alle sue stanze. In seguito molti altri nobili furono arrestati. Il Conte Girolamo Pepoli si costituì e, carcerato, fu poi spedito nella Rocca d’Imola sotto la guardia di Gentile Sassatelli.

Ciò non ostante divenne maggiore il fermento contro il Legato e si accrebbero i malcontenti più nel contado che nella città.  Alcuni si presero un volontario esilio, ma altri si unirono ai banditi e, facendo conventicole ai confini, commettevano ogni sorta di malefici.

1581 – 1583. Il Piccolomini infesta gli intorni di Castello, attaccato sconfigge i papalini. Pretese degli Artisti di Bologna contro gli Artisti ambulanti di Castello. Papa Gregorio XIII toglie 10 giorni al mese di ottobre. Vari miracoli della S. Immagine della Madonna di Poggio.

Frattanto giunto l’anno 1581 intrapresero il loro ministero Sebastiano Rondoni come Massaro e Giulio Cesare Barbazza come Podestà del nostro Castello e territorio.

Crescevano sempre più i malefici dei fuorusciti e le querele stancavano l’orecchio del Legato.  Per riparare per ciò a tanti mali si risolvette il Cesi di porvi un freno, quindi emanò il 7 marzo 1581 un rigoroso bando sopra le denunce delle armi in cui vennero abolite tutte le licenze a chiunque. Poi procurò la pace fra i nobili contumaci, li condonò e li riammise in patria il primo di aprile. Furono in seguito anche condonati i loro sicari. I Battisti, i Zoppi e i Rinieri con i Gavoni di Castel S. Pietro. Pure i Ricardi e i Bertuzzi si pacificarono e per consolidare la pace unirono in matrimonio Gentile Ricardi con Carlo Bertuzzi il 16 aprile.

Il 28, 29, 30 maggio 1581 si levarono venti sfrenati che strapparono alberi dalle radici ed atterrarono edifici. Si aggiunse anche il terremoto, a Varignana dalla parte di ponente cadde un bastione e parte delle mura del castello e patì molto la torre sopra la porta.

 Nel comune di Castel S. Pietro nel quartiere della Lama cadde la torre della famiglia Valloni di Dozza nel fondo denominata la Palazzina.

Era questa torre stata edificata da certo Pietro Valloni e Vallone Valloni di Dozza nella pianura sopra la via di confine fra il bolognese e la Romagna che guardava a nord la Toscanella, a mattina la collina di Dozza e superiormente la collina Bolognese verso il Castelletto.

 Nel casale di Alborro cadde un tronco di torre antica dalla parte sud. Nella sommità della collina vicina, detta la Ghisiola, furono rovesciati gli avanzi delle antiche mura di quei sacri edifici.

Alfonso Piccolomini, bandito capitale di Firenze, aveva ricostituito la sua brigata di fuorusciti con molti bravi soldati suoi amici al numero di 200. Avevano seco moschetti ed artiglieria e ciò che loro bisognava alla guerra e infestavano questi nostri intorni di Castel S. Pietro e della Romagna. Il Papa per distruggerlo vi mandò il capitano Filippo Orsini con due mila soldati.  Si attaccò al nostro confine una ardente baruffa e il Piccolomini si difese valorosamente quantunque di numero inferiore e sconfisse l’Orsini. Questi, oltre essere stato ferito, perdette 231 uomini e gli fu necessario ritirarsi nella Romagna.  Il Piccolomini, fattosi più coraggioso per questa impresa, scorse le nostre colline e, passando il bolognese per la via montana, se ne andò al confine della Lombardia di dove tormentava in quelle parti il bolognese. Il Papa mal soffrendo ciò e sempre più adirato impose la taglia di 40.000 scudi contro il Piccolomini,

Il 2 luglio avvenne il matrimonio di Ippolita del Marchese Benincontro Dal Monte con Battista Bentivoglio e di Virginia Dal Monte con Andalò Bentivoglio figli del Sig. Costanzo Bentivoglio. Entrambe le due sorelle e spose furono accompagnate a Bologna dalla sorella di Guido Ubaldo Duca di Urbino loro garante. All’arrivo nel bolognese, furono introdotte a Castello nella casa di Alessandro Sergi, compare del Duca per il battesimo di suo figlio, ove furono tutti lautamente banchettati.

Quest’anno ci fu una mediocre raccolta di grano. 

Le soldatesche pontificie, che vigilavano qua e là per la provincia contro le scorrerie del Piccolomini, foraggiavano, ora in un paese ora in un altro. Il Legato era intenzionato a provvedere la città, onde non nascessero tumulti, quindi mandò Giovan Maria Monaldini, suo notaio della Grascia e cancelliere, a Castel S. Pietro e altri luoghi del contado a requisire quantità di frumento da chiunque a solo 6 lire per corba, con grosso dispiacere dei rispettivi proprietari. Poi lo fece condurre in città da poveri villani senza paga, quindi lo distribuì ai fornai della città facendoselo pagare 9 lire. Questi però non lo volevano pagare che 7 lire. Perciò ci fu non poco clamore nella città e nel contado per tale soperchieria ed ingiustizia.

Lorenzo Baroncini  e i suoi fratelli, che avevano dato mano ai suddetti acquisti, furono fatti dal cardinal Legato, il 29 agosto, cittadini di Bologna, escludendo il Senato dal diritto di concedere esso la cittadinanza. Qualunque cosa gli si presentasse per contrariare la nobiltà e tenerla umiliata non se la lasciava sfuggire di mano.

Alfonso Piccolomini avuto notizia di queste difficoltà del Legato nella città e nella intera popolazione del bolognese e quantunque avesse la taglia di 40 mila scudi, prese nuovo coraggio e ritornò nel bolognese, sicuro che non avrebbe ricevuto un solo atto che potesse essere utile al Legato.  Venuto a Castel S. Pietro non incontrò alcuna ostilità, bensì fuggirono dal paese i partitanti del Legato. Poi andò alla Romagna dove ebbe seguito di fuorusciti e passò poi nella Marca ove imponeva taglie e faceva sempre più gente.

Il Papa ordinò a Giacomo Boncompagni di far gente e provviste. Fu perciò fornito Castel S. Pietro di munizioni di ogni sorta e consegnato alla custodia del capitano Ramazzotto ed altri ufficiali del paese. Mentre si facevano queste cose il Piccolomini si ritirò a Pitigliano e nei suoi intorni.

Per il caldo eccessivo che sopravenne in questa stagione nacque una influenza mortifera nel bolognese onde molti andarono al sepolcro.

Si fecero per ordine del vescovo Paleotti visite pastorali, il Visitatore da lui nominato si portò nel settembre nella Villa di Poggio. La Comunità di Castel S. Pietro, come quella che era padrona della chiesa della Madonna, vi spedì Matteo Comelli e Mattia Ronzani, Massaro, unitamente a Sebastiano Rondoni per sentire le sue decisioni. Al vescovo era stato riferito che presso la Comunità si trovavano i danari di ragione di quella S. Immagine. Il Visitatore trovò che il parroco di Poggio, come cappellano e custode della Chiesa di M. V., aveva tentato di avere in suo dominio tali offerte.

Stante la mancanza di non pochi consiglieri nel Corpo comunitativo e per loro morte e per l’età senile, come si scrisse nel 1579, fu confermato nell’ufficio di Massaro Matteo Ronciani per l’entrante 1582 così che in meno di due anni questo soggetto esercitò la carica di massariato. Podestà fu il capitano Filippo Marescotti.

Il 17 gennaio Orsola del fu Francesco Comelli di Castel S. Pietro sposò Domenico Passarotti bolognese, fratello del celebre Bartolomeo Passarotti e Tiburzio Passarotti pittori di grido bolognesi. Abitava Domenico a Vedriano in un piccolo casino a motivo di evitare i partiti che tenevano la città di Bologna in scompiglio. Per tale matrimonio si fecero dai congiunti della sposa non grandi festeggiamenti.

I Dazieri del Peso e Misura del mercato e piazza di Castel S. Pietro venivano di quanto in quanto molestati dalle autorità suburbane di Bologna.  A questo pregiudizio si aggiungeva l’altro degli Artisti di Bologna che inquietavano e facevano arrestare gli Artisti ambulanti nel territorio e giurisdizione di Castel S. Pietro che esercitavano nelle famiglie il loro mestiere come sarti, ciabattini, muratori, battirame e simili manifatture. Pretendevano gli Artisti di Bologna che l’esenzione dalle Obbedienze[71] fossero ristrette al solo abitato del Castello e Borgo e non al territorio. La Comunità fece ricorso e preparò supplica al Senato per la conferma e chiarimento del privilegio Il Senato per ciò il 29 marzo 1582 decretò favorevolmente alla Comunità.

Adì 11 giugno mediante pubblica grida fu levata la taglia al Piccolomini e così si respirò un poco di pace.

 Il 16 giugno venne a Castel S. Pietro una compagnia di cavalleggeri condotta dal Duca di Gravina di casa Orsini che andavano alla guerra di Fiandra per il Re cattolico. La comunità spese per tale passaggio 62 lire.

La fonte della Fegatella aveva bisogno di restauro. Fu ordinato dal governo di Bologna il 28 giugno che fosse accomodata a spese della Camera.

Il primo luglio 1582, dopo le replicate istanze fatte al Senato per il riempimento dei posti vacanti in Consiglio, furono nominati consiglieri i seguenti soggetti: Angiolo Bonciani, Domenico Fabbri per il padre vecchio, Ricardo Ricardi per suo padre vecchio, Francesco Forni in posto del fu Ausonio suo padre, Clemente Fiegna, Fioravante Frati, Lorenzo del Prato, Gaspare Gottardi e Antonio da Corneto. Questi, accettata la elezione, furono tosto imbustati colli altri consiglieri anziani cioè Virgilio Pirazzoli, Antonio Comelli, Angiolo Boldrini, Sebastiano Rondoni, Cesare Balduini ed Agostino Topi. Dopo tale imbustazione fu decretato dalla Comunità l’aumento dell’onorario a ciascun Massaro sino ad uno zecchino al mese, escluso l’utile delle riscossioni camerali. Fu pure decretato che ognuno dei consiglieri che venisse estratto come Massaro dovesse personalmente esercitare il suo ufficio.  In passato si rinunciava e si faceva l’accrescimento dell’emolumento a chi avesse assunta la carica di Massaro.  Tutto ciò disposto si procedette all’estrazione di un novo Massaro per il secondo semestre e fu Domenico Fabbri, che intraprese subito la carica, come fece il nuovo Podestà estratto Canzio Ghisilieri.

Il Duca d’Angiò generale dell’armi francesi il 5 agosto venne a Castel S. Pietro dalla Romagna.

Venuto il card. Beltramino a Bologna il Senato volle dare un divertimento all’uso di quei tempi. Ordinò una giostra nella via di S. Mamolo invitando i migliori giostratori che avesse la città. Si fece lo spettacolo nel quale risultò uno dei migliori giostranti Alessandro Serpi o dalla Serpa da Castel S. Pietro, riscosse egli, oltre il plauso comune del popolo, anche segni di sincera congratulazione dal cardinale.

Il 14 settembre 1582 nacque Girolamo Bertuzzi da Maria Bianconcini e Sabbatino Bertuzzi, che fu poi prelato. Questa famiglia originaria di Castel S. Pietro abitava la maggior parte dell’anno nelle vicinanze del nostro Castello. In questa occasione si era ritirata alla villa presso S. Martino di Pedriolo, non solo per evitare i tumulti popolari ma anche le truppe del Piccolomini e le vicende militari che ultimamente si prevedevano coll’avere fortificato il nostro Castello. Altre famiglie del paese fecero lo stesso furono i Gini e i Rinieri che andarono alla loro nuova villeggiatura edificata da Cristoforo Riniero Rinieri nel quartiere della Lama detta: la Riniera.

 Il Papa, sebbene i suoi popoli gli dessero gravi pensieri, fece una grande riforma.  Riformò il calendario[72]  levando dieci giorni dal mese di ottobre, ordinando che invece di scrivere giorno 5 si dovesse scrivere giorno 15. Questa modifica non era stata fatta dal tempo Giulio Cesare imperatore, circa 45 anni avanti Cristo.

Il giorno 10 dicembre 1582 si diede il titolo di arcivescovado alla chiesa di Bologna assegnandole per suffraganee le chiese di Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Imola e Crema.

L’anno seguente 1583 fu Podestà del primo semestre Alessandro Manzoli Barbazza e entrò Massaro Sebastiano Rondoni. Il 3 gennaio fu addottorato in Medicina Vincenzo Mondini di Castel S. Pietro.

L’estimo in questo tempo della popolazione di Castel S. Pietro e suo territorio ascendeva alla somma di 486 lire, inoltre pagava 119 lire per 119 paia di buoi da lavoro in questo comune. Il comune pagava, per 949 teste alla campagna soldi 6 per testa che formavano in tutto lire 102 per cui tutta la paga che andava a Bologna era di lire 407.

Era stata così danneggiata la fonte della Fegatella dai malviventi che non bastò l’assegno fatto di 200 lire come si scrisse quindi la Comunità dovette ricorrere nuovamente al Senato.

Nella Villa di Poggio accadde il 2 maggio che Carlo Filippo Mengoni della Fantuzza che aveva accompagnato una sua parente sposa alla casa di Antonio Frascari, per fare festa si mise a sparare. La pistola, troppo caricata, gli scoppiò in mano. A lui saltò via il pollice e una scaglia di legno si conficcò nella mandibola sinistra alla sposa.

Nacque un non piccolo disturbo e si venne alle mani fra parenti. Calmatosi il rumore, qualcuno suggerì di ungere immediatamente i feriti coll’olio della lampada accesa davanti alla S. Immagine della M. V. che non era molto distante. Assecondarono tutti il devoto suggerimento ed in pochi giorni tutti guarirono perfettamente e ne esposero il voto a M. SS.

Il capitano Cesare Balducci di Castel S. Pietro unitamente ad altri paesani, era andato ad una festa che si faceva nel giorno di S. Bartolomeo al Trebbo di Bologna e si mise a deridere quella festa contadina. Alcuni individui si risentirono e, venuti ad aspre parole, passarono alle armi. Il Balducci finché poté si difese colle minacce, ma poi fu in necessità di far fuoco, ferì uno di quei villani, pure gli altri ricorsero al fuoco. Allora il Balducci montò il cavallo e, accompagnato dagli altri suoi colleghi, fuggì. Furono però inseguiti per in lungo pezzo di strada dai parenti del ferito e da altri. Vennero fino entro il nostro Castello avendo con sé alcuni sicari. Quindi la Comunità fu in necessità di far battere la campana per farli retrocedere, al suo suono se ne andarono tosto dal paese che tutto si era posto all’arme. Ma perché si temeva che costoro avessero simulata la fuga ma fossero imboscati poco lontano, la Comunità unita col Balducci pose la guardia per alquanti giorni alla porta del Castello onde assicurarsi da ogni aggressione.

In questo tempo Giacobbe Mingarelli e Silvestro Tomasi, fuorusciti di Forlì, vennero a rissa fra di loro nel confine di Medicina, Castel Guelfo e Castel S. Pietro. Si spararono fra di loro senza però colpirsi. L’8 settembre, si ritrovarono alla chiesa della Madonna di Poggio, qui ricominciò una ardente baruffa di archibugiate, ma per miracolo di Maria nessuno restò offeso. Silvestro Tomasi fu fatto fuggire al luogo detto il Monte, poco distante. Il Mingarelli gli tagliò la strada presso quel luogo, si appiccò una nuova baruffa nella quale il Tomasi restò ferito nel braccio sinistro ed il Mingarelli gravemente in una coscia. Il primo fuggì, ma l’infelice Mingarelli non poté e ottenne solo di farsi portare sotto il portico della Madonna ove stette fino all’11 dello stesso mese. Qui si raccomandò a Maria Vergine ed ebbe tanto di grazia che i suoi congiunti riuscirono a trasportarlo nell’Osservanza di Imola ove fu curato.  Poi si pacificò col nemico, entrambi poi si portarono a Poggio e, riconoscenti della grazia avuta mediante quella S. immagine, appesero ivi la tavoletta del fatto e della loro guarigione.

In seguito della istanza fatta dalla Comunità al Senato per il ristoro della fontana della Fegatella, questi decretò il 29 ottobre un riparto di 400 lire. In questo decreto si enuncia la virtù dell’acqua: (…) reparationis sive accomodatemis fontis aque medicinalis saluberrime Jecinorosis site extra portam meridionalem Castri (…). Fu detta perciò questa fonte della Fegatella, poiché Jecinorosus secondo Plinio deriva dalla parola Jecur, che in toscano si traduce in fegato.

Di questa fonte ne ha fatto la storia e l’analisi il dottor Antonio Maria Fracassi medico condotto di Castel S. Pietro, che è ancora inedita ed è presso di noi fino ad ora, salvata dall’orrido saccheggio degli insorgenti fatto a Castel S. Pietro alla fine del giugno 1799, che fu piuttosto un assassinio.

1584 – 1587. Crescita dei banditi infestanti il territorio. Bolla papale per la loro cattura e uccisione. Commissionata pala della madonna del Rosario a Orazio Samacchini.

Nell’anno 1584 entrò Massaro Antonio da Corneta e Podestà Andrea Paleotti.

La Compagnia del SS.mo nel mese di marzo incominciò a fare le orazioni delle 40 ore. La stessa Compagnia, come devozione di suo istituto, la cominciò la sera della domenica delle Palme all’altare maggiore di questa parrocchiale, ove era stata eretta, e dove manteneva illuminato il SS.mo ed ivi faceva tutte le sue funzioni.  Il che durò fino al 1740. La funzione delle 40 ore si riconosce inventata per la prima volta a Bologna il 19 marzo 1564 dal lodato cappuccino Frate Simone uomo di singolare probità e zelo.

Il numero dei banditi bolognesi che infestavano il territorio era di nuovo cresciuto. Non c’era male che non commettessero. Le persone di ogni sesso andavano a gruppi, i poveri villani non potevano salvare i prodotti e le robe. Questi malviventi si dedicavano ai furti, agli assassini, agli stupri, con particolare impegno e piacere. Nel nostro circondario il capitano Marc’Antonio Bruni, Giovan Battista Tesei e Nicola Fabbri, tutti bravi militari, si erano così ripartita la guardia: il quartiere della Lama al Bruni, quello di Granara a Nicola Fabbri e quello del Dozzo a Battista e fratelli Tesei. Questi avevano molto da operare per tenere libere le colline a causa della presenza delle boscaglie.

Si fece un nuovo elenco di tutte le teste del nostro territorio che non servì solo per la colletta comunitativa ma anche per conoscere quanti fossero abili all’arme. Risultarono in numero di 336.

Il Papa sentendo i grandi mali che commettevano i fuorusciti e che il bolognese era diventato un luogo pieno di malandrini, ritenne che per eliminarli del tutto ci sarebbero state molte perdite. Quindi promulgò un Chirografo di motu proprio che li graziava tutti purché fra loro si pacificassero. Fu ciò una buona medicina ma non totalmente salubre poiché dopo poco ripullularono ancora più temerariamente.

Dopo che nel mese di maggio si erano fatte le Rogazioni di Maria SS. di Poggio quella S. Immagine fu trasportata alla sua residenza.  Qui si portò una giovinetta della Pieve di Budrio di nome Aurelia Giuliani che fu trasportata su una sedia da due persone per essere senza forze e con la vista appannata. Giunta alla S. Immagine fu tanto il fervore che aveva e la speranza di essere ottenere la grazia che cominciò a gridare: Maria, Maria, Salus Infirmatorum, ajutemis, liberame da questo male, fammi la grazia altrimenti da qui non mi parto se non me la concedi. Poi si mise a piangere dirottamente che i suoi occhi sembravano due sorgenti e di nuovo cominciò a gridare: Non basta, non basta Maria che ora chiaramente ti veda, non basta. Fammi la grazia che genuflessa ancora avanti questo tuo S. Ritratto possa colle mie forze naturali ringraziarti ancora. Quindi facendo ogni sforzo, aiutata dal sacerdote custode della S. Immagine, si alzò dalla sedia e si prostrò all’altare. Allora si sentì rinnovare le forze naturali onde, alzatasi, mostrò al popolo presente quanto era valida la protezione di M. SS. ed in quanto pregio dovevasi tenere questo santuario. Pernottò la graziata fino al dì seguente nella abitazione di quel custode, ove la mattina del venerdì dopo l’Ascensione, fatte le sue devozioni se ne ritornò salva alla propria casa.

In quest’anno vi fu una raccolta ubertosissima di gualdo nel nostro comune al segno che la semente si vendette a quindici soldi la corba come si riscontra nei Libri delle Rendite della soppressa Compagnia di S. Caterina.

La famiglia di Giacomo Muzza si sentiva poco sicura a Castel S. Pietro per il ritorno dei fuorusciti graziati che macchinavano occasioni di risse, perciò abbandonò il paese ritirandosi a Bologna. Seguirono quest’esempio i Forni e i Landinelli con altri.

Nel Gennaio 1585 entrò Massaro Gaspare Gottardi e Podestà Cesare Gozadini.

Essendo nata una bambina al Conte Ramazzotto di Castel S. Pietro dalla moglie Lucrezia Quattrini, il 16 marzo fu battezzata al Sacro Fonte di Castel S. Pietro colla maggiore pompa possibile dal Conte Giovan Battista Bolognini e le fu imposto il nome di Panfilia. Molta nobiltà concorse a questa cerimonia oltre le principali famiglie del paese.

Il Legato aveva precettato il Conte Romeo Pepoli a portarsi a Roma dal Papa per difendersi dalle accuse avute. Questi prese con sé Alessandro Cavazza, uomo di acuto ingegno e pronto di mani. Prima che giungessero a Roma, il 10 aprile 1585, il Papa finì i suoi giorni ed il Pepoli prese respiro.

Era in questo tempo Confaloniere di Bologna Boncompagno Boncompagni fratello del Papa che intesa la sua morte subito partì e lasciò vice Confaloniere Galeazzo Poeti.

Il 14 aprile Giovanni Calderini maritò sua sorella Tadea con Alessandro Serpa vedovo di una sorella di Opizzo Alidosio di Castel del Rio.

Vacò poco la S. Sede poiché il 24 dello stesso aprile fu assunto al pontificato il cardinale Felice Peretti dell’ordine dei Conventuali di S. Francesco e si fece chiamare Sisto V.

Questo Papa trovò cresciuto il numero dei banditi non ostante la grazia fatta da Gregorio XIII di essere stati tutti assolti. Questi invece di andare per la buona strada avevano imperversato nel contado di Bologna e divenuti insolenti, perfidi e potenti, assassinavano nelle ville e nei castelli meno popolati, scacciavano le famiglie con obbrobri, violenze e stupri, andavano nelle chiese, alle feste ed a mercati e commettevano ogni male che a loro veniva in testa.

Il card. Paleotti, il Legato ed il Senato scrissero al Papa di un tanto disordine. 17 giugno 1585 fu pubblicata una Bolla papale in cui veniva accordato a tutti di fermare con le armi i banditi per pigliarli e darli alla Corte, concedendo la licenza di ogni arma per difesa.  Inoltre era fatto lecito ai banditi di uccidersi tra di loro, colla assoluzione del loro reato, sempreché portassero le teste degli uccisi a Bologna. Fu questa una medicina molto salutare, onde in breve furono distrutti poiché ogni giorno si vedevano teste in mostra con scritto sotto il nome e cognome.

Durante il tempo di sede vacante, per impedire le insolenze e malefici dei banditi, era stato spedito a Castel S. Pietro il capitano Bernardo Moreschi con altri ufficiali per disporre e ricevere le truppe di Ascoli. La Comunità aveva avuto varie spese per cui fu fatto ricorso al Senato affinché venisse ristorato il Massaro Gaspare Gottardi che ne era in esborso. Il Senato il 2 agosto decretò il rimborso.

Il 29 ottobre venne a Castel S. Pietro per la visita pastorale il canonico Antonio Bachini, deputato Visitatore Generale dall’arcivescovo Paleotti. Di questa visita non ritroviamo cose degne di particolare menzione se non che era arciprete Don Sabatino Meneganti e che il corporale della parrocchia era composto di 1.200 anime.

Le carceri della podesteria di Castel S. Pietro e la residenza del pretore avevano bisogno di riparazioni. Il 26 novembre 1585 il Senato decretò un riparto di lire settanta circa sopra le comunità soggette alla podesteria.

All’inizio del 1586 entrò Massaro Matteo Canelli. Podestà fu Evangelista Dall’Armi, suo notaio Andrea Ballotta.

 La canapa del territorio si mandavano grezza fuori provincia e poca se ne lavorava sul posto. Quindi l’arte languiva sopra tutto a Budrio, Castel S. Pietro e Molinella. Perciò si unirono queste tre popolazioni e fecero constatare il danno non solo a loro ma anche alla provincia. Fu informato il Papa di tanto disordine, questi pertanto vi provvide e con suo Chirografo del 14 marzo 1586 vietò tali esportazioni.

A questo proposito narra Paolo Masini nella sua Perlustrata che nella città si contavano 120 botteghe di gargiolo e canape e che quest’arte teneva impiegate molte persone nelle terre di Budrio, Medicina e Castel S. Pietro.  Infatti nel nostro Castello come in quello di Budrio, dove lavoravano anche le donne, quest’arte dava da vivere a molte famiglie.

Nata una fanciulla al Conte Pompeo Ramazotti e Lucrezia Fabbri di questo luogo, fu portata al S. Fonte da Ercole figlio dell’egregio capitano Annibale Bruni, la pompa non fu dissimile dall’altra che si usò ultimamente nel battesimo della altra fanciulla Ramazzotti di cui se ne scrisse sopra.

Corradino di Simone da Labante, uno dei sicari di casa Pepoli, era stato mandato a Livorno per proteggere il figlio Girolamo. Stanco di stare là, temerariamente venne a Piancaldoli.  Da qui, assieme ai contrabbandieri[73] di Casalfiumanese, spesso veniva ai mercati di Castel S. Pietro. Accadde che la guardia criminale di Bologna, travestita da villani, gli fece un’imboscata nei castagneti del Castelletto. Accortosi egli, con i pochi suoi compagni, dell’agguato si riparò dietro ad un castagno e così fecero i suoi colleghi. Si incominciò da una parte e l’altra a far fuoco. Non riuscendo a risolvere le guardie chiesero aiuto al Massaro di Castel S. Pietro perché facesse battere la campana all’armi trattandosi di banditi capitali. Tanto si fece che Corradino e i suoi compagni si videro circondati ed impossibilitati a difendersi, quindi si diedero alla fuga dopo avere ferito alcuni sbirri.  Ma anche lui era stato colpito e fu preso e condotto alle carceri della città. Questo fatto avvenne il giorno 5 maggio. Morirono due sbirri e furono feriti anche vari villani, che erano accorsi. Dopo poco fu condannato alla galera.

Il 20 luglio ritornò a Castel S. Pietro il canonico Antonio Bachini per la controvisita pastorale.

Si ebbe in quest’anno una copiosa raccolta di canapa, lino e guado come si riscontra dai libri della compagnia di S. Caterina.

Gli uomini della nova Compagnia del Rosario, eretta già all’altare di S. Biagio, in accordo con Giulio Cesare Rota, proposero trasferirsi all’altare dedicato a S. Michele. Questo per essere in una posizione meno d’intralcio sia per poter essere in mezzo alla chiesa. Fu piaciuta l’idea e fu fatta fare la pala del Rosario a spese comuni al chiaro professore Orazio Samacchini con i 15 misteri secondo la Bolla di erezione. Però questo quadro non piacque ai Rota perché era stato dipinto con alla sinistra S. Michele ed alla destra S. Domenico. In più, secondo la Bolla, S. Domenico doveva essere genuflesso e ricevere le corone del Rosario. Nacquero durezze fra le parti, tanto più che l’altare era jus patronato dei Rota. Fu portata la questione avanti l’Inquisitore di Bologna che poi decise l’anno 1589, senza dare ragione né all’una, né all’altra parte. Per ciò si stettero tre anni prima che fosse collocato il quadro al suo posto.

Dal libro dei matrimoni abbiamo che quest’anno ci fu il matrimonio fra Maria di Annibale Scarselli ed Antonio Battisti. Si vede da questo libro che non poche sono le famiglie castellane che si sono nobilitate in Bologna. La famiglia Tedeschi, Sega, Scarselli, Muzza, Serpa, Fabbri, Marescotti alias Mattarelli, Rinieri, Rondoni e molte altre. Anche Virgilio Pirazzoli fu fatto cittadino di Bologna ma abitava continuamente a Castel S. Pietro.

Il primo gennaio 1587 entrò Massaro Fioravante Tomba e Podestà Tomaso Cospi.

Tomaso e Giacomo Boldrini e Pietro Rondoni furono fatti cittadini di Bologna con i loro discendenti. Da questa famiglia venne Giovan Battista Rondoni che fu vescovo di Assisi nel 1732 e morì nel 1733. Questa famiglia Rondoni antica nel nostro Castello si è estinta dopo il 1757.

L’11 marzo il Massaro Fioravante Tomba con gli uomini del Consiglio, desiderosi di accrescere questa loro patria di ministri del culto, presentarono un memoriale al Senato per avere la facoltà di erigere un ospizio alla nuova Religione dei Cappuccini. Il sito indicato era quello una volta destinato per il Monte di Pietà e cioè nel tronco e nel fondo della Rocca distrutta.

 Per completare il numero degli ausiliari, mancavano tre soggetti.  Fatta la proposta al Senato furono eletti Giovanni Fabbri, Domenico Simbeni e Girolamo Cuzzani.

La Comunità che aveva in proprietà l’esazione delle collette comunitative e camerali del suo territorio, dopo avere divisa la colletteria in due libri semestrali e assegnati a ciascun Massaro, assegnò per loro salario a ciascuno 45 lire.

Maffeo Maffei da Cesena e sua moglie Carlotta Rieti, il primo idropico da 4 anni e l’altra immobilizzata per sciatica da due anni, avevano deciso di venire ogni anno in visita della famosa B. V. di Poggio per vedere se guarivano dei loro malanni. Partiti il primo maggio alla visita della miracolosa immagine furono talmente speranzosi nello spirito che tennero per indubitata la grazia. Difatti rimpatriati cominciarono a sentire la manifestazione della grazia. Il primo cominciò a sciogliersi in abbondanti orine e l’altra ad usare soltanto una stampella, infine in breve tempo furono liberati e portarono alla S. Immagine il testimonio della tavoletta e delle stampelle.

Il 9 giugno il sig. Galeazzo Gini bolognese, ma oriundo di Castel S. Pietro nel di cui Borgo abitava, sposò, con licenza del Vicario generale Domenico Gualandi, Bartolomea Orlandini sua servente in presenza del parroco, del Rev.mo Frate Francesco commissario nell’ospizio di questi P.P. M.O. di Castel S. Pietro, di Frate Guglielmo Fiorentini da Castel S. Pietro baccelliere dell’ordine agostiniano in questo convento di S. Bartolomeo. Ciò fu fatto senza solennità e pubblicazioni nella cappellina dello stesso Gini.

Il primo luglio vennero a Castel S. Pietro 400 fanti, parte romagnoli e parte marchigiani, che poi andarono il giorno seguente alla volta di Milano per unirsi con altre truppe per passare in Francia a favore di questo Re[74] che guerreggiava col re di Navarra[75].

Per tenere in regola tutta le Comunità del suo regno il Papa nel mese di settembre deputò cinque chierici di Camera per commissari con ordine di rivedere le rendite e i conti alle stesse siano ecclesiastiche che laiche.  Per Bologna e suo territorio fu deputato Fabio Pergola perugino che il 3 ottobre arrivò a Bologna e pubblicò l’editto che fra tre giorni le comunità dovessero, sotto pena di 500 scudi, portare i documenti delle loro rispettive possidenze. Ognuna obbedì prontamente.

La nostra Comunità di Castel S. Pietro oltre ad avere presentato i documenti dell’emporio del mercato sopra i redditi del Peso e misura, produsse anche l’inventario e nota dei redditi della stessa che erano di 396 lire.

L’altare della famiglia Rota dedicato a S. Michele Arcangelo si trovava in cattivo stato e quasi che sospeso, perciò fu fatto ristorare dai compadroni.

1588 – 1590. Riparazioni alla Via Emilia per il comodo passaggio del Legato. Milizie, spingarde e artiglieria a Castello per intervenire contro i delinquenti. Gran carestia e scorrerie di banditi romagnoli. Vari crimini e assassinii commessi dai malviventi. Intervento in forze contro i banditi, molti presi e impiccati.

Il primo gennaio 1588 entrò Massaro Gerolamo Cuzzani.

Alessandro Morandi, nobile bolognese, maritò sua figlia Anna a Francesco Muzza da Castel S. Pietro. Questo matrimonio fu il motivo per cui la famiglia Muzza espatriò da Castel S. Pietro e si stabilì a Bologna. La sua abitazione, ora della famiglia Vachi, era fuori del Castello nel Borgo verso il Sillaro.

Il Conte Guido Pepoli, chierico di Camera pontificia, aveva fin dall’anno scorso acquistato il Tesorierato di Bologna per 72 mila scudi, che mai più a tanto prezzo era stato incantato. Fu perciò che questo prelato veniva spesso a Bologna. Accadde che, essendo la strada corriera guasta presso il ponte sopra il rio della Scania, precipitarono i conduttori della sua carrozza. Fece perciò istanza al Senato che non solo qui fosse accomodata la strada ma anche per tutto il tratto che dalla Romagna porta a Bologna. A questa istanza si unì anche quella del vice legato Anselmo Dandini, quantunque fosse stato revocato dalla sua autorità e tornasse alla sua patria a Cesena.

Tardandosi l’accomodo della via corriera il Papa ordinò nel mese di maggio che si appianasse fino a Bologna e si rimettessero i selciati ove erano guasti. Ciò fu tostamente eseguito, tanto più che si vociferava che il Papa fosse in procinto di venire a Bologna.

Le mura della città come quelle dei castelli erano adorne di merli, la cui manutenzione era gravosa, oltre il pericolo che facevano alla gente. Il Senato ordinò che fossero tutti levati e con i loro materiali fossero riparate le mura e le rocche ove occorreva. Tanto seguì e nel nostro castello perciò rimasero soltanto le merlature alla Rocca piccola, alla torre e ai baluardi.

Il capitano Giovan Battista Fabbri junior fece costruire nella chiesa di S. Bartolomeo di Castel S. Pietro un altare alla destra dell’ingresso maggiore e lo dedicò al protomartire S. Stefano.

Abbiamo dalle memorie nell’archivio di questa parrocchiale che vista la permuta e rinuncia di questa arcipretale fatta da Don Sabatino Meneganti a Don Alfonso Cazzani di Castel S. Pietro, parroco di S. Lorenzo di Comacchio e vista la sua legale rinuncia fatta il 21 agosto, seguì la nomina dall’arcivescovo a rogito di Silvestro Zucchini.

Don Alfonso, stabilitosi in paese, bramando che le funzioni ecclesiastiche nella sua chiesa fossero fatte col maggior decoro possibile, fece istanza alla Comunità affinché, come compadrona della arcipretale, la adornasse di un organo. Accettò la Comunità l’invito ed a questo scopo elesse quattro del Consilio per procurare l’organo. Furono Matteo Comelli, Francesco Farnè, Ricardo Ricardi e Lorenzo Dal Prato che assunsero l’impegno. Fu subito fatto fare a Imola da certo Properzio Lasagna detto dalli Organi e costò 236 lire. Questo fu il primo organo che si sentì suonare nel paese.

Fu quest’anno il raccolto scarsissimo.

Giunto l’anno 1589, si fece la nuova imborsazione dei massari e uscì da quella nuovamente Matteo Comelli. Attesa la carestia di viveri, mancando la città di 60.000 corbe di grano, il Governo diede la libertà a chiunque di introdurre pane e beato chi ne introduceva.

A queste calamità si aggiunsero le inquietudini per i banditi. Passalacqua di Barbina, capo di 20 banditi e Francesco Zampironi di Caste bolognese capo di altri 35, infestavano la Romagna e spesso facevano scorrerie negli intorni di Castel S. Pietro, Castel Guelfo, Medicina e Casalfiumanese e non lasciavano lavorare, non che camminare la gente.

Intanto Alfonso Piccolomini era di nuovo in contrasto col Duca che gli aveva confiscato beni per una rendita di 15.000 scudi. Assoldò di nuovo genti e cominciò a scorrere la Toscana, facendo scaramucce, ma non nello stato papale e nel ferrarese. Tuttavia, poiché scendeva nella Romagna dalla parte di Castel del Rio verso Imola, convenne a Bologna mandare guardie e cavalleggeri a Castel S. Pietro per sicurezza. Il Piccolomini comunque non fece alcun male.

la Compagnia del Rosario, che era stata eretta all’altare di S. Biagio, fin dal 1586 si era trasferita a quello di S. Michele arcangelo. In questo altare, jus patronato dei Rota, c’era la pittura fatta da Orazio Samacchini. Si era però in animo di fabbricarvi poi una più decente cappella. In attesa di ciò questa pittura era trasferita ora qua ora là a motivo di ripicche. Fu perciò fatta istanza al Provinciale dei domenicani affinché mettesse a posto tale inconveniente. Questi, usando della sua autorità come capo della Compagnia del Rosario, decretò il 4 aprile 1589 che la tavola restasse nell’attuale altare di S. Michele fino a che non fosse pronta la progettata cappella.

In questo mese il Papa aumentò il numero dei Senatori in Bologna da 40 a 50.

Il vice Legato Camillo Borghesi vedeva crescere il numero dei banditi e temeva di una qualche sollevazione dalla parte di Romagna per la quantità che avevano di malviventi. Perciò spedì a Castel S. Pietro, oltre le già spedite milizie, munizioni, spingarde ed artiglierie e altre armi al servizio del popolo, da tenere dalle pattuglie nei palazzi, nella torre e nella casa e da usare in caso di bisogno.

Alla raccolta miserabile dell’anno scorso se ne aggiunse quest’anno una ancora più scarsa. Si vendette il grano di cattiva qualità fino a venti lire la corba. Anche i marzatelli furono scarsissimi.  Per la miseria patita nello scorso inverno, morirono nell’agosto di quest’anno molte persone a Bologna e nel contado e furono più i fanciulli e i giovani che i vecchi.

Riferisce la Cronaca di Francesco Galliani, che di giorno in giorno crescendo il numero dei morti, fu ciò attribuito al fatto che i contrabbandieri di Romagna avevano portato a Castel S. Pietro grani cattivi. L’accusa fu fatta da Battistino Piazzi di Castel S. Pietro che accusò il capo dei banditi Giacomo Galli della frode. Questi lo prese e con l’aiuto di Marc’Antonio Lelli dello stesso Castello, detto il Bravo, lo ammazzò. Quindi gli svaligiarono la casa e gliela bruciarono. Gli tolsero per un valore 7.000 lire.

Si usava in questi tempi che accadendo la morte di un prete intestato, la Camera di Roma si impossessava dei suoi effetti, onde nascevano molti scompigli. Per evitare questi il Papa concordò col vescovato di Bologna che, in cambio, questi in perpetuo pagasse 800 scudi annui per il sussidio delle galere.

Il primo gennaio 1590 entrò Massaro Agostino Topi. Il Podestà fu Protesilao Sabiniani col titolo di Strenuo Capitano e fu suo notaio giusdicente Filoteo Sarti nazionale di Castel S. Pietro.

Continuava la gran carestia di viveri. Le granelle erano andate ad un prezzo eccessivo, la fava si vendeva a 35 lire la corba, il grano 50 ed andò fino a 100 lire. Le genti si cibavano di ghiande, erbe ed alcuni macinavano le fascine di vite impastando la loro polvere con un poco di farina e componevano focacce e pagnotte. La gente moriva per la strada di fame. 

I banditi romagnoli scorrevano più che mai nel nostro territorio e non si sentivano altro che di ruberie, stragi e massacri così che, oltre il numero dei morti nel contado per fame, ne crebbero altri per le uccisioni. Per queste vicende poco si attendeva al culto di Dio e la gente stava si occupava solo delle proprie disgrazie.

Scrive Serafino Pasolini ne suoi Lustri Ravennati che i banditi si erano fatti così coraggiosi che entrarono perfino a Bologna, Rimini, Cesena, Forlì e Imola uccidendo quei nobili che li contrastavano. Saccheggiarono Bagnacavallo, quel Monte di Pietà e, entrati in Faenza, volevano impiccare quel governatore per avere egli fatto impiccare la mattina precedente molti loro compagni.

Inoltre le intemperie della stagione, con le piogge eccessive, minacciavano di aumentare la carestia e la mortalità. Per ciò si cominciarono ovunque orazioni di penitenza.

In questo periodo, il 27 agosto, morì il Papa Sisto V. Il 15 settembre fu assunto al pontificato il card. Giovan Battista Castagna col nome di Urbano VII, che però morì il 27 dello stesso settembre. Il 5 dicembre 1590 fu creato Papa il card. Nicolò Sfondrati col nome di Gregorio XIV. Il nuovo Papa mandò a Bologna per Legato suo nipote Paolo Emilio Sfondrati.

Il 20 dicembre furono pagate altre 3.000 lire per lo stipendio ai soldati che avevano soggiornato nella scorsa stagione a Medicina e Castel S. Pietro.

1591 – 1594. Un uxoricidio a Castello. Nuovamente carestia, 349 morti a Castello. Per cancellare i peccati, causa delle disgrazie, è concessa assoluzione a ladri e banditi. Castellani contro il Turco in Ungheria.

L’anno 1591 Massaro in questo primo semestre fu Clemente Fiegna. Chi fosse il Podestà non lo abbiamo trovato scritto in alcun luogo.

In gennaio il Papa emanò un Giubileo universale per la città e contado di Bologna affine di placare l’ira divina.

 Il 24 gennaio morì Cecchina di Riniero Rinieri, bellissima giovane, per un affronto fattole da fuorusciti. Le zitelle un poco avvenenti non erano sicure, molte villanelle furono violate ed alcune, che avevano voluto fare resistenza, furono uccise, altre stuprate e picchiate.

Il 14 febbraio Paolo Pagnoni, che andava alla sua villa detta la Pagnona, fu assalito da banditi imboscati e, quantunque si difendesse, fu ucciso nella stessa sua villa Pagnona. La numerosa compagnia di questi scellerati era guidata dal villano Giacomo Dal Gallo e dal suo compagno Bastiano dalla Serra. Questi uomini perversi avevano formato due gruppi dei loro, uno solo era ai confini di Castel S. Pietro. Si nascondevano presso la via romana nel luogo detto l’Alta ed al rio Rosso.  Facevano ogni sorta di assassinii, rubavano, spogliavano, uccidevano, squartavano le persone morte e le scorticavano. Chiedevano grossi riscatti entro un termine prefissato altrimenti uccidevano i prigionieri. Si rapivano figli di famiglia, mogli, bestiami. I padri per riscattare i figli, i mariti per le mogli, impegnavano tutti i loro averi.

Il 18 febbraio il bolognese sig. Gianpaolo Canobbio fu preso da costoro al nostro confine prima di giungere alla Toscanella. Chiesero per il riscatto 500 scudi da pagare entro due giorni altrimenti l’avrebbero ucciso. i suoi mandarono immediatamente solo 50 scudi. Fu preso l’inviato col danaro poi, fatto fra loro un immediato consiglio, diedero al povero latore dei 50 scudi altrettante bastonate. Quindi misero sul cavallo dell’inviato il povero Canobbio e girandolo verso Bologna gli diedero cinque archibugiate valutandole cento scudi per ciascuna.

Il 5 marzo venne a Bologna per la via di Romagna il nuovo Legato Paolo Emilio Sfondrati. Fu incontrato ai confini coi cavalleggeri ed introdotto in Castel S. Pietro dagli inviati dal Senato Piero Malvezzi ed Alessandro Bolognetti. Arrivato in Castello fu banchettato in casa Ramazzotti ora palazzo Locatelli.

Il 7 marzo i banditi presero un certo Calvana di Castel S. Pietro mentre andava a Imola, non avendo potuto dare le 40 lire richieste, fu ucciso. Il fatto avvenne al rio del Cerè detto anche rio Rosso. Il 17 furono pure uccisi, sopra la chiusa presso la fonte della Fegatella, due di Scanello che venivano a Castello. Questi si erano lungamente battuti coi banditi facendo fuoco.

Il Conte Ercole Cavazza, secondo scrive Gian Giacomo Brochi, fu infeudato da Gregorio XIV nel villaggio di Castel S. Polo[76], nel tempo addietro soggetto a Castel S. Pietro.

Crescevano di giorno in giorno le barbarie dei fuorusciti, come cresceva il numero dei malviventi e scellerati che si univano a loro. La giustizia poco riusciva ad intervenire e le pattuglie non erano in grado di fargli fronte.

Il 6 aprile morì il castellano del nostro Borgo che, essendo in pattuglia, fu con altri ferito. Il 15 Gabriello Caprara, il 24 Zovanne Zanini, il 26 il Maranga, furono tutti ammazzati dai fuorusciti.

Il Papa per distruggere questa peste di gente si unì col Duca di Ferrara e di Firenze poi dichiarò per Legato di Bologna il card. Francesco Sforza romano col solo scopo di estirpare con la milizia questa perfida unione di assassini. Venne egli per ciò con milizie nella vicina Romagna. I bolognesi gli mandarono 2.000 soldati del contado e così, con le altre truppe papaline condotte dallo Sforza, presero i passi perché non fuggissero. Il 30 aprile Bologna mandò quattro pezzi di artiglieria con carri di palle, spiedi, scale ed altri attrezzi militari che furono portati a Castel S. Pietro dai battaglioni.

Intanto il card. Sforza, fatto un esercito circa 5.000 uomini, il 2 maggio andò al palazzo dell’Abate Riari nella Villa del Giardino fra Imola e Castel S. Pietro ove era il nido di un capo dei ladri chiamato Giacomo dal Gallo. Qui arrivò da una parte il cardinale e dall’altra le truppe del Duca di Ferrara. Cominciò lo Sforza di nottetempo a battere coll’artiglieria il palazzo. Ma i ladri furono avvisati da una famiglia vicina detti gli Jachini, che il Duca di Ferrara Alfonso d’Este aveva le sue genti dalla parte di sotto.

Per non rimanere sotto le rovine, il Gallo tentò la fuga coi suoi compagni e andò a scontrarsi con i soldati ecclesiastici. Nello scontro diversi, da ambo le parti, restarono uccisi da ambo le parti. Finalmente i banditi riuscirono a fuggire e si nascosero in un bosco presso Castel Guelfo, dove stettero fino al 9 maggio. Ma poi, mancando i viveri, uscirono e si accese uno scontro con i cavalleggeri di Bologna. Durò il combattimento un buon pezzo ma, non potendo resistere, tentarono la fuga. Il Gallo fu raggiunto da un cavalleggero e ucciso. La sua compagnia era di 150 bravi. Bastiano Serra si ritirò a Montecatone. Nella compagnia di Gallo c’era un frate, fuggitivo dalla religione di S. Francesco, per nome Fra Valerio la cui patria ci tacciono gli scrittori.

In questo frattempo era stato preso dalle pattuglie un giovinastro di Casio, informatore di Marc’Antonio Lelli detto il Bravo. Fu interrogato dove era nascosto il Bravo ma non volle accusare i suoi compagni e, il 30 di questo mese, fu impiccato a Castel S. Pietro per ordine del Legato Spondrati.

Nell’occasione della baruffa di cui sopra Giulio Fasanini, nobile bolognese, Stefano Cavina, il Rizzo di Varignana, sbandati dei fuorusciti, si rifugiarono a Monte Calderaro. Ma poi, per la fame, scesero sopra Castel S. Pietro nella possessione della Collina. Carlo Ricci, che portava loro del pane, avvisò i soldati paesani che li bloccarono. Vedendosi alle strette attaccarono battaglia per fuggirsene, ma fu vano poiché nello scontro fu ucciso il Cavina, che era di Monte Calderaro, il Fasanini fu preso dal Ricci con un laccio alla gola. Nessuno riuscì a fuggire. La pattuglia era composta da Raffaele Martelli, Ercole Freschi, Francesco Tassoni, Francesco Busta ed altri tutti abitanti nel Borgo del nostro Castello. Condussero immediatamente il Fasanini a Bologna, che li pregò di ammazzarlo per non avere la vergogna di entrare in città, ma non lo vollero mai ascoltare. Poco dopo, essendo un nobile, fu decapitato.

Non erano però stati estirpati totalmente questi malandrini, poiché ve ne erano ancora dei gruppi, che vivevano imboscati nelle nostre vicinanze nella collina del quartiere della Lamma e facevano aggressioni alle persone. Fra costoro c’era Marc’Antonio Lelli, il Bravo, Francesco Gavoni e Cristoforo e Giovanni Granzi che avevano per capo Pietro Passatempi.

Furono di nuovo incaricate nostre pattuglie di Castel S. Pietro e la milizia di vigilare ai nostri confini perché non si introducessero e commettessero crimini. lI Gavoni ed il Bravo informarono i nostri che il nascondiglio era nei boschi del Valesino e Macchione presso il confine di Dozza. I nostri soldati si appostarono in modo che quei malandrini non potessero fuggire.  Accortisi di ciò tentarono tutti la fuga scambiandosi fucilate, nel tentativo furono feriti i fratelli Granzi col loro capo Passatempi. Il Bravo col Gavoni, secondo l’accordo, fuggì al monte. Dopo poco tempo si accomodarono col tribunale non avendo accuse di ladrocini. I due fratelli Granzi furono condotti a Bologna e il Passatempi fu invece immediatamente impiccato.

Per queste vicende era divenuto così normale l’omicidio che pochi erano quelli che evitavano di commetterli non facendo ormai alcun ribrezzo la morte.  Si sentivano perciò continuamente nel paese di risse ed uccisioni.

Il 25 aprile si era sposata Flaminia di Battista Fabbri col Conte Pompeo del Conte Ramazzotto Ramazzotti, tutti di Castel S. Pietro. Le nozze si solennizzarono solamente nel corrente maggio, il giorno 22 e 24, alle quali concorsero molti nobili di Bologna

Fu però funestato il paese da un caso commesso da Francesco Gavoni. A questi, che era già fra i banditi, era stato riferito che sua moglie Cornelia avrebbe confidato a delle sue amiche che il marito era interessato nelle frodi fatte nei grani di cui abbiamo scritto. Il Gavoni venne la notte del 22 maggio alla casa e, avendo dissimulato colla moglie di sapere tutto, la strozzò miseramente. La mattina del giorno seguente 23 maggio se ne partì e tornò al campo dei fuorusciti. Sul tardi della giornata si scoprì il misfatto. Provocò molto dispiacere ai paesani e molto più ai suoi congiunti. Questi corsero a mano armata, con molto popolo chiamato dalla campana a martello, alla casa del Gavoni ma non trovandolo diedero il guasto alla casa e la distrussero. Fu poi nel venturo secolo riedificata dallo stesso Gavoni ed è quella che, accanto dell’osteria della Corona dalla parte di ponente, è di fronte alla via che porta a Medicina detta di S. Carlo.

Il 17 giugno 1591 nel convento della Annunziata di Bologna morì, colmo di meriti, il Padre Tiburzio Battisti M.M. O.O.  di questo paese che aveva sostenute molte incombenze nella Religione e nel sistemare lodevolmente i conventi di Cottignola e di Lojano.

Il ponte maestro sopra il Sillaro nella via corriera aveva bisogno di riparazioni a causa della corrente che minacciava l’ala a levante. Fu dato l’avviso al Governo che prontamente provvide con una palificazione.

Essendosi fatta una abbondante raccolta, si mise il prezzo del grano a 10 paoli la corba.

Non ostante la cacciata dei fuorusciti da parte delle truppe pontificie, essi non furono tuttavia estirpati. Convenne per ciò alla Legazione imporre di nuovo taglie e premi a chi li dava vivi o morti nelle mani della giustizia. Adescati da ciò molti tra di loro tramarono la morte degli altri e in conseguenza seguirono varie uccisioni. Così accadde a Sebastiano dalla Serra, uno dei capi, che fu ucciso da Marc’Antonio Lelli detto il Bravo. Così successe ad altri le cui teste furono portate a Bologna nel corrente luglio. Il Bravo fu spalleggiato da Francesco Gavoni e da altri suoi compagni paesani. Ne riportò con i suoi colleghi l’assoluzione dei loro reati ma anche il promesso premio di taglia ed in questo modo poterono rimpatriare.

Si videro, col metodo delle taglie, ridurre nel numero i banditi. Quando si fece il conto si ritrovò che ammontavano a 1.800. Il loro capo fu Giacomo del Gallo il quale si faceva chiamare il Papa dei banditi e dispensava patenti con sigilli. La loro radunata si fece nei beni della Santerna di Giovan Battista Pasolini. Dopo avere saccheggiato orribilmente quel palazzo, quei manigoldi si divisero in tre squadre, una si portò sul territorio d’Imola, la seconda nelle valli di Fusignano e la terza occupò il castello di Montemaggiore. Nuovamente si unirono le milizie. I soldati del Legato di Ravenna uniti con 500 bolognesi tagliarono a pezzi quella nell’imolese.

Liberate queste parti dai malviventi, seguirono altri guai poiché dalla fine di luglio fino al 28 agosto 1591 si sentirono grandissimi terremoti.

Allo fine di questo mese furono a Bologna impiccati e poi bruciati Cristoforo e Giovanni Granzi di Castel S. Pietro per i gravi misfatti di stupri, violazioni di cose sacre, omicidi e crudeltà quando erano fra i banditi.

In questo tempo si stava costruendo il Convento dei Francescani nel nostro Castello della cui fabbrica era commissario il Padre Angiolo da Ghiacena. Sebbene non vi fossero molti sacerdoti, egli suppliva colla massima pietà alle loro veci, predicava continuamente la penitenza per i castighi dei terremoti. Fece non solo profitto nell’anime ma anche per il suo convento per il quale raccolse molte elemosine.

Il 15 ottobre 1591 morì Papa Gregorio XIV a cui successe nel pontificato Gian Antonio Facchinetti, nobile bolognese, il 29 ottobre col nome di Innocenzo IX. Resse la chiesa breve tempo poiché il 30 dicembre finì ancor esso i suoi giorni.

Riferisce Alamanno Bianchetti nei suoi annali che quest’anno morirono a causa della fame 30.000 contadini. In questa occasione si fece anche il calcolo di tutti i morti sotto la parrocchia di Castel S. Pietro. Gli uomini furono 98, le donne 85, i bambini 107 e le bambine 59. In totale furono 349.

Quest’anno Giulia figlia del capitano Giovan Battista Fabbri e di Gallicella Ceruni del tronco dei Conti di Ceruno, fanciulla di somma pietà, prese l’abito monacale in S. Domenico d’Imola.

Nell’anno 1592 Massaro fu Gaspare Gottardi e Podestà il Senatore Antonio Dal Lino.

Il 30 gennaio fu eletto Papa il cardinale Ippolito Aldobrandini col nome di Clemente VIII, il quale il febbraio successivo mandò un Giubileo a tutto il contado di Bologna.

Il 15 febbraio morì il Conte Ramazzotto Ramazzotti in Castel S. Pietro e fu sepolto in parrocchia in un avello separato colla seguente inscrizione: Comes Ramazzottus Ramazzotti hic ressurectionem expectat.

Marc’Antonio Lelli detto il Bravo, noto per la sua pessima condotta, si ammalò gravemente. Per ottenere da Dio misericordia il 20 marzo fece testamento e lasciò erede di tutto la Compagnia di S. Caterina.

I banditi non erano stati totalmente distrutti ma se ne ritrovavano qua e là sbandati. Il cardinale Sforza non aveva cessato di combatterli quindi, saputo che facevano imboscate negli intorni di Castel S. Pietro e che si nascondevano nella Rocca di Dozza, mandò al nostro castello soldati e sbirri.

Il 12 maggio venne di persona ed immediatamente passò a Dozza che era contea dei Campeggi. La Rocca era tenuta dal castellano Vincenzo Benini. Lo Sforza disse di volere entrare ma il castellano rifiutò dicendogli che lui riconosceva solo i Campeggi.  Il cardinale adirato prese con la forza la Rocca e fece subito impiccare il castellano. Il motivo fu poi perché lì si ricoveravano i banditi.

Il Conte Alessandro Campeggi, ciò inteso, andò subito dal Legato a discolparsi dicendo che era all’oscuro di tutte queste cose, ma il card. Sforza lo fece imprigionare e lo spedì alla Rocca d’Imola.  Il 23 maggio restituì Dozza e la Rocca, tenendovi un presidio e dietro una cauzione di 10.000 scudi.

Il paesano Annibale Mazza, che aveva commesso omicidi in questa sua patria con altri suoi amici, fu in giugno preso e imprigionato. Fu poi giustiziato a Bologna il 27 settembre

La raccolta di quest’anno 1592 fu misera. Il card. Legato per provvedere alla popolazione e soprattutto ai contadini, fece fare il 18 agosto, nei luoghi di più importanti del contado quattro magazzini per i grani. I luoghi furono Castel S. Pietro, Molinella, S. Agostino e S. Giovanni, come risulta dal decreto che così recita: (…) desiderando anco socorere alli Contadini, acciochè con più comodità possano sostentarsi e lavorare, ha sua Signoria Ill.ma rissoluto (…) che si facciano in Contado quattro Magazeni e cioè a Castel S. Pietro, Molinella, S. Agostino e S. Giovanni, ordinando ed acconsentendo che li Marzanelli del raccolto del presente anno si possano lasciare in Contado e vendere alli sudd. magazeni, ordinando che dalli contadini non possino provedersi più che per bisogno d’un mese in mese. Per questo il Legato ne riportò non solo lode ma pure plauso. Il grano valse 35 lire la corba.

Il 12 novembre Maddalena Dalfeo, nata senza la destra e mostruosa, morì in questa sua patria. I morti di quest’anno 1592 nella parrocchia di Castel S. Pietro sono stati 47.

Il nuovo Podestà del primo semestre 1593 fu Lippo Ghiselieri e Massaro Fioravante Tomba

La carestia era cresciuta a tal segno che i miserabili si cibavano di carni di cavalli morti, di sorci e bestie immonde, che per loro erano cibi preziosi. Temendosi una pestilenza, si facevano ovunque orazioni. Il Papa, riconoscendo anche che tanti mali provenivano dai peccati, decise di assolvere tutti quelli che avevano rubato, protetto i banditi e incorsi in qualsivoglia pena. Quindi promulgò un Giubileo universale con facoltà ai confessori e ai vescovi di assolvere anche i banditi incorsi in condanne papali.

Il 27 febbraio Francesco Gavoni, che era quello che strangolò la moglie, si accasò con Elena di Paolo Fabbri.

Dal 2 al 9 aprile vi furono grandi piogge. I fiumi strariparono e danneggiarono le campagne vicine.

Il 12 maggio fu pubblicato il Giubileo.  Alfonso Paletto, coadiutore dell’arcivescovo di Bologna, dopo avere fatta la processione di penitenza alle 4 croci in Bologna, andò pontificalmente alla ringhiera del Palazzo pubblico e da qui diede la benedizione papale al numeroso popolo assolvendo ognuno ancorché scomunicato. Nello stesso giorno, ora e momento fecero lo stesso tutti i parrochi della diocesi.

I frati agostiniani del nostro convento di S. Bartolomeo, desiderosi di migliorare la loro chiesa coperta a coppi, chiesero aiuto alla comunità. Questa le dette un contributo di 100 lire e fu fatto un bellissimo solaio tutto di abete, all’uso di questi tempi.

Il 2 luglio morì in casa nel Borgo Gabriele dal Vetro, il 6 sua figlia Camilla e il 7 Diana altra sua figlia con una pugnalata. Non si poté scoprire l’autore.

In dicembre morirono Stefano e Jacomino Balduzzi in una accanita baruffa avuta con i Pignatarini.  Per questo scontro andò tutto il paese a rumore per le numerose parentele dell’una e dell’altra parte.

Fu Podestà nel primo semestre 1594 Ulisse Ghetti nobile, suo notaio giusdicente Pompeo Mengoli, Massaro Lorenzo Dalprato.

Avutasi notizia che il contagio negli uomini tormentava il Malamocco, si cominciarono a prendere delle precauzioni nei riguardi delle malattie.

Ceccone Ruggi, dopo essere stato molti anni al soldo della repubblica veneta col capitano Gian Battista Fabbri, ritornato a Castel S. Pietro con ben servito e bandiera, morì il 13 aprile in casa propria. Questo Ceccone, fu quello cui riuscì d’avere vivo nelle mani messer Alfonso Masanello, famoso bandito e gran bravo, che fu poi decapitato in Bologna il 2 novembre del corrente anno.

Dal primo di febbraio fino ad aprile la stagione era stata normale, con a volte poca pioggia a volte molta.  Il 14 aprile, il tempo cambiò e nevicò tutto il giorno e la notte e venne una tanta neve che non si poteva lavorare la terra, cosa molto svantaggiosa. Gli alberi che avevano le foglie furono schiantati, gli uccelli si prendevano colle mani e le uova nei nidi andarono a male. Seguì poi il 16 aprile una grossissima pioggia che, con lo scirocco, fece sciogliere la neve e ne seguirono non pochi danni per le inondazioni. Temendo per ciò per la carestia si fecero orazioni da per tutto.

Il 17 giugno Cristoforo Rinieri morì nella sua villa della Riniera, fabbricata da suo padre l’anno 1575.

Domenico Cavazza di Castel S. Pietro, bravo tagliapietre, che aveva la sua cava a Casalecchio de Conti diede quest’anno prova della sua virtù nelle manifatture e nei capitelli dell’ornato del palazzo Zani a Bologna nella via di S. Stefano. Opere che furono ammirate e che servirono pure da scuola agli scalpellini.

L’Imperatore Rodolfo[77] era stato attaccato nell’Ungheria dal Turco. Chiese aiuto al Papa, questi vi spedì Gianpietro Aldobrandini, suo nipote, con 12.000 fanti e mille cavalli. I bolognesi non furono indolenti a mandarvi anch’essi gente.  Fecero per ciò molti capitani fra i quali il Conte Riccardo Pepoli con 250 bravi archibugieri. Nel numero di questi vi andarono Pompeo Ferreri detto Guastamondo, di Castel S. Pietro, in qualità di tenente capitano, Ercole Pirazzoli, Marc’Antonio Bruni, Francesco Comelli detto il Bizarro, tutti quattro coetanei, l’uno migliore dell’altro, capaci di ogni rischio e portarono con se molti altri che erano contumaci di giustizia.

Il Papa proclamò poi un Giubileo per tutta la Cristianità onde in ogni luogo si facevano devozioni. Fra Antonio Fiegna agostiniano, qui precettore pubblico, portò la sua scolaresca nelle processioni di penitenza, unendola al suo ceto.

Morto Cristoforo Rinieri, dopo aver fatto testamento coll’avere lasciato erede la unica sua figlia Cornelia, sostituì ad essa Giovanni ed Antonio Rinieri che, defunta dopo pochi anni la Cornelia, entrarono l’anno 1600 in possesso della pingue eredità e se la divisero.

Ottennero in quest’anno la cittadinanza di Bologna Giacomo Rondoni e i fratelli Innocenzo e Battista Fabbri.

1595 – 1597. Alluvione nel paese per le forti piogge. Dote a due zitelle povere dalla Compagnia di S. Caterina. Fra Ghirardacci dona numerose reliquie alla Comp. di S. Caterina. La Compagnia del Nome di Gesù si unisce a quella del SS.mo. Altri bolognesi e castellani contro il Turco in Ungheria.

 L’anno 1595 fu Ercole Marsili il Podestà estratto. Massaro fu il capitano Giovan Battista Fabbri.

Il 25 febbraio il Senato, per sistemare gli affari delle Comunità di Castel S. Pietro, di Budrio e Medicina che, per le vicende passate dei banditi, erano in disordine, deputò per visitatore il Senatore Girolamo Boncompagni con Alessandro Volta. Questi vennero personalmente e rividero i conti e trovarono in debito le comunità di 200 lire che, il 28 aprile, per una terza parte furono messe in comparto al nostro comune e per il resto a tutto il contado.

Crescendo nell’Ungheria i progressi del Turco, il Papa che vedeva il poco successo delle armi degli uomini, ricorse a quelle spirituali, quindi ordinò un Giubileo universale e lo intimò a tutta la Cristianità per ottenere da Dio misericordia.

La pubblica fonte della Fegatella aveva bisogno di riparazioni, fu incaricato il depositario capitano Giovan Battista Fabbri a farle fare l’opportuno ristoro, come di fatti fece e vi spese poco.

I frati di S. Bartolomeo volendo ultimare il lavoro del solaio di abete nella loro chiesa ricorsero nuovamente alla Comunità che le concesse un contributo di solo 16 lire. Non così fece con i frati Minori Osservanti di S. Francesco, che stavano fabbricando il loro convento, ai quali la Comunità diede 116 lire.

Alla metà di maggio venne una dirotta ed improvvisa pioggia che gonfiando i corsi d’acqua vicini al nostro Castello allagarono non solo le strade ma anche campi vicini. Il rio della Samachina che poi si imbocca nel rio della Scania dietro al convento dei cappuccini, si gonfiò in tal modo che, superò le sponde e, fatta chiusa nella Viola del Lupo presso il campo della Roccazza, passò nella vicina fossa del Castello.  Questa fu riempita per la metà e poi, sotto passando il Cassero, davanti alla porta maggiore del Castello, riempì la fossa seguente. Si spesero 100 lire per togliere gli interramenti. Contemporaneamente fu accomodato il Cassero e la porta maggiore del Castello ove si tenevano le guardie di giorno e notte a motivo dei banditi che si erano di nuovo fatti più arditi e in maggior numero.  Si spesero 93 lire secondo l’ordine avuto.

Anche la fontana Fegatella si era interrata a causa dell’alluvione onde aveva perduto il suo felice scolo nel Sillaro. La Comunità fece fare la fossa di scolo.

Il 24 giugno fu estratto per il secondo semestre Massaro Antonio da Corneta ma perché esercitava l’officio di scrivano dovette rinunciare non potendo coprire l’uno e l’altro posto. Fu sostituito dal cap. Giovan Battista Fabbri, Podestà fu Camillo Boldi.

Nel vicino rio della Scania fu ritrovato un uomo forestiero impiccato. Si pensò che un tal misfatto fosse opera dei banditi.

Nel mese di luglio fu chiamato a Roma il Vice legato Ottavio Bandini, occupò il suo posto Marcello Aquaviva.

 In questo mese passarono molti soldati del Gran Duca di Toscana[78].  La Comunità, volendo mostrare il piacere che aveva perché andavano ad unirsi ai nostri contro il Turco, li fece abbeverare dalle nostre guardie del paese. Spese la Comunità 51 lire nel vino che costava lire 5 la corba.  Questa truppa era condotta dal Generale Gian Francesco Aldobrandini[79]. Al suo passare la Comunità fece fare, per segno di allegrezza, un copioso sparo di mortaretti che fu molto gradito.

Continuandosi le orazioni e le preghiere a Dio per l’umiliazione dei nemici di S. Chiesa, Domenico Maria Fabbri, priore della Compagnia del SS.mo, fece fare anch’esso una solenne processione di penitenza col suo Cristo.  Nelle tre feste di precetto si andò col SS.mo alle tre chiese cioè: parrocchia, S. Francesco e S. Bartolomeo nel giorno dell’Assunta, la domenica successiva ed il giorno di S. Bartolomeo. A questa funzione vi intervennero gli uomini del comune e furono Giovan Battista Fabbri Massaro, Ricardo Ricardi, Francesco Fabbri, Matteo Comelli, Clemente Fiegna, Fioravante Tomba, Andrea Pirazzoli, Girolami Cuzzani ed Antonio Maria da Corneda.

Il Vice legato Marcello Aquaviva dopo pochi mesi fu chiamato a Roma e abbandonò questo suo ufficio nel quale gli successe Annibale Rucellai fiorentino che il 31 agosto venne a Bologna a governarla e vi stette fino alla fine dell’anno.

 Papa Clemente VIII in quest’anno accrebbe l’Imposta di Bologna ed aumentò questo dazio un dodicesimo in più di quello che pagavano le rispettive comunità del contado. Questo aumento fu introdotto per pagare una porzione dei 6.000 scudi che si pagano alla Camera apostolica per il mantenimento delle galee.

Il 18 novembre 1595 morì il capitano Giovan Battista Fabbri e fu sepolto con distinzione nella chiesa di S. Bartolomeo nell’avello della sua famiglia fabbricato l’anno 1591.

Il primo gennaio 1596 entrò Podestà Bartolomeo Dolceni ed il suo giusdicente fu Gregorio Mellini. Massaro fu Andrea Pirazzoli.

Il 30 gennaio il nuovo Vice Legato Antonio Gianotti premuroso della quiete di Castel S. Pietro, riteneva che i fuorusciti e banditi taglieggiavano, coll’intelligenza di alcuni del Castello e Borgo, i poveri contadini e si facevano dare vitto da questi in quest’anno in cui la raccolta era stata miserabile. Quindi mandò qui una cavalcata di sbirri con un notaio all’effetto di catturare e processare prontamente i malviventi. I malandrini, messi alle strette si ritirarono nella Romagna.

Il 9 marzo il Vice legato, per una grave infiammazione, finì a Bologna i suoi giorni, dispiaciuto da tutti, e fu onorevolmente sepolto in S. Petronio,

I banditi che infestavano il napoletano erano stati graziati dal Re di Spagna alla condizione che prendessero l’armi contro il Turco. 300 di questi arrivarono il 23 marzo a Castel S. Pietro, erano scuri di faccia, tinti dal sole, simili a zingari. Nelle campagne di Roma e Napoli facevano assassini, omicidi ed ogni sorta di male. Erano tutti a cavallo, armati di pistole, di archibugetti corti e di sciabole. La maggior parte di loro portavano in capo un berretto di velluto nero crespato. Partiti per Bologna, vi stettero tre giorni, poi partirono per la guerra. Il Papa li aveva graziati dal bando, purché guerreggiassero contro Turco.

Intanto si proseguivano le orazioni in ogni luogo davanti ai più insigni santuari. L’immagine del Cristo della Compagnia del SS.mo SS.to fu portata all’altar maggiore nella arcipretale per la venerazione del popolo e con esso si diede la benedizione l’ultimo venerdì di marzo.

Il 4 giugno, in virtù di licenza di mons. Luigi Baldoni Vicario generale di Bologna, il nostro arciprete sposò Madonna Lucia del fu messer Simone da Mantova, con messer Anselmo Carlili, nobile fiammingo, venuto dalla guerra col turco.

Per le penurie passate nei grani e cibarie si poteva introdurre pane da chiunque forestiero nella città e nel contado senza incorrere in pene. Essendosi questo anno fatta una buona raccolta dal mese di luglio fu però tolta questa possibilità. Ma questa abbondanza durò poco.

La Compagnia di S. Caterina, allo scopo di accrescere il culto a Dio e suoi santi nella sua nuova chiesa, cercò di acquisire numerose segnalate Reliquie. Ricorse al Padre Maestro Fra Cherubino Ghirardacci[80], confratello della stessa compagnia. Questi condiscese al desiderio e, il 25 giugno, donò molte reliquie fra le quali il Legno della S. Croce e una della loro santa protettrice Caterina vergine e martire coll’autentica del vescovo Paleotti.

Successivamente i confratelli, radunati il 7 luglio nel loro oratorio, decretarono di fare una imborsazione di otto zitelle native di Castel S. Pietro, di padre e madre pure nativi di qui, delle più povere e miserabili e di onesta vita. Quindi di assegnare a due di esse, estratte, una dote di lire cinquanta per ciascuna pagabili all’atto del loro matrimonio.

Fecero per ciò tre Assunti del loro ceto e furono Giovanni dalla Tesea, Gaspare Gottardi e Nicola Fabbri. La loro scelta doveva apparire su un foglio da loro sottoscritto che doveva essere messo nella cassa delle imborsazioni, chiusa con chiave da stare presso gli stessi assunti e da non aprirsi se non a congregazione legittima ed in presenza della stessa. Nel caso premorisse alla estrazione una delle zitelle imborsate si doveva estrarne una altra e nella borsa se ne dovessero rimpiazzare tante quante fossero premorte.

Fu decretato che tale imborsazione ed assegno dovesse durare solo per anni quattro e che la estrazione si dovesse fare ogni anno il giorno di S. Caterina, 25 novembre, dopo il vespro solenne cantato nella sua chiesa in presenza del popolo qui adunato.  Poi, seguita la processione colle reliquie della Santa fino alla parrocchiale e cantato il Veni Creator, si procederà alla estrazione delle due donzelle.

La compagnia fece pure riparare il suo ospitale nel Borgo spendendo 80 lire ed altrettante ne spese per i viandanti ospitati.

Quantunque poi si fosse fatta un’ottima raccolta di frumento fu proibito che si facesse pane di grano nuovo e fu proibito il poterne macinare, ponendo gli sbirri alle porte della città per impedire anche che fosse introdotta farina nova e pane. In questo modo per il popolo si vedeva essere divenuto un altro Tantalo col cibo alla bocca e non poterlo mangiare.

Il grano si vendeva in città 22 lire la corba ma nei castelli di S. Giovanni in Persiceto, Crevalcore e Castel S. Pietro fu aumentato il peso del pane da 4 once a 11 once per un bolognino per cui in ciascuno di questi castelli si faceva molte e grandi allegrezze.

Il giorno 20 luglio fu pubblicato a Bologna un altro Giubileo per la guerra contro il Turco. In questo tempo si cominciò a vedere nel cielo una stella cometa che aveva la coda rivolta a levante e il capo a sera e appariva tra le due e le ore tre di notte.

Aveva la Compagnia di S. Caterina decretato, il 7 luglio scorso la dotazione di due zitelle paesane povere le quali, estratte, dovevano portarsi processionalmente colla compagnia all’arcipretale nella funzione della reliquia della Santa che si trovava nella chiesa della Compagnia. Da parte dell’arciprete erano però nati alcuni dubbi sopra l’autenticità della stessa reliquia con le altre ricevute in dono dal Ghirardacci.  Il priore della compagnia ricorse al donatore per la giustificazione e legittimazione delle reliquie. Questi di proprio pugno testificò l’origine di quelle ed avvalorò l’attestato con la firma e il bollo del vescovo Paleotti. Si conserva questo documento in forma di Bolla col sigillo appeso nell’archivio di quella compagnia scritto a mano dal Ghirardacci sotto la data 25 giugno 1596.

Contemporaneamente il medesimo Ghirardacci di propria mano scrisse alla compagnia di cui era confratello in questi termini: Alli Devoti Confrati della Comp. di S. Cattarina di Cas S. P.ro.

Devoti e Spirituali Confrati di S. Catta. di C. S. Pietro, Dessideroso sempre fui di compiacere la carità vostra (…) Avendomi dunque le Carità vostre richiesto per mezo del nostro molto magnif. sig. Morello Morelli che volessi farvi dono di alcune reliquie per la Chiesa vostra e nostro Oratorio, volentieri mi sono piegato alle vostre S. Domande e se ho fatto al presente dono delle infrascritte reliquie cioè: Del Legno della Croce, di S. Catta. V. e M., di S. Barbara, di S. Natalio, di S. Emerinziana, di S. Ignazio, di S. Ercolano, di S. Christoforo, di S. Anselmo, di S. Antonio Abate, di S. Pancrazio, di S. M. Madalena, di S. Isidoro, di S. Lodovico Re, di S. Macario, di S. Gio. X.mo, di S. Cipriano, di S. Illario, di S. Cattarina da Siena, di S. Brigida, di S. Tecla, di S. Petronilla, di S. Elisabetta, di S. Anna, di S. Maria Egiziaca, di S. Digna, di S. Eufemia e di S. Susanna.

Le quali tutte reliquie ne ho avuta licenza dall’Ill.mo e R.mo Monsig. Alfonso Arcivescovo di Coriato e coadiutore dell’Ill.mo Card. Paleotti primo arcivescovo di Bologna, (…) Di Bologna 23 9.bre 1596. Di Vostre Signorie Affe.mo fratello F. Cherubino Ghirardaccio.[81]

Ognuno può da questo documento avere la prova intanto della autenticità di dette reliquie, quanto che il Ghirardaccio, autore della Storia di Bologna, era originario del nostro Castello ma poi fu fatto figlio del convento di S. Giacomo di Bologna da cui ne trasse il nome di Fra Cherubino Ghirardacci da Bologna. È certissimo che i suoi antenati hanno sempre abitato nel nostro Castello fino all’epoca che suo padre ser Andrea, notaio, domandò e ottenne dal Senato la cittadinanza bolognese.

Come promesso il 25 novembre si fece la solenne processione delle S. Reliquie. Iniziò dalla chiesa ed oratorio della Compagnia dopo aver solennemente cantati i vespri e con un buon numero di lumi.  Portate quelle nella chiesa parrocchiale, fu intonato l’inno Veni Creator, terminato il quale, si lesse la Determinazione della Compagnia sopra la Dotazione ed estrazione delle due zitelle, si procedette e furono estratte Caterina di Ercole Modelli e Pellegrina del fu Pietro Gattia alle quali fu conferita la dote di l. 50 per ciascuna. Poi, data la benedizione colla S. Reliquia, fu intonato il Tedeum e fu riportata processionalmente nella chiesa della Compagnia. Al pagamento di tali doti furono deputati i confratelli. Ercole Muzza e Morello Morelli.

Nell’anno 1597 fuMassaro Gaspare Gottardi e Podestà Ottavio Ercolani.

La Compagnia del Nome di Gesù, eretta all’altare di S. Biagio, dato che per lo più faceva le sue funzioni unitamente alla Compagnia del SS.mo, i cui confratelli erano in gran parte gli stessi, pensò di incorporarsi in quella. Quindi il primo gennaio, essendo Priore della compagnia del SS.mo SS.to Fioravante Tomba, fu proposto al corporale della stessa di unire la compagnia del Bon Gesù a questa del SS.mo e così di due corpi ne fu formato uno solo.  Ciò fu approvato e così di due corporazioni ne fu fatta una sola, con la condizione che, in memoria di ciò, si cantasse, la seconda domenica di ogni mese, l’inno Jesu Dulcis Memoria, girando processionalmente dall’Oratorio fino alla porta maggiore del Castello. Ciò si è eseguito puntualmente fino a quando ha governato questa chiesa l’arciprete Dottor Don Giambattista Balduzzi, amantissimo dell’onore a Dio e suoi santi. Questo rito e devozione è stata abolita dall’oppressore Don Bartolomeo Calistri nel 1776.

Il 5 febbraio venne una grossa tempesta mista a tuoni e lampi che spaventò la gente.

Continuandosi la guerra col Turco nell’Ungheria, volendo il Papa mandare nuovo soccorso ai Cristiani assoldò nello stato ecclesiastico molti soldati a piedi ed a cavallo. I Bolognesi vi mandarono cinque compagnie condotte da Marco Fantuzzi e Tomaso Gianbeccari composte di 200 fanti ciascuna. Vi andò anche Giovanni Campeggi con altri 200 fanti, la massima parte villani reclutati nel suo feudo dozzese a cui si aggiunsero molti di Castel S. Pietro. Di Dozza vi fu un Alessandro Dorelli, Lelio Lelli, Nanne Manaresi e, come ufficiali bassi, i castellani Prospero Paderna, Federico Zogoli e Natalio D’Alborro.

Padre Gianbattista Fiorini agostiniano, lettore pubblico di S. Teologia in Bologna domandò il 21 aprile alla Reggenza la facoltà di potere stare assente dalla città per otto giorni per partecipare al capitolo provinciale degli Agostiniani nel convento di S. Bartolomeo di Castel S. Pietro il prossimo maggio. La richiesta fu accolta.

Intanto cominciarono ad arrivare al nostro Castello le truppe romagnole che andavano alla guerra contro il Turco. Il 19 maggio, mentre che arrivavano quelle, partirono i nostri per Bologna unitamente a quelli di Dozza e il 21 giugno partirono per Ferrara.

Fatta la incorporazione della Compagnia del Bon Gesù in quella del SS.mo, essendo cresciuto il numero dei confratelli, fu proposto di stabilire la loro residenza nel camerone attaccato alla canonica, che era stato dato dall’arciprete nel 1563, richiedendone all’attuale parroco la concessione. Fu plaudito il pensiero, ed in seguito si ottenne la concessione legale. Intanto quell’ambiente fu sistemato ed abbellito ad uso della casa di Dio. Oggi è profanato né altro è rimasto che lo scalone con cui si saliva e la nicchia ove stava riposto il miracoloso Cristo.

L’altro oratorio, ove officiava la compagnia del Bon Gesù e quella del SS.mo, era a fianco dell’altare maggiore dell’arcipretale nel presbiterio in Cornu Epistole e dirimpetto alla Cappella della Compagnia di S. Caterina che ora serve da sacrestia. Altro resto antico di quest’oratorio consiste nella piccola capellina dove è l’altare della B. V. del Bon Gesù fatto adornare per devozione dal marchese Pier Luigi Locatelli col trasporto della miracolosa immagine che esisteva sotto la finestra.

Il primo luglio 1597 entrò Massaro Fioravante Tomba e Podestà Giulio Riari.

Il 22 luglio finì la vita in Roma il card. Gabriele Paleotti arcivescovo di Bologna. Gli successe il suo coadiutore Alfonso Paleotti. Intanto il Papa dichiarò Legato di Bologna il cardinale Pietro Aldobrandini.

Il primo agosto, per la scarsa raccolta di grano, il prezzo andò a 4 scudi la corba. Il Senato per soccorrere la povertà fece provvista di grani e spese 10.000 scudi.

Il 27 ottobre 1597 era morto Alfonso II d’Este[82] duca di Ferrara. Clemente VIII rivendicava quel ducato contro il Principe Cesare[83] che pretendeva succedere al defunto e che si era fatto coronare per duca. Il Papa tosto lo minacciò di scomunica e, se fra 15 giorni non rendeva il ducato, feudo di S. Chiesa, lo avrebbe pure accusato di lesa maestà. Poi per sostenere il suo diritto il Papa armò 24.000 fanti e 4.000 cavalli, facendo sette colonnelli in questa armata e furono il Duca Mario Colonna, il Duca Caetani, Antonio Orsini, il Duca di S. Polo Lattanzio de Conti, il Duca Mario Farnese, il Marchese Pireo Malvezzi e Mario Rasponi. Monsignor Malvasia fu dichiarato commissario e provveditore del campo.

Il 25 novembre la Compagnia di S. Caterina a proposito del decreto delle Dotazioni, dopo aver fatto la sua solita processione, estrasse dalla borsa Diamante di Stefano Rambaldi e Diamante di Rocco Fornasari.

Il Papa a cui stava a cuore l’impresa di Ferrara pensò di venire di persona per animare viepiù i combattenti quindi, dopo avere pernottato a Faenza, il 26 novembre andò ad Imola da dove il primo dicembre passò a Castel S. Pietro e da qui e andò direttamente a Bologna.

Il 22 dicembre fu pubblicata negli stati della Chiesa la scomunica contro il Duca di Ferrara e il 30 dello stesso mese fu affissa e pubblicata a Ferrara. Fu Don Gioseffo Vivoli ravennate che fece l’affissione, avendola là portata, vestito da contadino, entro una canna, fingendo di condurre in città un branco di porci. Ciò non ostante, essendo il Duca pertinace, continuarono i soldati papeschi della Romagna ad arrivare a Castel S. Pietro e passare a Bologna dove doveva fare raggruppamento l’esercito. Al nostro Castello vi stette Antonio Orsini ed albergò in casa Ramazzotti.

Stante la penuria di viveri la nostra comunità, per favorire i paesani poveri, spese in tanta fava, che si vendeva a 30 paoli la corba, 91 lire. Pure la Compagnia di S. Caterina fece lo stesso per i viandanti che si fermavano al suo Ospitale spendendo 92 lire.

1598 – 1600. Ferrara passa dagli Este alla S. Sede. Visita pastorale, elenco chiese, maestà, conventi e corporazioni.

Per il primo semestre 1598 fu estratto Podestà il cap. Filippo Felicini e Massaro Girolamo Cuzzani.

Il 5 gennaio, in giorno di domenica, fu in Castel S. Pietro impiccato Angiolello, di nazione lughese per omicidi commessi in questi nostri intorni tanto nelle case che per le strade. In questa occasione, essendo priore della Compagnia della Morte di Bologna Gaspare Chiari, venne la Scuola di Conforteria, cappellano, sagrestano, ed invitatore e si fecero le solite orazioni. Avvenne questa esecuzione per ordine del card. Legato Aldobrandini per imporre timore agli scellerati che infestavano queste parti non che agli scapestrati fuorusciti del paese. Fu appiccato alle finestre della residenza pubblica che guardavano nella pubblica piazza del Castello perché in quei tempi non si usavano ancora le forche.

Il 17 gennaio Girolamo Lelli, detto del Bravo per la sua parentela con il famoso Marc’Antonio Bravo, fece il suo testamento e lasciò, anch’esso, erede la Compagnia di S. Caterina di tutto il suo avere.  Nacque poi una lite fra la compagnia ed Agostino Lelli. Il punto che si contese fu sopra la validità del testamento e poi per la divisione. Fu poi la lite composta a rogito di Sebastiano Ricardi.

Essendo nato un figlio al Conte Pompeo Ramazzotti dalla sua sposa Flaminia Fabbri, fu portato il 22 marzo al S. Fonte con molta pompa e fu offerto un capretto con una torcia all’arciprete che usò solennemente il rito di S. Chiesa, oltre il solito.

Nel seguente aprile seguì il matrimonio fra Giovan Battista Balduzzi e Cornelia Riccardi a mediazione di Cristoforo Strevoli, Marino Marini e di Carlo Muzza. Con questo matrimonio furono sopite le tante amarezze che c’erano fra le due famiglie imparentate che avevano più volte arrischiato omicidi.

Il Duca Cesare d’Este avendo sentito ai confini l’armata pontificia, si procurò l’accordo col Papa ed in seguito rinunciò al ferrarese. Quindi composte le differenze mediante trattato furono poco dopo richiamate le truppe.

In luglio 1598 entrò Massaro Lorenzo Dal Prato e Podestà Vianese Albergati, nobile.

Perché erano mancati in Consiglio di alquanti individui furono perciò ammessi Giovanni Martelli, N. Ferraresi, Lorenzo Sgargi, Nicola Topi e Sante Santoni. La raccolta che si credeva buona fu più scarsa che abbondante onde il grano valse 14 lire la corba.

Stante l’accordo fatto fra il Papa ed il Duca di Ferrara, il nostro Legato card. Pietro Aldobrandini andò a nome della Chiesa a prendere possesso di quella città e Stato con la scorta di 18.000 fanti e 10.000 cavalli, con gran quantità di prelati e molti nobili bolognesi. Lo stesso volle fare il Papa in settembre avendo con sé 13 cardinali e molti prelati. Restò fino al mese di novembre.

Il 25 novembre fu fatta, secondo il metodo passato, la estrazione delle due zitelle dotate dalla Compagnia di S. Caterina e furono Caterina di Antonio Rinieri e Barbara di Alessandro Bartolotti.

Ritornato a Bologna il Papa da Ferrara e riposatosi alquanti giorni all’inizio di dicembre partì per Roma tenendo la via della Romagna. Giunse a Castel S. Pietro su le ore 16 italiane, accompagnato dalla sua corte, molti nobili romani, prelati e bolognesi e qui si congedò da questi con la apostolica benedizione che diede loro in mezzo del nostro Borgo ove era immenso popolo. Andava egli lentamente in lettiga con palafrenieri accanto e soldatesca attorno, senza contare l’avanguardia e la retroguardia. La giornata fu limpida e bella a motivo del gran freddo.  Il gelo nell’avanzarsi della stagione crebbe al punto che molti alberi perirono e si gelò per fino il vino.

Il 12 dicembre morì in Bologna Fra Cherubino Ghirardacci in età d’anni 74, fu dell’ordine Eremitano di S. Agostino, nel quale fu maestro di Santa Teologia e scrisse sulla storia di Bologna più diffusamente di ogni altro scrittore e della quale ne sono alle stampe solo due tomi. Fu uomo erudito, scientifico ed eccellente nel fare lettere maiuscole dorate e miniate che a suoi giorni non aveva l’eguale e portava gli occhiali continuamente. Fu di bel personale e piacevole, come abbiamo veduto nei suoi ritratti stampati. Fu amicissimo di Alamanno Bianchetti nobile bolognese, che contemporaneamente scrisse gli Annali di Bologna,

Il primo gennaio 1599 entrò Massaro Matteo Comelli e Podestà fu Vincenzo Albergati.

Il 22 di questo mese morì Alamanno Bianchetti nobile bolognese che oltre avere scritto una voluminosa Cronaca della città, scrisse fino a questo tempo gli annali della stessa.

I villani approfittavano della gelida stagione per far danaro accorciando le fascine da fuoco e diminuendole anche nella grossezza. Perciò il card. Legato il 5 febbraio ordinò per Bando che i villani del contado dovessero in avvenire fare i fasci di lunghezza di piedi 5 e grossezza uno e mezzo e ben stretti.

Ridotto ad uso sacro il camerone su accennato per comodo delle due compagnie del Bon Gesù e del SS.mo, che erano divenute una sola, quest’anno furono solennizzate con maggior pompa le Rogazioni di Maria S. di Poggio che caddero l’11, 12, e 13 maggio. In quest’epoca troviamo in parrocchia la prima funzione musicale con canto figurato ad onore della Santa Immagine, che prima non si era mai fatta.

Orazio Spinola genovese vice Legato del card. Pietro Aldobrandini, temeva una annata di carestia come la passata e che quindi ci sarebbero stati molte ruberie da queste parti, commesse dagli affamati e dai malviventi che poi si rifugiavano nella vicina Romagna. Perciò mandò qui per guardia alquanti corsi che pattugliavano di giorno e notte la campagna. Posero il loro quartiere nel Borgo all’Ospedale dei viandanti ed il loro capo si chiamava Lorenzo Miselli.

Il primo luglio 1599 fu estratto Massaro Domenico Simbeni.

Il 23 luglio venne per la visita pastorale, al posto dell’arcivescovo, Don Fabio Fabbri canonico collegiato di S. M. Maggiore di Bologna, deputato Visitatore generale per la diocesi. Fra gli altri decreti ordinò che la Comunità, come compadrona di questa arcipretale, facesse al Fonte battesimale la piscina di cui ne era mancante. Ordinò pure che si rinnovassero le immagini sopra le porte delle chiese a cui erano dedicate.

Da questa visita si rileva quante fossero le chiese soggette al plebanato di Castel S. Pietro e perciò ne trascriviamo qui l’elenco trascritto dalla stessa visita.

Parrocchie: Parochialis S. Georgi de Varignana, Monacorum Camadolensium, Paroch. S. Marie de Varignana, Rev. D. Gabriel Marchetus. Parochialis S. Laureti de Varignana, Rector D. Baltasar de Comastris. Parochialis S. Marie de Capella, R. D. Simon de Lorencinis. Parochialis S. Micaelis de Casalechio Comitum, Rector D. Thomas Polas. Parochialis S. Mametis de Liano, Rector D. Jo. Batta. Zacconius. Parochialis S. Blasi de Podio, R.D. Joseph Tonellus.

Chiese senza curati e conventi: Monasterium S. Bartholomei, Frat. Heremitanor. Monasterium S. Francisci de Observantia.   Eclesia S. Nicolai de Strada, Rect D. Alexan. Ferarius. Eclesia s. Antoni de Gajana de Lignanis.                            Eclesia S. Jo. Batta. de Boschis, Rect. Nicolaus Merigus. Eclesia S. Petri unita Parochiali de Casalechio Comitum. Eclesia S. Maria de Farneto, R. D. Nicolaus Merigus. Eclesia S. Jacobi de Fasano Illustrissimi et R.mi cardinalis Aldobrandini. Eclesia S. Silvesti sotto la stanga, rector illis et ad mod. R. D. Albos de Sancto Petro. Eclesia S. Jo Batta della Masone. Eclesia S. Nicolai de Liano.

Ospitali: Hospitale S. Cattarine Castri S. Petri. Hospitale S. Georgi de Stella, Augustinus Sabbatinus Administratore. Hospitale S. Bartolomei de Varignana, Seminari Bononie. Hospitale Liani.

 Oratori: Oratorium S. Cattarine de Castro S. Petri. Oratorium Societatis Corpori X.ti dicti castri. Oratorium Annuntionis B. V. M. Oratorium S. Marie in Via Romana de Lignani. Oratorium de Malvaticeis. Oratorium de Christianis. Oratorium S. Marie de Podio.

Oltre questi Oratori pubblici vi erano anche molte Maestà nelle vie pubbliche, massime negli incroci delle strade, delle quali ordina solo il ristoro.

Quindi passò alla visita degli oratori interni del Castello: (…) oratorium Societatis SS.mi Corporis X.ti quod habet altare in quo celebratur Missa(…)et ibi diebus festivis recitatur officium B. V. M. juxta ordinationem ill.mi D. Archiep. et utuntur Capis albis et sunt XXXX.  Si rileva quindi che la Compagnia del SS.mo aveva la sua residenza e formava corporazione col distintivo delle cappe bianche ed officiava nel nuovo oratorio.

Oltre questa compagnia ne esisteva l’altra non cappata detta: Compagnia larga, che non aveva né Statuti né distintivo, aveva però il compito di mantenere alcune suppellettili e robe per il servizio della chiesa.  

Dopo ciò passò nello stesso giorno alla chiesa di S. Caterina et in presenza del priore ed officiali annotò quanto le spettava e i suoi compiti: … Oratorium sive Eclesiam S. Cattarine (…) Reditus ipsius Societatis est annualim Livarum monete 500 que impedunt in Hospitalitate, in maritandis puellis d. Loci, in distribuendis elemosinis pauperibus.

Successivamente visitò l’Ospitale, che aveva undici letti in quattro stanze, una con due letti per i preti, una seconda con tre letti per i pellegrini, la terza con due letti per le donne e la quarta con quattro letti per gli uomini.

Chiude la visita con la descrizione dei conventi dei regolari. Il Monastero di S. Bartolomeo dei Frati Eremitani che celebrano messe, confessioni e predicano al popolo. Così pure agisce il Convento dei frati Minori Osservanti di S. Francesco. Aggiunge lo stesso visitatore la esistenza della chiesa di S. Pietro in questo Borgo spettante alla Abbazia di S. Stefano di Bologna. Il numero delle anime rilevato ascende a 1613. Poi passò a Poggio alla visita della Madonna di cui era custode Don Carlo Landini.

I villani nel tempo della vendemmia, portavano con carri l’uva a Bologna. Non passava notte né giorno senza che accadessero insolenze e risse con gli altri viaggiatori ed in conseguenza accadevano tra i vetturali baruffe e anche uccisioni.  Fu fatto ricorso al Governo e quindi fu rinnovato il bando su ciò emanato il 10 settembre 1591.

La Compagnia di S. Caterina il 15 novembre fece la solita dotazione delle due zitelle paesane. Dalla estrazione e sortirono Lucia di Girolamo Fornaciari e Tomasina di Simone Cattani. Oltre questa dotazione si dispensò a poveri in elemosine 63 lire.

Il primo gennaio 1600 investi la carica di Massaro Giovan Battista Musitelli, Podestà fu Rinaldo Dulioli

Nello stesso giorno fu pubblicato il Santo Giubileo e aperto l’erario delle beneficenze spirituali. Ogni cattolico attestò con devozione il proprio giubilo.

In questa arcipretale si pubblicarono le indulgenze che si dispensavano ai visitatori dei luoghi Santi in Roma. I ministri del Castello e le corporazioni del paese cioè Agostiniani, Compagnia del SS.mo e di S. Caterina dettero dimostrazioni pubbliche con le elemosine alla povertà del paese. La pubblica rappresentanza dispensò 100 libbre di farina in tanto biscotto alla povertà locale.

Il 17 febbraio Barbara Bartolotti estratta li 25 novembre 1598 dalla compagnia di S. Caterina, giusto il decreto del corporale fatto il 7 luglio 1596, avendo quelle riportata la dote di 50 lire, espose la sua rinuncia per rogito di ser Annibale Fabbri.

Nell’aprile seguente Francesco Gavoni, a cui era stata demolita la sua casa nel Borgo a motivo di avere strangolato la moglie come si scrisse, cominciò a rifabbricarla avendo fatto la pace con i Fabbri.

Nella metà del successivo maggio si fecero le Rogazioni di M. V. di Poggio. In questa contingenza, per la grande affluenza di popolo, restarono calpestati due fanciulli della famiglia Camaggi di Fiagnano. Da questo fatto seguì rancore fra questa famiglia e quella dei Verondi di Castel S. Pietro. Si portarono il 17 maggio a Sassoleone i capi della prima Antonio e Nanino e della seconda famiglia Balino e Pippo dalla Barnarda. Avvenne una grossa baruffa e Balino restò colpito da una pistolettata. Si interposero i Michelini e i Poli della Morea e cessò lo scontro e dopo poco si pacificarono le due famiglie.

Lorenzo Dalprato, priore della Compagnia del SS.mo SS.to, considerata l’angustia del locale ove si facevano gli offici della compagnia, propose al corporale l’11 giugno di fare un oratorio nuovo. Fu per ciò determinato di costruire questo nuovo edificio vicino alla canonica della parrocchiale, nell’angolo della casa aderente e confinante con la via maggiore del Castello. Furono in seguito eletti otto confratelli per Assunti di questa impresa cioè: Fioravante Tomba, Valerio Fabbri, Ercole Comelli, Rondone Rondoni, Giovan Battista Musitelli, Gaspare Antonelli, Giovan Battista Bagni e Francesco Simbeni. Così si comprò il fondo dall’arciprete sopra una parte della canonica, ove l’attuale arciprete Don Bartolomeo Calistri vi ha fatto un fienile e sotto una stalla da cavalli, fronteggiante la strada maggiore. Questo ambiente, oggi sconsacrato, mantiene ancora però il nome di Oratorio vecchio.

Il primo luglio 1600 entrò Massaro Fioravante Tomba, Podestà fu il Conte Romeo di Romeo Pepoli. Le comunità soggette alla podesteria erano le seguenti: Casalecchio de Conti di sopra, Casalecchio di sotto, Castel S. Pietro, Liano di Sopra, Monte Armato, Monte Calderaro, Ozzano di Sopra, Ozzano di Sotto, Pizzano, Settefonti, S. Cristoforo, Vignale, Varignana di Sopra, Varignana di sotto, Frassineto, Ciagnano.

Il 19 agosto Giovan Battista Villa di Castel S. Pietro fu fatto cittadino di Bologna.

La compagnia del SS.mo aveva acquistato dall’arciprete il locale per il nuovo Oratorio, ma si trovava con poco danaro per fabbricarlo. Il 2 novembre ricorse alla pubblica rappresentanza per averne un aiuto. Questa decretò 150 lire.

La famiglia di Antonio Cuzzani aveva le rovine di una casa presso i suoi beni. Tali rovine, nella via di Saragozza di sopra, erano abbandonate alla discrezione del popolo. Chiese alla Comunità la facoltà di attorniarle di un muro. Aderì la Comunità alla petizione tanto più che questo guasto era presso l’arcipretale e la sua agibilità disturbava i divini offici. Era questo luogo ove ora è l’orto del Ritiro.

In quest’anno 1600 Don Francesco Fabbri fu fatto curato di S. Maria Labarum Caeli di Bologna. In questa contingenza si fecero in codesta sua patria universali allegrezze e la famiglia, oltre la dispensa di pane e vino alla povertà, vestì quattro fanciulli di sesso diverso con giubba e vestito di lana bianca fino a piedi che, nel ringraziamento che si fece a Dio per tale elezione, andarono con lume acceso all’adorazione del SS.mo nella Chiesa dei francescani, che pure essi furono forniti di pane e vino.

Raccolto di Memorie Storiche

di

Castel S. Pietro

Nella giurisdizione di Bologna

Centuria quinta

o sia libro V ed ultimo

Dall’anno 1601 all’anno 1701

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Argomento

Si narrano le origini dell’oratorio di S. Maria della Neve detto della Scania. L’origine del Beneficio laicale di S. M. di Poggio, chiesa fabbricata dalla comunità di Castel S. Pietro. Nascita e morte di alcune persone in aspetto di santità. La provvista di vettovaglie stabilita a Castel S. Pietro per la penuria di viveri nel contado, con quali provvedimenti. La pestilenza nei corpi umani. La distruzione totale della Rocca grande, sua dimensione, data in enfiteusi. Truppe papaline per la guerra di Mantova fanno campo a Castel S. Pietro. Muore il Duca di Gravina in Castel S. Pietro, qui sepolto poi riesumato e trasportato a Roma. I frati M. O. terminano il loro convento. Si comincia quello dei Cappuccini fuori del Castello. Nascono dissapori fra le corporazioni cappate. I nobili Ramazzotti restano estinti. Si Raccontano le origini del portare il Crocefisso non velato in processione la Domenica di Passione.  Si prevedono le Scuole Pie in Castel S. Pietro poi non si fanno. Si descrive la serie ed ubicazione di molte Cellette nel Comune. La fondazione della Capella del Rosario. Odoardo Farnese Duca di Parma viene con tre mila cavalli a Castel S. Pietro, vi si ferma. Antonio Barberini nipote del Papa viene festeggiato in Castel S. Pietro. Nasce un tumulto popolare contro i gesuiti per le sovvenzioni sospese. La Comunità fa voto a S. Bernardino da Siena per la pestilenza, sua vita ed erezione di un altare nella chiesa di S. Francesco. Si ordina il turno alle tre religioni regolari del paese per la predicazione dell’Avvento e della Quaresima. Si instituisce una Congregazione di Preti nella chiesa di S. Pietro nel Borgo, si trasporta poi nella chiesa dell’Annunziata. Si forma un Campione delle strade del Comune. Si raccontano diverse baruffe. Accade un rumore di zingari poi quietato. Principi di Parma a Castel S. Pietro, suo perché. Si istituisce una Accademia Letteraria col titolo di Immaturi. Capitoli provinciali nel Convento degli Agostiniani detto di S. Bartolomeo. Compagnia del Suffragio del Purgatorio eretta nella loro chiesa. Si reclutano volontari contro il Turco. Fuorusciti di diverse patrie infestano il territorio di Castel S. Pietro. Sono dispersi dai paesani. Si raccontano vari matrimoni nobili con famiglie del paese. Principi Pichi della Mirandola fuggiaschi dal loro ducato si domiciliano a Castel S. Pietro. Soldati di Castel S. Pietro vanno in guarnigione a Bologna per sede vacante. Rumore da essi eccitato nella città per un loro paesano carcerato, lo liberano impunemente. Fazioni ed uccisioni fra le famiglie Fabbri, Pagani e Villa, loro esito. Si narra il suicidio dell’arciprete Scarlattini, chiarissimo per le sue opere, la causa ed altre memorabili cose.

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1601 – 1603. Terminata la chiesetta della Scania, S. Maria ad Nives. Terminato l’oratorio della Compagnia del SS.mo presso la parrocchia. Muratore sotto le macerie salvato dall’invocazione alla Madonna di Poggio.

 Compiuto l’anno benedetto dal Giubileo entrò il primo gennaio 1601 Massaro Giovanni Annessi per il primo semestre e Podestà fu Pompeo Banzi che deputò Giovan Andrea Ballotta notaio.

Li 14 febbraio Lorenzo e Bartolomeo Riccardi chiesero di ottenere dal Senato di Bologna la cittadinanza.

L’arciprete Don Alfonso Cuzzani, amante del culto divino non meno che dei suoi parrocchiani, si adoperò affinché Antonio, figlio del capitano Giovan Battista Fabbri, terminasse la chiesa o sia oratorio della B. V. ad Nives, detta volgarmente la Madonnina della Scania per essere edificata sulla sponda del rio Scania. Egli di fatto operò immediatamente. Lo scopo dell’arciprete era che i cadaveri dei villani morti si fermassero qui, invece che toglierli dalla casa del defunto e senza croce portarli a Castello. Pertanto si cominciò a deporre qui, sotto il nuovo portico, le salme di dove poi un sacerdote colla croce innalzata le levavano e trasportavano, come a giorni nostri, alla chiesa arcipretale. Questo oratorio e questo rito lo troviamo per la prima volta segnato in questo anno nel Liber Mortuorum della arcipretale di Castel S. Pietro.

Nelle memorie manoscritte del Padre Gian Lorenzo Vanti abbiamo come nella metà di febbraio venne una neve altissima che in molti luoghi della collina seppellì le casette basse e si ammucchiò per il vento impetuoso tanto che bloccò le porte delle abitazioni.  Fra queste vi fu la casa rurale detta della Paniga sotto il Castelletto per cui quei poveri villani non poterono uscire se non abbattendo la porta. Così pure accadde alla casa del Dozzo. La via di Viara restò così riempita che convenne alle genti di sopra, che venivano a Castello, formare una strada sull’altura fiancheggiante. Durò in terra molti giorni e le persone erano molto affaccendate per uscire dalle loro abitazioni nella campagna. Quando finalmente si sciolse vennero grandi piene e nelle montagne morì della gente.

Nella grande costruzione del Castelletto, fabbricata ad uso di villeggiatura, c’era una bella libreria di codici legali, qui raccolti dal cardinale Giovanni Poggi onde i suoi discendenti potessero dilettarsi e studiare le leggi con quiete. (la biblioteca si è conservata fino al 1765 ma poi è stata dissipata dai figli del cap. Antonio Mansani di Dozza, affittuario ed agente dei Marchesi Poggi Dal Gallo di Pistoia, successori nella eredità del detto cardinale).

Questi libri, per sanificarli per le recenti vicende epidemiche, furono posti fuori all’aria sotto il porticato interno della casa e qui profumati. In tale contingenza capitò qui un romagnolo di Brisighella detto Boccafrusto che era inseguito come bandito per esser fuggito dal Lazzaretto faentino. Questi si nascose fra quei volumi, aiutato dal custode del palazzo e, non essendo stato ritrovato dagli inseguitori, si salvò.  Disgraziatamente era contagiato e infettò la famiglia di quel luogo detta dei Marelli, tutti soffrirono e fu chiusa per molto tempo quella abitazione.

Il 16 marzo morì una bambina di nome Lucrezia al Conte Ramazzotti e fu sepolta con onore da sua pari in parrocchia. Il 10 aprile morì Carlo Musitelli unico figlio di Giovan Battista Musitelli, detto Bassone invece di Battistone, per essere uomo assai piccolo e di struttura pingue e grossa al pari di un Bacco, che abitava in Borgo nella via maestra.

Il 24 giugno 1601 fu estratto Massaro per il secondo semestre Matteo Canelli, che per essere settuagenario non accettò la carica e fu quindi estratto Sante Santoni che prese il possesso il primo luglio unitamente al nuovo Podestà che fu il Senatore Conte Marc’Antonio Bianchetti.

Le famiglie più influenti del paese per le sostanze e rispettabili nell’armi, furono Cesare e Lodovico Gnitti, i Bindini, i Cattani, Innocenzo Fabbri del Borgo, Francesco Gavoni, i Comelli e Girolamo Tardini tutti con molti seguaci

Il 18 novembre la Compagnia di S. Caterina, allo scopo di mostrare maggiore sfarzo nelle funzioni pubbliche, imitò la cappa di S. Sebastiano di Bologna alla cui Arciconfraternita si fece aggregare. Preventivamente usava il sacco bianco senza cappuccio.

L’arciprete Annibale Malvezzi aveva accordato alla Compagnia del SS.mo l’ambiente grande presso la sua canonica per formarvi l’oratorio. La Compagnia ottenne il 24 novembre il decreto di potere ivi officiare.

La Compagnia di S. Caterina, ottenuta la aggregazione alla Arciconfraternita di S. Sebastiano, vestì tosto la nuova cappa tutta bianca, crespata come una cappa (conchiglia) marina e il 25 novembre, giorno della Santa, fece una solenne festa. Procedette poi alla estrazione delle zitelle per la dote delle 50 lire, dote che continuerà fino all’anno 1639. In tale occasione si fecero anche copiose elemosine non solo ai suoi Ospitali ma anche ai poveri del paese

Morirono in quest’anno 1601 nella parrocchia di Castel S. Pietro 57 persone adulte, questa numerazione fu ordinata dal Governo per timore di epidemia di influenza.  Abbiamo questo scarso numero poiché la parrocchia in questi tempi era rimasta poco popolata.

Francesco Gavoni aveva finalmente terminato la ricostruzione della sua casa nel Borgo di rimpetto alla via di Medicina, detta anche la via di S. Carlo, che gli era stata distrutta come si disse. Poiché tuttavia conservava l’odio verso i suoi avversari, fece, per dispetto ad essi, porre nella facciata della casa la seguente iscrizione in macigno presso l’osteria della Corona che è un enigma per chi ignora i fatti accaduti

Quel favor di grande affare

fabbricò mia casa allegramente

per non veder li miei stentare.

Ora assai abbondantemente

mi trovo a dispetto di coloro

che non vorebbero in me fosse niente.

Nicola Topi entrò Massaro il primo gennaio 1602. Podestà fu Vitale Bonfilioli Vicario, deputò suo notaio Filoteo Sarti. Il Sarti era nazionale di Castel S. Pietro ed abitava nella via Maggiore ove aveva lo stemma del suo casato, figurante una squadra, esposto al pubblico.

Le rogazioni di S. Maria Vergine di Poggio, perché non era ancor terminato l’ornamento del nuovo oratorio della Compagnia del SS.mo SS.to, si fecero nella chiesa parrocchiale. In questa occasione, come si trova nelle memorie, la Compagnia fu aggregata alla Arciconfraternita di S. M. del Baraccano di Bologna senza indicarci però l’epoca precisa dell’aggregazione.

Don Tomaso Boldrini nato nel Borgo di Castel S. Pietro nel luogo detto La Boldrina, nella via corriera presso il ponte del Sillaro, fu laureato in Teologia, poi nel 1605 fu del Collegio e poi passò arciprete alla chiesa di Minerbio. Fu bravissimo oratore ed ha in stampa una bella orazione funerea per la morte di monsig. Daniele Meloni Vicario Generale delle Grazie, di esso ne parla il Fantuzzi nei suoi Scrittori bolognesi.

Il giorno 6 giugno 1602, terminato il nuovo Oratorio, la Compagnia del SS.mo SS.to, vestita di sacco bianco, partì dalla parrocchiale in processione con la Compagnia di S. Caterina e il Corpo della Comunità, si portò al nuovo Oratorio e ne prese il solenne possesso secondo i riti di S. Chiesa col miracoloso crocefisso inalberato e portato dall’arciprete.

Quindi cominciò l’officio della Madonna e si cantò in musica la prima messa. Terminato l’officio della Madonna da entrambi i corporali delle Compagnie di S. Caterina e del SS.mo SS.to, stando alla destra quelli di S. Caterina ed alla sinistra quelli del SS.mo, assistettero alla funzione i regolari e la Comunità in forma. Terminata la messa l’arciprete fece un bellissimo sermone sopra il Santissimo sacramento poi comunicò 186 anime.

 Terminata questa così devota funzione partì la solenne processione col SS.mo ed andò per tutto il Castello e il Borgo poi ritornò nella chiesa parrocchiale ove fu data la S. Benedizione al popolo.

Il 10 giugno Nicola Fabbri di Castel S. Pietro si addottorò alla Sapienza di Roma in utroque jure. e

Il primo luglio 1602 entrò Massaro Andrea Pirazzoli, Podestà fu Achille Bianchetti.

Le mura del Castello nostro abbisognavano di ristoro poiché ne era caduto un tratto alla destra della porta maggiore. Fu perciò fatta istanza al Senato di Bologna che il 19 agosto conferì piena autorità a Girolamo Boncompagni esaminare il problema e così fu riparata la mura.

Il 30 agosto Don Fabio Fabbri di Bologna, canonico della Collegiata di S. Maria maggiore di Bologna, essendo stato deputato per Visitatore generale della diocesi di Bologna, venne a Castel S. Pietro ove visitò tutte queste chiese senza ordinare cose significative.

Nel Governo della Comunità risultava del disordine, perciò il 23 settembre fu spedito al nostro Castello il senatore Girolamo Boncompagni col notaio Valerio Panzachia. Questi appurarono alcune differenze interne nel Consiglio e nel rendiconto e, perché in ordine al maneggio delle entrate comunitative non c’era un depositario stabile, così il Commissario fece la seguente disposizione.

Provisione ed ordine fatto sopra il salvare li Conti de Massari di Castel S. Pietro

Avendo veduto l’Ill.mo Sig. Girolamo Buoncompagni Senatore di Bologna e visitatore di questa comunità di Castel S. Pietro come per patenti registrate in cancelleria, quanto disordine ed estorsione causi sopra la Comunità il non saldare a suo loco e tempo li Conti delli Massari e volendo provedere alli inconvenienti che intorno a ciò ogni anno si vedono correre, ordina e per via di decreto comanda che per l’avvenire ciascun Massaro ad otto giorni al più, al più quindici dopo che sarà finita la sua Massaria debba saldare ed in d. termine con effetto avere saldato li conti della sua Massaria nel Consilio di essa Comunità, ovvero in presenza de deputati di quella sopra ciò e, visti e saldati che saranno,  debba esso Massaro in termine di altri otto giorni seguenti a d. quindici venire a Bologna e portare li d. suoi conti avanti alli ill.mi Sig. Assonti del Governo, acciò da loro sig. li siano confirmati mediante le loro soscrizioni assieme con quelle de Ministri delle Imposte e tutto ciò sotto pena a ciascun Massaro che contraverrà di scudi 100 d’oro da applicarsi ad arbitrio de sig. de regimento o suoi assunti, comandando in oltre a tutti li massari, quali per l’avvenire saranno stati estratti che sotto la medesima pena non debbano in modo alcuno accettare ne pigliare il libro della sua Massaria se prima non saranno salvati li conti del Massaro suo antecessore.

Successivamente siccome mancavano tre soggetti a completare il numero dei consiglieri, così furono proposti al Reggimento i seguenti cioè: Ercole Comelli in luogo di Matteo Comelli, Ventura Ricardi in luogo di Messer Ricardi suo zio e Matteo Fiegna per Clemente Fiegna suo padre.

In quest’anno 1602 morirono 95 uomini, 63 donne e 56 fanciulle e fanciulli.

Girolamo Cuzzani fu estratto Massaro per il primo semestre 1603.  Podestà fu il Conte Cesare Bianchetti.

Il 12 febbraio morì a Forlì il Padre Cherubino da Castel S. Pietro, asceta cappuccino fratello del capitano Giovan Battista Fabbri.  La illibatezza dei suoi costumi gli fecero meritare più volte la apparizione di Gesù bambino, operò molti miracoli e consumato dalle penitenze morì in concetto di Santità.

Gaspare Bombacci nel suo Libro delli uomini illustri per santità, gli scrisse un elogio. Sbagliò solo nel nome del sacerdote che lo chiamò Serafino invece di Cherubino. Noi nella raccolta che abbiamo composta degli Elogi alli Uomini e Donne illustri per santità di costumi di Castel S. Pietro, ne abbiamo scritto pure un elogio a parte.

Don Antonio Galeazzo figlio di Alfonso Graffi di Castel S. Pietro fatto parroco di Rignano restaurò lodevolmente quella chiesa e canonica.

Il primo luglio entrò Massaro Gaspare Gottardi e Podestà fu Albero Castelli.

Il 15 luglio Anna figlia del cap. Giambattista Fabbri si maritò col nobiluomo Gian Maria Fioravanti di Bologna. Sempre in quest’anno ci fu il matrimonio di Andrea Comelli con Faustina Fabbri e Lucia Dal Selaro con Michele Gardenghi, tutti e tre matrimoni illustri per le famiglie.

Il 3 novembre 1603 morì in Roma il dott. Nicola Fabbri addottorato in quella Sapienza. Fu giovane di grande aspettazione ed amato grandemente per le sue rare virtù e prerogative da monsignor Floro Ceni nella di cui casa finì i suoi giorni. Fu sepolto onorevolmente nella chiesa di S. Maria del Pianto di piazza Giudea in un sepolcro con sua memoria.

In questo mese fu eletto dal Senato di Bologna Colonello della truppa pedestre di Castel S. Pietro Antonio Fregnano.

Il 21 dicembre, giorno di S. Tomaso, la Compagnia del SS.mo, fece la formale dedica del nuovo Oratorio all’apostolo S. Tomaso. Era la compagnia governata da Gaspare Antonelli, suoi consiglieri erano messer Vincenzo Mondini e messer Domenico Zanini, messer Valerio Fabbri depositario. In questo giorno si cantò una solenne messa. Fu invitato tutto il Corporale della Compagnia di S. Caterina e la Comunità del Castello e con gaudio di tutto il paese si visitò tutto quel giorno l’Oratorio. Fu indi stabilito ed ordinato che in simile giorno ogni anno in memoria della dedicazione a tale santo si facesse la sua festa e lo si chiamasse protettore dell’Oratorio.

In quest’anno 1603 morirono fra maschi e femmine, fanciulli e vecchi in numero di 88.

1604 – 1608. Baruffe il 1° maggio durante la festa delle Contesse. Vari Omicidi per discordie familiari e tra famiglie. Divieto di introduzione grani forestieri. Scontri a Castello tra sbirri e contrabbandieri di Casale e Castel Bolognese. Riparata la chiesa di S. Pietro. Grande nevicate, strade fatte con tunnel sotto la neve.

Il 27 dicembre fu estratto Massaro Lorenzo Sgargi che prese il governo il primo gennaio 1604. Podestà fu Cesare Rata, che il 22 gennaio ordinò la pulizia delle strade del Castello e Borgo.

Il 23 gennaio, festa dello sposalizio di M. V., ci fu un grande incendio agli edifici della possessione Collina nel quartiere del Dozzo, proprietà di casa Pepoli. Occorse quasi tutto il paese con artefici e muratori per smorzarlo, non vi fu modo se non dopo che si erano consumati i tetti.

In tanta vicenda si era adoperato valorosamente Giacomo Galvani muratore del paese. Mentre scendeva da un muro maestro su di cui si era posto a tagliare le travi, ne cadde uno che urtò dove stava facendolo precipitare col muro che lo sosteneva.  Rimase coperto e sepolto tra le rovine. Fu creduto morto e si cominciò dagli operai a cercare di togliere il suo cadavere. Ma ché?  Mentre le persone lavoravano sentirono il meschino chiamare ad alta voce: S. Maria di Poggio ajutami. A tale voce accorse tutta la gente e fu liberato. Si riconobbe qui il miracolo di M. V. alla quale Immagine portò poi la tavoletta nella sua chiesa.

Il primo giorno di maggio, era consuetudine mettere alla porta del Castello una sedia sopra un tavolo su cui si faceva sedere una fanciulla come una Regina sul trono. Questa si chiamava poi comunemente Contessa. Così si faceva anche sotto il portico della residenza comunitativa.  Qui era attorniata da altre ragazze che fermavano i passanti invitandoli a corteggiare, riverire e fare doni alla fanciulla seduta cantando qualche strofa poetica e rimata in lode dei passanti, questi talora regalavano nastri, ciambelle, fiori.

Accadde che, essendo Contessa una fanciulla della famiglia Ruggi, fu cantata da una sua compagna la seguente strofa diretta ad un giovinetto della famiglia Scappi di Liano.

Quel giovinin de Scappi da Liano

favorite vi prego a larga mano

la mia vezzosa alta Regina

che è bella come rosa mattutina

che non fu da te alcuna cortesia

a lei, e ve ne andate via

gridarem tutte, che Scappi vi chiamate

è perché ingrato siete, via scappate.

Tale strofa mosse ad alti evviva i villani che erano con lo Scappi.  Questi però si sdegnò e degenerò in improperi e contumelie alla cantatrice della strofa. Alcuni paesani sdegnati da questi improperi presero le parti della insultata e non solo con parole.  Si venne alle mani e perciò seguì non poco rumore. Pronti fuggirono i villani chi da una parte chi dall’altra dato che era chiusa la porta del Castello. Nacque una mezza sollevazione fra i parenti ed amici della ragazza e tutti i villani che erano a Castello ed accorsi al rumore. Subbuglio che fu poi calmato e pacificato coll’opera dei castellani Alberici e Fabbri.

L’uso di queste Contesse ossia Regine, cessò nel paese l’anno 1708 per il passaggio delle truppe alamanne, ma ritornò poi in vigore e proseguì fino agli anni 1740. Questo baccanale delle Contesse era molto antico, per eseguirlo si sceglievano le ragazze più belle e mettevano a sedere in alto alla porta della città.  Stavano anche sotto i portici ove era il più frequente passaggio delle persone per avere doni dai giovanotti ed altre genti a cui cantavano in lode alcune strofe e versi.

Il primo giorno di maggio si usava pure piantare il Maglio che altro non era che una verde frasca od arboscello fiorito, che veniva posto a piacere di quelli che lo piantavano. Ebbe origine questo rito dalle feste che facevano i romani in onore di Flora, nelle quali si ballava, si cantava e facevano simili cose onde furono dette Ludi floreales, come si rileva nel Fasti di Ovidio. Quindi i giovani e le giovanette andando per le ville festeggiavano ed intrecciavano assieme balli e danze e ritornando poi alla città e castelli portavano in mano processionalmente rami di pioppo e di altre piante e poi le piantavano avanti le porte di chi più amavano. Arcadio ed Onorio[84] permisero questi spettacoli ma però onesti come si ha nel codice di Majuma, Lib. II.

Il 10 maggio, giorno di lunedì, arrivò al nostro Castello una Compagnia chiamata di S. Spirito di uomini ferraresi, vestiti di tela azzurra con mantelletta simile, che andavano a Loreto. Furono ricevuti dalla Compagnia di S. Caterina e poi la sera partirono per Imola.

L’11 maggio Giovanni e Cristoforo Poggi, nobili bolognesi, erano in villa nel quartiere della Lama al Castelletto. Cristoforo aveva comprato un cavallo e stava andando a pagarlo. Giovanni si nascose nel rio della Paniga e gli sparò una archibugiata e, perché non morì subito, gli corse addosso e gli tagliò la gola. Gli tolse il cavallo, i danari ed una piccola chiave poi tornato al Castelletto portò via tutti i danari, gli anelli ed altre cose di valore e se ne fuggì in Toscana a Pistoia.

Il 12 maggio gli uomini della Compagnia della Regina de Cieli di Bologna che stavano nella Nosadella, cappati di tela berettina[85] con la loro insegna, bordoni e capelli tutti guarniti d’argento, vennero a Castel S. Pietro incontrati dalla Compagnia del SS.mo. Avevano con sé due piccoli stendardi uno dei quali lasciarono a Loreto.  Ritornarono il 22 riportando a casa l’altro stendardo.

Il 24, giorno antecedente alle Rogazioni, la Madonna di Poggio fu portata nel nuovo Oratorio del SS.mo per solennizzare in quello le Rogazioni per la prima volta.

Il primo luglio 1604 entrò Massaro Domenico Simbeni e Podestà Alessandro Magli col notaio bolognese Francesco Celli.

Era nata grande discordia fra i Fabbri e i Pignatarini e Tesei, famiglie facinorose e famose per l’uso delle armi. Il motivo era che le due ultime famiglie avevano insultato il Ramazzotti, marito di Flaminia Fabbri, discendente del Capitano Giovan Battista. Questa, durante una merenda che si fece nell’orto Calderini, fece mettere da Alfonso Graffi dell’oppio nel cibo del Pignatarini.  Questi, addormentatosi nella vicina piazza, fu trasportato nell’orto ove fu ucciso a pugnalate. Gli fu poi reciso il capo e portato a Carlo Zachiroli come partigiano dei Ramazzotti.  Per questo motivo poi questa famiglia espatriò e andò a Castel Guelfo.

I Benini di Doccia e i Ramazzotti inseguirono Andrea Tesei ma invano. Il capo del Pignatarini fu seppellito ma poi i Ramazzotti fecero di nascosto bruciare il cadavere.

Fu gran rumore nel paese per cui i Tesei e loro parenti non la perdonarono più ai Ramazzotti e si rifecero dopo pochi anni coll’omicidio del Conte Pompeo Ramazzotti. Il Pignatarini se ne andò poi dalla patria e poco dopo si pacificò con i Fabbri e i Ramazzotti ma fu pace simulata.

Il 29 luglio venne una grande una tempesta che, cominciando da Bologna venne da queste parti e si estese nel Medesano.  Danneggiò un tratto di quaranta miglia di territorio, rompendo alberi e in alcuni luoghi anche i tetti alle case e fece venire un gran freddo.

Il 17 ottobre il card. Alfonso Paleotti, arcivescovo di Bologna, convocò una Congregazione di tutti i Pievani della diocesi per provvedere a molti inconvenienti, fra le molte cose determinò l’osservanza delle feste e della dottrina cristiana perché i comportamenti erano troppo rilassati.   

Il Papa aveva dato inizio al taglio del Po per liberare le sue provincie dalle acque stagnanti.  Per coprire le spese deliberò di creare un Monte di 300.000 scudi da raccogliere dalle tre provincie di Bologna, Ferrara e Romagna.

 La assemblea senatoria, riunita il 23 novembre, prese in esame il motu proprio pontificio che, ordinava di realizzare il Monte pontificio senza che alcuno osasse opporsi sotto pena di ribellione. Perciò alla porta della Residenza del Reggimento fu posta la guardia svizzera e gli sbirri. I senatori stettero in riunione fino alle ore 5 di notte senza concludere cosa alcuna.  La mattina seguente proseguì la riunione ma senza conclusione.  Quindi si fece sapere al Papa che sarebbero stati ubbidienti alla Chiesa ma che tanta somma non si voleva prendere a prestito. Poi il Papa per ciò soprassedette alle sue determinazioni.

Intanto era giunta la fine dell’anno con un tale tempo che erano passati tre mesi sempre sereni e senza pioggia. Per la mancanza di acqua non si poteva macinare e i mugnai temevano tumulti, quindi fu raddoppiata la presenza degli sbirri.

Morirono in quest’anno 1604, solamente nella parrocchia di Castel S. Pietro, 49 creature.

Il primo gennaio 1605 entrò Massaro Giovan Battista Balduzzi. Podestà fu Napolione Malvasia.

Il Papa aveva fatto a Bologna una richiesta esorbitante di denaro e sembrava non volesse rinunciarvi. il Senato perciò inviò al Papa il senatore Francesco Cospi.

Su la fine di gennaio morì il Papa, ma la morte non fu pubblicata che il 3 marzo e il primo aprile 1605 fu eletto il cardinale Alessandro de Medici creatura di Gregorio XIII e si chiamò Leone XI.

La morte del Papa cagionò piacere ai bolognesi che si videro in qualche modo esentati dal pagamento del danaro richiesto e con la speranza di evitare totalmente un tanto aggravio.

Il tempo che era stato fino a questo tempo senza pioggia con gravissimo danno dei mulini, finalmente il 25 gennaio cominciò una grossa neve che durò alcuni giorni.

Su la fine di febbraio i tre fratelli Francesco, Giacomo e Giuseppe Conti da una parte ed Antonio Maria Marabini dall’altra vennero fra di loro a una rissa nella quale furono sparate varie archibugiate e furono feriti due dei Conti. Antonio Maria Marabini, che era spalleggiato dai Fabbri, fu comunque costretto a fuggire a causa dei Pignatarini.

La chiesa della Madonna di Poggio era stata finora un semplice Oratorio. Ora, stante la affluenza delle elemosine, c’era il bisogno di avere un sacerdote come custode qui residente, come chiedevano anche i poggesi col loro parroco.  L’arcivescovo Paleotti mosso da tali ragioni e suppliche non che dal suo zelo, eresse la chiesa e oratorio di questa S. Immagine in beneficio.  Il primo beneficiario fu Don Cesare Giulio Vassellari a cui successe Don Giovan Battista Mondini poi Don Giulio Alberici.

Il 27 aprile venne la notizia che, con dispiacere della Cristianità, era morto il Papa in età d’anni 72 e non senza sospetto di veleno.

I cappuccini, che non avevano ancora fondato il loro convento in questo paese, vennero ospitati dalla Compagnia di S. Caterina nella casa presso la sua chiesa.

Seguirono in questo tempo i matrimoni fra la nobile Signora Francesca del sig. Bernardo Ceroni d’Imola col Sig. Valerio Fabbri e di Maria Cantini con Alessandro Tesei, gente tutta facoltosa e bellicosa.

Li 16 maggio 1605 fu eletto il nuovo Papa nella persona del cardinale Camillo Borghese col nome di Paolo V, uomo di anni 52.

Erano ormai tre mesi che non cadeva pioggia per cui i frumenti e le biade pativano molto. Il sabato 22 maggio era stata portata la miracolosa Immagine di M. V. di Poggio a Castel S. Pietro. La domenica seguente, appena fu deposta nel nuovo oratorio, cominciò una pioggia dirotta che innaffiò le nostre campagne e proseguì a tratti fino a dopo il Corpus Domini.

Il 3 giugno si laureò a Bologna in utroque Girolamo Bertuzzi, uno di questi nostri Bertuzzi di Castel S. Pietro, che fu poi prelato.

Seguitando a piovere, non si poté restituire la S. Immagine di Poggio alla sua residenza con la solita pompa. Perciò fu collocata in un carro coperto con il cappellano e il priore della compagnia.

Fatta la nuova imborsazione dei massari, il primo luglio entrò 1605 Girolamo Cuzzani.  Podestà fu Flaminio Felicini.

Nel giorno 10 luglio fu pubblicato il Giubileo del Papa con amplissime facoltà di assolvere ogni peccato eccettuata l’apostasia e i voti solenni di castità. C’era pure l’obbligo di fare due processioni di penitenza alle chiese destinate. A Castel S. Pietro furono assegnate la chiesa di S. Bartolomeo e di S. Francesco e la processione doveva partire dalla parrocchia.

Il 24 agosto a Bologna si faceva la solita festa popolare della porchetta durante la quale il vice Legato Alessandro Sangrio gettava uccellami, polli, pavoni ed oche.  Accadde che, trovandosi a tale spettacolo Stefano Pignattarini di Castel S. Pietro, giovinastro grande, al vedersi passare sopra il capo un’oca allungò le braccia in alto e, presala, la pose sotto la giubba.  Accortosi di ciò uno della plebaglia della città andò per toglierla. Il Pignattarini cominciò a picchiarlo in tal modo in faccia che gli fece grondare sangue dal naso.

Accorsero altri birichini per fermarlo ma chiunque lo affrontava finiva atterrato e sanguinante dalla faccia.  Era come un Sansone senza armi.

Gli sbirri, vedendo un tale raggruppamento di persone e la baruffa, accorsero. Uno di essi tentò di mettergli le mani addosso e si prese un tal pugno sulla tempia che finì a terra. Accorsero il secondo ed il terzo sbirro e pure a loro accadde la stessa sorte. Arrivando altre guardie e, vedendo non potere resistere al numero, il Pignattarini si diede alla fuga per la via di S. Mamolo, come fosse uno degli Orazi romani inseguito dai Curiazi albani.

Il popolo, a cui piacque la sua bravura, cominciò a gridare contro la sbirraglia: Lascia! lascia! grazia! grazia! Il vice Legato che era alla ringhiera del palazzo con gli Anziani, vedendo il caso, alzò la mano ignuda e così terminò il tumulto. Il Pignattarini fu salvato e gli sbirri tornarono svergognati alla piazza accompagnati dalle fischiate e dagli evviva diretti al vice Legato.

Essendosi addolciti gli animi delle due famiglie avversarie Marabini e Conti di Castel S. Pietro per la mediazione dei Conti Malvasia, seguì perciò la solenne pace coll’abbracciarsi vicendevolmente nella sala del Conte. Nella prima fazione vi era Andrea ed Antonio Maria Marabini spalleggiati da Valerio, Innocenzo ed Ottavio Fabbri, nella seconda vi fu Francesco, Giacomo e Giuseppe Conti spalleggiati dal Malvasia. E così terminò l’anno 1605 senza aver trovato altre memorie degne di speciale menzione.

Il primo gennaio 1606 entrò Massaro Gaspare Gottardi, Podestà fu Alessandro Bolognetti.

Il 17 febbraio il Legato card. Durazzo emanò un Bando che proibiva la introduzione del grano forestiero non solo in città ma anche nel territorio, sebbene ci fossero rischi di carestia. In passato si era sempre lasciato introdurre pane dai forestieri a Bologna, provocando però le lagnanze dei fornai della città.

A Castel S. Pietro venivano gli imolesi e soprattutto quelli di Casalfiumanese e Castelbolognese. Questi la presero molto a male e nacque non poco rumore. Gli sbirri avrebbero dovuto ostacolare tale introduzione nel nostro Castello. Il lunedì 2 maggio, giorno di mercato e primo delle Rogazioni di M. V., i panettieri di Castelbolognese e Casale uniti assieme si opposero alla sbirraglia. I primi avevano preso tutti i posti del Borgo, i secondi quelli del Castello. Furono sparate molte archibugiate e gli sbirri furono circondati in modo che domandarono salva la vita.  Quelli di Castel bolognese gridando altamente: Forte, forte Casalfiumanese, che non ha paura Castel Bolognese, fecero deporre le armi alla sbirraglia che poi fu presa a bastonate e minacciata della vita.  Vedendo degenerare la situazione fu suonata la campana a martello e si frapposero i Fabbri e la Comunità cosi in breve fu sedato tutto il tumulto.  

Fu quindi pattuito che volendo in futuro venire sbirri per eseguire ordini contro i malfattori venissero pure in paese, ma i giorni di lunedì dovessero essere disarmati e avvisare prima dalla locanda della Masone.  Se facessero diversamente e volessero molestare chi portava granelle, farine e pane, si sarebbe agito contro loro con la forza. Tanto fu accettato e gli sbirri se ne tornarono alla città. Convenne poi al Legato lasciare proseguire nel nostro Castello le introduzioni successive senza dazio e gabelle e così si proseguì fino al 1700, portandosi liberamente pane e farine ai mercati del paese. Il rumore fu tanto grande che la processione di M. V.  si fece solo entro la piazza del Castello.

Il 25 maggio giorno del Corpus D., terminata la solenne processione, si alzò un temporale con un turbine di vento così forte che le persone dovettero sdraiarsi a terra per non essere rovesciate e levate in aria. Le armature in assi del campanile di S. Francesco in costruzione furono sollevate per aria e fu per miracolo che non offendessero alcuno e cadessero nell’alveo del fiume e nella campagna vicina.

Il 2 giugno dopo varie giornate di caldo eccessivo cadde una grossa grandine che durò in terra quattro giorni con molto freddo.

Il primo luglio 1606 entrò Massaro Giovan Battista Fabbri. Il nuovo Podestà fu Bernardino Marescotti.

Il turbine del 25 maggio aveva prodotto anche altrove delle disgrazie. Troviamo nelle memorie manoscritte di Don Giulio Alberici, custode della Madonna di Poggio, che a quella chiesa comparve Luca da Cesignolo di Monte Calderaro con le stampelle. Disse si essere stato salvato da M. V. per frattura della coscia sinistra sofferta per essere stato spinto giù da un balzo con le bestie e l’aratro dall’accennato turbine. Giuseppe Poggi di Corvara d’Imola fu, da uno dei ponti di quel comune, trasportato in aria fino al luogo detto dei Beladelli e fu ferito gravemente al capo. Questi, essendosi poi raccomandato a questa S. Immagine, fu tosto risanato.

Proseguendo la carestia di pane e viveri il nostro Massaro Giovan Battista Fabbri, capo della popolazione, impiegò i suoi emolumenti per comprare tanta fava che fece cuocere e dispensare a tutti i poveri del paese il due novembre, giorno dei morti. Lo stesso fece la vigilia di Natale. Perché non accadesse confusione, li fece tutti adunare nel cortile del palazzo Locatelli, allora Ramazzotti, poi li fece uscire uno alla volta e diede ad essi quella quantità che credeva giusta per la loro famiglia.

 L’uso di dispensare la fava nella occasione dei morti fu introdotto imitando gli antichi che nelle esequie dei loro trapassati usavano tale rito sembrando che questo prodotto avesse più coerenza alla mestizia di quello di qualunque altro legume.  Questo perché sui fiori della fava ci sono certi segni che, imitando i caratteri di lettere greche, significano lacrima.

Anche gli ateniesi usavano cuocere nei giorni delle esequie legumi di ogni tipo offrendoli alle loro divinità profane. Lo stesso fece Tomaso Tomba che era stato eletto recentemente capitano della milizia urbana al posto di Antonio Fiegna, infermo da lungo tempo ed inutile a sé ed alla truppa.

L’anno seguente 1607 entrò Massaro Fioravante Tomba per il primo semestre e Prospero Dulcini estratto come Podestà.

Non ostante le grandi premure che facevano i fornai per la esclusione dei venditori forestieri di pane nella città e contado, dato che la carestia che continuava, fu costretto il Legato card. Giustiniani a tollerare la introduzione del pane forestiero nel contado e sopra tutto a Castel S. Pietro. Quindi gli imolesi e quelli di Castel Bolognese proseguirono maggiormente le loro introduzioni nei giorni di mercato, al quale concorrevano numerose le popolazioni vicine.

Il grano si vendeva 17 lire la corba e si davano solo sei once di pane per un Bajocco.

Il 27 aprile essendo morta Flaminia Fabbri moglie del Conte Ramazzotto di Castel S. Pietro fu da qui trasportata a Bologna in S. Michele in Bosco nel sepolcro dei Ramazzotti di Bologna, parenti e consanguinei dei Ramazzotti di Castel S. Pietro.

Lunedì 3 maggio cominciarono le Rogazioni di M. V. di Poggio, le quali furono accompagnate dalla maggiore devozione possibile del popolo a causa della penuria di viveri e per il brutto aspetto della campagna.

La chiesa di S. Pietro nel Borgo, spettante alla Commenda di S. Stefano di Bologna, essendo mal ridotta, si cominciò a ristorare dal cardinale commendatario Alessandro Montalti. Era scoperta nei tetti, rovinata nel pavimento e logora nelle pareti, inadatta ad essere officiata. Inoltre, essendo le porte rotte da tempo, chiunque vi entrava ed usciva liberamente e talora serviva da nascondiglio a taluni sia del paese che forestieri.

Andrea Cechinelli, notaio del Podestà locale, essendo il giorno 18 maggio in visita alle botteghe ed al mercato, pretese arrestare un certo Cavina di Castel bolognese e sequestrargli il pane perché non arrivava al peso di Bologna. Infatti, insaccato il pane, lo fece portare in ufficio. Era presente a Castel S. Pietro lo stesso Podestà Prospero Dulcini ed era alloggiato nel palazzo Malvasia. Perciò molti contrabbandieri di Castel Bolognese, che erano secondo il solito venuti al mercato di Castel S. Pietro, si portarono armati dal Podestà col Cavina.  Qui nacque non poco diverbio e al Cechinelli convenne restituire il pane per essere roba forestiera e non soggetta alla legge di Bologna. Fuggì poi il Cechinelli dalla parte opposta del palazzo Malvasia e si rifugiò in S. Francesco presso i frati.  Due giorni dopo partì vestito da frate né più si vide a Castello per paura dei contrabbandieri.

Il 14 giugno giorno del Corpus Domini, facendosi la consueta processione del SS.mo per il Castello e Borgo, la Compagnia di S. Caterina, padrona dell’Ospitale dei viandanti nel Borgo, fece formare un altare e qui, a consolazione di alcuni viandanti infermi, fu loro data la benedizione col SS.mo cosa che riuscì ammirata da tutti.

Il dì primo luglio 1607 entrò Massaro Gaspare Gottardi, fu Podestà Annibale Rossi. In questo tempo seguì il matrimonio con grandi festeggiamenti fra la sig. Anna del fu Alessandro Gottardi ed il sig. Aurelio Comelli, ambedue famiglie illustri del paese.

In quest’anno 1607 è stato terminato il restauro della chiesa di S. Pietro, eseguito per ordine del cardinale Montalto commendatario della Abbazia di S. Stefano,

I morti della parrocchia di Castel S. Pietro i furono 100.

Entrò Massaro l’anno 1608 per il primo semestre Domenico Sinbeni e Podestà fu il Conte Girolamo Buschetti.

Il 3 gennaio cominciò una nevicata che durò continuamente per otto giorni. Il 18 replicò e durò fino al 23 di giorno e di notte. La neve venne tanto alta che le persone da un portico all’altro non si vedevano né si poteva attraversare la strada da una parte all’altra. Si dovettero fare dei tunnel sotto la neve. Le case erano appesantite nei tetti per cui si dovette in molti casi puntellarli e chi fu negligente patì molto. Caddero i coperti alle case della famiglia Forni nella via Maggiore, dei Bombasari presso S. Caterina, quella dei Mondini nel Borgo, le case, in via di Saragozza di sotto, dei Locatelli, Fabri e Comelli, le stalle dei Morelli ed altre casette. In campagna lo stesso successe alla possessione Oretti, detta la Fossa, e al fienile alla Peschiera.  A Fossalovara, al Morteccio ed altri luoghi perirono anche i bestiami sotto le rovine. Durò la neve in terra fino all’aprile.

Per queste circostanze il Legato emise per le strade molti provvedimenti perché né i cavalli né i carri di qualsiasi tipo potevano girare. Le comunità del contado furono per ciò molto impegnate.

Il 17 marzo 1608 morì Riniero Rinieri, uomo di illustre famiglia e fondatore del casino Riniera.

Sabato 10 maggio fu portata la Madonna di Poggio a Castel S. Pietro per le Rogazioni. Nel corso delle stesse fu condotto alla S. Immagine un ossesso di Sassoleone di nome Matteo Fantini. Questi il lunedì dopopranzo, prima delle funzioni, strepitò molto, la sera poi, alle ore 13, l’arciprete, ad oratorio chiuso, lo esorcizzò avanti la S. Immagine.  Fu liberato dallo spirito infernale che fuggì frangendo le vetrate dello scalone dell’oratorio, come ci lasciò scritto Don Giulio Alberici.

Riportatasi la S. Immagine a casa il giorno della Ascensione, accadde che vennero a rissa alcuni bravi di Medicina tra cui Mamolo Zanelli con Stefano Anessi di Castel S. Pietro. Furono sparati alcuni colpi di pistola e nessuno restò ferito, solamente scoppiarono nelle mani di entrambi le pistole. Queste, per ringraziare del miracolo, furono poi appese nella chiesa della Madonna.

 Il 5 giugno, giorno del Corpus Domini, si fece col SS.mo la solenne processione anche per il Borgo, ove quei borghigiani vollero nella chiesa di S. Pietro, appena restaurata, dimostrare la loro venerazione al Signore. La chiesa fu tutta apparata di damaschi cremisi e il SS.mo fu introdotto tra due file torce, quindi cantato il Tantum Ergo in musica, fu di nuovo ripresa la processione. Furono capi di essa Innocenzo Fabbri, Rocco Andrini, Matteo Dalforte e Carlo Calanchi. Partita la processione seguì una salva di mortaretti. Purtroppo alcuni di questi scoppiando colpirono una povera contadina che restò mortalmente offesa funestando così la S. Funzione.

Il 24 giugno fu estratto Massaro Fioravante Tomba che iniziò il suo governo il primo luglio e così fece il nuovo Podestà Marco Giulio Bandini. Fu suo notaro Antonio Maria Beliosi sotto il cui governo il card. Legato volle che la Comunità rendesse al medesimo i conti della sua amministrazione.

Nel mese di settembre, essendo rovinata la via romana nella imboccatura del ponte sopra il Sillaro dalla parte di ponente, fu riparata mediante una aggiunta di muro e si spese 675 lire essendo direttore di questo lavoro il Conte Ercole Malvasia.

Una fanciulla della famiglia Frascari di Poggio di otto anni, in compagnia di altre fanciulle coetanee, era a pascolare e sciacquare i maiali nel canale vicino alla Madonna di Poggio. All’improvviso l’acqua del canale era cresciuta per lo scarico della botte del mulino. La fanciulla volle riportare alla riva i maiali ma scivolò nell’acqua e venne trascinata via dalla corrente. Le altre sue compagne gridando aiuto fecero accorrere i contadini vicini che, dopo un lungo tratto di strada, riuscirono a fermare il corpo che galleggiava sopra l’acqua. Accorsero i parenti che presero la fanciulla, che non dava più segni di vita, e la portarono con gran cordoglio alla vicina chiesa della Madonna. I famigliari, fra lacrime ed amarissimi singhiozzi, la presentarono alla B. V.  disposta sopra una panca. Poco dopo avvenne che, rigettata molta acqua dalle narici e dalla bocca, la fanciulla riebbe la vita con stupore di tutti. Ne fu fatta la memoria in tavoletta.

Morirono in quest’anno 1608 nella parrocchia di Castel S. Pietro 49 creature.

Essendosi riparato nuovamente il ponte di Castel S. Pietro sopra il Sillaro, il Senato riportò: 1608. 18. 9.bre. A riparare il Ponte di Cas. S. P.ro che menaciava ruina dalla parte di ponente il Senato ordinò un riparto di lire mille, l. 1000, per la metà a Cas. S. Pietro e per l’altra metà elle circonvicine comunità.

1609 – 1615. Rocca grande completamente demolita, i Morelli ottengono l’uso del suolo. Truppe papaline a Castello per i rischi per la guerra del Monferrato. Continue baruffe e liti durante le cerimonie per la Madonna di Poggio. Guardie di sardi a Castello per la presenza di malviventi nel territorio.

Il primo gennaio 1609 fu Massaro Girolamo Cuzzani Massaro e Podestà Lauro Bolognini.

Sotto il governo di questi soggetti accaddero le seguenti cose. Sabato 24 gennaio il Legato fece impiccare a Bologna due villani, pubblici ladri, di Castel S. Pietro, l’uno detto Calvanella e l’altro non si sa. Il 9 marzo morì la signora Alessandra Rigucci e fu sepolta con grande onore nella parrocchia. Il 12 maggio si fecero le solite Rogazioni di M. V. di Poggio che non andarono esenti da piogge. il 12 giugno morì un figlio al Conte Ramazzotto il cui nome ci tace il Lib. Mortuor. della parrocchia e fu portato a S. Michele in Bosco.

A causa delle grandinate e delle continue piogge il raccolto, che si prometteva sufficiente, non si poteva fare. Il grano infatti germogliava nelle spighe.

Si fecero perciò tante orazioni nella città e nel contado. A Castel S. Pietro si fecero processioni di penitenza nelle quali si distinsero i frati di questo luogo, camminando con funi al collo e piedi nudi alle chiese del paese per tre giornate. A tale esempio fece lo stesso il clero secolare colle compagnie di S. Caterina e del SS.mo per tre sabati cantando poi i salmi penitenziali nei loro rispettivi oratori.

Il primo luglio 1609 fu Massaro Sante Santoni e Podestà Mario Bargellini.

Il 25 agosto essendo stato abbondante il raccolto, il Legato ordinò a tutti i fornai che dovessero crescere il peso del pane fino a nove once e mezzo per ogni bajocco, mentre prima era il peso di 5 once per bajocco. I fornai erano molto malcontenti, così tennero serrati vari giorni i loro forni.  Il Legato perciò mandò fuori precetti stampati e li fece affissare alla porta di ogni fornaio, erano previste con gravissime pene ai contravventori.

Il 17 settembre morì la signora Contessa Gini in questo Borgo nella sua casa che è quella che oggigiorno si chiama volgarmente dei Riguzzi presso il ghetto.  Fu sepolta in parrocchia con grandissimo onore.

 Il 20 settembre morì Ercole Bruni in casa di messer Carlo Bruni, discendenti del chiaro capitano Annibale Bruni. Trovo anche in questa epoca stabilita di nuovo la famiglia di Matteo Tomba, originario di Castenaso, che prima si chiamava dei Pizzati, fu facinorosa e da cui ne vennero diverse persone armigere fra le quali se ne annovera una che portò il nome di Brau, cioè Bravo.

Essendo stata interamente demolita la Rocca maggiore che fronteggiava la piazza maggiore del Castello, Sebastiano e Morello Morelli di Castel S. Pietro ottennero dal Senato di Bologna il 22 dicembre la concessione in enfiteusi del suo suolo.

Così terminò l’anno 1609 in cui morirono sotto questa parrocchiale 51 creature.

Il primo gennaio 1610 entrò Massaro Flaminio Comelli. Podestà fu il Conte Scipione Zambeccari. Poche sono le notizie che abbiamo in quest’anno.

Il 25 febbraio l’arcivescovo Paleotti, volendo proseguire nella intrapresa fabbrica di S. Pietro in Bologna, mandò una lettera circolare e pastorale a tutti i pievani della diocesi esortandoli a concorrere alla spesa.

Il 16 maggio cominciarono le solite Rogazioni di M. V. di Poggio che non andarono esenti da tumulti e risse in occasione della benedizione il giorno dell’Ascensione.  Due facinorosi cioè Andrea Giganti della Molinella e Matteo Lorenzetti da Budrio si ferirono mortalmente fra di loro, ebbero la grazia di M. V. di non restare morti.

Fu pure graziata della vita Camilla Anessi di Castel S. Pietro che era quattro giorni sul parto né poteva figliare.  Si raccomandò alla S. Immagine mentre che passava processionalmente per via Framella ove abitava.  Mentre pregava di cuore recitando l’Angelica Salutazione, diede alla luce una fanciulla e fu salva. La neonata invece finì subito i suoi giorni.

Estratto Massaro Nicolò Topi prese il possesso il primo luglio e Gualando Ghisilieri investì la carica di Podestà.

L’Ospitale di S. Caterina nel Borgo trovandosi bisognoso di interventi fu restaurato e così poté di nuovo ricevere anche malati forestieri, il che era stato sospeso per la sua inabilità.

Il 18 ottobre morì l’arcivescovo Paleotti a cui successe il 25 ottobre Scipione Borghese nipote di Paolo V.

Il 15 novembre prese fuoco l’antica osteria detta del Montone in faccia al Ghetto. L’incendio durò molte ore e perirono in esso alcuni bestiami. Fu attribuito l’incendio a due di Crevalcore per essere stati qui trattati male.

La chiesa di S. Giacomo e Filippo di là dal ponte fu restaurata perché minacciava di rovinare dalla parte di levante.

 Terminò questo anno 1610 colla morte di 72 parrocchiani.

L’anno seguente 1611 fu Massaro per il primo semestre Domenico Simbeni. Il Podestà fu Marc’Antonio Brunelli.

In alcune memorie della Compagnia del SS. risulta che in questo anno cominciò la Comunità, a somministrare cinquanta lire alla Compagnia per le Rogazioni di M. V.

Il nuovo arcivescovo Scipione Borghese, avendo in vista i bagordi e le crapule carnevalesche per le quali si oltrepassava l’ultima notte di carnevale continuando a cibarsi di vivande di grasso, contravvenendo al precetto del digiuno, ordinò che alla scadenza della mezzanotte dell’ultima sera di carnevale si dessero cento martellate alle campane delle chiese parrocchiali per che finissero i festini ed ognuno si astenesse dal mangiar carne per il digiuno seguente. Inoltre che non si portassero più la maschera, il tutto sotto il rischio di gravissime pene.  Il che fu osservato prontamente da ognuno.

Il primo luglio 1611 investì la carica di Massaro per il secondo semestre Gottardi fratello di D. Alessandro Gottardi parroco di S. Donato di Bologna, Podestà fu Carl’Antonio Sampieri, suo notaro fu Girolamo Panzachia.

Il 13 luglio venne una tempesta così smisurata con un tale vento impetuoso che in alcuni luoghi nella parte di levante rovesciò molti merli alle mura del Castello. Nel vicino Castello di Fiagnano e Corvara caddero alcune case dei Peggi e dei Gallanti.

Il numero dei morti quest’anno non si ricava dal Liber Mortuor. a motivo delle carte in alcuni luoghi erose.

 Il primo gennaio 1612 Fioravente Tomba entrò Massaro e il 9 Gaspare Pasi fu assunto alla podesteria di Castel S. Pietro.

Si pubblicò la rinuncia del cardinale Borghese al vescovato di Bologna fatta a mons. Alessandro Lodovisi.

Il 27 maggio si fecero le solite rogazioni di M. V. di Poggio solo in Castello. La ragione il Vanti non ce la scrisse.

Il 21 giugno il Papa mandò la sua benedizione papale al Legato Card. Maffeo Barberini dandogli piena autorità di dispensarla al popolo, alle terre ad ai suoi frutti.  Fece ciò per la gravità dei tempi nei quali da 20 anni si predicevano carestie e per i gravi peccati, censure, omicidi ed assassinamenti.  

Il Legato, in seguito di tanta autorità, il 24 giugno sopra un alto palco, in figura di pontefice nella pubblica piazza di Bologna, eseguì la sua commissione dopo i vespri, dando la benedizione col suono delle campane. Data la benedizione in un istante si turbò l’aria e diluviò acqua dal cielo mista ad impetuoso vento, con oscurità simile alla notte. Dette poi ai preti e ai regolari ampie facoltà di assolvere come nei Giubilei, così si eseguì in tutte le parrocchie della diocesi e nei castelli una simile funzione nelle pubbliche piazze

Il primo luglio 1612 entrò Massaro Sante Santoni e Podestà Gian Giacomo Vitali. Il Consiglio comunitativo, che era ridotto a pochi rappresentanti per le morti accadute, riempì i posti vacanti con i seguenti Vincenzo Mondini, Domenico Giannini, Benedetto Mengoli, Gaspare Antonelli, Alessandro Ruggi e Rocco Andrini.

In questo tempo c’erano molti Capitani originari del paese. Fra questi i capitani Gian Battista Fabbri, Biagio Sgarzi, Biagione Tomba, che fu al soldo dei veneziani, e Fabio Naldi che fu al servizio del Duca Farnese. Quest’ultimo avrebbe fatto meglio a restare a Parma invece che rimpatriare poiché il 21 luglio fu ammazzato da sei uomini alla Toscanella. I Tesei, famiglia molto litigiosa, abitante in via Saragozza di sotto, fu sospettata per tale omicidio.

Il 18 settembre Paolo V concesse indulgenza plenaria alle Compagnie del Bon Gesù le quali, la seconda domenica di ogni mese dovevano fare una processione sotto il titolo del Bon Gesù. La Compagnia del SS.mo di Castel S. Pietro che aveva incorporata la Compagnia del Bon Gesù, si infervorò ancora di più in tale devozione.  La processione si faceva il dopo pranzo, dopo i vespri, e durò fino alla metà del 1700.

La processione partiva dall’oratorio della Compagnia cantando l’inno Jesu Dulcis Memoria, andavano fino alla porta maggiore del Castello colla croce inalberata poi tornavano al loro oratorio. Dall’arciprete Don Bartolomeo Calistri (di cui si può cantare Castri tristis memoria) fu sospesa l’anno 1773 con minacce ai confratelli. La Compagnia, per non impegnarsi in una lite con un uomo prepotente e troppo favorito dal card. Boncompagni, suo gran protettore, pensò fosse meglio chinare il capo e prenderla persa.

Si ha per tradizione che questa Compagnia del Bon Gesù fu fondata ai primi anni della origine di Castel S. Pietro dal domenicano Beato Giovanni Schiò quando predicò qui alla popolazione. Quindi non avrebbe avuto origine da S. Bernardino da Siena, pure lui devoto del Nome di Gesù e che instituì alcune compagnie nel bolognese sotto il titolo del Nome di Gesù. Noi siamo dell’opinione che si tratti di due compagnie diverse. 

Il 12 novembre furono riparati i muretti e le sponde al ponte del Sillaro in questa via romana per cui si spesero 215 lire.

Nel Lib. Mortuor. vengono annotate N. 90 persone morte in questo anno 1612 sotto la parrocchia di Castel S. Pietro.

 Il primo gennaio 1613 entrò nell’officio di Massaro e capo della Comunità Domenico Simbeni e Podestà Giulio Felicini.

Nelli atti della soppressa compagnia di S. Caterina si trova che in questi tempi faceva a sue spese l’Orazione delle 40 ore nella settimana Santa e continuò fino alla fine del 1600.

Il 16 aprile Don Alessandro Gottardi di Castel S. Pietro, attuale parroco di S. Donato a Bologna, volendo mostrare il suo affetto alla patria, notificò alla Comunità la sua intenzione di fondare un beneficio laicale per un chierico povero del paese, lasciandone poi la nomina alla Comunità. Lo fondò nella chiesa di S. Donato all’altare della Visitazione di M. V. Si riservò la nomina finché fosse estinta la sua parentela maschile e fu assegnato un credito fruttifero imposto sopra una casa posta in Castel S. Pietro nella via di Saragozza di sopra. Il chierico doveva essere nato da onesti parenti del paese.

A motivo della guerra[86] che stava facendo il cardinale Gonzaga[87] di Mantova contro il Duca di Savoja[88], il Papa assoldò truppe in Romagna e le mandò al confine. Il 5 giugno venne una quantità di soldati papalini a Castel S. Pietro ed il giorno seguente andarono a Bologna. Era questa truppa composta 4.000 fanti armati di lance ed archibugi e più di mille cavalli. Da Bologna andò in guarnigione ai confini dello stato ecclesiastico dove dopo quattro giorni furono licenziati.  Furono mal soddisfatti, principalmente quelli di Brisighella, per cui il loro capitano, dopo un alterco col generale, fu carcerato e patì molto.

Il 28 giugno essendosi riparato il ponte grande sopra il Sillaro dalla parte di ponente, il Senato di Bologna ordinò che si mettesse in comparto la spesa alle comunità soggette alla podesteria del nostro Castello. La spesa ammontò a 290 lire.

Il primo luglio 1613 entrò Massaro Nicolò Topi e Podestà Gozadino Gozadini.

Il 21 agosto in casa del Conte Ramazzotti morì il Sig. Taddeo Principe di Gravina che era qui venuto a villeggiare. Fu trasportato in questa arcipretale con quegli onori che si convenivano alla sua stirpe principesca. La sua sepoltura fu da una parte nella cappella della B. V. del Bon Gesù. 

A Bologna sabato 12 ottobre alle ore 3 di notte fu sparata proditoriamente una archibugiata nella schiena a messer Nicolò Fiegna noto mercante di Castel S. Pietro e subito cadde morto. Abitava in Brochindosso nella cui strada fu commesso il delitto mentre andava a casa con un suo piccolo figliolo. Per un tal fatto la città si preoccupò molto che in essa vi fossero sicari che insidiavano la vita ai galantuomini.

Per avere l’assassino, le porte della città stettero serrate sei giorni e furono imprigionati molti sospetti. L’autore fu Orazio Caprara di Castel S. Pietro il quale fu appoggiato da Paolo Freddi da Vedrana che era con lui quando commise il delitto e lo aiutò a fuggire, calando una corda dalle mura. Il Caprara riuscì a fuggire ma il Freddi fu preso.

Morirono in quest’anno 1613 in Castel S. Pietro e suo comune 121 creature.

Il primo gennaio 1614 entrò Massaro per il primo semestre Domenico Gianini. Podestà fu Bernardino Marescotti.

Il 4 gennaio Giovanni Comelli di Castel S. Pietro fu addottorato in medicina a Bologna.

Il 31 gennaio nacque Ottaviano Cavazza, proavo di me Ercole Cavazza scrivente le presenti memorie, suoi genitori furono Orsola Cantini e Francesco Cavazza.  

Galicella dei Signori di Ceruno, moglie del capitano Giovan Battista Fabbri senior, morì per un colpo apoplettico e molto vecchia nel mese di marzo.

Giovanni del Poggio da Castel S. Pietro, ladro famoso, aveva rubato frumento della provvista pubblica che si teneva in questo luogo. Sabato 19 aprile fu impiccato a Bologna. Costui fu il primo che fosse appeso alla forca, mentre per l’addietro fino al 1604 si appiccavano i malfattori nei finestroni della Ringhiera del Podestà in faccia a S. Petronio. Questa Ringhiera si chiamava popolarmente l’Orto della Lazarina, moglie di un carnefice, poiché teneva su quella ringhiera i suoi vasi coi fiori.

Lunedì 14 maggio cominciarono le Rogazioni di M. V. di Poggio Non mancarono i tumulti poiché i Brizzi di Corvara e i Ravaglia di Casale vennero a rissa con i Suzzi di Castel del Rio e i Ridolfi di Tossignano. Fecero alle archibugiate entro il Castello. Durò la baruffa per un’ora, poi, per evitare ulteriore scompiglio, si interposero i paesani di Castel S. Pietro. Coll’intervento dei Fabbri, i Suzzi furono riparati nel Convento di S. Francesco. Questi poi il sabato seguente furono scortati fino ad Imola e da qui inviati a Castel Bolognese. Per evitare la strada di Casale salirono le montagne opposte fino a Tossignano. In questo conflitto nessuno rimase ferito, quantunque le parti fossero assetate di sangue.  Ciò fu attribuito a singolare grazia di M. V. di Poggio.

Il primo luglio 1614 entrò Massaro per il secondo semestre Gaspare Antonelli e Podestà il Caval. Fabio Agodia, il suo not. fu Alberto Rosa.

Il 12 settembre partì da Bologna il card. Legato Barberini e il 17 d. arrivò il nuovo Legato card. Luigi Caponi fiorentino.

Il 25 settembre il card. Alessandro Lodovisi arcivescovo di Bologna fece in persona la sua visita pastorale a Castel S. Pietro. Aveva per suo segretario visitatore Lodovico Gozzadini. Niente di particolare decretò se non che la chiesa dell’Annunziata e l’Ospitale dei Pellegrini fossero esternamente tinti di color rosso nelle pareti per distinguerli dalle altre costruzioni.

Riferisce Emilio Aldrovandi che al principio di ottobre si cominciarono a sentire bande di banditi, malviventi e fuorusciti per il contado quindi in varie terre furono stabilite guardie militari. In conseguenza di ciò ritroviamo negli atti della Comunità la esistenza in questo Castello di un piccolo corpo di Corsi alla guardia del paese e degli intorni.

In quest’anno 1614 ritroviamo solo ottantasette persone morte nel Lib. Mortuor.

Entrò Massaro l’anno seguente 1615 per il primo semestre Alessandro Ruggi, il Podestà lo ignoriamo.

Le Rogazioni di M. V. di Poggio che caddero il lunedì 24 maggio furono disturbate, a causa del mercato, da una fierissima baruffa fra i fratelli Morara di Casalfiumanese e gli Agnoli di Tossignano a motivo della bracciadella qui portata per la vendita. Tuttavia nessuno restò offeso essendosi interposta la guardia dei Corsi che dispersero il tumulto.

Il 18 giugno giorno del Corpus Domini si alzò un impetuoso vento con turbini che atterrò alcuni merli della torre presso la porta maggiore del Castello, alcune persone rimasero colpite ma senza danni pericolosi.

Il primo luglio entrò Massaro Domenico Simbeni, Podestà furono nel P.S. il Conte Francescotto Manzoli e per il S.S. Fabio Gozzadini.

Margarita di Valerio Fabbri, giovane esemplarissima, passò dal secolo alla religione domenicana a Imola col nome di Virginia. Spiccò molto nella modestia in quel convento non alzando mai gli occhi verso qualunque oggetto che le veniva presentato anche dai genitori, onde da quelle monache riportò il sopra nome di Suor Modesta. Visse tanto religiosamente che fu specchio di esemplarità alle sue coetanee.

Il 15 novembre Il Senatore Giovanni Angelelli, nominato ambasciatore al Papa, partì per Roma e pernottò a Castello in casa Malvasia, la mattina del 16 partì e fu accompagnato fino ad Imola.

Per le molte piogge aveva patito il nostro ponte sopra il Sillaro.  Il Governo lo riparò l’anno seguente 1616 con una spesa non indifferente.

1614 – 1618. Rogito per l’enfiteusi del suolo della rocca ai Morelli, condizioni. Passaggio di truppe napoletane per la guerra del Monferrato. L’ospizio dei frati Minori Osservanti dichiarato Convento.

Massaro per il primo semestre 1616 fu Domenico Giannini. Podestà per il primo semestre fu il Conte Alessandro Barbazza e per il secondo Gian Giacomo Bolognini.

Pretendeva l’arciprete Cuzzani che gli uomini della Comunità, quando intervenivano alle predicazioni di Quaresima o dell’Avvento nella arcipretale dovessero tenere il loro banco più basso, senza predella, come gli altri banchi della alla popolazione. Ricorse la Comunità all’arcivescovo per essere mantenuta nella consuetudine. Il Cardinale il 26 gennaio ordinò che si osservasse il solito cioè che il banco comunitativo fosse su una pedana come quello dell’arciprete.  

L’arciprete replicò che ciò non era conveniente alla sua dignità. Nacquero per ciò amarezze. Fu fatto di nuovo sapere al cardinale la ripicca dell’arciprete. In seguito fu concordato che il banco comunitativo avesse la predella ma più bassa di quella dell’arciprete, tuttavia più alta delle pedane delle altre panche della popolazione.

Essendosi poi riparato il ponte sopra il Sillaro con la spesa di 910 lire, il Senato decretò il 28 giugno che tale spesa fosse ripartita alle comunità soggette a Castel S. Pietro.

Fu anche in questo tempo accomodata la scuola pubblica di Grammatica ed Umanità. 

 Il primo luglio 1616 entrò Massaro per il secondo semestre Rocco Andrini.

Sebastiano e Morello Morelli avevano ottenuto dal Senato l’anno 1609 l’investitura enfiteutica del suolo ove era la Rocca grande del Castello. Per ciò il 30 dicembre 1616 fu stipulato, a rogito di Valerio Panzachia, il documento di concessione sotto le seguenti condizioni: 1° – Che si pagassero annualmente 5 lire dai Morelli o loro successori alla Cassa pubblica in Camera del Reggimento. 2° – Che di 29 in 29 anni si rinnovasse il contratto. 3° – Che lo Stato rimanesse libero, occorrendo per ragioni di difesa, di modificare le costruzioni erette sullo stesso suolo, rimanendo ai Morelli i materiali. Infine, in caso di mancato pagamento per anni tre del canone, sarebbero incorsi gli enfiteuti alla decadenza della locazione e al pagamento del doppio dei canoni arretrati

Il terreno, ove era la Rocca e il fossato di contorno, su cui fu fatta la concessione era di piedi 149 e mezzo in lunghezza, e in larghezza 63 piedi, misura di Bologna.

È d’avvertire che in questa concessione di suolo non fu compresa il suolo occupato dalla torre che era di fronte alla piazza e i cui fondamenti si vedono congiunti al fabbricato dei Morelli e nella superficie del selciato. 

Così pure non vi entrò la torre ed il baluardo rotondo che sporge in fuori dalla mura del Castello dalla parte di ponente ove la Comunità vi ha fatto un comodo per un inquilino.

Anno 1617.FuMassaro nuovamente Alessandro Ruggi. Podestà furono Camillo Bonfiglioli e Lucio Beccadelli.

Per l’addietro quando si trovavano neonati nelle strade, talvolta quasi morti, erano portati alla ruota dell’Ospitale nel Borgo. Perché poi non si trovava chi li aveva abbandonati sia per punirli sia per farsi pagare le spese, si pretendeva che fosse la Comunità a pagare. In seguito, come risulta dalle carte, fu addossata questa spesa alla Compagnia dell’Ospitale di S. Caterina

Sabato 28 aprile, l’immagine di M. V. di Poggio, non ostante la dirottissima pioggia, fu portata a Castello per le Rogazioni. Il 30 aprile si cominciarono le processioni che furono fatte colla maggiore devozione possibile stante i torbidi che c’erano nella Lombardia. Lo scontro era tra il duca di Savoja e il Duca Gonzaga di Mantova, alleato col Duca di Modena sulla questione della successione per il Monferrato. Si erano impegnate anche le Corone fuori d’Italia. La Savoja era appoggiata dalla Spagna e Napoli, il Duca di Mantova aveva per protettore il Re di Francia[89].  Quindi si attendeva l’arrivo di soldatesche come difatti avvenne.

Perciò, prevedendo problemi, il giorno 3 maggio, festa della Ascensione, data la benedizione al popolo colla S. Immagine, fu tostamente e con somma fretta portata alla sua residenza.

Appena partita, cominciarono ad arrivare cavalleria e fanti provenienti da Napoli, spediti dalla Spagna al Duca di Savoja in numero di 3.000 combattenti tutti bene armati di fucili ed armi da taglio.

Il Papa che vedeva in pericolo i suoi Stati non meno che l’Italia tutta, emanò un amplissimo Giubileo eguale ai Giubilei degli Anni Santi per impetrare da Dio la pace.

Il 3 agosto 1617 nacque Don Francesco Fabbri figlio di Valerio Fabbri e di Francesca Ceruni, essendo Massaro Nicolò Topi.

Nello stesso mese di agosto Domenico Molinari, che poi passò militare sotto l’armi imperiali a Trieste in qualità di sergente capitano, sposò Antonia di Paolo Garalti e il 15 ottobre Battista Cavazza di Castel S. Pietro sposò Perpetua di Battista Avoni. Questi, essendo uomo consumato nella professione di idrostatico, passò nel ferrarese e poi nel veneziano l’anno 1620 al servizio dei signori Pepoli ove alla Palata diede prove del suo talento.

Il 23 agosto partì di Bologna il Vice Legato Girolamo Besio milanese a motivo delle presenti guerre.

Il 5 settembre morì messer Pietro Magitelli di Castel S. Pietro in questa sua patria. La sua famiglia contava cinque secoli circa di domicilio in codesto luogo. Fece testamento e lasciò alla Compagnia del SS.mo SS.to  200 lire con obbligo di una messa settimanale.

Il deposito di Tadeo Orsini Principe di Gravina, che fino a questa epoca era stato conservato nella cappella della B. V. del Bon Gesù nella parrocchiale, fu aperto e le ossa furono portate a Roma. Questa esumazione fu fatta con ordine pontificio come si rileva dalla ricevuta fatta all’arciprete nell’archivio di questa parrocchiale.

I Morelli avevano terminata la fabbrica della casa nella piazza pubblica sopra il suolo ove era la rocca.  Per renderla maggiormente gradevole lo fecero colorare di rosso e dipingere i contorni alle finestre all’uso di quei tempi e successivamente posero, nel mezzo alla facciata, le armi del pontefice, del card. Legato, del Senato e del vice Legato. Una iscrizione coi termini della enfiteusi fu poi maliziosamente levata dai gesuiti perché non restasse a notizia dei posteri il diritto del pubblico sopra questo suolo.

Le persone morte in quest’anno 1617 in Castel S. Pietro furono sessanta.

L’anno 1618 entrò Massaro Gaspare Antonelli. I Podestà furono il Conte Zambeccaio Zambeccari e Giovanni Benini.

Il giorno 28 aprile furono giustiziati a Bologna sei banditi capitali che andavano alle case a rubare la roba, incatenando le persone, battendole inumanamente e talora togliendole la vita. Fra questi c’era Lodovico Dalmonte con altro suo compagno di Castel S. Pietro, i loro patiboli furono le finestre del palazzo pubblico.

Per onorare maggiormente le Rogazioni di M. V. che caddero il 21 maggio la Comunità di Castel S. Pietro oltre a confermare la donazione alla Compagnia del SS.mo di 50 lire in perpetuo, decretò che in avvenire si facesse nella pubblica piazza del Castello un alto palco ove la S. Immagine, vista da tutta la popolazione, desse dall’alto la S. benedizioni. Fu pagato annualmente all’artefice uno scudo romano.

Petronio Zoppi di Castel S. Pietro fu fatto capitano di truppe di linea pontificie e passò questo anno per capitano dei veneziani nella Dalmazia, poi passò al servizio dei lucchesi nelle loro guerre.

Nel principio del secondo semestre di quest’anno 1618 entrò capo della Comunità Alessandro Ruggi per la prima ed ultima volta.

Il calmiere del grano per la mediocre raccolta fu fissato a lire otto la corba

L’11 settembre la Compagnia di S. Sigismondo di Bologna con 50 confratelli venne a Castel S. Pietro in pompa con musica e strumenti da viaggio. La mattina del 12 andarono ad Imola a visitare il corpo del loro santo protettore. Il loro ritorno fu il 13 ed entrarono a Castel S. Pietro col loro stendardo inalberato essendo stati prima incontrati alla chiesa di S. Giacomo al ponte sopra il Sillaro dalla Compagnia di S. Caterina. Poi con l’arciprete e col clero, cantando salmi, furono introdotti nella arcipretale alla visita del SS.mo.  Quindi andarono a riposarsi alla chiesa di S. Caterina, ove coi loro musici si cantò il Tedeum, terminato il quale seguì una copiosa sparata di mortaretti.

Il 29 settembre 1618, giorno di S. Michele, morì Mattia padre di Vincenzo Mondini, uomo chiaro nelle lettere.

Il 28 ottobre 1618 sotto il provincialato di Padre Macolino da Brisighella, detto da Faenza, in una congregazione provinciale (essendo Presidente apostolico il Padre Ottaviano d’Ancisa), tenutasi nel convento dell’Annunziata di Bologna, fu dichiarato Convento questo ospizio dei M.O. di Castel S. Pietro col mantenervi dodici religiosi. Sotto il ministero di quel Presidente apostolico furono eretti anche in Conventi gli ospizi di Fiorenzuola e Gualtieri. Serve questo nostro convento di Castel S. Pietro molto al comodo dei passeggeri.

In questo anno 1618 i morti nella parrocchia di Castel S. Pietro ascendono a 105.

1619 – 1622. Miracolo del carrettiere travolto, Feste per elezione del bolognese Ludovisi a pontefice col nome di Gregorio XV. Rissa durante il tradizionale festeggiamento delle Contesse.

L’anno 1619 entrò Massaro Nicolò Zoppi per il primo semestre. Podestà fu Ercole Amorini.

La mattina di lunedì 26 maggio mentre si faceva la processione delle rogazioni colla B. V. di Poggio per il Castello, Pietro Cavalazzi di Castel Bolognese ingombrava col suo carro la strada. Fu ammonito a sgombrare onde passasse con la processione la S. Immagine, costui ricusò ingiuriando chi l’ammoniva. Quando la S. Immagine fu appresso alla Rivazza ove era il carro, il cavallo si diede alla fuga. Volendolo fermare il Cavalazzi cadde sotto al biroccio e fu trascinato fino sotto la porta del Castello ove si fermò lasciandolo gravemente offeso. Risultò comunque che in questo caso nessuna altra persona restò offesa.

Ravvedutosi lo sventurato della sua poca venerazione, fu portato nella locanda vicina del Moro per essere curato. Chiese con fervore perdono a M. V. e quando la S. Immagine partì dal Castello il giorno della Ascensione, egli si sforzò di correre alla finestra per vederla e, fra calde lacrime, si raccomandò ad essa. Dopo poche giornate ritornò sano al suo paese. Ogni anno finché visse venne, sempre il lunedì delle Rogazioni, a visitare la S. Immagine ed accompagnarla processionalmente con lume ad edificazione di chi l’osservava.

Il 4 giugno la Contessa Elena, figlia del Conte Giacomo Pepoli e della signora Smeralda Querciola, bolognesi, nata alla villa Gajana, detta ora Palazzo Coccapani, fu battezzata con grande onore in questa arcipretale di Castel S. Pietro. Fu portata al Sacro Fonte dal sig. Girolamo Merighi imolese e Caterina Broselli.

Domenico Simbeni il primo luglio 1619 entrò Massaro. Podestà fu il cavaliere Lorenzo Melara.

Il 17 agosto morì Giulio Orsolini medico condotto di Castel S. Pietro. Questi si era reso, per la sua dottrina, beni di fortuna, nascita ed ottima educazione, tantissimo gradevole a chiunque.  Stabilì i suoi discendenti nel paese e si fece una comoda abitazione nella piazza di S. Francesco, detta anche piazza di Saragozza in faccia alla chiesa, formante angolo nella svolta che porta ai palazzi Locatelli e Malvasia. Qui ai primi anni del 1700 il principe Galeotto Pichi, fuggiasco dalla Mirandola, fabbricò la sua abitazione. Passò tale casa per testamento ai Padri Gesuiti di Bologna quindi ai fratelli Antonio, Alessandro e Pietro Sarti.

Il 19 agosto morì pure il dott. medico Giovanni Comelli di Castel S. Pietro a Bologna e fu sepolto in S. Vitale.

In questi giorni viveva Domenico Gavoni, uomo assai temuto per essere manesco con tutti a cui il popolo gli mise il soprannome Manesco. Delle sue azioni sono pieni gli atti criminali di ogni luogo, atti che noi omettiamo per essere scandalosi.

Il 24 settembre i due fratelli Marc’Antonio e Flaminio Campana oriundi di Castel S. Pietro, discendenti del famoso Alessandro Campana e da Vespasiano Campana, essendo sempre vissuti senza moglie, fecero venire a Bologna da Cremona a loro spese quattro monache.  A loro assegnarono per convento una casa in strada S. Stefano e, perché si vestissero, donarono al convento una entrata di 200 scudi annui. La chiesa fu dedicata a S. Gabriele Arcangelo.

Il 20 ottobre fu fatto il calmiere al grano di 9 lire la corba.

Il 19 novembre fu impiccato a Bologna Francesco Lasi di Castel S. Pietro e Michele Angiolo Montanari imolese. Il primo non si poté mai comunicare non ostante che desiderasse di farlo e pregasse il sacerdote. Infatti quando questi gli appressava la particola alla bocca gli si inchiodavano i denti. Si ragionò che ciò accadesse poiché, avendo rubato delle pissidi col SS.mo, egli avesse ogni volta sacrilegamente ingoiate le ostie.

Siccome nel Consilio di Castel S. Pietro vi mancavano alcuni consiglieri così il 27 dicembre 1619 furono eletti Bartolomeo Cuzzani, Innocenzo Fabbri, Gaspare Pirazzoli e Giovan Battista Baldazzi. Quindi gli uomini che componevano la Comunità erano i seguenti, in ordine di anzianità, Giovanni Annesi, Domenico Simbeni, Fioravante Tomba, Flaminio Comelli, Rocco Andrini, Sante Santoni, Benedetto Mengoli, Nicolò Topi, Vincenzo Mondini, Domenico Gianioni, Alessandro Ruggi, Gustavo Antonelli, Bartolomeo Cuzzani, Innocenzo Fabbri, Gaspare Pirazzoli e Giovan Battista Balduzzi.

Quest’anno Matteo Mondini fu addottorato in Legge a Bologna, per la sua dottrina poi fu eletto aiutante della pubblica Segreteria della stessa Città.  Pubblicò colle stampe un libro intitolato: Informazioni politiche morali, o siano assetti civili per chi da Genio è piegato alla Corte. Ne abbiamo la stampa fatta in Bologna per il Barbieri in 12°. Alla fine del libro vi sono 50 epistole dirette ai 50 Senatori di Bologna. Oltre questi opuscoli si ritrovano altre composizioni stampate in carte volanti ed in raccolte di poesie latine e toscane. Ebbe fra gli altri figli un figlio naturale che fu uomo ancor esso di dottrina, laureato in filosofia e medicina nella Università di Bologna. Questi andò nel grande ospitale di Firenze dove, con singolare onore, fece l’ufficio di Astante molto tempo e portò la palma di eccellentissimo fra gli altri suoi colleghi. Tornò in patria chiamato dalla Comunità dove morì l’anno 1717 in età cadente, dispiaciuto da tutti.

l’anno 1620 entrò Massaro Alessandro Ruggi e Podestà Filippo Caldarini.

Il 2 febbraio, giorno della Purificazione di M. V., fu pubblicato un Giubileo per due settimane, ordinando il Papa delle processioni di penitenza per ottenere da Dio misericordia nelle presenti contingenze di guerre ed epidemia.

Nel mese di marzo il sig. Antonio Tita di Bologna sposò in questa parrocchiale la sig. Bianca di Francesco Gavoni di Castel S. Pietro.

Fatte le Rogazioni di M. V. di Poggio al momento di riportare la S. Immagine alla sua residenza sopraggiunse una dirotta pioggia che incessantemente durò fino alla domenica in cui fu portata via solamente la sera. Nel tempo che stette qui fu molta l’affluenza a visitarla di mattina e sera.

Il venerdì prima della sua partenza, discendendo lo scalone dell’oratorio del SS.mo, due fanciulli correndo rotolarono addosso a Costanza Astorri che cadde lungo tutta la scala. Avrebbe potuto morire sul colpo ma invocò M. V. e si slogò solo la spalla sinistra, la mano destra e si ferì al capo. Riconoscendo la pericolata essere stato un miracolo della B.V. non usò altro rimedio che l’unzione delle parti offese coll’olio acceso davanti alla S. Immagine.  Poi fece il voto, se perfettamente guariva, di andare tre sabati scalza alla visita a Poggio. Tutto le riuscì felicemente e guarì in meno di un mese.

Il primo luglio 1620 entrò Capo della Comunità Gaspare Antonelli, Podestà fu Giacomo Prati e suo notaio Giovan Battista Cesari bolognese.

La raccolta fu scarsa ed andò il calmiere a 10 lire.

Il 19 ottobre l’arcivescovo Lodovisi rinnovò la sua visita pastorale in Castel S. Pietro con il canonico Lodovico Bonfiglioli per Visitatore. Ordinò che i conti che tenevano i borghigiani della chiesa dell’Annunziata si dovessero rendere all’arciprete. Fu restaurato quest’anno pure l’altare di S. Michele, ove ora è la cappella del Rosario e vi sta il dipinto con M. V. e S. Domenico, opera dell’egregio Orazio Samacchini. Quest’altare era jus patronato della famiglia Rota, in esso vi fu eretto un beneficio laicale. Tal beneficio divenne poi jus del signor Cesare Gnitti, altra famiglia originaria ed antica di Castel S. Pietro che poi si stabilì a Bologna. Per questo beneficio, che ora si gode dall’arciprete Don Bartolomeo Calistri, vi sono state molte liti.

Quest’anno fu laureato in utroque Domenico Comelli di Castel S. Pietro. Fu del Collegio dei Giudici ed avvocato in Bologna, fondò il Collegio Comelli l’anno 1663 in strada Maggiore a Bologna.

 La sua abitazione a Castel S. Pietro era quella che al presente esiste presso l’imboccatura del chiavicotto maestro che riceve dalla via maggiore le acque pluviali del Castello e dietro confina con altra casa del suo parente Nicolò Comelli. Il sig. Sebastiano Morelli morì quest’anno in Bologna. Avevano questi Morelli la loro sepoltura nella chiesa di S. Stefano.

Estratto per capo della Comunità Benedetto Mengoli per l’anno 1621, prese il possesso il primo gennaio e il 9 Ercole Bonfiglioli, Podestà estratto, fece lo stesso.

Su la fine di gennaio fu sospeso il carnevale per la grave infermità del Papa Paolo V, che il 28 gennaio finì la vita. Andarono perciò a Roma il Legato e l’arcivescovo. L’11 febbraio giunse la notizia della elezione del nostro arcivescovo Ludovisi come sommo pontefice che prese il nome di Gregorio XV.

Appena giunta la notizia la plebe si recò in piazza gridando Viva Casa Lodovisi!! Si oppose, con gli sbirri, il Bargello col suo caporale, detto Sfregino. Questi furono respinti e si rifugiarono nel vicino palazzo del Podestà. A tal rumore si affacciò alle finestre il vice Legato monsignor Francesco Nappi e gridò che andassero a casa i manifestanti. Il popolo intese che si andasse alla casa del Bargello, vi andò la gleba e ne accadde perciò il saccheggio e la rovina. Alle case fu tutto levato per fino le porte, usci e finestre.

Alla notizia del nuovo Papa bolognese si fecero da per tutto festeggiamenti. A Castel S. Pietro i Fabbri, i Ramazzotti, gli Scasilioni e i Comelli fecero gettito di pane e danari alla plebe del paese. La sera del 28, mentre si faceva un gran falò nella piazza, si levò un gran vento che trasportando faville di fuoco appiccò le fiamme alla vicina casa dei Morelli ma fu subito dal popolo spento la mattina seguente.

In quest’anno la Compagnia del SS.mo fece per la prima volta la Prioressa per le funzioni e fu Priora la signora Francesca Fabbri Simoni, che diede per elemosine lire cinque.

Secondo il costume si faceva il primo giorno di maggio i festeggiamenti delle Contesse. Quest’anno i Ricardi e Cristoforo Ulivieri avevano per Contessa una fanciulla di sei anni posta sotto il portico della Comunità. Angiolo Michele Comelli aveva posto un’altra Contessa sotto il portico di Fabbri in faccia alla piazza. Era questa una fanciulla di otto anni circa, figlia di sua moglie Aurelia Fabbri. Da una parte all’altra le cantatrici assistenti si cantavano vicendevolmente strofe e cantilene. Gareggiando tra loro iniziarono a provocarsi e passarono poi alle contumelie.  Si risentirono gli Olivieri e i Ricardi e passarono essi alle offese contro i Fabbri e i Comelli.  Furono abbattuti i palchi delle fanciulle e tanto fu il rumore che la metà del paese venne in scompiglio.  Per fortuna la notte portò necessariamente la calma e, benché le persone fossero armate, nulla accadde.

Era Egnazio Grassi un bambino di cinque anni, attaccato gravemente dal vajolo. La fantesca che lo guardava gli aveva dato per giocare varie monete di rame. Egli trastullandosi con esse ne ingoiò una, che fermatasi in gola gli tolse la voce. Per soccorrere il fanciullo furono chiamati dei professori di medicina che non riuscirono ad estrarla. I genitori erano disperati ma, poiché si trovava nel paese per le consuete Rogazioni la miracolosa Immagine di Poggio, ricorsero fiduciosamente ad essa.  Presentarono il fanciullo e fecero il voto ad essa che se l’avesse liberato l’avrebbero visitata per sei sabati alla sua residenza con la celebrazione ogni volta di un sacrificio. Fu tanta la fiducia in Maria che il fanciullo, innalzando gli occhi verso la S. Immagine, cominciò a starnutire così in uno di essi all’improvviso vomitò la moneta ingoiata. Riconosciutasi la grazia ed il miracolo di M. V. portarono il voto e compirono la loro obbligazione. Questa grazia come le altre successive, lasciateci scritte da Don Giulio Alberici custode della S. Immagine a Poggio, le riporteremo alle sue epoche sopra tutto quelle accadute a Castel S. Pietro.

Fattasi scarsa la raccolta fu elevato il calmiere del grano a 12 lire la corba.

Il primo luglio 1621 entrò Capo della Comunità Nicolò Topi e per Podestà Andrea Ghissardi.

Francesco Maria Graffi maritò sua figlia Polissena con Sante Sassatelli oriundo imolese e di ceppo spurio dei Conti Sassatelli. Abitavano questi Sassatelli nel Borgo di questo Castello ed erano di sufficienti sostanze.

I frati Eremitani dell’ordine di S. Agostino del convento di S. Bartolomeo erano memori delle beneficenze avute dalla famiglia Marini e particolarmente da Marino Marini. Questi ultimamente gli aveva fatto ornare l’altare maggiore della loro chiesa con un quadro dipinto da Giacomo Cavedoni, eccellente pittore bolognese.  La tela rappresentava al centro S. Agostino, S. Monaca e M.V. in gloria, sotto l’angelo Michele che preme il demonio ed ai lati S. Marino Diacono e S. Bartolomeo Apostolo. I frati gli dettero i segni della loro riconoscenza apponendo nel loro coro una lapide incisa su macigno in ricordo.

I padri fecero poi, però a spese del convento, la cornice al quadro, di legno intagliato e profilato d’oro, spendendo duecento lire di Bologna.

Morirono quest’anno 1621 nella parrocchia di Castel S. Pietro 99 creature.

L’anno seguente 1622 entrò capo della Comunità Flaminio Comelli per il primo semestre. Furono Podestà del Giovanni Angelelli e Camillo Gessi.

La carica di prioressa della Compagnia del SS.mo in questo Castello era diventata così onorifica a motivo delle Rogazioni e del bene spirituale che in esse si faceva, che per fino le dame nobili bolognesi ambivano investire tal carica. Fu perciò quest’anno scelta la nobil donna Caterina Malvasia di Bologna della stirpe senatoria, la sua prima compagna fu la signora Leona del Conte Ramazzotti, seconda compagna la signora Lucia Ricardi.

Perché questo paese è il luogo più ameno del bolognese ed è situato in mezzo la Provincia degli Agostiniani, detta volgarmente di Lombardia, così il 15 aprile 1622 fu fatto il Capitolo Provinciale in questo convento di S. Bartolomeo, essendo in esso priore il Padre baccelliere Marino Marini, nazionale. Fu eletto Provinciale il Rev. Padre Paolo da Bologna, essendo Generale dell’Ordine il Padre Fra Fulgenzio da Monte Giorgio. Infine, a pieni voti segreti, fu confermato priore di questo convento il detto Padre Marini.

Questo fu il primo Capitolo provinciale degli agostiniani della Provincia di Lombardia fatto nel convento di S. Bartolomeo di Castel S. Pietro.

Il 13 maggio la signora Taddea Calderini nobile di Bologna, moglie di Alessandro Serpa di Castel S. Pietro, prese possesso dei beni ereditari e specialmente della casa esistente presso la canonica di questa arcipretale.  Sulla facciata di questa casa, in alto si vede lo stemma degli Serpa inciso su macigno rappresentante un biscione. Questa famiglia illustre di Castel S. Pietro, antica e ricca restò poi totalmente estinta. Tutti i beni passarono alla senatoria famiglia Calderini.

A Bologna continuamente si sporcavano le immagini di M. V., di Cristo ed altri Santi e si scrivevano sotto improperi e diverse iniquità di eretici. Nel corso di sei anni a questa parte non si erano potuti scoprire, anche mediante taglie e premi agli accusatori, gli autori di questi atti. Perciò il vescovo ordinò che si facessero orazioni nella diocesi e nel contado per scoprire i malfattori.

Quindi in Castel S. Pietro si fecero processioni di penitenza dai Battuti di S. Caterina, dalla Compagnia del SS.mo e dai francescani colla esposizione del SS.mo nella parrocchiale per tre sere continue.

Racconta il Padre Gian Lorenzo Vanti nelle sue memorie che il giorno 5 aprile un certo Petronio Scarabella del Medesano, calzolaio di ventura ed ambulante detto per soprannome Scaramuzzo, famoso giocatore, dopo avere perduto tutto il danaro in una bettola stava andando disperato verso casa sua sull’imbrunire tenendo la via della Madonna di Poggio. Quando fu verso la chiesa della B. V. sull’ora di notte lo prese per la gola un uomo grande. Questi tentò di soffocarlo, ma quando gridò ajuto Maria! ajuto! l’assalitore sparì lasciandogli dei grandi lividi.    

Poiché c’era una grande carestia si fece in questo tempo il pane con una mistura di fava e mistochine[90] di miglio. Si vendeva il pane di fava due quattrini l’oncia e così un bajocco ogni pane che era di tre once ed il calmiere non era rispettato.

Il 22 giugno si sentì scuotere la terra per tutto il giorno, sopra tutto in Romagna.

Il primo luglio 1622 entrò capo Massaro Domenico Giannini, il Podestà non ci è noto.  

Il 23 luglio Carlino Varani da Lojano, Sabatino Quartieri da Castel S. Pietro, Giovanni Paolo Nardi da Casalecchio de Conti e Nicolò Montanari, assassini di strada, furono impiccati, squartati e i loro quarti furono mandati ai luoghi dei loro delitti. Questi delinquenti agivano nelle nostre vicinanze e nelle larghe di Maggio, commettevano grassazioni poi si nascondevano nelle grotte di Casalecchio e Varignana ed in altri luoghi della nostra collina.

Furono pure scoperti i malvagi che sporcavano le madonne e gli fu data la pena che meritavano.

Il 28 luglio suor Orelia Ronzani di Castel S. Pietro terziaria di S. Francesco morì in questa sua patria santamente nella casa di messer Batista Forni e fu sepolta in S. Francesco.

In Bologna morì nelle Monache di S. Maria nuova suor Marina Amorati, conversa oriunda di Castel S. Pietro, che fu buona serva di Dio e di grande dedizione alle orazioni. Le sue ginocchia erano incallite come quelle di un cammello.

Il 21 settembre morì Vincenza Calcina terziaria di S. Francesco dei Minori Osservanti, abitava nel Borgo, fu sepolta in S. Francesco. Si vede da questa memoria che in questo paese esistevano monache francescane terziarie le quali erano coltivate da questi Padri Minori Osservanti.

Il 6 ottobre il sig. Morello Morelli, che fabbricò la casa nella piazza maggiore, morì qui in casa propria ma poi il suo corpo fu portato a Bologna per seppellirlo nell’avello dei Morelli in S. Stefano.

Il 9 ottobre Antonio Poggi di Corvara, giovine di anni diciotto, fu ucciso con archibugiate a Castello.

Il 13 Francesco Calanchi detto Sparaviere, uomo vecchio ma turbolento, morì alla Boldrina, fuori del Borgo, con morte acceleratagli dai suoi figli con una bevanda.

Il 23 novembre messer Matteo Tomba fu ammazzato nel Borgo con una archibugiata dal Paniga e fu sepolto in parrocchia.

I morti di quest’anno 1622 furono 124.

1623 – 1628.  Il Conte Ramazzotti dona il terreno per fare il convento dei Cappuccini all’inizio di Via Viara, piantata una croce. Iniziano contrasti tra congregazioni sulle precedenze nelle processioni. Cresce il timore della pestilenza. Iniziano i lavori per la costruzione del convento dei Cappuccini.

Giunto l’anno 1623 entrò Massaro per il primo semestre Benedetto Mengoli. Podestà furono Luigi Rossi e Bartolomeo Lambertini.

Lucia di Mariano Sega si sposò con Domenico Corolupi, la prima era di una famiglia antica del paese. Da questa presero il nome i fondi che possedeva ed erano due possessioni una nel quartiere della Lama detta la Sega, in confine della possessione della Santa, l’altra era pure chiamata la Sega nel quartiere del Gaggio lungo la via che va a Medicina, infine un altro fondo nel quartiere Lama di nome la Casetta dei Sega. La Famiglia Corolupi è anche essa antica del paese sebbene il detto Domenico dopo poco andò nel Medesano, dal quale ne venne poi Sante Corolupi, che fu uditore del Card. Banchieri a Ferrara, ed ultimamente Vicario generale nel vescovato di Bologna.

La città e il contado si trovavano afflitti da una grave carestia di viveri, da infermità ed altri mali che provocavano i malvagi. Il suffraganeo di Bologna Mons. Angelo Gozzadini fece supplica al Papa onde concedesse una assoluzione generale e una benedizione apostolica. Aderì il Papa con amplissima indulgenza ed il tutto fu concesso. Mons. Gozzadini il 26 febbraio ordinò, tanto alla Città che al contado, che, sentito lo sparo del cannone e il suono di campane, ogni cattolico dovesse inchinarsi e avrebbe ricevuto la indulgenza plenaria purché confessato e comunicato. Il che fu fatto prontamente.

Il 19 Marzo il terremoto si fece sentire spaventosamente in questo Castello e Borgo senza però fare danno agli edifici e alle persone.

La benedizione di cui sopra a Bologna era stata data in Duomo. A Castello fu eseguita la cerimonia nella pubblica piazza, luogo opportuno per la popolazione. Qui il Parroco, dopo breve e fervorosa esortazione, in nome del papa benedì tutti gli individui accorsi e le altre persone citate nel chirografo apostolico.

Il giorno primo maggio, seguendo lo stile antico di piantare il Maglio, i Tesei accompagnati da altri amici piantarono, la mattina sul far del giorno, il Maglio avanti la porta di Francesco Gattia per fargli lo scherzo più provocante. Questo Maglio consisteva in un grosso fascio di rami di sambuco e pioppo, che gli fu intrecciato davanti alla porta in modo che, volendo uscire di casa, dovette prendere delle persone per scioglierne l’intreccio. Questo fu poi il motivo che si perdette l’armonia e la buona amicizia fra queste due famiglie e ne vennero poi funeste conseguenze. 

Lunedì 22 maggio, primo giorno delle rogazioni cominciò una pioggia dirotta, che proseguì per tutto il tempo delle rogazioni.  Non si poterono effettuare le consuete processioni e tornò il sereno solamente il giorno della Ascensione, tanto che si diede la benedizione alla B. V.  e solo il sabato seguente fu trasportata a Poggio.

Il giorno primo luglio 1623 entrò Massaro Alessandro Ruggi e Podestà Bartolomeo Lambertini.

I frati francescani avevano alla sinistra della loro chiesa un piccolo vicolo, che la separava dall’orto Rondoni e conduceva fuori dal Castello. I Frati, per porre riparo al poco rispetto che ne veniva alla chiesa, diedero supplica alla Comunità per poterlo chiudere. Aderì la Comunità, fu portata l’istanza ad assenso al Senato,  che il 29 agosto 1623 fece il seguente decreto : (…) Che li padri facino un ochio uniforme alli altri del portico della loro chiesa, e facciano un Portone nel collochio, che chiuda attaccato allo spigolo della chiesa, e tirino la muraglia rimpetto alla colonna del portico unito a quello dell’orto Rondoni, e che si ristorino, e rissarciscano le mura del Castello principiando dalla porta di presente serrata di esso Castello per quanto dura il loro sito, itachè però servando d. mura in quella parte per clausura del loro convento, non si aquistino mai jus né possesso alcuno, ma restino sempre del pubblico, ed a tale significato debbano edificarvi l’arma del pubblico in macigno dentro e fuori delle mura, e colla espressa proibizione di non potere mai in alcun tempo aprire tale porta serata nella d. mura né farvi alcuna apertura senza espressa licenza del Senato. (…) Detta porta fu fatta nel 1447 e poi chiusa alla fine del secolo.

Don Alfonso Cuzzani si era ammalato a Bologna in casa di sua sorella Lucrezia Forni sotto la parrocchia di S. Lucia. Qui finì i suoi giorni il 15 ottobre e fu sepolto in detta Parrocchia.

Successa tale morte la Comunità il 18 ottobre a rogito di Calisto Fiorentini fece Procura per potere presentare Don Alessandro Gottardi. Seguirono poi atti giudiziali nel vescovato di Bologna all’ufficio di Agostino Albani.  Da questi atti si vede la facoltà attribuita alla Comunità dello Jus nominandi.

Il calmiere del grano fu fissato a 11 lire e mezzo la corba.

Provincia bolognese dei Cappuccini fondata l’anno 1553, era cresciuta fino ad avere 46 conventi fra di qua e di là da Bologna. Pensarono quindi alla fondazione del 47° convento presso C. S. Pietro per avere, per il continuo passaggio di frati da Imola a Bologna, un luogo ove riposarsi a metà di questo lungo percorso.

Comunicato ciò alle più importanti famiglie del Paese, cioè i Fabbri e i Ramazzotti, queste gradirono moltissimo tale pensiero. Il Conte Pompeo Ramazzotti offrì tre tornature di terra fuori porta Montanara, all’imbocco della via Viara, detta nei codici antichi Via Viarum e Via Cupa, che porta a Firenze.

Gradì la Religione una tale generosa elemosina. Fu chiesta pertanto la licenza al Card. Ludovico Ludovisi, arcivescovo di Bologna. Avendola ottenuta, fu piantata in detto luogo una croce grande di legno dal Padre provinciale Feliciano Lampugnani con grande solennità e concorso di popolo. La funzione fu accompagnata da una fervorosa e devotissima predica. Ma perché il terreno era poco per il convento ed un orto, si sospese l’inizio della costruzione.

Il giorno primo gennaio 1624 entrò capo della Comunità Rocco Andrini, e Podestà Bartolomeo Lugari.

Era rimasta vacante questa arcipretale fino dall’anno scorso per alcune problemi negli atti Albani ma poi il tutto si era composto e quindi fu fatta la nomina dalla Comunità nella persona del dott. Don Lorenzo Abè bolognese. Questi prese il possesso della Chiesa il 2 marzo 1624.

Il 24 marzo su le due di notte si sentì bene il terremoto per cui caddero molti caminaroli e le persone fuggirono dalle case.

All’occasione che si fecero le rogazioni della Madonna di Poggio il 13 maggio la Compagnia di S. Caterina, come la più anziana del Paese, pretese di levare ella la Santa Immagine dalla Chiesa della Annunziata. Si oppose la Compagnia del SS.mo SS.to come quella che era Padrona della S. Immagine e quindi della funzione. Cominciarono da qui i contrasti fra queste due congregazioni.

La S. Immagine fu portata nell’oratorio del SS.mo e qui rimase e non si poterono fare le consuete processioni dalla Compagnia poiché, temendo disordini, il nuovo arciprete Abè le fece fare col solo clero secolare e regolare, e poi tenne la B.V. nella Parrocchia per sicurezza. Terminate le funzioni la S. Immagine fu dal clero secolare restituita a Poggio e quelli della Compagnia del SS.mo poterono accompagnarla ma senza uniforme.

Il 3 giugno venne una grandine assai grossa, che schiantò alberi e viti. Il grano nelle nostre piane del quartiere di Granara restò sepolto per due giorni e fu perciò tagliato per mangime alle bestie. Ne conseguì molto freddo cosi che conveniva usare il mantello.

Il giorno primo luglio 1624 investì la carica di Massaro Alessandro Ruggi e Podestà fu Antonio Livi.

Si cominciò a temere l’arrivo di una pestilenza.

Mercoledì 31 luglio Giacomo Carrà di Dozza essendo in Castel S. Pietro, per non essere fermato da degli sbirri nel Borgo, si difese con uno stilo e ne uccise uno. Fu arrestato dagli altri e condotto a Bologna dove fu impiccato il 3 agosto.

In questo mese Flaminia di Valerio Fabbri si fece monaca domenicana in Imola. Assunse il nome di Suor Maria Teresa. Restò lì molti anni e fu specchio di umiltà ed esempio alle sue coetanee nelle orazioni, tanto che la chiamavano la santarella.

Nel mese di settembre Matteo Gardenghi sposò Lucia Costa. Questa famiglia Gardenghi, si era divisa in vari rami, uno di questi si portò in Roma, dove stabilitosi, Angiolo Michele fece una tale fortuna che divenne banchiere. Ebbe pure qui un prete di nome Petronio, che fu canonico e fece nel suo ultimo testamento diversi legati a favore delle femmine e dei maschi della sua parentela.

Si ebbero pure altri due matrimoni importanti nel paese cioè Elisabetta fu Vincenzo Mondini con Bonifacio Magnani, ed Ippolita del Capitano Giovan Battista Tomba con Andrea Comelli. Questo capitano Tomba fu al soldo in Corsica a S. Fiorenza in qualità di lancia spezzata[91] e capitano, poi passò al servizio dei mantovani nelle ultime guerre.

Stante le notizie funeste di pestilenza si cominciò a fare la guardia nei nostri confini con la Romagna.

A Castel S. Pietro c’era una generale aspettazione di vedere incominciare la fabbrica del convento dei Cappuccini che però veniva ritardata per la piccolezza del terreno. Francesco Ferraresi, ispirato da Dio, si offerse di vendere al Conte Ramazzotti un suo campo vicino a quello già dei frati, ma non si accordarono sul prezzo.

Il Conte Antonio Galeazzo Malvasia, che soggiornava continuamente nel paese, offrì un pezzo di terra di là dal rio della Scania. Questo non fu accettato per la sua distanza dal paese, benché fosse poca.  Ottone Fabbri offrì un altro pezzo di terra più vicino al Castello ed aderente alla Cella della Madonna detta della Scania sul lato del rio. Purtroppo la dimensione di questo terreno non era sufficiente. Accorse alla necessità il Senatore Francesco Bolognetti che donò gratis un pezzo di terreno unito a quello del Fabbri, cosi che uniti i terreni Fabbri e Bolognetti divenne il terreno bastevole.

Fatto il progetto, fu approvato dal Provinciale. Furono nominati come responsabili Padre Antonio Montecuccoli modenese, Francesco Manfredi da Reggio, Andrea Poggi da Castelbolognese, Bartolomeo Vecchi da Bologna e Giovanni Prò da Ferrara, tutti sacerdoti cappuccini, e fu deputato per fabbriciere il Padre Bernardino Bonfini da S. Felice.  Ma nemmeno questa volta si iniziò e andò in lungo per qualche tempo l’affare.

Il primo giorno di gennaio 1625 entrò nel posto di capo del Paese Bartolomeo Cuzzani e Podestà fu il Conte Prospero Bentivoglio.

Crescevano intanto i timori per la propagazione della pestilenza. Si facevano per ciò in ogni dove devozioni, orazioni ed atti di penitenza. A Castel S. Pietro non mancarono le Compagnie di S. Caterina e del SS.mo di fare tali processioni. I padri francescani diedero i maggiori esempi colle discipline e le predicazioni nella loro piccola chiesa. Il capitano Tomba fu destinato a fare la guardia, con alquanti soldati locali, ai confini della nostra collina verso San Martino.

Nell’archivio di questa Comunità al 1° libro dei Diversi si trova una pagina titolata:

 Avvertimenti per accrescere la rendita della Comunità di Castel S. Pietro.

1: affittare li terragli del Castello o siano terrapieni.

2: piantar mori intorno alla fossa.

3: che tutti li carra che entraranno in Castello cariche debbano pagare soldi 2 ciascuno, e li birozzi soldi 1 p. ciascuno; così le bestie da soma soldi uno.

4: che si fabbrichi un muro alla fonte della Fegatella, acciò niuno abbia aqua senza chiave.

5: che la rendita della Compagnia di S. Caterina si lasciano per una metà alla med. e l’altra metà si faccia un cumulo in far fondi per un monastero di citelle.

6: che si procuri un luogo per la fondazione di un convento a cappuccini.

Di questi avvertimenti, e progetti si vide la esecuzione solo per il primo, il secondo, il quarto e l’ultimo.

Il primo che fu realizzato fu quello della fontana, la quale fu subito circondata da un muro e vi si spesero lire 372 e soldi sei.

L’oratorio della Compagnia del SS.mo veniva frequentato dalla popolazione e i giorni festivi vi si cantava la mattina l’officio di M. V. ed il dopo pranzo il vespro. L’oratorio che era sprovvisto di inginocchiatoi e sedili, usandosi soltanto le panche, fu guarnito di spalliere, inginocchiatoi di noce di lato e di fronte all’altare. Tra i due finestroni corrispondenti alla via maggiore, si fece il posto per gli ufficiali maggiori della Compagnia detta Obbedienza. Le spalliere furono di noce come tutti gli altri lavori, che furono poi trasportati nella nuova chiesa nella piazza, come ora si vedono.  Nel muro, sopra e di fianco alle spalliere, furono dipinti ad olio, per mano di Domenico Dalfoco, alcuni simboli ed emblemi relativi al Sacramento. In alcuni luoghi ed intercapedini vi dipinse anche i Miracoli del SS.mo. Di questi dipinti se ne vedono tuttora frammenti nelle pareti che servono da fienile all’arciprete Calistri.

In questa epoca crebbero le inimicizie mortali fra i Ramazzotti, i Fabri ed altri da una parte e dall’altra con Giovanni Andrea Anessi, che finì funestamente i suoi giorni ammazzato dai Fabri, che furono poi banditi per la vita.

La Religione cappuccina, che era stata invitata da questa popolazione e benvenuta, riconosceva che se si stabiliva in questo luogo, non poteva che scarsamente vivere se, secondo le Costituzioni apostoliche, Canoni e Sinodi, si avrebbe dovuto formare una famiglia di dodici individui per convento. Ricorse perciò alla Congregazione dei vescovi e regolari esponendo la necessità di fondare qui un convento ove non si potevano mantenere che dieci individui per la sua situazione e perciò imploravano la grazia privilegiata di starvi solo in dieci religiosi. Prese le opportune informazioni la richiesta fu approvata nell’anno venturo, come riporteremo.

Il primo luglio 1625 entrò Massaro Benedetto Mengoli, e Podestà il Conte Ulisse Bentivoglio.

Per la scarsa raccolta il 6 agosto fu formato il calmiere al grano in 13 lire la corba.

In questo mese il sig. Lucio Malvezzi della parrocchia di S. Nicolò delli Albari di Bologna sposò la signora Antonia figlia del capitano Giovan Battista Fabbri di Castel S. Pietro, come al libro matrimoniale. Nel detto libro troviamo per la prima volta menzionate due famiglie che si sapeva chiare in questo loco. La prima è di Giovan Battista Ronchi coniugato con Giacoma Marzocchi, dalla quale derivarono alla fine del secolo importanti sacerdoti, l’altra famiglia è quella dei Villa, il primo individuo della quale fu Carlo Antonio detto dalla Villa che, fondata la sua casa in Castel S. Pietro, non andò molto che si imparentò con le migliori famiglie del paese. Questi fu avo paterno del chiaro teologo Carlo Antonio Villa che fu anche canonico di S. Maria Maggiore di Bologna.

Il Capitano Battista figlio di Valerio Fabbri, aveva prestato il suo servizio lungamente in guerra al Gran Duca di Toscana, in qualità di Lanza Spezata sotto il comando del perugino Francesco Sensi, cavaliere dell’Ordine di S. Stefano, avendo il comando di 200 fanti. Richiamato a quel servigio, non potendo più supplire all’impegno militare per i suoi affari, chiese ed ottenne dal Sensi il seguente certificato: Avendo Gio. Battista di Valerio Fabbri di Castel S. Pietro servito q. Lanza Spezata nella mia compagnia, ed essendosi portato nelle occasioni appresentate onorevolmente si nel servizio del Principe, che in altro, perciò l’acconpagnamo. Dato in Livorno li 22 settembre 1625, Francesco Sensi.

Al termine dell’anno caddero grosse nevi, che danneggiarono molto l’alberatura.

Il 25 dicembre fu estratto Massaro e Capo della Comunità per il 1626 Fioravante Tomba, che subito rifiutò di servire stante le turbolenze del paese e il rischio di epidemia. Su di questo esempio fecero lo stesso gli altri comunisti, quindi il Corpo Comunitativo si ritrovò senza Capo. Venuto ciò a conoscenza del Governo il 30 gennaio intimò a tutto il Consiglio che si procedesse ad una nuova Imborsazione ed estrazione. Quello estratto che non volesse accettare ne avrebbe pagato il conto. Fu adempiuto l’ordine e fu estratto Innocenzo Fabbri che accettò l’incarico. Podestà fu Cristoforo Dissegni.

Per la recente uccisione di Andrea Anessi In paese continuava l’avversione tra il Conte Ramazzotto Ramazzotti, Giovan Battista Fabbri, Cristoforo Tesei e Teseo Tesei da una parte e dall’altra parte Stefano Anessi e gli eredi di Andrea Anessi.

Il Card. Legato Roberto Ubaldini, prevedendo maggiori disordini poiché tutto il paese si era diviso in due partiti, l’11 febbraio dette a Valerio Fabbri ed Andrea Beccari il potere di trattare ed ultimare la pace fra le persone interessate nella causa dell’omicidio.

In seguito di ciò Valerio Fabbri da una parte e Stefano ed altri degli Anessi dall’altra si disposero all’accomodamento. Si interposero pure cavalieri e potenti di Bologna cioè Marchese Luigi Zambeccari per i Fabri e il Conte Vincenzo Legnani per gli Anessi. Infine furono chiamati alla città le parti nemiche, le quali si portarono nel palazzo pubblico di Bologna e nella gran sala, detta la Sala d’Ercole, si toccarono la mano l’una con l’altra e fu tutto composto. Il documento di pace fu stipulato per rogito del notaio Calisto Fiorentini.

I Fabbri e i Ramazzotti erano spalleggiati e scortati dai Pirazzoli, gli Anessi erano scortati dai Pignatarini ed altri paesani, tutta gente manesca. Anche i su detti nobili avevano i loro sicari e servitù armata che così aveva permesso il Legato.

Il 5 marzo 1626 morì Lucia di Francesco Cavazza, e il 17 morì il notaio Sante Fabbri e fu sepolto in S. Bartolomeo.

In questo tempo si incominciò a fabbricare la chiesa dei frati di S. Francesco MM. OO. dove prima c’era una piccola chiesa della famiglia Cheli dedicata a S. Giovanni Evangelista.

Il primo maggio in questo convento di S. Bartolomeo si tenne la Congregazione Capitolare provinciale degli Agostiniani, e fu dichiarato per futuro provinciale il molto Reverendo Padre Maestro Fra Ippolito Monti da Finale di Modena, che era già stato eletto nel Capitolo Generale celebrato a Roma l’anno scorso. Era priore di questo convento di Castel S. Pietro il Padre Cesare.

Non ostante che fosse terminata la Congregazione lo stesso Provinciale volle rimanere in questo paese e chiese di onorare la B. V. di Poggio, qui presente per le prossime rogazioni che incominciavano il 18 maggio. Fu compiaciuto e, ricevuta la S. Immagine nella chiesa di S. Bartolomeo, la omaggiò di un mazzo di cera senza gravare il convento, ma del proprio.

Il 24 giugno un certo Pietro da Belvedere fu ucciso entro il Castello in una rissa con i contrabbandieri di Castel Bolognese. Fu sepolto in parrocchia.

Il primo luglio 1626 entrò Massaro Gabriele Pirazzoli e così fece il nuovo Podestà il Cavaliere Cesare Sega.

Giovan Domenico Graffi sposò la Signora Camilla figlia del notaio Sante Fabbri.

Per ordine del Papa era iniziata la costruzione della fortezza nel comune di Panzano in loco detto Castel Leone mezzo miglio lontano da Castel Franco. Questa fortezza fu poi chiamata Forturbano, dal nome del Papa che ne aveva ordinato la edificazione. Vi furono comandati a lavorare più di mille contadine colle paga di dodici soldi al giorno. Gli facevano scavare e portare i carichi di terra dai vicini prati per formare il primo terrapieno. Dei villani di Castel S. Pietro ve ne andarono ventisei secondo la ripartizione fatta.

Il 9 novembre nacque Alessandro figlio di Vincenzo Fabbri e Vittoria Comelli, fu uomo dotto in ogni scienza e belle lettere, non fu però questi quell’Alessandro Fabbri che fu segretario del pubblico di Bologna, chiaro poeta ed oratore, quantunque anche questo fosse figlio di una Vittoria Comelli, ma suo padre fu Giovan Paolo.

Essendo entrato in consiglio Alfonso Graffi, fu subito imborsato nella Borsa dei Massari senza attendere che fosse stata terminata come era la consuetudine.

Il 27 dicembre morì Ottaviano Bandini e fu sepolto in parrocchia all’uso delle famiglie possidenti del paese. Fu uomo onoratissimo e di singolare prudenza nelle fazioni che regnavano fra i suoi congiunti, gli Andrini di Riniero, i Bogni ed altri.

Il primo gennaio 1627 fu Massaro Flaminio Comelli, Podestà Antonio Galeazzo Bargellini.

La pestilenza cominciò ad inoltrarsi nel bolognese, si fece perciò vigilanza sopra i malati. Il 3 febbraio Lucrezia e Biagio Comelli morirono.

La guerra accesa fra i francesi, gli imperiali e gli spagnoli provocava scontri ai quali seguirono battaglie sanguinose nel mantovano. Intanto aumentava il sospetto della peste, che dai confini d’Italia si estendeva negli stati pontifici e, nel mese di febbraio, si raddoppiarono perciò le guardie nella città e nel contado.  Questo anche perché erano venuti nel bolognese soldati dalla Valtellina che avevano lasciato le armi e si erano sbandati nei dintorni. Il Papa, temendo qualche inconveniente, armò soldati, arruolando persone sotto il comando di Carlo Barberini, generale di S. Chiesa.

Giovan Battista Fabbri fu assoldato il 19 aprile e prese il soldo di corazza sottomessa sotto il comando del Capitano Ciro Pantaleoni d’Imola.

Il Card. Ubaldini era stato richiamato dalla Legazione di Bologna e fu sostituito dal Card. Bernardino Spada.

I Cappuccini, che non avevano ancora edificato il loro convento, si fermavano nel loro passaggio ora in una casa ora nell’altra. Il più delle volte si fermavano nell’Ospitale dei Pellegrini nel Borgo che era della compagnia di S. Caterina. Vennero per ciò invitati da questa a stabilire il loro officio nella casa presso la sua chiesa ed oratorio entro il Castello fino a che non avessero edificato il loro convento. Questi frati il 26 dicembre scorso avevano ottenuto in Roma il decreto della fondazione ed il privilegio di albergare e permanere in esso soltanto dieci religiosi.

Il Priore della Compagnia, che era Flaminio Comelli, che copriva anche la carica di Massaro, procurò che la Compagnia accordasse ai Cappuccini l’officio in detta casa.

Sebbene avanzasse la pestilenza si fecero le rogazioni di M. V. di Poggio che caddero il 10 maggio e furono sempre più solennizzate con la maggior devozione possibile. Non si ebbe riguardo alla partecipazione e al concorso delle persone. Dopo le rogazioni cominciò a crescere la mortalità nel paese.

Il 16 maggio morirono Nicolò e Girolamo Magnani. Il 15 giugno a Bologna morì santamente suor Felice Dalzano di Castel S. Pietro, terziaria dell’ordine de Servi in età di anni 60. Portò l’abito religioso sulla nuda carne andando vestita di ruvidissimo panno come i cappuccini, dei quali fu sempre rigorosissima imitatrice, inoltre tenne di continuo un doppio cilicio per il corso di 33 anni in memoria dei 33 anni che Cristo patì per noi. Di essa ne abbiamo scritto più diffusamente. Fu sepolta nella chiesa dei Servi di Bologna presso l’altare di S. Giuseppe Ferri vicino alla porta piccola. Dopo la sua morte alcuni infermi, pieni di fede toccandosi e segnandosi con la sua cintola, furono guariti.

Il 24 giugno fu estratto Massaro per il venturo semestre Domenico Simbeni, prese il possesso il giorno primo luglio 1627. Il Podestà fu Carlo Felicini.

A causa dello scarso raccolto, su la fine del mese, fu fatto il calmiere a 12 lire la corba.

Il 16 di agosto la Compagnia di S. Caterina cedette il suo orto vicino alla Chiesa ed Oratorio ai P.P. Cappuccini e anche la facoltà di officiare nell’una o nell’altro fino che fosse edificata la loro chiesa col convento.

Costanzo figlio di Giovanni Morelli, chiaro poeta latino, prese la laurea dottorale in Roma alla Sapienza. Era prima notaio ed abitava nel Borgo di questo Castello, servendo onorevolmente la famiglia Ramazzotti.

L’8 ottobre fu ammazzato Michele Tanara da Battista Galli ed Eligio Tesei, sicari del conte Galeazzo Malvasia, mentre che veniva dalla possessione Collina. Ciò fu eseguito per ordine del detto conte ben che fosse il suo fattore a Castel S. Pietro.

Il 31 ottobre partì il Card. Ubaldini ed il giorno 10 dicembre giunse a Castel S. Pietro il nuovo Legato Bernardino Spada dopo essere stato a visitare il suo vecchio padre Paolo Spada a Brisighella di cui era nativo. Fu incontrato dai nobili del nostro Castello e fu banchettato in casa Malvasia.

Il 19 dicembre, crescendo sempre più il contagio dalle parti di Lombardia, il nuovo Legato pubblicò un Bando sospensivo del commercio di robe, animali e merci provenienti dalle parti di Lorena, Baviera e Francia. Di conseguenza gli Assunti alla Sanità di Bologna ordinarono la guardia ai principali castelli del contado, cioè Castelfranco, Castel S. Pietro, Scaricalasino ed altri luoghi posti nelle strade maestre.

Il primo gennaio 1628 prese il possesso della sua carica di Massaro Alfonso Graffi per la prima volta. Podestà fu Agamennone Marescotti.

La Compagnia di S. Caterina, che era solita passare ogni anno un sussidio dotale alle zitelle, figlie dei suoi confratelli, ed anche ad altre del paese, in vigore di una delibera fatta dal suo Corporale nel 1596 e confermata nel 1625, abolì questo decreto il giorno 6 febbraio e lo cambiò in una elemosina da distribuire ai confratelli poveri del paese.

In questo tempo i frati MM.OO. di S. Francesco, avevano terminato il campanile e volevano fare il portico avanti la chiesa e loro convento con le colonne di macigno. Però non avrebbero potuto edificare il portico perché avrebbero occupato parte della strada pubblica. I frati, che si erano comportati ottimamente al servizio della popolazione, ricorsero al Senato e domandarono anche la facoltà di unirsi col loro convento alla mura del Castello. Questa era devastata ed era come un bordello per gli oziosi.  Il Senato ciò accordò il 6 febbraio 1628.

Il 12 febbraio fu pubblicato un bando sopra l’introduzione delle persone e merci provenienti dalla Svizzera, sotto pena della morte a chi contravveniva. Il 14 venne fuori un’altra notificazione che introduceva l’uso dei certificati di sanità per le persone e le mercanzie e poneva la guardia alle porte della città dal giorno 24 febbraio. Questo anche perché i fiorentini il 20 corrente avrebbero posto un commissario al passo di Pietramala.

Il 13 marzo la delibera del Senato a favore di questi francescani fu registrato nell’archivio segreto.

Il 7 maggio Monsignor Girolamo Bertuzzi della famiglia di questi nostri Bertuzzi di Castel S. Pietro, con breve speciale di Urbano VIII, fu fatto Presidente alle abbreviature dei Brevi.

Il 29 maggio le rogazioni di M. V. di Poggio furono fatte con molta precauzione stante le presenti contingenze del contagio.

Quantunque Dio così castigasse le persone tuttavia si sentiva di malviventi, iniquità e crudeltà in ogni luogo. Da noi fu avvelenato Don Andrea Nanni con un suo nipote in una festa in con la scusa di un rinfresco. Furono indiziati Carlo Bagni, Teseo e Stefano Pignatarini di questo Castello a motivo che i Nanni furono sospettati di voler dare a tradimento nelle mani della Curia criminale i paesani Onorato Golo ed Antonio Barbieri.

Il 24 Giugno fu estratto Massaro Benedetto Mengoli, che il primo luglio 1628 intraprese il suo Governo, e così fece il nuovo Podestà Astorre Bargellini.

Dopo vari consigli e riflessioni fatte fra i benefattori dei Cappuccini sopra la costruzione del loro convento, fu concluso di edificare nel primo sito offerto dal Conte Ramazzotti, sopra il quale nel 1623 fu piantata la croce. Questo terreno non era però sufficiente. Il Conte Galeazzo Malvasia, che aveva offerto un terreno in altro luogo, accettò di permutarlo con quello, di eguale misura, congiunto al terreno dato dal Ramazzotti. Questo terreno spettava in parte agli Agostiniani di S. Bartolomeo ed in parte all’arciprete del nostro Castello. Questo contratto fu stipulato con la debita licenza del Legato Card. Antonio Barberini, per trattarsi di fondi appartenenti alla Chiesa.

Quindi unite le tre tornature di terreno del Ramazzotti alle altre tre del Malvasia, si formò un lotto bastevole giusto per il progetto del convento. Si procedette il 27 luglio 1628 all’inizio dei lavori. La prima pietra fu posta nel fondamento dal Conte Pompeo Ramazzotti come principale benefattore e così fecero successivamente gli altri benefattori che concorsero alla edificazione di questo luogo pio.

Il 23 aprile morì la prima figlia al sig. Lucio Malvezzi, natale dalla signora Antonia Fabbri mentre villeggiavano in casa del padre Giovan Battista Fabbri. La fanciulla fu nobilmente portata al sepolcro nell’avello Fabbri in questa chiesa di S. Bartolomeo.

Gli spagnoli in Piemonte avevano posto l’assedio a Casale[92] e continuavano i rumori in Italia. Quindi il Papa fece battere cassa ed assoldò molta gente che inviò poi ai confini a difesa dello Stato ecclesiastico. Il card. Antonio Barberini, nipote pontificio, venne dichiarato Legato di Romagna, Bologna e Ferrara. Il capitano Lodovico Pani di Faenza condusse da Ravenna dell’artiglieria e la scortò fino a Castel S. Pietro.

Facendosi sentire di più il contagio, furono replicate le ordinanze del Governo sui certificati di sanità senza i quali nessuno veniva ammesso, tanto più che le morti si erano fatte frequenti.

1629 – 1631. Primi morti dovuti alla peste, suoi sintomi. Divieto di introduzione merci e animali dalla lombardia. Processioni di penitenza. Muore il Conte Ramazzotti. Sospeso il mercato. Rimandate le Rogazioni. Chiusi tutti i passi e le porte del castello, chiuse le scuole, proibite le adunanze. Costruito un lazzaretto sotto il ponte del Sillaro. Grossa mortalità nei mesi di luglio, agosto e settembre, 640 vittime. Storia del padre Cappuccino Bernardino Bonfini e della sua salma.  Scoperta miracolosa immagine della Madonna nel podere il Lato a Montecalderaro. Pulizia e disinfezione delle abitazioni dei contagiati.

Il primo gennaio 1629 entrò Massaro Vincenzo Mondini e Podestà Cesare Bianchetti.

Il 10 gennaio morì Camillo Gardenghi con sospetto di contagio.  La pestilenza faceva dei grandi progressi dalla parte di Milano, crescevano gli infermi, pochi si alzavano e i più andavano al sepolcro. Si cominciò quindi a pensare di fare dei lazzaretti e collocarvi quelli che si riconoscevano minacciati dalla pestilenza.

Quelli che erano attaccati si riconoscevano da una palpitazione di cuore, dalla presenza in diverse parti del corpo di bugni, bubboni, ghiandole infiammate nelle inguinaie, sotto le braccia e sotto le orecchie. Venivano dolori di testa, febbre, grande sete, delirio, sonnolenza, vomito, tremore nelle membra, ammarezza di bocca, inappetenza e grande caldo alle estremità. Quando i bubboni e le ghiandole, con l’aiuto di rimedi, venivano a suppurazione, l’infermo guariva. Quando mancava la febbre non occorreva che il bubbone o ghiandola venisse a suppurazione. Questo per lo più accadeva nelle donne.

In queste lacrimevoli circostanze Mons. Antonio Albergati, sostituto dell’arcivescovo Card. Ludovisi, non cessava, con esortazioni ed orazioni, di invitare il popolo a placare l’ira di Dio, facendo orazioni nella città e nei castelli e molti atti di penitenza. Non ostante ciò il demonio continuava a fare la sua parte negli omicidi, ladrocini ed altre iniquità.

Poiché il contagio cresceva sempre di più di giorno in giorno, il Card. Legato il 17 gennaio rinnovò il Bando sopra la introduzione delle robe, merci, animali, lettere e fagotti che venissero dalla Lombardia. Nel Bando erano elencate 120 luoghi fra città, provincie e terre infette.

Per questo flagello il 18 marzo fu pubblicata una indulgenza papale in forma di Giubileo, per la quale in seguito si facevano in ogni dove processioni di penitenza. Le compagnie del contado portavano in processione le immagini e le reliquie dei propri Santi tutelari.

Il primo aprile la Compagnia di S. Caterina, che voleva bene e proteggeva il nuovo o istituto cappuccino in questo luogo, decretò di pagargli 210 lire per la fabbrica del loro convento e chiesa.

In questa stessa giornata si fece una devotissima processione di penitenza per il Castello e Borgo da tutte le corporazioni di culto per beneficiare del Giubileo.

La compagnia di S. Caterina unita a quella del SS.mo con le loro divise ed uniformi si portarono alla visita della chiesa di S. Pietro nel Borgo. La prima aveva la reliquia della sua santa tutelare, la seconda aveva il suo crocefisso. Le regole delle Rubriche avrebbero in questi giorni proibite le processioni e di scoprire le immagini dei santi. Tuttavia per non essere giorni distinti di Quaresima, aderendo al proclama di fare le processioni, non si rispettarono le Rubriche. Non è meraviglia che ciò si facesse in questa contingenza, poiché era tollerato che ogni istituto cattolico facesse quelle funzioni che più credeva convenienti per indurre i cattolici alla penitenza e placare così l’ira divina.

 Gli individui della Compagnia di S. Caterina portavano un flagello di funi o disciplina sulla sinistra e camminavano col capo coperto, l’altra compagnia col capo coperto portava la fune al collo ed il piede nudo, cosa che commoveva i cuori più induriti. Si cantava a voce dimessa il Miserere, alternativamente ad ogni versetto si rispondeva: Miserere nostri Domine. Questa è la prima Domenica di Passione che abbiamo trovato che fu portato dalla Compagnia del SS.mo il crocefisso non velato per il paese.

Quantunque spirasse mestizia ogni angolo, tuttavia si sentiva di atti criminali. A Castel S. Pietro il 26 aprile fu ucciso da alcuni forestieri Antonio Scaglia da Fiagnano.

I pochi Cappuccini, che avevano incominciato qui il loro domicilio sotto la direzione del Padre Bernardino Bonfini e che erano accorsi ad aiutare gli altri sacerdoti per l’epidemia, si applicavano indefessamente ai malati che perivano. Molto attivo era sopra tutto Padre Bernardino.

Intanto era compiuta la loro chiesa ed era atta ad essere officiata.  Il Conte Antonio Galeazzo Malvasia le donò la campana, di sua proprietà, che esisteva nella torre del Castello, con la quale anticamente le sentinelle chiamavano all’arme i paesani, quando si vedevano nemici da lontano,

E perché era piccola ne aumentò il metallo e la fece rifondere imponendovi il suo nome come si legge nel contorno così: Antonius Galeatius Malvasia fecit condere A. D.ni MDCXXIX. Il fonditore fu Carlo Landi Imolese, infatti nella campana si legge Carolus Landi imolenses fecit hoc opus.

Il 17 maggio in riconoscenza delle elemosine fatte dalla Compagnia di S. Caterina ai Cappuccini, il Padre Feliciano da Piacenza, ministro provinciale dell’Ordine, donò a quella e suoi fratelli e sorelle, in perpetuo, la figliolanza, cioè la compartecipazione di tutto il Bene cappuccino, come si legge in un chirografo nell’archivio della compagnia.

Non ostante che si fosse in mezzo a tanta tristezza, si accrebbero le angustie alla popolazione poiché si aggiunse una rabbiosa lite fra la Comunità e dazieri di Bologna che volevano sopprimere totalmente le immunità di dazi e gabelle. Poi a questo si aggiunse la presenza delle truppe germaniche e papali che non lasciavano gli animi quieti.

In queste circostanze Cesare Bianchetti senatore e Podestà di Castel S. Pietro venne in paese per ordine del Legato per prendere gli opportuni provvedimenti per il contagio che qui dominava e riferire.  Ciò eseguì e il 31 maggio se ne partì per la città, dopo avere dati alcuni ordini al suo notaio per le fedi di sanità.

Il primo luglio 1629 entrò Massaro Sante Santoni e Podestà Marc’Antonio Marescotti.

Oltre il contagio si aggiunse una scarsa raccolta per cui fu fissato il calmiere al grano in 13 lire la corba, ma non se ne trovava onde aumentò il prezzo a 15 lire e più.

Il primo agosto morì Ercole Comelli di pestilenza, che fu l’unico figlio di questo ramo.

Il 17 settembre1629 morì il Conte Pompeo Ramazzotti ed il giorno seguente fu portato alla chiesa nuova dei cappuccini ove gli fu data sepoltura dietro la parete interna della chiesa sotto il pulpito ove stette fino all’anno 1763. Dall’ossatura si rilevò essere stato uomo di alta statura e di pelo rosso perché sopra il suo teschio si ritrovò intera la capigliatura con treccia fermata all’occipite con grande spilla.

Come fu il primo che donò il terreno alla religione cappuccina per edificare il convento e la chiesa, così fu anche il primo a porre la pietra di fondazione ed il primo ad essere sepolto in questa chiesa.

La sua abitazione era ove presentemente esiste la bella mole del palazzo Locatelli, suoi successori.  Si trova di fronte allo stradello che porta dalla via Framella direttamente alla chiesa di S. Bartolomeo. Lasciò un figlio maschio di nome Ramazzotto Ramazzotti.

Il 18 novembre morirono attaccati dalla peste Vincenzo Tesei, gran fazionario, e messer Aurelio Comelli con molti altri che parte furono sepolti nel Lazzaretto e parti in chiesa. I morti dell’anno furono 117 come si riscontra dal Libro Mortuor. della arcipretale

Domenico Dazani aveva nel suo testamento istituita erede del suo avere questa Compagnia del SS.mo. Il testamento fu impugnato dai suoi congiunti ed annullato per gli atti Medici nel vescovato di Bologna.

Giunto l’anno 1630 il primo giorno di gennaio entrò Massaro Francesco M. Riccardi e Podestà il cavaliere Giovan Battista Angelelli.

In quest’anno e in queste circostanze fu dichiarato di nuovo Legato di Bologna il card. Bernardino Spada.

Il dazio di Peso e Misura del mercato, stante il contagio, non fu incantato e fu sospeso lo stesso mercato, come abbiamo dagli atti della Comunità.

Ottavio Fabbri cominciò quest’anno a fabbricare l’oratorio della Beata Vergine ad Nives, detta la Madonna della Scania posto sulla sponda del Rio dove si doveva fare il convento dei Cappuccini. Seguirono gli sponsali fra la signora Bartolomea Andrini di Castel S. Pietro col Conte Gaspare Biancoli di Cotignola.

Le solite rogazioni di M. V. di Poggio, che caddero il 6 maggio, non si fecero a motivo della pestilenza e la S. Immagine stette nella sua chiesa di Poggio. Il padre cappuccino Bernardino, che presiedeva alla fabbrica del nuovo convento, chiese alla Compagnia di S. Caterina di essere iscritto fra i suoi confratelli, fu compiaciuto ed annoverato nel loro catalogo.

Si era compiuto il nuovo ornato della tavola di S. Caterina col profilato d’oro, vi fu apposta la inscrizione dei due priori della compagnia cioè Giambattista Balduzzi priore del 1629 e Girolamo Santoni priore di quest’anno. Questo ornato fu poi trasportato nella arcipretale ed adattato al bellissimo quadro della disputa dipinto da Prospero Fontana in concorso con Lodovico Caracci, come indica la Felsina Pittrice del Malvasia. 

La casa della residenza pubblica e l’ufficio del Podestà, erano malmessi.  Fu fatto ricorso al Senato per il riattamento. Fu ordinata la riparazione e si diede tosto mano all’opera nella quale si spesero l. 190 che furono poste a comparto il 27 aprile 1630.

Perché cresceva di giorno in giorno il contagio i religiosi francescani, cappuccini, agostiniani e i preti non potevano totalmente fare fronte ai bisogni. Fu quindi necessario chiamare altre persone e ministri del culto.

 Oltre queste calamità che inondavano gli Stati pontifici crescevano sempre più le vicende della guerra. L’Imperatore teneva sotto assedio Mantova e il Papa per mettersi in qualche sicurezza mandò truppe nel bolognese facendo commissario generale delle stesse Giovan Battista Grimaldi.

Gli Assunti di Sanità di Bologna, senatori Bargellini, Bovio, Magnani, Zambeccari e Gessi ordinarono per bando che tutti quelli che erano attaccati dal male fossero sequestrati nelle case colla cura di uno, che faceva la quarantena. Il Legato ordinò poi che si pulissero le strade da letami, fango ed immondizie e che non si vendessero panni vecchi e che neppure i Monti li ricevessero in pegno. Ordinò che si profumassero le lettere da per tutto. I medici erano tutti impiegati nel loro ufficio.

Ippolito Scassilioni, nativo di Castel S. Pietro e medico condotto, si comportò egregiamente e durò fino alla fine della tragedia.

Il 17 maggio si chiusero tutti la passi del contado, restò interdetto il commercio da luogo a luogo anche all’interno della legazione e della provincia. Si tennero in tale contingenza chiuse le porte del Castello. Solo dalla porta maggiore, ove erano le sentinelle, si ricevevano le persone bisognose di entrare. Le sentinelle tanto entro il Castello che fuori vietavano le comunicazioni. Così si tenne duro nel Castello e nel nostro territorio. In questa occasione c’erano qui le milizie papali sotto il capitano Pazzi da Cesena. Di questi militari, destinati per i confini dal Gen. Giovan Battista Grimaldi, molti morirono ammorbati.

Livio Accursi, notaio giusdicente del Podestà Angelelli, faceva giornalmente il riporto all’Assonteria di Sanità di quanto accadeva e gli veniva riferito.

Francesco Cavazza, lettore pubblico, giovane medico oriundo di Castel S. Pietro, avendo fatto resistenza alla Corte, come sogliono fare i giovani sopra tutto in tempi sconvolti, fu preso ed arrestato. Liberato dalle carceri fu condannato a servire al Lazzaretto di Bologna. Questi, non ostante vedesse in principio che il salasso di sangue ad alcuni faceva male, faceva di nuovo aprire la vena e li sanava. Dopo cinque giorni di cura nel Lazzaretto si ammalò di peste.  Uscì fuori di sé per il furore del male, si rinchiuse in camera e, senza ricevere medicamenti, visite ed esortazioni di amici, se ne morì.  Perdette Bologna come riferisce il Muratti nel suo racconto della Peste, un medico di gran valore ed eloquenza, che nel consultare non aveva pari.

In questo tempo accadeva che molti parroci del contado morivano o si ammalavano senza che alcuno si pigliasse cura di loro e della chiesa, che era poi derubata. Fu ordinato che il sacerdote più vicino alla chiesa del defunto facesse le veci parrocchiali.

Mons. Antonio Albergati per assicurarsi che ognuno liberamente camminasse per strade, chiese e case fece fare con solennità l’acqua benedetta gregoriana e ne dispensò a tutti i parrochi della città e della diocesi affinché ciascuno benedisse la sua parrocchia, perché il demonio non avesse la sua mano in queste calamità. Ogni parroco eseguì solennemente la benedizione tanto nei luoghi murati che nelle case di campagna.

Il Legato intendendo pure che c’erano mancanze nella cura degli infermi e nel controllo dei sospetti, ordinò che in tutte le terre del contado si facessero quattro assunti per la esecuzione dei seguenti ordini:

Che in ogni comune si facessero lazzaretti e capanne atte alli infermi in quelli.

Che tutti, tanto sani che malati, si facessero rassegnare al Massaro.

Che quelli che avessero serviti gli appestati dovessero fare la quarantena chiusi e terminata non potessero sortire se non visitati dal Massaro o deputati.

Che non si seppellissero morti vicino alla chiesa. ma senza cassa fossero portati ne sacrati dei lazzaretti destinati e benedetti secondo il rito di S. Chiesa e sepolti almeno cinque piedi sotterra con calce sopra e, non avendo loco pe’ cimiteri, il Legato ne aurìa esso assegnati li fondi senza pregiudizio de proprietari.

Che si facessero a spese comunitative i soccorsi.

Che niuno potesse sortire dal suo comune senza licenza in iscritto del curato con facoltà per questo alli massari di fare rastelli e passi delli loro comuni e mettervi guardie a chiudere li vicoli non frequentati.

Che tutti li massari dessero nota delli vagabondi, poveri e gente oziosa affine di farli lavorare in far fosse e sepellire morti e servire a lazzaretti.

Ciò tutto sotto pene pecuniarie ed afflittive sino alla forca conforme il caso.

In seguito di ciò fu fatto il Lazzaretto nel comune di Castel S. Pietro nell’ambiente sotto al ponte del Sillaro dalla parte di ponente. Quel fondo ora è di ragione della casa Ercolani. Fu benedetto dall’arciprete e vi piantò una croce.  Si celebrava poi nel vicino oratorio dedicato agli apostoli SS. Giacomo e Filippo di là dal ponte e da lì si levava il viatico per somministrarlo ai malati.

In seguito, essendo mancati molti sacerdoti nella città, il superiore dei Carmelitani Scalzi, mosso da zelo ed ardente carità, chiese al card. Legato di essere ammesso coi suoi religiosi ad amministrare i sacramenti e soccorrere gli infermi. Egli era il Padre Fra Bartolomeo da S. Filippo milanese. Il Legato gradì molto l’offerta ed in seguito di essa mandò a Castel S. Pietro, dove faceva maggior bisogno, il Padre Baldassarre da S. Caterina da Siena alla assistenza degli ammorbati. Operò questi talmente indefessamente che il 23 giugno vi lasciò la vita, con dispiacere universale. La sua sepoltura fu nella chiesa di S. Giacomo e Filippo, in un angolo di essa.

Non ostante queste vicende di 25 giugno venne a Castel S. Pietro il Quartiermastro con gli aiutanti di campo della truppa pontificia. Il 29 giugno partirono due furieri da qui e andarono a Budrio per preparare i quartieri a due compagnie. Ciò per ordine di Papa Urbano a causa della guerra e dell’assedio degli imperiali di Mantova. 

Il primo luglio 1630 entrò Massaro Gabriele Cuzzani e Podestà fu il nobil uomo Ciro Marescotti.

Il 6 luglio partirono da Castel S. Pietro le due compagnie condotte dai capitani Bartolomeo Literni e Pazzi da Cesena con Pietro Rotati da Roccacontrada.

Il 20 luglio fu pubblicato un Bando del Legato col quale si ordinava che ognuno dovesse, per quanto gli competeva, tenere pulite le strade dai ruschi e dalle immondizie e inoltre di portare via dalle strade i cani, gatti ed altri animali trovati morti. Fu pubblicata poi una indulgenza in figura di Giubileo per tre mesi al fine di placare l’ira divina.

Ogni giorno si visitavano le case e trovati gli infetti questi erano portati ai lazzaretti da due vestiti di bianco che erano preceduti da terzo, tre pertiche avanti, che suonava un campanello affinché ognuno fuggisse l’alito cattivo.

Poi perché ognuno evitasse le case infette vi si poneva una grande croce davanti, visibile a tutti anche da lontano. Sapendo che i cani e i gatti pigliavano facilmente il male e quindi potevano infettare le persone e le case, come si era osservato, il Legato ordinò che si ammazzassero quelli che si trovavano vaganti e che l’uccisore guadagnasse 3 scudi per ogni capo, sempre che la bestia non fosse la sua. Ordinò pure che, per timore dell’infezione, in tutte le chiese si levassero i banchi, gli sgabelli e l’acqua benedetta.  

Furono anche chiuse le scuole e interdette le adunanze, le prediche, i sermoni e gli altri assembramenti di popolo. Si fecero altre provvidenze che sarebbe lungo il raccontarle e se il lettore lo desiderasse tanto lo invitiamo a leggere il Racconto di Pietro Morelli e i Bandi giornalieri dagli anni 1628 al 1631, raccolti da Girolamo Donini e stampati in Bologna l’anno 1631.

A Castel S. Pietro in questo mese di luglio crebbe molto la mortalità sopra tutto nella via di Saragozza di sotto e nella via di piazza Liana.  Si dovette mettere delle sentinelle a capo di queste strade per non lasciare uscire alcuno. Si fecero degli altari provvisori nelle stesse strade, uno da S. Bartolomeo, l’altro nell’incrocio inferiore di via Saragozza.  Questi altari servivano anche per consacrare i viatici.

In questo lugubre travaglio si distinse più di tutti il cappuccino Padre Bernardino Bonsini, presidente alla fabbrica di questo convento che, nulla perdonando alla sua salute, somministrava il viatico a questi infermi mediante una lunga moletta che aveva i capi d’argento dorato.  Questo strumento gli era stato dato dalla Comunità per usarlo nel Lazzaretto. Terminata la epidemia, fu convertita, con altri argenti dati dalla Comunità, in una pisside per la chiesa del nuovo convento.

La maggior parte degli infetti, rinchiusi nella via di Saragozza morirono. Fu incolpata per ciò la strettezza della contrada, i portici bassi e la sua poca pulizia per cui, ventilandovi poco l’aria, ciò fu la causa della loro infezione e morte. Diverso fu in piazza Liana dove scamparono in molti. Quelli che scamparono andarono poi vestiti fino ai piedi di un sacco bianco con cintura e croce rossa in petto per due mesi. Inoltre portavano con sé un certificato del medico che li aveva curati dal bubbone per potere muoversi impunemente ed avevano anche la fede della Comunità.

Le famiglie colpite e che scamparono furono di piazza Liana queste: Pietro ed Antonio Cardinali, Domenico Dalfoco, i Cesari, i Trapondani e Francesco Astorri, di via Saragozza: Antonio Topi, Luigi Nanni, Nicola Pirazzoli.

I crocesegnati furono chiamati i Bianchi e, siccome potevano andare liberamente da per tutto, andavano nel Lazzaretto, alle baracche di assi qui fatte per tale contingenza, a visitare i loro amici e congiunti ed anche ad aiutare al suffragio dei defunti. Si visitava la B. V. detta del Cozzo e l’oratorio dei S.S. Giacomo e Filippo.

Cominciarono poi ad andare a quella S. Immagine le due compagnie cappate di S. Caterina e del SS.mo SS.to. La prima volta che vi andarono fu il giorno 20 aprile festa di Pasqua del 1631. Le compagnie intrapresero questa visita perché i sopra detti Bianchi erano tutti fratelli delle due compagnie. Vi si recavano senza però alzare la croce.

In questo tempo morivano da dieci a undici persone al giorno. Nella grossa mortalità che si ebbe in luglio, agosto e settembre giunsero i morti al numero di 640. La maggior parte fu in agosto, alla metà del quale, cioè il 15, cessò di vivere il cappuccino Padre Bernardino e fu sepolto nel Lazzaretto. Ma poi i paesani ritennero inconveniente una tale sepoltura ad un religioso che tanto per essi aveva operato. Fu riesumato e sepolto nella chiesina di S. Giacomo ove pure erano stati sepolti Padre Baldassarre Scalzo, Battista Toni, Camilla Quartieri, madonna Ginevra Musitelli, Caterina Gardi ed altri.

Il 20 agosto morì Antonio Sega di Castel S. Pietro e si estinse con esso la sua famiglia e cognome.

Calmatosi il male in questo mese le parrocchie della città e contado fecero diversi voti.

 In settembre morì il sig. Lucio Malvezzi in casa di Valerio Fabbri e fu sepolto con Domenico Balduzzi, ultimo della sua chiara famiglia, nel Lazzaretto, Questo veniva sorvegliato dal capitano Pazzi di Cesena che era qui di guarnigione colla sua truppa.

Abbiamo narrato che il P. Bernardino Bonfini era morto di pestilenza il 15 agosto, secondo quanto scritto nel Libro Mortuor. di questa arcipretale. Negli Annali Cappuccini invece viene segnata la sua morte il 7 settembre.

Le Memorie manoscritte di questo convento locale aggiungono che egli fu sepolto nel campo degli appestati. Dopo 8 giorni fu riesumato poiché sembrava ai capi del paese sconveniente una tale sepoltura per essersi egli tanto adoperato in simile calamità e per avere dati segni di santità. Gli scavatori si misero all’opera e ritrovarono il corpo intatto e palpabile, spirante odore di paradiso. Fu allora, a richiesta di Vincenzo Mondini proprietario della chiesa di S. Giacomo, collocato in quella, nel mezzo, davanti all’altare. Fu poi osservato che dopo questo fatto cominciò a scemare il furore del male finché dopo poco si dissipò del tutto. Fu ciò attribuito alle preghiere e meriti di questo ottimo e pio sacerdote.

Dopo alcuni anni tornarono i paesani a riesumarlo e lo ritrovarono intatto come prima. Fu posto entro una cassa di rovere e gli furono fatte le esequie in questa chiesa, perché i cappuccini non avevano ancora costruito il loro luogo di sepoltura. sepolcro. Il suo corpo rimase lì fino al 1737 quando, con licenza dell’arcivescovo Lambertini che fu poi Benedetto XIV, fu di nuovo riesumato e portato in una cassetta di rovere alla sua chiesa con la memoria scritta messa in un tubo di piombo.

I più vecchi del paese ci assicurano che per tutto il tempo che stette lì sepolto si vedeva nel mese di agosto una luce risplendere attorno alla chiesina di S. Giacomo. Il custode di questa Giovanni Conti, interrogato su ciò, ce lo confermava e aggiungeva in più che sopra il pavimento della sepoltura si vedeva, anche d’inverno una erbetta fresca che, anche se sradicata, risorgeva in primavera con fioretti bianchi. Questo aveva deposto con attestato giurato spedito al vescovato di Bologna per ottenere più facilmente la licenza del trasferimento della salma.

 Le compagnie cappate di Castel S. Pietro non furono sorde alle pie esortazioni pastorali dell’Ordinario e, sull’esempio della città ed altri luoghi del contado, fecero diversi voti. La Compagnia di S. Caterina il 6 ottobre decise di andare per voto per tre anni nella chiesa di S. Pietro in questo Borgo a recitare l’officio di M. V. nella festa del SS. Rosario. Successivamente la Compagnia del SS.mo SS.to determinò di andare per tre anni in processione tutte le domeniche dell’anno alla visita di questa chiesa. Essendo poi spirato il trimestre dell’indulgenza pontificia, fu a petizione dei principi e dei porporati prorogata per altri tre mesi. Proseguì per ciò fino a tutto dicembre.

La Comunità stessa fece voto per cento anni ai SS. Pietro e Bernardino da Siena, al primo per essere questo paese insignito del nome dell’apostolo, al secondo per avere sempre a memoria il nome del Padre Bernardino Bonfini tanto benemerito alla popolazione, dalla quale fu sempre reputato per uomo santo.

Per l’esecuzione poi di questo voto la Comunità decretò di portarsi alla chiesa di questi Padri MM. OO. di S. Francesco per visitarla e fare la festa al santo colla offerta di una annua elemosina di 26 lire.

In questo mese di ottobre morì a Castel S. Pietro il capitano Pazzi con molti soldati e furono sepolti nel Lazzaretto. Venne al suo posto il capitano Pietro Rotati da Roccacontrada. Vincenzo Boccacci da Fano sergente del capitano Pazzi morì anch’esso e fu sepolto accanto suo capitano.

Il Legato aveva nei primi giorni di ottobre condannati molti al servizio del Lazzaretto fuori porta S. Mamolo alla Nunziata. Costoro si trovavano già nelle carceri per la loro malvagità. Tra questi c’era Bernardo Torri da Castel S. Pietro, detto Castellano, abitante però nel comune di S. Giovanni in Persiceto, e con lui Cinto Cinti. Erano questi stati condannati, con la catena al piede, come schiavi al servizio degli appestati compensando così la condanna alla galera che gli era stata decretata. Una notte riuscirono a levarsi i ceppi e a fuggire dal Lazzaretto. Avvisati gli ufficiali, cominciarono a suonare a stormo le campane dell’allarme ma Bernardo coll’aiuto suoi amici riuscì a fuggire. Il Legato il 21 ottobre emise la taglia di 100 lire per chi li ammazzava o li consegnava prigionieri ma non ebbe subito successo. Solo che dopo qualche tempo si seppe che era stato ammazzato verso Monzuno.

Intanto si calmò il male e con l’aiuto della grazia suprema, dopo aver somministrato dosi di medicinali, molti scamparono.  Perché sia a notizia dei posteri la medicatura che fu allora emanata ne trascriviamo qui la ricetta estratta dal Ricettario che fu allora stampato: Per medicamento esterno usavasi mirra, incenso, mastice, bacche di lauro, bacche di ginepro e facevasi un composto. Quando erano maturi i buboni si tagliavano poi si medicavano con digestivo. La songia di porco usavasi dai poveri. Il profumo era di antimonio polverizato, zolfo, salnitro e pece greca mischiati. La medicatura fisica era miele rosato solutivo, siropo di pollepodia solutivo, mucaro rosato, diacatolicone, eletuario rosato, trifava persico, diagone semplice e tutto si dissolveva in cordiale solutivo e davasi all’infermo.

Terminato l’anno 1630 sembrò quasi spogliato il paese e ciascuno evitava di assumere cariche, ma le persone erano forzate dalle autorità per cui giunto l’anno 1631 entrò Massaro Giovan Battista Anessi e Podestà il Conte Cornelio Malvasia.

Cessata la epidemia nella città e nel contado si aprirono di nuovo le scuole, si cominciarono i mercati ed a conversare come prima.

Questi padri di S. Francesco avevano ormai terminata la fabbrica della loro chiesa e cercavano di avere la comodità di una buona sagrestia.  Il 24 gennaio fecero una supplica al Senato per avere la facoltà di occupare il terraglio pubblico che esisteva fra le mura del Castello e la mura del coro della chiesa. Il Senato scrisse alla Comunità per l’informazione e il voto ed ella corrispose al desiderio dei frati.

Il sommo Pontefice poi per rendere grazie a Dio del cessato flagello prorogò il Giubileo per altri tre mesi durante i quali ovunque si fecero nuove processioni. 

Il 4 febbraio il Conte Francesco Ramazzotti che aveva fatte molte spese come soprintendente ai malati di peste a Castel S. Pietro per la somma di 1084 lire, dette rendiconto al Senato per essere pagato dalla cassa pubblica. Molte altre spese occorse per il Lazzaretto furono pagate dalla cassa particolare della Comunità come le 250 lire pagate a chi portava gli appestati.

La Compagnia di S. Caterina assieme a quella del SS.mo, proseguivano l’adempimento dei propri voti colla visita alla chiesa di S. Pietro ed all’altre. Indossarono di nuovo le loro cappe, che erano state sospese a causa dell’infezione passata che si era estesa anche nel vestiario. Il 5 aprile, giorno della domenica di Passione, cominciarono la loro funzione iniziandola dalla arcipretale colla visita prima al SS.mo poi, dopo la benedizione dall’arciprete coll’acqua gregoriana, si incamminarono ordinatamente alla chiesa di S. Pietro, portando la prima il suo palio colla Santa e la seconda il suo Crocefisso non velato proseguendo il rito degli anni della pestilenza.  Poi invalse l’uso di portarlo sempre così scoperto in tale giornata.  Nel corso della processione i cappati cantavano il salmo: Misericordie Domini quia non sumus consumpti, ed il popolo rispondeva Miserere nostri. Sebbene la Compagnia di S. Caterina e l’arciprete poi abbiano avuto contrasti con la Compagnia del SS.mo, nessuno ebbe d’allora in poi il coraggio di opporsi a tanta solenne funzione quantunque proibita dalle rubriche.

L’arcivescovo ordinò poi il calcolo di quanti morti c’erano stati dallo scorso giugno a tutto dicembre per il contagio. Furono nella città 13.398 e nel contado 16.300, quindi furono in tutto 30.879.

Luca Giacomelli notaio ufficiale di Castel S. Pietro morì in questo mese di aprile e, quantunque fosse cessato il contagio, fu sepolto al Lazzaretto.

Nella contingenza della pestilenza nel comune di Monte Calderaro fu scoperta una immagine di M. V. di terracotta in un albero che aveva cominciato a fare miracoli. Tante furono le offerte dei devoti che fu edificata una chiesa in un fondo detto il Lato. Molte persone di Castel S. Pietro furono graziate, la prima fu la sig. Maddalena, moglie del sig. Antonio Villa, che fu liberata dal bubbone.

In agosto morì Alessandro Fabbri e fu sepolto nell’arca dei Fabbri davanti l’altare di S. Stefano nella chiesa di S. Bartolomeo. Questi fu il primo che fu sepolto in chiesa e nel Castello dopo il contagio.

Seguì in questo tempo il matrimonio fra Angiola di Guidone Riari con Vincenzo Dalforte, due famiglie originarie ed antiche del paese. La prima, nobilitata da Sisto V e congiunta ai Riari di Bologna, aveva la sua abitazione in Castello alla sinistra della via Maggiore al numero della quarta porta, la quale ora è dei fratelli Conti.

I frati di S. Francesco, che avevano ottenuto fin dal 10 aprile scorso dal Senato il permesso di occupare il terreno dietro alla loro chiesa e costruire la loro sagrestia, dettero inizio ai lavori e chiusero lo stradello morto.

Il 24 maggio morì il Conte Pompeo Ramazzotti e fu sepolto nella nuova chiesa di S. Francesco.

Il 26 maggio si fecero le Rogazioni di M. V. di Poggio, la cui immagine era rimasta nella sua residenza fino ad ora per la decorsa pestilenza.

La contessa Caterina Luchini moglie del Conte Galeazzo Malvasia aveva lasciato per testamento che si edificasse un altare nella nuova chiesa padri francescani. Il Conte fu puntualissimo ad eseguirlo e vi fece dipingere la tela da Giacomo Cavedoni, rappresentante l’Addolorata con la deposizione del Cristo.

Il primo luglio 1631 entrò Massaro Giovan Battista Balduzzi e Podestà Sinibaldo Chiari.

Sabatina Astorri di Castel S. Pietro, avendo una figlia inferma per una grave malattia agli occhi con pericolo di perdere la vista, ricorse alla Madonna del Lato e fu guarita, portò il voto in argento nel mese di agosto.

Il 3 luglio partì il Legato card. Bernardino Spada Legato e il 5 venne il nuovo Legato card. Antonio S. Croce.

Antonio Maria Conti, detto dal Dozzo, aveva una gamba in cancrena. Fece voto alla S. Immagine del Lato di visitarla per tre sabati se guariva, tanto avvenne ed esso compì il voto.

 Il 23 dicembre il Senato saldò al Conte Ramazzotti le spese sostenute per il contagio.

Nella fine di dicembre finì i suoi giorni Don Alessandro Gottardi parroco di S. Donato di Bologna, compianto da quei parrocchiani per la sua sollecitudine e premura verso gli infermi sopra tutto nella contingenza del passato contagio. Resse la chiesa per 22 anni. Sappiamo che durante il suo ministero fece accomodare la chiesa che era in cattive condizioni. Fece pure accomodare la canonica che era non meno deformata. Per questa spesa e molte altre si guadagnò l’amore e la benevolenza di tutti finché visse.

Inoltre eresse, come si scrisse, l’anno 1613 un beneficio laicale a favore di un chierico povero di Castel S. Pietro che volesse incamminarsi nella via ecclesiastica Beneficio sotto la invocazione della Visitazione di M. V. all’altare dedicato stessa nella sua chiesa. Alla sua morte la Comunità di Castel S. Pietro, per segnarne la pubblica riconoscenza, gli fece fare solenni esequie nella arcipretale con invito generale a ogni sacerdote a celebrare la S. Messa.

Dopo la cessazione del contagio il nuovo cardinale Legato ordinò che per maggiore cautela della popolazione si espurgassero tutte le case, domicili ed abitazioni dove erano stati i contagiati per assicurarsi della comune salute. La Comunità non fu indolente nell’applicare questa prudente determinazione e deputò quindi quattro dei suoi rappresentanti che facessero le visite a quelle abitazioni che erano state abitate dai contagiati. Adempirono il loro compito e si portarono nei luoghi indicati.

Furono 23 le case nel Castello ossia in Saragozza di sopra 7, in Saragozza di sotto 8, nella via de Pistrini 3 ed in via Maggiore 5, nel Borgo poi furono solamente 8. In alcune, come quelle che erano più sfasciate nelle pareti, fu ordinato ai proprietari di intonacarle con la calce. Quelle che erano di buone pareti furono solo sfrattonate. La nota di queste case, col nome dei proprietari si trova nell’archivio comunitativo.  Nella via dei Pistrini furono dei Rondoni, dei Gherobini e dei Bergami. Nella via di Saragozza di sopra furono dei Costa, dei Chersoni e dei Gini, in Saragozza di sotto dei Ricardi, dei Pirazzoli ed altri, nella via Maggiore dei Forni, Arighi, Fabbri e Comelli ed erano tutte abitate da inquilini. Nel Borgo furono dei Boldrini, dei Fabri, Morelli, Pasanelli, Bogni, Dalmonte, Calanchi, Andrin, Dalforte e dei Gini sopra tutto nel ghetto.

Non bastò questo alla Comunità che fece pure spurgare i pozzi di pubblica spettanza.  Di questi, perché superflui, ne fece chiudere due e furono uno nello stradello che è tra l’abitato dei Caldarini e dei Graffi e l’altro nello stradello che divide l’abitato dei Fiegna e dei Poggipollini. Se ne vede ancor oggi giorno la loro circonferenza alla superficie del suolo vicino agli edifici Graffi e Fiegna.

Gli altri cinque che rimasero al pubblico sono tutti di un egual fabbrica, misura e struttura. Il primo è dietro le mura a ponente contro la Rocca, il secondo in piazza Liana presso i frati di S. Bartolomeo, il terzo presso il palazzo Malvasia nella pubblica strada detta Framella, il quarto dietro al cimitero nella piazza detta di Saragozza ora di S. Francesco nell’angolo della casa già degli Orsolini.  Casa che fu poi fabbricata dal serenissimo Principe Galeotto Pichi. Il pozzo ora non si vede poiché il Principe con partecipazione della Comunità, lo fece levare per evitare i chiassi delle femmine che venivano a prendere l’acqua e fu sostituito con uno più in basso presso la casa Serrantoni e Dall’Osso. Infine il quinto pozzo, che si trova coperto nell’angolo a fianco della casa ora dei fratelli Parazza e che prima fu delle monache di S. Maria Egiziaca. Questo pozzo all’occorrenza si può riaprire al pubblico non avendo che una lastra sopra. Furono tutti svuotati dall’acqua e dalle immondizie e così assicurata la salute comune a spese pubbliche.

Le case, che erano state contagiate non solo dalla peste ma anche da altri mali, furono tutte profumate con zolfo, pece greca e bacche di ginepro. Furono anche bruciati nel fiume Sillaro le barelle ed altri legnami che erano serviti per gli appestati. Molte altre cose e precauzioni furono usate che per essere più minute ci risparmiamo annotarle. Il fuoco in questa contingenza si usò per fino per le immagini dei santi e i piccoli crocefissi per i baci e contatti avuti nelle case e fu proibito rigorosamente approfittarsi di ciò che era sospetto e destinato al fuoco.

I Cappuccini, che per le vicende funeste non avevano fin ad ora formata qui la famiglia loro, cominciarono ad abitare il loro nuovo convento con sei religiosi sacerdoti e due conversi. Quindi ancora non avevano il numero accordato con il decreto della congregazione dei vescovi del dicembre 1626.

1632 – 1633. Riprende il mercato dei bovini nel Borgo. Miracoli del Crocefisso della Compagnia del SS.mo. Istituzione della processione col Crocefisso la Domenica di Passione. Zingari tentano di rubare nella chiesa di S. Bartolomeo.

Nell’anno seguente 1632 il primo gennaio entrò Massaro Innocenzo Fabbri e Podestà fu Achille Volta.

 Il 2 gennaio fu ucciso Ippolito Ravaglia di Casalfiumanese da sicari forestieri.

Il 4 dello stesso mese si pubblicò un nuovo giubileo per i presenti travagli di guerra[93]. Si fecero perciò orazioni ed esposizioni del SS.mo per tre sere consecutive cioè il 12, 13, e 14 gennaio con la benedizione al popolo.

Il 24 febbraio, ultimo di carnevale, per i falò che si facevano universalmente nelle campagne, a causa di un vento alzatosi improvvisamente, si incendiarono in alcuni luoghi fienili e case. Al fondo Piombarolo restarono bruciati dal fuoco dei bestiami e nella stalla soffocati due fanciulli, lo stesso avvenne al Valesino, fondo nel quartiere della Lama. Durò il fuoco per tutto il giorno 25, primo di Quaresima.

La compagnia del SS.mo, eretta all’altar maggiore della parrocchiale, lo manteneva di tutto punto e qui perciò vi portava i suoi santuari e faceva tutte le sue funzioni. Perciò, proseguendo il voto fatto della visita alle chiese del Castello e Borgo, il 28 marzo, domenica di Passione, espose qui il suo crocefisso al culto pubblico senza velo. Il dopo pranzo, fatta la processione e cantato il Te deum, fu data la benedizione al popolo colla S. Immagine. Tanto ci lasciò scritto il Vanti nelle sue memorie.    

Lunedì 29 marzo 1632 si fece il mercato dei bovini nella via pubblica del Borgo che finora era stato sospeso per il contagio.

La porta detta montanara del Castello, che finora era stata chiusa, fu aperta e senza guardia.

Il 7 aprile morì Pietro Romani di Sassoleone per ferite ricevute il lunedì prima nel mercato.

L’11, giorno di Pasqua, si cominciò dalle compagnie ad andare il dopo pranzo in visita alla Madonna del Cozzo ad imitazione degli scampati della peste detti i Bianchi, senza alzar croce e recitando in voce dimessa il rosario. Giunte le compagnie alla Madonna si recitarono le litanie. Nel ritorno al Castello, quando furono sul ponte in faccia al Lazzaretto, intonarono a voce alta il De profundis in suffragio di quelli lì sepolti. Ciò si praticò sempre fino al 1771.

Il 17 maggio si cominciarono le Rogazioni della B. V. di Poggio.

 Angela Riari moglie di Vincenzo Dalferro, incinta, era ammalata con una alta febbre. Il medico Scassilioni l’aveva abbandonata in mano ai sacerdoti. Mentre passava la processione di M. V. avanti la sua casa in via Framella, fu invitata dai presenti a raccomandarsi alla S. Immagine. Suo marito fece voto che se ritornava in salute l’avrebbe con lui condotta per tre sabati a piedi scalzi a visitarla alla sua chiesa. Ascoltò la B. V. il voto e la moglie dette in un grandissimo sudore. Restò quindi libera in poche giornate e nel successivo giugno adempì la promessa col marito.

In questo tempo la Compagnia del SS.mo doveva indorare l’ornato dei fianchi intorno alla nicchia del suo Crocefisso nell’oratorio.  Fu incaricato il bolognese Battista Armaroli, questi, mentre saliva sul ponteggio gli si levò di sotto l’asse su cui poggiava.  Senza potersi afferrare cadde sopra la mensa dell’altare e gli ricaddero addosso alcuni materiali e strumenti. Fu creduto morto ma si riebbe e riaprì gli occhi. Fu sollecitato a raccomandarsi alla S. Immagine. Quindi fu levato dall’altare ove era caduto e fu portato nella vicina sacrestia. Qui si raccomandò al Signore ringraziandolo di non essere rimasto sul colpo, quindi si fece portare alla sua abitazione. La mattina seguente sentendosi libero dalle botte patite nelle braccia, capo e gambe si fece accompagnare nuovamente al suo lavoro che poi terminò colla maggior devozione possibile. Fece dipingere la tavoletta e la appose al santuario. Un miracolo di questa sorte commosse la popolazione e la spinse al culto di questa S. Immagine.

Cresceva sempre più in questi giorni la fama delle grazie che Dio dispensava mediante la S. Immagine del Lato. Ogni afflitto ricorreva per essere consolato e ne aveva la soddisfazione. Lucia Gardini di Castel S. Pietro, aveva un braccio paralizzato per un male irrimediabile, a lei ricorse e fu liberata. Lo stesso accadde a Battista Chersoni che era colpito da grandi dolori al capo da farlo talmente vaneggiare che talora diveniva furente. Fece lo stesso voto e fu liberato. Questi graziati andarono poi entrambi alla visita della S. Immagine. Peregrina Ruggi, che era stata per bubboni e glandole ridotta a fin di vita in tempo di contagio, si raccomandò alla S. Immagine e fu liberata. Gentile Loreta, che era caduta giù di un gelso ed era in pericolo di vita, si raccomandò alla S. Immagine e fu graziata.

Il primo luglio 1632 entrò Massaro Giovanni Annessi e Podestà il Conte Gualengo Ghisilieri.

Il 19 luglio morì il card. arcivescovo di Bologna.

Il 25 agosto fu ucciso il Conte Ramazzotto Ramazzotti figlio del Conte Pompeo e fu sepolto in Castel S. Pietro in questa sua parrocchiale.

Si racconta che l’omicidio fu eseguito da Giovan Battista Dall’Oppio con Carlo Bogni ed altri facinorosi. Questa notizia ci risulta da una supplica dello stesso Dall’Oppio presentata al Legato nel 1640.

Al Conte Ramazzotto, che aveva avuto diverse tresche con alcuni del paese, gli fu fatto l’agguato dalla casa della torre del Castello, ove oggi c’è il passaggio pubblico. Gli fu data una archibugiata da una finestrella che guarda il Borgo nel mentre che il Conte era là diretto. Fu ferito in tal modo che cadde e fu trasportato a casa sua.

Rizza Garetti che in quella casa, usata come bettola, era l’ostessa, fu carcerata per avere occultato l’autore dell’omicidio e fu punita.

Si addolorò talmente il Conte Pompeo per la morte di questo suo figlio che si ammalò gravemente e morì il 17 novembre. Fu sepolto nella nuova chiesa di S. Francesco.

 Il Conte Pompeo fu figlio di Ramazzotto Ramazzotti e di Angelica Fabbri di Castel S. Pietro. La famiglia Ramazzotti, come si riscontra nel Lib. Baptizat. di questo Castello, era presente fin dal secolo scorso in cui si ha la memoria di una Ginevra del Conte Ramazzotti.  Il 24 giugno 1579 si cita: Naque un putto al Conte Ramazzotti a cui fu posto il nome di Giuseppe. Poi una certa Panfilia Ramazzotti del 1586.

Il su citato Conte Ramazzotto di Pompeo è l’ultimo di questa chiara famiglia che troviamo segnato nel Lib. Mortuor.

Questi Ramazzotti furono tanto bellicosi nei tempi andati che per fino entro il casato nacquero baruffe tra loro. Fra queste quella in cui una volta vennero a parole due fratelli, figli del capitano Ramazzotti, passarono quindi ai fatti e restarono entrambi segnati cioè uno guercio e l’altro zoppo. Dopo pacificati andavano assieme e furono messi in ridicolo. Cosi quando si vedevano camminare persone accompagnate e che erano mutilate si diceva comunemente: Ecco la compagnia dei Ramazzotto, che l’uno e guercio e l’altro è zoppo.

Volendo la Compagnia di S. Caterina mostrare di essere grata anche ai frati di S. Francesco, il 5 dicembre passò a quelli 30 lire per elemosine affinché facessero orazioni e ringraziamento al Signore per il cessato contagio. Per ciò il giorno 8 dicembre facendo la festa alla Immacolata cantarono il Te deum dopo la benedizione del SS.mo. A questa funzione assistette la compagnia in forma.

Nel giorno primo gennaio 1633 entrò Massaro Gabrielle Cuzzani e Podestà il Conte Vincenzo Vittori.

Il 6 cominciò una neve così strepitosa che si alzò fino alla gamba ma durò poco poiché venne un vento di scirocco e si sciolse prestissimo e i fiumi, gonfiando, danneggiarono le campagne vicine.

Nel mese di marzo nella Villa di Poggio, un certo Tomaso Bendino lavorava un terreno in una pezza di terra detta Trifolce ove era l’antico Castello di Triforce, del quale restano ancora resti di edifici.  Mentre scavava uno scolo d’acqua incappò in un brulicame di serpentelli che uscendo da quei rottami gli si avviticchiarono alle gambe. Per quanto si adoperasse per toglierli non poté farlo da solo. Corse immediatamente alla abitazione più vicina, che era quella del custode della B. V. di Poggio, gridando aiuto. Il custode uscì e veduto il grave problema del povero uomo lo esortò a raccomandarsi alla B. V. che lo avrebbe salvato. Tanto egli fece di vero cuore ed il sacerdote, afferrando quelle bestiole con un pannolino, liberò quel povero uomo e si vide che le gambe non erano state offese. Fu una grazia singolare ed il graziato ne fece poi porre la tavoletta.

A Giovanni Frascari, che in quel quartiere stava potando un albero, gli si levò di sotto la scala e nel cadere coll’arma da taglio, si ferì a un’ascella con pericolo di morte. Ricorse alla detta S. Immagine e guarì in breve.

Era l’ultimo anno del voto che le compagnie avevano fatto di andare processionalmente alla chiesa di S. Pietro a recitare il Rosario per la liberazione dal contagio. Il 13 marzo, Domenica di Passione, l’arciprete volle intervenire alla funzione e, nel ritorno che facevano le compagnie alle loro chiese, dopo che furono alla parrocchia col popolo unito, diede la benedizione con lo stesso Crocefisso della Compagnia del SS.mo che teneva nelle mani.

Tutto ad un tratto si sentì gridare: Grazia! Grazia! Miracolo!  Miracolo! Il motivo fu che era intervenuto a questa funzione un certo Giacomo Calvani, muratore, che da qualche tempo camminava con le grucce per una caduta e non poteva rimettersi. Esso si offrì col massimo fervore alla S. Immagine, mentre l’arciprete dava la S. Benedizione con quella. Si sentì improvvisamente rinvigorito come se mai avesse avuto alcun male quindi, cacciate le stampelle, alzando le braccia al Signore glie ne rese le dovute grazie.

L’arciprete, che tanto aveva sentito, corse all’uomo guarito e lo condusse all’altare. Poi fece al popolo radunato un fervoroso sermone, usando le parole di S. Pietro quando liberò lo zoppo, In nomine Jesu surge et ambula. Accoppiò nel discorso la devozione fatta a S. Pietro ed a Cristo crocefisso qui portato in processione. Crebbe talmente la devozione a questa S. Immagine che d’allora in poi si proseguì sempre a celebrare la festa solenne e la processione nella Domenica di Passione[94].

Seguì nell’aprile successivo il matrimonio fra Paolo del fu Giovanni Fantaguzzi da Fano con Cornelia Calanchi da Castel S. Pietro che fu motivo che si stabilì qui la famiglia Fantaguzzi. Il defunto Giovanni era sergente militare sotto il comando di Giovan Francesco Casio ufficiale delle truppe papaline nella la guerra contro gli imperiali, e morì nella passata pestilenza.

Il 3 aprile, essendo priore della Compagnia di S. Caterina Giovan Battista Fabbri, la compagnia stabilì di andare a Bologna in cappa alle sette chiese di quella città. Vi andarono solennemente il 16 maggio seconda festa di Pentecoste.

 L’8 giugno morì l’ufficiale Francesco Casio. dopo una lunga malattia e fu sepolto in parrocchia con onori militari.

Affinché la gioventù del paese venisse istruita nelle scienze la Comunità, unita al sig. Giovanni Morelli, avanzò calde premure al Padre Giuseppe Calasanzio fondatore delle Scuole Pie. Il Morelli si offrì di dare i locali nelle proprie case. L’Ordine dei Padri della Scuola Pia fu fondato dal Padre Giuseppe Calasanzio, detto della Madre di Dio, al al tempo di Clemente VIII[95]. Fu approvata l’Ordine da Paolo V nel 1617 e confermato da Gregorio XV nel 1620.

Il Morelli non poté allora ottenere il suo scopo, quindi nel suo testamento, rogato l’11 febbraio 1634, si ricordò di questa sua patria e, per beneficio alla gioventù, lasciò per legato 5.000 lire ai Padri della Scuola Pia da impiegarsi nella fabbrica della loro chiesa in Castel S. Pietro, se avessero deciso di fare qui una loro sede.

Il primo luglio 1633 entrò Massaro Vincenzo Mondini e Podestà fu Paolo Dondini.

Nel Borgo nel mese di agosto morì in casa propria Giacomo Fabbri, detto il Castellano, per avere avuto molto tempo prima, la carica di Castellano a Dozza.

Il 18 settembre il canonico Giovan Battista Pietramellari  fu deputato dal card. Girolamo Colonna arcivescovo di Bologna, a visitatore generale della Chiesa nella diocesi. Questi si portò in questo Castello ad eseguire le commissioni del nuovo pastore. Visitò prima tutte le chiese del Castello e del Borgo poi passò agli oratori, prima del Castello poi fuori. Eccettuò S. Giacomo al ponte Sillaro a motivo che lì erano sepolti gli appestati.   

Visitò la chiesina della Madonna della Scania di recente fabbricata da Ottavio Fabbri e, siccome non vi era ancora alcuna immagine ordinò che si provvedesse.

Nel libro sulle visite dell’archivio parrocchiale sono elencati gli altari esistenti nella chiesa che erano 12. Cinque alla destra dell’ingresso e sei a sinistra. Subito a destra della porta maggiore c’era il fonte battesimale, seguiva il primo altare dedicato a S. Stefano, il secondo a S. Giacomo, il terzo alla S. Croce, il quarto a S. Nicolò da Bari ed il quinto dedicato i santi Biagio e Petronio. Quello della B. V. del Bon Gesù era sotto la finestra che riceveva la luce dalla via di Saragozza. Dalla parte opposta, cominciandosi dalla porta maggiore c’era il primo altare dedicato a S. Antonio Abbate, il secondo dedicato a S. Lorenzo, jus patronato degli Serpa, il terzo a S. Michele, jus patronato dei Rota, dove era stato fondato il beneficio di S. Michele Arcangelo ed ora vi è la cappella del Rosario, il quarto dedicato a S. Andrea, jus patronato dei Comelli, il quinto dedicato a S. Caterina Vergine e Martire, il sesto dedicato a S. Lucia ed Apollonia, jus patronato dei Morelli, ed era sotto l’altra finestra laterale all’altar maggiore. Infine l’ultimo altare al centro era quello, come al presente di ragione della parrocchiale dedicato a S. Maria Maggiore. Qui esisteva il quadro dipinto su legno con gli apostoli ed altri santi, opera del Sacchi.

L’8 novembre il sig. Lorenzo Pagnoni venendo dal suo casino, detto la Pagnona, nel quartier della Lama alla volta di Castel S. Pietro fu ucciso per vendetta da Vincenzo Magnani. La ragione era che, avendo il Magnani ammazzati dei colombi della colombaia del Pagnoni, questi l’aveva fatto trattenere quattro mesi in carcere. Il fatto avvenne nell’angolo della fornace dei Mondini ove il Magnani si era posto in agguato dietro a una siepe e gli sparò una archibugiata.  Fu immediatamente preso e il 15 dicembre pagò il fio sulla forca.

Si erano sparsi in questi contorni molti zingari, i quali rubavano ciò che potevano perfino nelle chiese. Un loro fanciullo si era nascosto nella chiesa di S. Bartolomeo e quando fu alta notte aprì una porta ed introdusse gli uomini. Questi nel passare alla sagrestia forse per rubare i vasi sacri, inciamparono in un campanello da messa. Il suo suono fece alzare il portinaio che, accortosi dei ladri, corse alla campana del convento. Si svegliarono i frati ed il vicinato, uscirono dalle abitazioni ed inseguirono i ladri che si dispersero nelle vicine boscaglie.  Si rifugiarono nelle grotte di Casalecchio dalle quali furono scovati affumicandoli. Poi presi gli fu dato il giusto castigo.

Alla fine di dell’anno fu tanta la neve caduta che caddero molti tetti alle case più deboli. La chiesa della Annunziata patì molto a segno che il 29 dicembre crollò il coperto dietro all’altar maggiore e restò così rotto per alquanto tempo. Poi i Fabbri, vicini di casa, ripararono a proprie spese alle rovine.

1634 – 1635. La Madonna del Rosario aggiunta ai santi protettori del paese. Elenco delle Maestà attorno al paese. Il Conte Antonio Malvasia fa restaurare la torre.

L’anno seguente 1634 entrò Massaro per il primo semestre Francesco Ricordi e Podestà Andrea Barbazza Manzoli.

Replicò la neve in gennaio e crebbe all’altezza di quattro piedi. L’esempio della rovina parziale del tetto dell’Annunziata insegnò ai paesani ad assicurare con puntelli le abitazioni.

Era stata eletta protettrice della città di Bologna la B. V. del Rosario, per avere liberato dal contagio, durante il quale fu fatto voto solenne di festeggiare ogni anno la sua gloria. Molti paesi del contado aderirono alle determinazioni della città, quantunque avessero fatti dei voti particolari. Così fece Castel S. Pietro aggiungendo la B. V. del Rosario ai due protettori S. Pietro e S. Bernardino.

 L’11 febbraio Giovanni Morelli, nazionale di Castel S. Pietro domiciliato a Bologna sotto la parrocchia di S. Giovanni in Monte, fece il suo testamento segreto a rogito del notaio Ser Gregorio Vecchi bolognese.  Il Morelli poi morì il 27 maggio e il 28 il testamento fu pubblicato.

Nel testamento del su lodato Morelli era contemplata generosamente questa sua patria con molti legati, ma la loro esecuzione non fu poi nel tempo effettuata dai P.P. Gesuiti, suoi potenti eredi. Quale fosse la sua grossa eredità si riscontra negli atti del notaio Monari del foro vescovile di Bologna. Aveva egli tre sorelle monache due in S. Vitale e l’altra in S. Margherita di Bologna. Le beneficenze previste per Castel S. Pietro le descriviamo perché il lettore dei nostri scritti le conosca.

Lasciò alla Compagnia del SS.mo SS.to la sua cappella nella parrocchiale col peso di tre messe da farsi celebrare dai P.P. Gesuiti, suoi eredi, il lunedì, venerdì e sabato in perpetuo e inoltre fare tre feste l’anno in perpetuo cioè di S. Lucia, di S. Ignazio e di S. Francesco Saverio.

Inoltre celebrare a Castello, in perpetuo il giorno della sua morte, l’anniversario con tutte le messe che si potessero avere per la sua anima, imponendo agli eredi, in detta cappella, una lapide indicante tutte queste disposizioni. Lasciò pure una messa in perpetuo ogni venerdì dell’anno all’altare del Cristo nella chiesa della Madonna di Poggio.

Infine che si facesse tre volte l’anno una Missione in Castel S. Pietro secondo l’istituto dei P.P. Gesuiti suoi eredi per quindici giorni, cioè nel tempo delle Rogazioni di M. V. e per otto giorni verso la fine di carnevale. La terza missione la rimetteva all’arbitrio del padre provinciale gesuita di S. Lucia.

Queste missioni si dovevano fare ogni tre anni e, nel caso che gli arcipreti pro tempore non volessero nella loro chiesa questi incomodi, ordinò a detti Padri di S. Lucia che si facessero in una chiesa ed oratorio nel Castello o in una parte della sua casa, che è quella dell’ospizio ora dei Barnabiti ove c’è un gran camerone di fronte alla piazza del Castello.

 Ordinò pure che nel tempo delle missioni si desse per elemosina quattro corbe di grano ridotte in pane ai poveri del Castello.

Ai Francescani lasciò una tavola grande rappresentante S. Antonio da Padova. Ai Padri delle Scuole Pie, qualora si fossero stabiliti a Castel S. Pietro, lasciò vari quadri esistenti nella sua casa. Pure al dott. Ippolito Scasilioni, suo medico, lasciò quadri di buona mano. L’asse ereditario ascendeva 95.455 lire. Le missioni e le elemosine furono eseguite fino all’anno 1696.  

Il 22 di maggio si fecero le Rogazioni della Madonna di Poggio e, perché il tempo fu piovoso, non si poté trasportarla alla sua residenza se non il 28. Ogni giorno che stette qui gli si cantò mattina e sera l’officio e il vespro dai confratelli della compagnia.

Essendo partito il Legato card. Santa Croce, entrò in Bologna il 30 maggio 1634 il nuovo Legato card. Benedetto Ubaldo Baldeschi perugino.

 Il 17 giugno venne un orribile temporale con vento e si vide la bisciabora[96] nei prati del Cerè.  Qui, dietro alle sue bestie, c’era un figlio di Domenico Lega colono del defunto Morelli.  Questi fu levato in aria e trasportato nei campi della vicina possessione detta le Querzole, senza che si facesse male. Il Lega attribuì la grazia al miracoloso crocefisso della Compagnia del SS.mo di cui era devoto e vi appose la tavoletta.

Il primo luglio 1634 entrò Giacinto Barbazza Manzoli. Il Massaro fu Sante Simbeni.

Componevano il Corpo comunitativo i seguenti: Sante Simbeni, Francesco Ricardi, Vincenzo Mondini, Sante Santoni, Alfonso Graffi, Innocenzo Fabbri, Gabriele Corniani, Francesco Poeti, Orazio Venturoli, Cristoforo Olivieri, Giovan Battista Musitelli, Pietro Andrini, Pietro Dalmonte, Giovanni Maria Simbeni, Ottaviano Baroncini, Sante Fabbri, Lodovico Rondoni ed Angiolo Comelli.

I su detti Mondini e Ricardi parenti tra loro, erano stati i primi del paese a prendere i Dazi. Furono marcati per traditori della patria poiché per loro cagione crescevano le liti col nuovo daziere Zaniboni di Bologna.

Marc’Antonio Gardenghi sposò Domenica di Andrea Raffanini nel mese di settembre. In questa occasione, facendosi acclamazioni con lo sparo di archibugi, nacquero non poche risse e tumulti fra i parenti dell’uno e dell’altra correndo il rischio di provocare ferite. Si interposero i Fabbri del Borgo, si pacificarono gli animi ed il paese tornò in calma.

Il 10 ottobre il card. Girolamo Colonna venne di persona a Castel S. Pietro e tenne la sua visita pastorale nella quale ordinò all’arciprete Don Lorenzo d’Alà di demolire l’altare dei Muzza. Da ciò poi egli patì molte vessazioni al punto di rinunciare alla chiesa.

Il cardinale andò poi alla visita del nuovo convento e chiesa dei cappuccini, i quali non erano ancora nel numero necessario ove apprezzò molto la pietà dei paesani. Andò poi alla nuova chiesa di S. Francesco il cui disegno è di Francesco Martini architetto bolognese. Alloggiò il porporato in casa Malvasia.

Il 25 ottobre morì suor Lena Lippi terziaria di S. Francesco e fu sepolta nella nuova chiesa dei francescani, di queste terziarie ve ne erano alquante nel paese e tutte si radunavano in una casa di Innocenzo de Fabbri nel Borgo in via di S. Pietro.

Domenico Aloisi da Linaro fu ucciso dai contrabbandieri di Castelbolognese. Il 5 dicembre Giovan Battista Marcolini dello stesso Castello in una baruffa con altri bravi del suo paese restò ucciso e così pure accadde il 30 dicembre nella persona di Bartolomeo Matti, tutti intervenuti al mercato nel Borgo.

Al principio dell’anno seguente 1635 entrò Podestà Alessandro Rochio e Massaro Giovan Battista Balduzzi.

 Il 20 febbraio il sig. Giovan Battista Giangrandi di Faenza sposò la sig. Angelica figlia di Innocenzo Fabbri discendente da Bittino dei Fabbri. Fu sposata nella chiesa dell’Annunziata in Borgo perché la famiglia dei Fabbri era sempre stata la custode della chiesa.

Siccome si era introdotto l’abuso di scrivere i verbali dei comunisti fuori della residenza e per questo accadevano disordini, così l’11 marzo il Consiglio decretò che per l’avvenire non si dovessero scrivere tali verbali se non in Consiglio.

Agnese di Virgilio Pirazzoli era da lungo tempo obbligata a letto per una scabbia con piaghe, detta fuoco sacro, non aveva mai riposo ed era pressoché disperata. Le fu suggerito di raccomandarsi al miracoloso crocefisso della Compagnia del SS.mo e di promettere di digiunare a pane e vino tutti i venerdì di marzo se otteneva la liberazione. Approfittò del devoto suggerimento e anzi anticipò il digiuno. Iniziò il 16 marzo e cominciò a migliorare.  Dopo aver digiunato il secondo venerdì precedente alla domenica di Passione, la domenica la scabbia le cadde come se fosse stata tanta semola.  Vedendosi così liberata si portò alla parrocchiale, ove era esposto il Cristo, scoperto secondo la consuetudine, e glie ne rese i dovuti ringraziamenti. Le piaghe poi si dileguarono e furono cicatrizzate coll’ungerle solamente con l’olio che ardeva davanti alla S. Immagine. Nell’anno successivo compì il promesso digiuno e ne presentò la tavoletta al santuario.

Il 15 aprile fu ucciso Matteo Casetti e messer Nicolò Gallanti nel mercato del Borgo.

Il 17 maggio Vincenzo Mondini, possessore di poche pertiche di terra nella via maggiore che dal Borgo porta al Castello, chiese alla Comunità di occupare un poco di strada onde formarvi il portico a due sue case che era in procinto di fabbricare. La Comunità si pronunciò favorevolmente. Le case sono quelle che hanno il portico isolato in faccia alla via di S. Pietro alla destra dello stradello morto[97].

In questo tempo entrò nel numero dei comunisti Angelo Michele Comelli.

I veneziani, che in questa epoca avevano rotta la pace col Papa, occuparono la torre di Primaro ma furono in breve scacciati. A questa impresa intervennero l’alfiere Battista Fabbri e il suo capitano Biagio Sgarzi di Castel S. Pietro con molti altri paesani e soldati. Da lì passarono al veneziano ove stettero fino alla pace.

Poiché continuava la fama di continui miracoli che Dio operava mediante la S. Immagine della sua cara Madre Maria di Poggio, lunedì 14 maggio, mentre si faceva la processione prima delle Rogazioni, fu condotta alla visita della S. Immagine una bellissima giovane della famiglia Garavina di Castel bolognese che era oppressa da uno spirito diabolico. Suo padre l’aveva portata sperando di liberarla. Il dopo pranzo prima del vespro fu introdotta nell’oratorio ove era la B. V. L’arciprete Alà la condusse davanti a questa e, dopo breve preghiera, ordinò in nome di Gesù allo spirito cattivo che l’occupava di abbandonare quel corpo da esso indebitamente invaso e ciò in virtù dei meriti di M. V. Santissima. La giovane dopo alcune convulsioni e un alto grido, restò liberata con stupore di quelli che vi erano presenti. La giovane poi finché visse per il corso di 16 anni venne a Castel S. Pietro alla visita della sua liberatrice offrendole sempre cera.

A causa della siccità e della mancanza dell’acque necessarie alla campagna i seminati languivano e molti non crescevano. Furono ordinate Orazioni per la qual cosa, oltre le esposizioni del SS.mo e le processioni, si diceva anche la Cerimonia pro pluvia con la messa. Finalmente Dio si mosse a pietà e nel giorno 17 maggio, festa della Ascensione, dopo la benedizione alla B. V. di Poggio, venne una dirottissima pioggia che innaffiò le nostre campagne.  Proseguì il venerdì e il sabato e si poté riportare alla sua residenza la S. Immagine solo la domenica seguente alla sera dopo aver replicata la benedizione.

Il 17 giugno morì Alberto Cavazza, chirurgo locale che era stato molti anni nel grande ospitale di Firenze. La sua morte fu causata dalle sue laboriose operazioni e perdette Castel S. Pietro un giovine di grande aspettazione (veniva chiamato il Dottore).

Il primo luglio 1635 entrò Massaro Ottaviano Baroncini e Podestà Gaspare Feliciani.

La Comunità aveva fuori della porta maggiore del Castello, nell’angolo ove è il lungo fabbricato dei Conti Stella, lungo la strada che si dirige al fiume, poche pertiche di terreno con una piccola celletta dedicata a M. V.  Queste furono vendute a Paolo Manzi di Bologna per 70 lire.

Questo acquisto fu fatta allo scopo, come seguì, di costruirvi una cella migliore per M. V. di S. Luca per la grazia particolare che aveva ricevuto il detto Manzi quando nell’aprile scorso scampò alle archibugiate in mezzo alle quali si trovò quando furono uccisi il Casetti e il Gallanti. (il 15 aprile precedente)

 Di queste celle dedicate a Maria se ne contavano molte nel nostro territorio ed erano tutte poste negli incroci delle strade. Potevano tenere all’interno quattro o sei persone ed avevano un altarino e nel davanti una grata, di ferro o di legno. Se ne contano in questa epoca che noi scriviamo le seguenti: Madonna del Cozzo nella via romana che porta ad Imola, al fondo Sega nella via che porta a Medicina, nella stessa via fuori dal Borgo quella di S. Carlo, da cui la strada riportò il nome, alla Riniera, che ora è dedicata a S. M. Maddalena, divenuta oratorio atto alla celebrazione della messa, nella via che porta a Castel Guelfo, fronteggiante la via romana dedicata a S. Maria Lauretana, detta la Madonna di Carnone, perché  vicino vi abitava un grasso villano  a cui non piaceva lavorare, un’altra in fondo al Borgo verso Bologna attaccata al fabbricato Gini in cui si vede da una finestrella rotonda la B. V. con altri santi. Questa era nel crocicchio della strada che circondava la antica fossa del Borgo.  Un’altra era più oltre andando verso Bologna alla destra contro la via che discende e porta a Poggio ed era detta della Crocetta, distrutta in questi giorni per impedire ai malfattori di ripararsi dentro.  Altra simile era in faccia al palazzo Vacchi dietro la fossa del Castello sulla strada che porta al fiume, che pure era nascondiglio di gente cattiva. I Vacchi la distrussero e edificarono in sua vece un pilastro coll’immagine di Maria SS. come si vede ora. Queste cellette venivano anche chiamate Maestà, le quali poi, per distinguerle l’una dall’altra, portavano il nome e cognome del loro possessore.

Il Manzi dunque, fatto l’acquisto dalla Comunità del terreno e della celletta, ne edificò una più bella e grande dedicandola a Maria SS. di S. Luca. Ora è profanata e ridotta dai Conti Stella ad uso di bottega, ove si vedono ancora gli ornati in rilievo che il gentiluomo Taddeo Riguzzi, successore del Manzi, vi aveva fatto fare per maggior onore della S. Immagine.

Compiuta la fabbrica della chiesa di S. Francesco sul disegno dell’architetto Francesco Martini e facendosi internamente dai compadroni delle cappelle i rispettivi altari, la Comunità fece fare anche essa il suo altare con l’ornato da Giovan Battista Rieti da Novara che era il miglior scultore di questi tempi. Spese la Comunità in questa manifattura lire cento nell’artefice, i materiali non furono computati in questa spesa.

La lunghezza del tempo aveva deformata la torre di questo Castello di proprietà della Casa Malvasia ed in alcuni luoghi era sconnessa sopra tutto nella facciata che guarda il Borgo. Il Conte Antonio Malvasia la fece restaurare e, come padrone, glie ne appose la seguente lapide nella facciata verso l’interno del Castello.

Turrim hanc

Diuturnitate temporis ex parte

Dirutam ac deformatam

Antonius Galeatius Malvasia

Aule Cesaree et Castri Fulcini Comes

restituit ac reformavit

Anno D.ni MDCXXXV[98]

 Contemporaneamente aveva tolto la lapide della edificazione del Castello trasportandola a nel suo giardino[99].

Il 7 novembre il Conte Malvasia fondò, all’altare di S. Carlo nel Borgo nella chiesa della SS. Annunziata, una cappellania di 120 lire annue, con una dote di cinquanta messe annue. Le assegnò poi otto tornature di terra nel comune di Castello in un luogo detto la Balduzza.

Il Conte Anton Galeazzo Malvasia desiderava occupare un pezzo di suolo pubblico dietro le mura, delle quali ne era rovinata una buona parte, dal confine dei Locatelli fino al convento dei frati di S. Francesco.  Il 3 dicembre 1635 dette al Senato di Bologna un memoriale chiedendo anche la facoltà di edificarvi sopra. Fu scritto alla Comunità per l’informazione e il parere. Rispose favorevolmente e qui terminò l’anno.

1636 – 1638. Il Conte Malvasia e il Marchese Locatelli ottengono di occupare del suolo pubblico sulle mura e i terragli. La Comunità affitta le fosse per ricavare denari per riparare le mura e le porte. Artisti di Castello vincono la causa contro le Arti di Bologna.

Il primo gennaio 1636 entrò Massaro Gabriello Cuzzani e Podestà fu Ippolito Bargellini.

Nella Sapienza di Roma fu addottorato in jure Nicolò Comelli fratello dell’arciprete Don Alessandro. In quella città esercitò con lode la Curia.

Non bastava alla popolazione di Castel S. Pietro la lite sopra la esenzione dei Dazi e gabelle per i giorni di mercato che ne insorse un’altra più rabbiosa da Bologna contro gli artisti del paese. I primi che furono chiamati in giudizio furono i gargiolari e i salaroli, pretendendo che dovessero essere soggetti alle leggi ed alla obedienza dell’arti di Bologna.

I nostri padri agostiniani avevano, per i segnali ai fedeli, due piccole campane sopra un muro. Avendo visto che i frati di S. Francesco si erano fabbricati un bel campanile, decisero di imitarli quindi il 4 febbraio concordarono con mastro Angiolo Astorri la fabbrica del loro campanile con una spesa di 930 lire come si vede dal pubblico instrumento rogato dal notaio Silvio Accorsi

In seguito del memoriale dato dal Conte Malvasia il 3 dicembre scorso, il Senato il 13 febbraio 1636 gli concesse di occupare il suolo pubblico dietro le mura per tutta il fronte dei suoi edifici e di fabbricarvi sopra. Successivamente vi fabbricò da una parte una torre ad uso di colombaia dall’altra una abitazione aderente al convento dei Francescani ed in mezzo vi fece il giardino.

 Compiuta la fabbrica della chiesa di S. Francesco, il guardiano padre Orazio Fabbri, fece fare il grandioso ed ottimo organo dal celebre organista Giuseppe Bresciani.

Il 9 marzo, domenica di Passione, si portò il crocefisso scoperto dall’oratorio del SS.mo nella arcipretale poi non si fece la processione per il Borgo e il Castello per il timore di nuovo contagio.

 14 aprile morì Giovan Battista Balduzzi e i seguenti giorni 28, 29, 30 si fecero le Rogazioni solamente nell’Oratorio e nella parrocchiale a causa delle continue piogge.

Il primo maggio, festa dei santi Giacomo e Filippo, Vincenzo Mondini, proprietario della chiesa a loro dedicata, fece ad essi una festa così solenne come non era mai stata fatta.

Il primo luglio entrò Massaro Francesco Prati e Podestà Ottaviano Zambeccari.

Il raccolto fu tanto scarso che in agosto fu fissato il calmiere a15 lire la corba.

Fu celebrato in questo tempo il matrimonio fra Alfonso Graffi ed Agnese di Orazio Caprara.

Era stata emessa la sentenza dal Tribunale della Grascia di Bologna nella lite delle esenzioni per i giorni di mercato ed era contro la Comunità di Castel S. Pietro. Perciò la Comunità presento appello nel foro civile di Bologna.

Finì i suoi giorni quest’anno il sig. Bartolomeo Gnitti, ultimo di questo antico casato di Castel S. Pietro, e lasciò eredi del suo pingue stato le Monache di S. Bernardino di Bologna. La sua casa era quella che forma angolo nell’ultimo crocicchio della via di Saragozza di sotto ove c’era un pozzo pubblico che al presente è coperto con una lastra.

Il giorno primo gennaio dell’anno 1637 entrò Massaro Lorenzo Prati per la prima volta. Podestà il Conte Filippo Caldarini.

Il marchese Giovanni Locatelli aveva fatto domanda al Senato di potere occupare il terraglio della parte superiore del Castello, ove nell’angolo della mura a palizzata c’era un baluardo rotondo, per potere fare un orto. il Senato glie lo accordò a condizione che non danneggiasse la fossa e che, occorrendo il suolo al pubblico, si togliessero le costruzioni fatte, lasciando ai Locatelli i materiali. Non passò molto che nel detto baluardo fu fabbricato il bellissimo torresotto rotondo.

Cesare Rinaldi, figlio dello speziale Domenico, ebbe affari con Bartolo Bindini, dopo reciproche contumelie, il Rinaldi prese un vaso di vetro e lo lanciò in faccia al Bindini, questi, grondando di sangue, corse immediatamente ad armarsi.  Il Rinaldi chiuse subito il negozio. Il Bindini, armato di un’accetta, vedendo chiusa la bottega, sfasciò la porta ed entrò. Non trovando il giovanotto, scompigliò tutto, rompendo disperatamente tutto ciò che poté creando un grave danno ai Rinaldi. Ebbe tanto spavento il giovanotto Rinaldi che fuggendo si gettò nel pozzo ma, subito preso, sul momento si salvò ma morì poco dopo.

Il 29 marzo, domenica di Passione, fu esposto il crocefisso della compagnia del SS.mo all’altare maggiore della parrocchiale per fare la consueta processione.  Questa non si poté effettuare a causa della pioggia accompagnata da neve.

Il 12 aprile, giorno di Pasqua, le compagnie del paese andarono, secondo il pio uso introdotto, al Lazzaretto vecchio a fare il suffragio alle anime dei sepolti per il contagio

Il 17 maggio   si cominciarono le Rogazioni di M. V. di Poggio. In tale occasione Sante Gallanti di Fiagnano, che era da vari anni obbligato al letto con febbri ostinate e non si rimetteva, si fece portare a Castel S. Pietro davanti alla S. Immagine e qui si raccomandò caldamente alla Madonna. Terminate le Rogazioni si trovò, per mezzo suo, perfettamente liberato.

Il 10 giugno messer Nicolò Gallanti di Corvara fu ucciso da sicari e fu sepolto in parrocchia.

Si trovavano le mura del Castello in così pessimo stato, ed in alcuni punti aperte, così che di giorno e di notte entravano e uscivano le persone facinorose e massime i ladri. Pensò la Comunità di riparare ad un tanto disordine e magari ricavare delle entrate. Il 15 giugno, riuniti i pubblici rappresentanti, fu fatto un importante discorso sopra le necessità comunitativa e sulle mura come difesa agli abitanti e delle e persone facoltose le quali, per timore di assalti, andavano altrove.

Perciò, essendo povera la Comunità, per ricavare il danaro per accomodare le mura pubbliche, non avendo altra entrata che la fossa del Castello e i terreni aderenti, dentro e fuori, alle mura, decisero di dare in affitto tanto i terragli interni che esterni. Perciò deliberarono di fare un contratto di enfiteusi in perpetuo con Giovan Battista Fabbri con il canone annuo di lire trentadue. Inoltre il Fabbri doveva mantenere per tutto il circuito del Castello la mura all’esterno alta 11 piedi da terra col suo capello e gettare la terra fuori della mura nella fossa del Castello. Tutto ciò sempre che il Senato lo accordasse e col patto che la Comunità imponesse custodi alle porte, che le porte fossero fatte entro due anni e che i custodi fossero decisi dal Fabbri.

Benché il 16 giugno tale deliberazione fosse stata accettata dal Fabbri essa non ebbe il suo effetto poiché sorsero questioni legali, onde fu fatto giudizio al tribunale a Bologna, nella qual causa si intromise anche il Senato.

Il primo luglio 1637 entrò Podestà il Conte Alberto Prati, chi fosse il Massaro non ce lo dicono le carte dell’archivio comunitativo.

Il 18 luglio Ottavio Fabbri di Castel S. Pietro fece il suo ultimo testamento a rogito di Ser Pietro Scarselli notaio bolognese. Il Fabbri ordinò un fidecommesso discendentale nella linea maschile della sua famiglia, maschio per maschio cosicché, estinta la linea maschile, subentrava la Compagnia capata del SS.mo SS.to di Castel S. Pietro coll’obbligo di dotare ogni anno tante donzelle del paese, di buona fama e parentado, dandole 200 lire per dote a ciascuna da ricavarsi dai redditi della sua eredità. Neppure questa disposizione venne rispettata quantunque si fosse estinta la linea maschile del testatore essendo stato l’ultimo maschio il capitano Valerio junior l’anno 1770.

Quest’anno morì l’Imperatore Ferdinando secondo d’Austria nella cui corona successe Ferdinando terzo[100].

 Finalmente, dopo tre anni da che era stato pubblicato il testamento di Giovanni Morelli, i gesuiti cominciarono ad eseguire alcune delle sue disposizioni e cioè il giorno 13 dicembre, la festa di S. Lucia, venne il Padre Giacomo Ballarini e fece la elemosina del pane prescritta nel testamento. Poiché la folla dei poveri premeva disordinatamente il dispensiere del pane abbandonò tutto al furore di quella. Per evitare un simile disordine negli anni successivi si fecero cuocere tante pagnottine con il nome di Gesù da una parte e dall’altra un sigillo con lettere iniziali A. M. D. C.

L’anno 1638 entrò Massaro Ottaviano Baroncini per il primo semestre e Podestà il Conte Stefano Pepoli. Sotto il governo di questo Podestà, essendo in cattivo stato la prigione pubblica che si trovava sotto il portico della residenza pubblica, la fece riattare internamente.  Esternamente la fece dipingere a scacchi neri e gialli e bianchi conforme allo stemma pepolesco, il tutto a proprie spese.

Il 6 gennaio morì il dottor Silvio Gioseffo Antonio figlio del dott. Scasilioni e fu sepolto in questa parrocchiale.

Il 23 gennaio prese fuoco la casa della Commenda vicina al cimitero pubblico, si danneggiò tutto l’edificio. C’era qui un tronco di torre che aveva al primo piano una corona di merli, fu atterrata per soffocare il fuoco. Era anticamente la torre dei Feliciani. In tale contingenza rovinò tutto il voltone di pietra che si univa ad un alto muro che serviva di recinto al cimitero parrocchiale.  Non fu più rifatto né più si rifece e così restò aperta la veduta della chiesa dei francescani il che piacque alla popolazione.  A diversità dell’operato dell’attuale arciprete Calistri che, per far dispetto a quei poveri frati, ha accresciuta la casa del suo campanaro sopra il cimitero fino al confine del muro della Commenda per nasconde la chiesa e la piazza davanti ai frati. Di questo lavoro ne scriveremo alla sua epoca.

I gesuiti di Bologna che, secondo il testamento del Morelli, avevano l’obbligo di fare le Missioni in questo luogo per quindici giorni in tempo di carnevale, mandarono il Padre Alvaro Testi modenese il primo di febbraio a predicare con due compagni. Durò la missione solo otto giorni.

Il 3 giugno, festa del Corpus Domini, la Comunità, che fino a questo giorno, aveva cessato di andare alla processione a motivo del contagio, ripristinò il suo accompagnamento che avveniva con lumi per tutta la lunghezza della piazza, precedendo il clero e dopo avere ricevuto sotto il baldacchino il SS.mo.

Il 6 giugno a Bologna fu ucciso Troilo Carnevali, capitano delle milizie di Budrio, alla mezzora di notte con due archibugiate. Questo omicidio fu commesso da Polidoro Romagnolo, Francesco Caldaroni, Matteo Gnitti da Castel S. Pietro e Stefano Pignatarini non ostante che fosse seguita la pace fra il Troilo e il Pignatarini per altre liti avute a Budrio.

Questo delitto fu fatto commettere dal Pignatarini ai primi due sicari, che erano di Castel bolognese, in giorno di sabato a tradimento. Per questo fu bandito capitalmente con gli altri.

Il primo luglio 1638 entrò Massaro Innocenzo Fabbri, Podestà fu Don Giovan Battista figlio del Senatore Gregorio Boncompagni. Questo fu l’ultimo anno della sua vita poiché 22 agosto 1639 morì in età di anni 21 in Bologna e fu sepolto in S. Martino Maggiore nella sua cappella.

Il dott. Don Lorenzo Alà, arciprete di questo Castello, stanco di tenere questa chiesa e per altri motivi, come si accennò in precedenza, temendo per la sua vita, rinunciò alla cura a favore di Don Alessandro Comelli, senza essersi accordato con la pubblica rappresentanza.

Finalmente, dopo un lungo litigio con le Arti di Bologna, gli artisti di Castel S. Pietro riportarono una sentenza favorevole davanti al Confaloniere Francesco Maria Bentivoglio e gli Anziani il giorno 30 agosto 1638 per gli atti di Vittorio Poggi Notaio. La Comunità concorse alle spese e pagò 40 lire. Perché tale sentenza non andasse dispersa gli artisti di Castel S. Pietro la fecero stampare nell’anno 1715 in Bologna per il Benazzi, stampatore camerale, tanto in latino, come fu promulgata, quanto in toscano perché l’intendesse anche chi non possiede la lingua latina. Questa sentenza non solo esclude la obbedienza e il tributo pecuniario alle Arti di Bologna ma l’osservanza delle leggi, statuti e bandi che hanno per oggetto le Arti e i Lavori di Bologna.

Il 4 settembre Stefano Topi fu giustiziato a Bologna, scannato e squartato per l’omicidio commesso nella persona di Margherita Fabbri di Castel S. Pietro per toglierle la roba e i danari.

Orazio Morandi chiese alla Legazione l’appalto in privativa del pan bianco di questo Castello.  Ma, poiché c’erano altri competitori, entrò in campo la Comunità e scrisse al Legato Giulio Sachetti implorando da esso la decisione. Il Legato il 21 settembre accordò l’appalto al Morandi con la condizione che se il pane non fosse della qualità promessa in peso e bontà, fosse lecito al Massaro vendere all’incanto.

Stefano Pignatarini, uomo iniquo e pericoloso, volendo veder morto Ottaviano Baroncini da Castel S. Pietro, si accordò con Carlo Simbeni detto Paletta, Livio Occursio e Francesco Morandi tutti di Castel S. Pietro. Questi si armarono di archibugio e decisero di mettersi in agguato all’osteria di Battista Briganti nel Borgo. Concertarono che tutti gli sparassero un’archibugiata il 26 dicembre allorché passava davanti all’ osteria. L’agguato non ebbe effetto poiché, il Baroncini, avvisato, si nascose.

1639 – 1641. Decisione di costruire la Cappella del Rosario. Bande di prepotenti imperversano nel paese bastonando e sparando. Consacrazione della chiesa dei Cappuccini. Altare dell’Unione dei Gargiolari dedicato a S. Vincenzo.

L’anno 1639 entrò Massaro Gabriele Cuzzani e Podestà il Conte Lodovico Bentivoglio e per il 2° semestre il Conte Francesco Barbadori.

La Compagnia del SS.mo SS.to, era regolata secondo la volontà e il capriccio dell’arciprete circa le modalità delle sue funzioni pubbliche massime nelle Rogazioni di M. V. di Poggio.  Essa era malcontenta per gli inconvenienti nati e vedeva un varco aperto ad altri con pericolo anche per le persone.  Infatti aveva avuto questioni colla compagnia di S. Caterina in ordine alle precedenze e priorità. Quindi ricorse all’arcivescovo per averne una decisione secondo le leggi e i particolari statuti. Non fu sordo il card. Colonna e incaricò il suo vicario Mons. Domenico Odifreddi che chiamò a sé il priore Vincenzo Mondini e gli impose i Capitoli e gli Statuti per il governo della sua compagnia.

Egli appena ricevute le leggi chiamò a congregazione tutti i confratelli componenti il Corporale della compagnia. A questi, presente l’arciprete, fatta la solenne lettura dei capitoli, ordinò a nome del Vicario ed arcivescovo la loro piena osservanza.

 Nel mese di marzo morì Giovanni Balduzzi di anni 55.

Il 10 aprile domenica di passione non si poté fare la processione del Cristo scoperto per il paese per la continua pioggia, ma si fece entro la chiesa parrocchiale da dove, data la benedizione al popolo, fu trasportato così scoperto nel suo oratorio.

Il 28 aprile fu ucciso messer Orazio Zanchi in giorno di mercato.

Dopo questo fatto Carlo Bogni voleva sposare Margarita Fanti, di lui favorita ed incinta, con Pietro Spisi povero uomo e così mettere in sicuro la donna. Si portò con cinque armati alla casa dello Spisi e lo minacciò di morte se non le dava la parola di sposare la donna. Lo Spisi, avvilito da tanta prepotenza, gli dette la parola ma non la mantenne.

Allora il Bogni si unì con il grande sicario Tifeo Pignatorini e ritrovato il povero Spisi lo condussero nei boschi vicini alla Gozzadina, là essendovi la donna preparata, gli fecero ripetere la promessa e dare la mano fra loro. Fu prefissato anche il termine dello sposalizio sotto la minaccia della morte. Non andò molto che si fece il matrimonio non ostante il Governo fosse stato informato.

La stagione era andata molto buona e i raccolti erano bellissimi. Si videro in maggio le spighe molto piene.   Perciò Vincenzo Mondini, priore della Congregazione del SS.mo, durante le Rogazioni di M. V., preparò un gruppo di fanciulli tutti vestiti di bianco e con corone di rose, viole e spighe. Questi si presentarono alla B. V. di Poggio quando passò davanti alla sua casa in strada Maggiore. Quattro di tali fanciulli avevano le corone, quattro un cestino per ciascuno ed altri quattro portavano lumi e così fu condecorata la funzione.

Nella parrocchiale all’altare di S. Michele, jus patronato dalla famiglia Rota, era stato eretto un beneficio sotto l’invocazione dello stesso santo.  A questo altare era stata eretta anche la compagnia del Rosario o Unione di fedeli devoti, la quale vi faceva molte devozioni ed orazioni. Questa Unione o sia Compagnia Larga era composta nella maggior parte dagli uomini del corpo comunitativo, dagli ottimati del paese e da altre persone della compagnia del SS.mo e di S. Caterina.  Fu avanzata la proposta da Innocenzo Fabbri, uomo di autorità ed abitante nel Borgo, da Vincenzo Mondini, da Stefano Annessi, da Cristoforo Fabbri detto il Filosofo, di edificare una grande cappella che si estendesse sopra il cimitero ad onore di M. V. sotto la invocazione del Rosario, tanto più che da questa era venuta la liberazione dal contagio come ripeteva tutta la popolazione del Castello e del Borgo.

Quindi, comunicato da essi tale pensiero all’arciprete e a Giovanni Jussi che era il priore di questa Unione, la proposta fu applaudita e da tutti accettata. Furono quindi dichiarati delegati alla preparazione del lavoro messer Domenico Rinaldo e i suddetti della Unione affinché facessero la questua e la raccolta di fondi nel paese.

Intanto fu fatto fare il progetto al valente architetto Francesco Martini di Bologna. Ottenuta la approvazione della Comunità, per avere il permesso di occupare parte del cimitero, si informò il Superiore dei domenicani come quelli a quali spetta, per costituzioni apostoliche, la fondazione della Compagnia del Rosario, la direzione della sua Compagnia e gli altari dedicati al SS.mo Rosario.

Si ricorse per ciò al Padre Giacinto Gianinelli, uno degli inquisitori domenicani di Bologna, affinché procurasse in Roma l’approvazione del R.mo Padre Francesco Gallassino, Priore generale dei domenicani, per la Cappella e confermasse in questa la Compagnia del Rosario. Ciò seguì e si ottenne il decreto il 12 maggio 1640.

Distinguendosi colle sue rare virtù e prerogative di religione il Padre Agostino Dalla Valle nazionale di Castel S. Pietro, prozio di questo nostro notaio Giambattista Dalla Valle, fu il primo marzo, dopo avere coperto altre cariche nell’ordine dei Servi, eletto Confessore del Palazzo apostolico in Roma. Gli annali dell’ordine lo fanno bolognese per avere presa la figliolanza in S. M. de Servi.

Il primo luglio 1639 entrò Massaro Francesco Prati e Podestà il conte Lodovico Bentivoglio,

Rosa, moglie di Francesco Cavazza, morì in questo giorno primo luglio, prima fu monaca domenicana a Imola, ma non potendo professare per le promesse di matrimonio, abbandonò il chiostro.

Il 10 agosto fu ucciso Andrea Baroncini.

Il nuovo arciprete Comelli pretendeva dai poveri del paese la mercede per il suono delle campane quando morivano, come pure per la morte dei comunisti, che mai in passato avevano pagato cosa alcuna. La povertà fece ricorso alla Comunità onde reclamasse avanti al superiore ecclesiastico. In seguito di ciò il Vicario Generale emise il 20 agosto il seguente Precetto (…) Comandiamo a Voi sig. D. Alessandro Comelli arciprete della Comunità di Castel S. Pietro non dobbiate riscuotere cosa alcuna per suonare le campane per li poveri morti sotto pena di l. 500 e ciò stante il decreto dell’ill.mo sig. Gio.  Battista Pietramellara

Stante la mancanza di alcuni posti nel Consilio, furono per ciò aggregati Trajano Scasilioni, Filippo Bettini, Giovanni Farnè e Giovanni Bonetti. Entrarono nel seguente settembre. Morì Antonio Rinieri d’anni 95 ultimo della sua antica prosapia di questo luogo.

Giovan Battista Dall’Oppio, Carlo Bogni, Teseo e Stefano Pignatorini, tutti di Castel S. Pietro, temendo di essere presi dalla Corte, si associarono con altri banditi capitali fra quali Nicolò ed Antonio Barbieri di Castel Bolognese, Giulio e Cesare Zanotti con Carlo Piletti che formarono una truppa di quindici armati di pistole, archibugi ed altre armi.  Questi perciò camminavano liberamente per il Castello e il Borgo, nei mercati e dove loro piaceva, vendicandosi colle botte e le uccisioni di quelli che gli facevano o avevano fatto torto.

In questa occasione Carlo Bogni fece bastonare Andrea Battilana da Tomaso Zampalone perché il Battilana si era espresso contro quello per l’omicidio del Conte Ramazzotti. Oltre questo reato il detto Bogni fece altri misfatti, cioè fece bastonare malamente Giuseppe Mazza sbirro per avere pignorato un suo amico nel Borgo. Spalleggiò Lorenzo Graffi di Castel S. Pietro mentre bastonava Carlo Lodovico Rognone, diede coll’archibugio botte a Marco Corniani, parimenti in compagnia di Battista Dall’Oppio ebbe parte nelle archibugiate sparate contro Matteo e Filippo Carnevali a Budrio ove quest’ultimo restò colpito in un braccio. Per questo ebbe, con Battista Dall’Oppio, da Giovan Battista Pelloni e Domenico Sarti 200 scudi. Dette pure mediante Teseo e Stefano Pignatarini il veleno a Don Andrea Nanni e un suo nipote, avvelenando una torta. Questo per il sospetto che i Nanni avessero trattato colla Corte per darle in mano i banditi capitali Onorato Gola ed Antonio Barbieri.

L’anno seguente 1640 entrò Massaro per il primo semestre Angiolo Michele Comelli e Podestà Claudio Anibale Gozzadini, il suo notaio fu Domenico Ugolotti che servì anche la Comunità come cancelliere e segretario.

Sante Alboresi detto d’Alboro, il 19 febbraio morì in età di 90 anni dopo una caduta sospetta giù dalla scala in casa propria.

I frati di S. Bartolomeo che abitavano in questo convento erano quattro professi cioè Padre Ottavio Ricci da Castel S. Pietro priore e depositario, Padre Pompeo da Cervia, Padre Francesco Da Finale e Padre Alfonso da Castel novo e due conversi, frati romagnoli. Questi morirono improvvisamente nello stesso giorno, che fu il 26 febbraio, senza avere avuto alcun male in precedenza. Si fece loro la sezione del cadavere e si ritrovò tutto il fegato rovinato. Fu incolpato Stefano Pignatarini di averli avvelenati perché non avevano voluto ricoverare un suo nipote ricercato dalla giustizia.

Il 15 marzo, domenica di Passione, si fece la funzione del crocefisso scoperto. Fu portato processionalmente alle due porte del Castello e si diede con esso la benedizione alla campagna per essere cessata la pioggia che continuava dagli ultimi febbraio.

Il 10 aprile morì Bernardo Bindini, di questa famiglia in meno di un mese ne morirono quattro. Nacque il sospetto di contagio. Si chiuse perciò la loro abitazione e così rimase per 40 giorni. Le persone quindi vivevano con grande circospezione anche nei cibi.

In seguito delle petizioni fatte a Roma per la cappella del Rosario, l’inquisitore e priore Generale dei Domenicani confermò per Bolla la Compagnia del Rosario in questa parrocchiale di Castel S. Pietro con tutte le indulgenze. Era Inquisitore il R.mo Francesco Galafini.

Il 30 maggio morì Alfonso Graffi e fu sepolto nella chiesa di questi padri francescani avanti l’altare di S. Antonio Abbate al quale vi era eretto un beneficio lajcale, jus patronato dei Graffi.

Il 12 giugno venne il nuovo Legato a Bologna. Era il cardinale Stefano Durazzi genovese, suo Vice legato fu Cesare Racagni di Brisighella. L’uno e l’altro furono severi esecutori di giustizia. Il 16 giugno, rivisto il processo fatto a Giacomo Cavina di Castel S. Pietro per avere commesso molti assassini, fu impiccato e squartato a Bologna, poi i quarti furono posti nelle piane di Maggio dietro la via maestra, dove aveva commesso i delitti ed a Castel S. Pietro sua patria. Qui furono messi nel primo ingresso del Borgo a mattina, presso l’osteria del Portone. I suoi congiunti per tale sfregio abbandonarono il paese ed andarono nel vicino territorio di Dozza.

Il primo luglio 1640 entrò Massaro Innocenzo Fabbri abitante nel Borgo, Podestà fu il dott. Sebastiano Alò.

Giovan Battista Fabbri, che sino ad ora era stato al servizio come Lanza Spezzata di cavalleria della repubblica veneta sotto il generale Almoro Zane, tornò in patria. In diverse azioni sotto S. Fosca si comportò valorosamente contro i corsari e nella Dalmazia contro i Turchi, fu accompagnato per ciò del seguente benservito: Gio. Battista Fabbri di Castel S. Pietro di Bologna, Lanza Spezzata nella nostra cavalleria in Dalmazia in più occorrenze ha dato saggio della sua Prodezza e Devozione verso sua Serenità con sua gran lode e merito e soddisfazione nostra, mentre non ci ha lasciato di vantaggio che dessiderare della virtù ed opera sua. Di Zara li 17 lulio 1640. Almoro Zane L. +. S.

Teseo Lombardi di Castel S. Pietro aveva fatto nottetempo un riguardevole furto nella bottega del tintore di panni e tele Bernardo Bernardi. Pagò la pena nella forca il 4 settembre.

Compiuta la fabbrica a questi Padri Cappuccini restava solo da fare la dedicazione della loro chiesa.

All’altare maggiore c’era provvisoriamente una pala ove era dipinta la B. V. col bambino in braccio di figura gigantesca, opera di Prospero Fontana fatta a spese di Vespasiano Campana, famiglia antica di questo luogo. Questo quadro al presente si trova nel coro della chiesa.

I Marchesi Banzi di Bologna, che villeggiavano la maggior parte dell’anno nella Villa di Poggio provvidero, colla solita loro pietà, alla pala definitiva. Fecero perciò dipingere all’eccellente Lucio Massari la tavola che esiste all’altare maggiore, una delle più belle opere che uscisse dal pennello di questo autore, rappresentante la B. V. col bambino che benedice S. Francesco in gloria e S. Giuliana Banzi genuflessa. Fu perciò la chiesa dedicata alla detta Santa. Per la festa della solenne venne in paese Monsignor Girolamo Binago vescovo di Laodicea, suffraganeo del card. Colonna, che l’ultimo giorno di settembre fece pomposamente la funzione a cui concorse infinito popolo.

 La sera si fecero dai paesani fuochi di gioia, le famiglie nobili Malvasia, Caldarini e Banzi contribuirono ai festeggiamenti. Chi fosse in questo tempo il guardiano del convento non sappiamo. Dopo la morte del Padre Bonfini ritroviamo il Padre Paolo Fantuzzi nel 1646,

Questa chiesa si cominciò a fabbricarla nel 1628 sotto il titolo di S. Antonio da Padova e Giuliana Banzi, omesso il titolo di S. Antonio è rimasto solamente quello della Santa.

Nel giorno anniversario della consacrazione fu concessa la indulgenza di 100 giorni a chiunque la visitasse

L’8 ottobre furono pubblicamente dichiarati banditi capitali con confisca dei beni Giovan Battista Dall’Oppio, Battista e Carlo Bogni per avere teso, con Stefano Pignatarini, un agguato a Pier Maria Alberighi e averlo ucciso con quattro archibugiate alla fine di quest’anno, dopo la consacrazione della chiesa dei cappuccini.

I cappuccini cominciarono ad abitare in dieci nel convento e così dettero esecuzione al decreto papale quantunque le costituzioni vogliano che siano in numero di dodici fra sacerdoti e laici. Quali fossero i loro nomi e patria ne siamo all’oscuro.

Giunto l’anno 1641 investì il posto di Massaro Gabriele Cuzzani, Podestà fu il Conte Alessandro Campeggi.

I gargiolari di Castel S. Pietro avevano ottenuto la sentenza favorevole sopra la esenzione dall’obbedienza sia virtuale che pecuniaria e la dipendenza dall’Arti di Bologna. Pensarono allora di eleggersi un santo protettore quindi fecero una Unione tra essi ed ottennero nella chiesa parrocchiale l’altare alla destra dell’ingresso maggiore. L’altare era stato dedicato a S. Stefano dal Conte Nicolò Calderini, che ne fece, per atto pubblico, la rinuncia a quelli, che vi apposero il titolo di S. Vincenzo, martire spagnolo. In seguito vi collocarono un quadro rappresentante il martirio di S. Vincenzo opera di Benedetto Possenti.

 Il Senatore Conte Nicolò Calderini Senatore, che molto assistette con la sua protezione i gargiolari, dopo avere fatto fare all’altare un ornato di legno in ordine jonico, lo fece dorare a sue spese.

 Lo stesso quadro e lo stesso ornato, all’occasione che si è ammodernata la parrocchiale fu dato in contratto al celebre pittore Giuseppe Marchesi bolognese detto Sansone per la nuova tavola che ora si osserva rappresentante il martirio del Santo.

Nel seguente febbraio morì Sante Albruni e il 30 aprile morì suo figlio Tomaso, il primo maggio accadde lo stesso a sua moglie Alessandra, cosi che in poco di tempo restò questa famiglia estinta con sospetto di contagio.

Mentre si pensava alla fabbrica della cappella del Rosario, l’arciprete Comelli iniziò una lite civile contro la Comunità per l’accesso al campanile, di proprietà pubblica, aderente alla parrocchiale circa l’entrare nel medesimo. L’arciprete pretendeva che vi si salisse per altra parte fuorché per mezzo della vicina sagrestia. In seguito, colla mediazione del Superiore ecclesiastico, restò convenuto che la Comunità e suoi agenti salissero al campanile attraverso il vicino cimitero mediante una scala esterna all’abitato della chiesa.

D. Taddeo Barberini[101], generale dell’armi di S. Chiesa, essendo venuto a Bologna fece chiamare tutte le soldatesche per la rassegna e formò una grande baracca di assi per il corpo di guardia nella pubblica piazza di Bologna in faccia al palazzo pubblico.

In questo tempo ci furono le nozze fra il sig. Paolo Andrini con la sig. Giulia di Antonio Marescotti, volgarmente chiamati Mattarelli. La attuale famiglia Marescotti è venuta da Angiolo e Donna Marescotti che prese questo cognome per che abitavano alla Marescotta nella via corriera che da Castel S. Pietro porta a Bologna. La famiglia Mattarelli è antica del territorio e paese di Castel S. Pietro come lo è la Andrini abitante nel Borgo e proprietaria dell’osteria della Corona.

Il 16 marzo, domenica della Passione, si fece la consueta funzione del Cristo non velato della Compagnia del SS.mo all’interno nella sua residenza perché si stava fabbricando la nuova cappella del Rosario.

 Il 9 maggio, giorno della Ascensione, prima di dare la benedizione con la S. Immagine, essendo tutto il popolo genuflesso, si alzarono all’improvviso due sicari di Montecatone, detti i Piancastelli, contro altri di Casalfiumanese, di nome Morara, e con archibugi spianati minacciarono di spararsi a vicenda. Ma il rumore del popolo e la fuga delle persone fece sì che nessuno iniziasse a sparare. I preti che avevano sulle spalle la S. Immagine inutilmente si raccomandarono. Durò lo sfoggio di minacce un bon pezzo di tempo, e non si poteva distinguere chi fuggisse per timore oppure per dar mano a rissanti. Questi già rabbiosi cominciarono a gridare: chi non c’entra abbasso!, abbasso!, a terra!, a terra! Onde tutte le persone si abbassarono e si sdraiarono come morti.

Vedendo la mala parte il Massaro Gabriele Cuzzani ordinò di suonare la campana pubblica. Sbigottiti dal suono i rissanti si fermarono e si infrapposero molti paesani. Così si riportò nella parrocchiale la S. Immagine, la quale solamente il venerdì mattina fu riportata quietamente alla sua residenza.

Il  primo luglio 1641 entrò Massaro Francesco Riccardi. Podestà fu il Conte Andrea Ghisilieri.

La celletta che esisteva in mezzo la via corriera che porta a Bologna detta la Crocetta, dedicata ai santi Pietro e Paolo, si trovava in cattivo stato. la Comunità la fece ripristinare e rinnovare le pitture a Domenico Dalfoco.

1642 – 1644. Legato proibisce di portare armi per i troppi delitti. Il Duca Farnese passa da Castello con l’esercito diretto a Castro. Legato Barberini ricevuto a Castello. Menù del pranzo. Processioni rinviate per paura di tumulti. Termina guerra di Castro con riconciliazione con la S. Sede e restituzione di Castro a Odoardo Farnese.

Il primo gennaio 1642 entrò Massaro Sante Santoni. Podestà fu Cesare del Conte Girolamo Boschetti.

 Il Duca di Parma Odoardo Farnese[102] feudatario di S. Chiesa[103] era debitore di una grossa somma alla Camera di Roma. il Papa, dopo avergli fatte inutilmente amorevoli premure per il pagamento, si trovò nelle necessità di citarlo perché comparisse in Roma. Ricusò le ammonizioni e le chiamate. Quindi il Papa fu costretto, per obbligo del suo ministero, a procedere per via di censure. Sulla questione si infrapposero molti potentati di Europa, cioè la Francia, Polonia, Spagna, Austria, il Duca di Toscana e di Modena, Napoli e Venezia affinché il Farnese si prestasse a ragionare, ma sempre il Duca fu negativo[104].

Intanto il Papa passò dall’armi spirituali alle militari, prese Castro[105] e i suoi stati pertinenti al Duca Farnese. Questi armò ancor esse genti e ne diede il governo al Maresciallo francese Elvè, che aveva la carica di luogotenente generale. Dal canto pontificio era generale Taddeo Barberini, che fu subito spedito al confine del modenese a Piumazzo[106] ove si fortificò in modo di fare fronte a qualunque aggressione.

Quantunque si sentissero queste turbolenze si stava in allegria e si faceva il carnevale. Durante il quale accaddero conflitti a Bologna che partorirono effetti funesti fra le famiglie Pepoli e Marescotti e restò ucciso il Senatore Girolamo Pepoli. Per tale motivo si fecero tre giorni di guardia alle mura della città e si sospesero tutti i divertimenti.  Poi si misero le guardie ai passi del contado temendosi altri disordini, tanto più che la stessa sera fu ucciso a pugnalate uno degli Ercolani. Fu poi imprigionato il Conte Ciro Marescotti, infine si mise la faccenda in calma e furono ritirate le guardie.

Il 6 aprile, domenica di Passione, a motivo delle truppe che passavano, non si fece la processione del Cristo.

Il 2 maggio   Giovanni Paolo Pirazzoli, che militò in qualità di capitano sotto il colonnello francese Conte Minoli nella passata guerra di Francia, fu ucciso in questa sua patria e sepolto in parrocchia.

Il 16 il sig. Carlo Piganti Farcenna, ferrarese, fu anch’esso ucciso e sepolto in questa parrocchia.

Il 26 maggio si fecero le solite rogazioni di M. V. e, essendosi finita la fabbrica della chiesa di S. Francesco dei Minori Osservanti, si cominciò a portare la sua immagine per turno alle chiese dei regolari e di S. Caterina. Inventori di questo modo furono Francesco Ricardi, Valerio Fabbri, il Padre Orazio Fabbri dei M.O. e Sante Santoni uno dei capi della Compagnia di S. Caterina.

Il card. Legato, vedendo la facilità con cui risse ed omicidi accadevano nella città e nel contado, originati dalla diffusione delle armi cioè pistole corte, stili, daghette ed altri simili, vietò il 6 giugno, con suo rigoroso bando, tale uso per fino ai ministri del Torrone, suoi soldati, guardie, sbirri ed a qualunque altra persona privilegiata.

Ordinò pure con altro Bando, in conformità del Bando emanato dal card. Giustiniani l’anno 1606, che treccoli[107], pollaroli e simili persone non potessero comprare nei mercati del contado se non alle ore destinate dopo esposti i segnali pubblici. Dichiarò pure che, stanti gli abusi nel vendere la legna grossa, il quarto dovesse essere lungo 6 piedi, alto 3 e largo 3.  Riassunse in un libro tutti i Bandi fatti in precedenza e li ridusse ad un sol bando per maggior comodo.

Terminato il mese di giugno entrò Massaro nel dì primo luglio 1642 Orazio Venturoli e Podestà Giovan Battista Angelelli.

Nel conflitto del Duca di Parma col Papa, Taddeo Barberini, Generale di S. Chiesa, si era appostato a S. Giovanni in Persiceto di dove poteva comodamente andare ove lo chiamasse il bisogno.  Lasciò due compagnie a Piumazzo, luogo esposto alle prime aggressioni che potesse fare il Duca Farnese, pensando che questi non si sarebbe mosso senza essere spalleggiato dall’armi alleate.  Se avesse fatto diversamente sarebbe stata inevitabile la sua rovina perché lo metteva fra il Forte Urbano e Bologna.

L’esercito di S. Chiesa però si addormentò e il Duca l’11 settembre, lasciata la fortezza e Castelfranco a mano sinistra, andò sulla destra nella collina con tremila cavalli e, dopo circa quattro miglia, rientrò nella strada maestra che conduce a Bologna. Arrivato al ponte del Reno al tramontar del giorno si trovò in un luogo molto pericoloso. Infatti se i papalini avessero avuto coraggio, essendo in mezzo a quattro quartieri cioè Cento, Crevalcore e Forturbano, S. Giovanni e Bologna, potevano distruggere tutta l’armata.

Qui fermò la sua gente senza cannoni un mezzo giorno ed una notte, poi mandò il 13 un araldo al Legato di Bologna ed al Senato facendogli sapere che, per l’affetto che aveva sempre portato a questa città e per la devozione alla S. Sede non veniva per oltraggiare alcuno ma soltanto per passare alla conquista dei suoi stati di Castro. Il Senato ed il card. Durazzo accolsero con cordialità tali sentimenti. Dopo aver girato al di fuori della città se ne venne alla volta di Castel San Pietro il 14 settembre. Però non mantenne la promessa, poiché dove passava dava il guasto e predava. Giunto il Duca a Castello vi stette la sera e gli furono somministrati i viveri e i foraggi alle persone e alle bestie, la mattina seguente, dopo aver pernottato in casa Malvasia, se ne partì per Imola.

Tutte queste cose inattese dettero motivo al Legato di dare in mano l’armi a ciascuna villa, comune e castello del contado e ad ognuna di queste popolazioni fu dato un cittadino con facoltà di concedere a villani e castellani, sotto il suo comando, di portare ogni sorta d’armi. Fu anche ordinato che dopo le 24 ore del giorno non si suonassero più campane. Il cavaliere destinato a Caste S. Pietro fu il Conte Paris Maria Graffi che per alloggio gli fu destinata la casa Calderini.

La Repubblica veneta che era anch’essa impegnata nelle alleanze con gli altri principi d’Italia, sospettava che questi volessero impegnarla ad invadere gli Stati pontifici. Perciò, aborrendo grandemente le guerre contro il Papa, prese pretesti per non impegnarsi totalmente ma di contentare solo in parte i suoi coalizzati. Quindi assoldò gente e spedì Alfonso Antonini con 300 cavalli e 3.000 fanti nel mantovano.

In questa occasione Giovan Battista Fabbri di Castel S. Pietro, che altre volte aveva servito la repubblica, ritornò a quel soldo in qualità di capitano.

Intanto il Papa pensò di cambiare il Legato a Bologna, elesse perciò suo nipote Antonio Barberini.  A incontrarlo a Castel S. Pietro furono destinati il Senatore Conte Ottaviano Zambeccari e marchese Nicolò Tanari che lo introdussero dai nostri confini nel Castello entro il palazzo Locatelli accompagnato dai cavalleggieri e molta nobiltà. Qui fu lautamente banchettato, come si riscontra nel libro del Tanara titolato L’economia del cittadino in Villa:

 “Cena da magro e grassi preparata a Castel S. Pietro agli Ill.mi Sig. Senatori Conte Ottaviano Zambeccari e Marchese Giovanni Nicolò Ambasciatori dell’Ill.mo Senato di Bologna destinati ad incontrare e ricevere l’E.mo Card. Antonio Barberini, nipote di papa Urbano VIII nel primo ingresso di sua Legazione l’anno 1642 decembre. Le vivande de magro furono ventinove e le de grasso ed altra sorte furono 66. Doppo le quali vivande da magro fu dalli SS. Ambasciatori con molta prudenza considerato che, sicome era straordinaria ed insolita la Legazione di un nipote del Papa, così era dovere che si abbondasse in magnificenza più del solito per quanto comportava la qualità del luogo e la stagione e però fu ornata la trionfal tavola a cinque piatti per trenta comensali. Fra le altre vivande furono portate Torta di pistachi una per piatto reale con statuetta di zucaro ed amito in mezo rappresentante due api che conducono un aratro ed una fa l’ufficio di bifolco col moto: Supremum regimen, impresa che si vede nel libro de poemi di S. V. d. Canditi sopra salviette con fiori con una bandieruola a fiamma con l’arma del d. porporato. Statua di pasta di marzapane, due abbracciati insieme rappresentanti la Giustizia e la Pace che si bacciano assieme col moto nel piedistallo: Et osculate sunt. Statua di Sansone di pasta di marzapane che dimostra meraviglia per veder dal Leone già vechio uscir tre api, nella cui mano alza uno stendardino di taffettà con arma del Papa e del Legato sudd.

Terminato l’anno 1642 in questa forma entrò nel successivo 1643 Massaro Innocenzo Fabbri e Podestà Achille Angelelli.

Per assicurare poi lo Stato di Bologna dalle scorrerie del Duca di Parma, che andava alla riconquista di Castro e suoi stati che gli erano stati occupati dagli ecclesiastici, furono munite tutti i castelli del territorio di Bologna. Pure la città introdusse soldatesche. Per alloggiarle furono dati i commiati a tutti gli inquilini delle contrade del Pradello, S. Croce, Borgonovo ed altre e gli inquilini immediatamente sloggiarono.

La Comunità di Castel S. Pietro, ad imitazione di Bologna, intimò il commiato e lo sfratto a tutti gli inquilini abitanti nelle case Morelli su la pubblica piazza.

Il 10 marzo, essendo qui acquartierata la truppa del Conte Paris, morì messer Antonio Pallavicino, ufficiale piemontese da Torino.

Il 22 marzo fu fatto Commissario dell’esercito ecclesiastico Giovanni Girolamo Lumellini, il suo impiego durò fino al 26 dicembre e gli successe Alfonso Litta milanese. 

Stante le presenti circostanze militari, il 22 marzo, domenica di Passione, temendosi qualche tumulto, non si fece la processione del Cristo scoperto.

Il 27 aprile fu ucciso Girolamo Tamfone da Castel bolognese.

Il 4 maggio morì Vincenzo Rinieri e fu sepolto nella chiesa di S. Bartolomeo.

Vivevano qui in questo tempo Paolo e Marc’Antonio Gardenghi, i quali poi in qualità di Sergenti passarono alla milizia papalina a Crevalcore sotto il comando del cap. Giacomo Sgarzi di questo Castello, perché si sentiva di una imminente battaglia col duca di Parma.

Le Rogazioni che si dovevano fare li 11, 12, 13 maggio con la S. Immagine di Poggio, per i movimenti di guerra, non si fecero a Castello ma la Compagnia del SS.mo andò essa a Poggio alla visita di quella S. Immagine.  Il 14 maggio, giorno della Ascensione, fu trasportata dalla compagnia alla chiesa parrocchiale di S. Biagio e si dette là la benedizione al popolo.

Domenica 14 giugno 1643 ad ore 12 si diede la battaglia sotto Crevalcore fra i papalini e i parmigiani. Durò la battaglia 4 ore e rimasero vincitori gli ecclesiastici che, oltre ad essersi impadroniti del campo nemico, fecero molti prigionieri e bottino.

Il primo luglio 1643 entrò Massaro Pietro Andrini e Podestà fu Lodovico Felicini.

Quantunque si fosse ottenuta la vittoria contro i parmigiani il Legato ordinò a tutte le chiese di non suonare alcuna campana dall’Avemaria della sera fino a giorno alto per i tanti sospetti.

Il 15 settembre morì messer Lodovico Villa e fu sepolto in parrocchia. L’8 novembre morì qui pure il sig. Giovan Battista Casali da Solarolo per i patimenti avuti nella passata guerra. Era capitano della sua nazione, fu sepolto alla parrocchiale con tutti li onori militari.

Medesimamente finì i suoi giorni in questo tempo il cap. Giacomo Sgarzi nostro nazionale il quale pure si trovò nella giornata del 14 giugno sotto Crevalcore in compagnia dei guastatori, che fecero le spianate sotto S. Cesareo, con molti dei nostri villani, contro il Duca di Modena alleato con Parma. Fu sepolto con grandi onori nella chiesa nuova dei cappuccini, non solo per essere stato un bravo capitano coraggioso sotto il fuoco, ma anche per essere piuttosto facoltoso.

L’anno seguente 1644 entrò Massaro per il primo semestre Gabriele Cuzzani e Podestà fu il Conte Dollabella Ghiselieri.

Il 15 marzo, domenica di Passione, la Compagnia del SS.mo, trasportato il suo miracoloso Cristo scoperto nella parrocchiale, fece il solenne ringraziamento per l’ottenuta vittoria contro il Duca di Parma e per il progresso delle armi pontificie.

Poi fu fatta la pace[108] e il card. Legato segnò la proclamò il 28 aprile e fu pubblicata il primo maggio a suono di tromba e tamburo. Seguirono poi allegrezze per tutto il contado. La Compagnia del SS.mo, fece le Rogazioni alla Madonna di Poggio, che caddero i giorni 2, 3, 4 maggio, più brillanti del solito con i fuochi artificiali ogni sera.

Il giorno 9 maggio nevicò grandemente e la notte seguente venne una grandissima brina che ghiacciò e recò grande rovina nel bolognese. Le viti e gli alberi patirono assai.

Il 25 aprile era morto Francesco Cavazza che era confratello della Compagnia del SS.mo. Messer Fabrizio Cavazza, di lui parente, gli fece fare un solenne officio il 13 maggio nella chiesa di questi francescani. Intervennero i confratelli del SS.mo tutti in cappa per dare una degna dimostrazione ai due Cavazza. Alla stessa Compagnia fu somministrata la candela di cera al pari dei frati, agli individui poveri gli fu dato un paolo per ciascuno e la funzione riuscì non solo decorosa ma anche bella per i Riti usati ed utile ai poveri.

Il giorno primo luglio 1644 entrò Massaro Francesco Prati e Podestà Bartolomeo del Conte Cesare Bolognini. Seguì in questo tempo il matrimonio fra l’E.mo Dott. Francesco Laurenti di Porto della città di Fermo, che piantò poi qui il suo casato, con Caterina Giulia figlia del fu capitano Giacomo Sgarzi.

Il 29 luglio morì Urbano VIII dopo avere regnato 21 anni.

Il 15 agosto fu ucciso in questa sua patria Bartolomeo Benetti.

La S. Sede rimase vacante per 27 giorni. Fu eletto Papa Giovan Battista Panfili, cardinale romano, col nome di Innocenzo X.

Il 18 ottobre morì Agostino figlio del capitano Nicola Fabbri.

Nuovo Legato a Bologna fu nominato il card. Lellio Falconieri che venne per la via di Loreto il 17 novembre. Fu incontrato a Castel S. Pietro dai Senatori deputati Conte Marc’Antonio Ranuzzi e Paolo Guidotti, accompagnati dalla guardia dei cavalleggeri. Si pubblicò contemporaneamente il Giubileo per la elezione del nuovo Pontefice. Si fecero perciò processioni per tutta la diocesi.

Il 13 dicembre, giorno di S. Lucia, i gesuiti, non avevano fatto il pane per la solita elemosina ordinata dal Morelli. Nacque in Castel S. Pietro un tumulto tale che la povertà andò alle porte, tanto davanti nella via maggiore, quanto dietro nella via dei Pistrini, della abitazione ed ospizio dei gesuiti e quindi, con sassi e legni, aveva cominciato a rompere le porte.  Capo degli insorti fu Bartolomeo Zanella.

Nel furore del tumulto si affacciò alla finestra davanti un frate laico e dalla parte posteriore un servo che, gettando fuori pane e danaro, pregarono il popolo ammutinato, che si preparava ad un saccheggio, ad aspettare il giorno seguente nel quale avrebbero avuto la consueta elemosina. Perché poi il frate non li ingannasse fuggendo, misero le guardie alle porte dell’ospizio. Il frate vedendosi a mal partito il giorno seguente adempì la promessa.

Questo fatto accadde sull’esempio della famosa sollevazione a Napoli di Tomaso Anelli, chiamato volgarmente Masaniello, giovine animoso d’anni 24, ammogliato, uomo di statura mezzana, di occhio nero, zazzeretta, mustacchetti biondi, più magro che grasso, di talento faceto e fino. Andava scalzo in camicia e calzoni di tela e berettino da marinaio. La sua professione era di pescivendolo, pescando pesci colla canna ed amo.

Cominciò la sollevazione il 7 luglio (1647) e durò dieci giorni. Si vide un corpo di 114.000 persone bene ordinate come una milizia. La causa della rivolta fu l’applicazione alla farina di un nuovo dazio. Per tale sollevazione furono levate tutte le gabelle. Fu tale l’obbedienza che si prestò dai sollevati e dal popolo che non si legge in alcuna storia essere ciò mai successo ad alcun capitano per bravo che sia stato.

1645 – 1647. Sollevazione contro i gesuiti per il non rispetto dell’eredità Morelli. Contrasti tra l’arciprete e le fraterie sulle preminenze nelle cerimonie in chiesa.

Nell’anno 1645 che seguì entrò Massaro Trajano Scasilioni e Podestà il Conte Francesco Maria alias Raffaele Riari.

 Avendo rinunciato il card. Girolamo Colonna il vescovato di Bologna a mons. Ugo Albergati, questi il 6 febbraio fu dichiarato arcivescovo di Bologna e si cantò solenne Tedeum. Poi il 10 marzo fu fatto cardinale.

Il 28 marzo morì il capitano Giovanni Tomba di questo Castello e fu sepolto nella chiesa di questi agostiniani di S. Bartolomeo. Morì pure Giovanna di Ottaviano Dalzano, donna di singolare pietà, congiunta di suor Felice Dal Zano di cui ne parlano gli annali dei P.P. Serviti.

Poiché il Turco faceva movimenti contro la Chiesa, furono in questo mese di marzo chiamati a Malta tutti i cavalieri e si fecero per ciò orazioni per tutto lo Stato ecclesiastico.

Siccome la Comunità aveva fatto voto a S. Bernardino per cento anni a motivo del contagio, fu proposto nel Consiglio che sarebbe stata ottima cosa che il suo Corpo andasse ogni anno a visitare il Santo alla chiesa di S. Francesco. Ne fu fatto perciò il decreto.

 Essendo morti alquanti comunisti e restando il loro posto vacante, furono perciò eletti i seguenti soggetti: Domenico Cuzzani in luogo di suo padre, Lodovico Comelli in luogo di suo padre, Lorenzo Alberici in luogo di Vincenzo Mondini, Bartolomeo Bretta in luogo di Giovanni Maria Simbeni, Nicola Rondoni in luogo di Lodovico suo padre, Francesco Fabbri in luogo di Innocenzo suo padre.

 Il 27 giugno Alfonso Graffi fondò il beneficio di S. Antonio Abbate nella chiesa di S. Francesco con obbligo di tre messe annue. La sua dote è una casa posta nella via di S. Vitale di Bologna di rendita annua di 150 lire. Il primo Rettore fu Don Antonio Graffi fratello del fondatore che fu poi parroco di Frassineto.

Il primo luglio 1645 entrò Massaro Orazio Venturoli e Podestà fu il Marchese Girolamo Albergati.

In questo stesso giorno Ugo Albergati, che era stato fatto cardinale e che poi si fece chiamare Nicolò Lodovisi, era stato dichiarato arcivescovo di Bologna. Quando fu a Castel S. Pietro, venendo da Roma per la via di Romagna, fu incontrato dai Senatori Cornelio Malvasia, che lo albergò sontuosamente in questo suo palazzo, e dal marchese Paolo Magnani senior.

Il 29 d. morì il Marchese Giovanni Locatelli senior, padre di Girolamo e fu sepolto dai nostri cappuccini.

 Alfonso Graffi sposò Giulia Ricardi.

 Il 17 settembre il Marchese Michele Angiolo Sgreti di Ravenna che era venuto qui a passar l’acqua della Fegatella in casa Locatelli, si ammalò gravemente, morì e fu sepolto in parrocchia.

All’arciprete stava molto a cuore la costruzione della cappella del Rosario che però, per mancanza di danaro, non si poteva iniziare. Fra tanti confratelli si offerse solamente Bartolomeo Dalfiume di elargire ottocento lire purché per sicurezza si obbligasse qualcuno alla restituzione del denaro. Per ciò l’arciprete Comelli e suo fratello Flaminio vincolarono un loro terreno detto al Cerè, nel comune di Castel S. Pietro, con rogito del 9 ottobre 1645.

I confratelli della compagnia si obbligarono poi ad indennizzare l’arciprete e suo fratello tanto del pagamento delle 800 lire al Dalfiume quanto dei frutti.

In questo tempo erano irregolari e disordinate le offerte di primizie all’arciprete, fatte e tassate dalla Comunità ne tempi andati. Per evitare le questioni, che facevano i proprietari dei terreni e i villani che malvolentieri si prestavano a ciò, fu fatto ricorso, per il quieto vivere, al vescovato.  Il 10 ottobre venne a Castel S. Pietro Don Pier Antonio Garofali delegato dall’arcivescovo e formò, colla partecipazione della Comunità, il Libro e Riparto di tali primizie, sulle cui disposizioni si procedeva ancora ai giorni nostri.

Il primo giorno di gennaio 1646 prese il possesso della carica di Massaro Stefano Annessi e Podestà fu il Conte Carlo Francesco Marsili.

In questo tempo Pier Battista Fabbri militava per la repubblica di Venezia in qualità di capitano a Palma, Legnago e Zara. Questi, per avere ufficiali fedeli sotto il suo comando, procurò che fosse assoldato sotto la sua compagnia suo fratello Carlo Fabbri in qualità di tenente.

Erano nate tali differenze e contrasti tra l’arciprete e i regolari di questo luogo che furono tali da non farli più intervenire alle pubbliche funzioni. La questione riguardava la preminenza e i posti d’onore in chiesa nelle cerimonie. Per questo le fraterie avevano concordemente cessato di intervenire alle processioni, alle prediche ed altre funzioni. Il 18 marzo, domenica di Passione, si fece la processione col Cristo scoperto dell’oratorio del SS.mo senza l’intervento di quelle, andandovi solamente la Compagnia di S. Caterina.

La questione principale fu che l’arciprete pretendeva di sovrastare i capi delle Religioni e lasciarli dietro agli altri preti non solo nella propria parrocchiale ma anche nelle loro chiese. Avvisato l’arcivescovo di questo disordine, fece riconoscere all’arciprete la sua mancanza e, dopo diverse conferenze e con la mediazione dell’Ill.mo sig. Francesco Tedeschi protonotaio apostolico, fece comporre le parti. Il tutto si perfezionò il 6 maggio, domenica prima delle Rogazioni, in casa dell’arciprete.  Il successivo lunedì, primo giorno delle rogazioni tutte e tre le Religioni intervennero alla processione coll’ordine prescritto nella convenzione. L’accordo prevedeva che:

1° –  Il sig. Arciprete con onore riceverà nella sua Chiesa li P. P. d’ambo le Relligioni e quando vi saranno li P.P. Priore di S. Bartolomeo e P. Guardiano di S. Francesco, porrà il P. Priore a mano dritta ed il P. Guardiano a mano sinistra, esso in mezo poi di mano in mano li altri precedendo Preti alli Regolari non Prelati, dichiarando però che quando di loro vi fosse qualche arciprete od altra persona in dignità constituita in questo caso il P. Guardiano di S. Francesco cederà il luogo et abderà a mano diritta sotto il P. Priore di S. Bartolomeo.

2° – Il sig. Arciprete chiamerà li sudd. Relligiosi alli offici né impedirà ad alcuno benefattore, che voglia chiamarli a d. Offici, siccome professo avere fatto per il passato e si faceva al tempo già di altri arcipreti.

3° – Non proibirà anzi aurà cura che venghino o siano mandati a celebrare messe votive ed altre nella sua Chiesa. Nel dare le Elemosine delle messe aurà l’ochio il sig. Arciprete che tanto a P.P. Regolari quanto a Preti secolari, anco venendo di fuori, sia data eguale elemosina per quanto dipenderà da lui, perché se i preti forestieri non volessero stare a quella elemosina esso allora rimetti a Benefattori ed occorrendo altro il sig. Arciprete si dichiara volere sempre caminare con ogni bon termine e cortesia con d. P.P. dichiarando però che li P.P. regolari non intendono pretendere elemosina doppia quando (…) che vi sia concorso di Preti, Sacerdoti di molta lontananza e fuori della sua giurisdizione.

Per quanto riguarda invece le Religioni queste assumevano i seguenti impegni:

1°- Che alle Rogazioni venendo la Madonna di Poggio nelle loro Chiese preparino in luogo onorevole una sedia o Cadrega per il sig. Arciprete e due banzole una a mano dritta e l’altra a mano stanca per due assistenti al sig. Arciprete siano chi si vogliano purchè il sig. Arciprete dichiari che sono suoi assistenti sacerdoti ed ogni volta che verrà nelle loro Chiese per Offici od altro lo poranno sempre nel primo luogo, cioè in mezo ad ambi quando vi saranno.

2°- Saranno sempre pronti a fare ogni cortesia al sig. Arciprete secondo che esso si lasciarà intendere, volendo in questo soprabondare di amorevolezza come quelli che hanno a cuore l’onore di Dio e bon esempio al popolo et al dare ogni soddisfazione al sig. Arciprete cioè alle sepolture per li Capellani quando non levaranno le cotte agli Offici, Messe e Vespri.

Fu poi spedita a Roma copia all’arcivescovo per la sua approvazione.

Il 17 maggio morì a Ferrara F. Bernardino Domenicali, chierico cappuccino di Castel S. Pietro. Fu uomo di grandissima ed intensa devozione verso M. V. e S. Francesco che meritò di avere la loro apparizione. Una volta, in una sua apparizione, S. Francesco gli disse: Consolati Bernardino che il giorno delle mie stimmate sarai meco in paradiso. Tanto fu vero che dopo 44 giorni di febbre terzana doppia morì nello stesso giorno d’anni 23 senza agonia, rimanendo il suo corpo palpabile come un angelo.

Dopo morto apparve ad un suo compagno religioso e l’avvisò che nella bocca del suo teschio, per aver lodato tanto M. V., le api dovevano fare il miele. Così seguì, infatti le api entrarono per una finestra che guarda il cimitero e vi fecero un favo di miele con stupore di chi vi andò a vedere l’operazione di Dio per la sua gran madre. Tutto ciò l’abbiamo riscontrato dalle carte comunicateci dall’Archivio di questi P.P. Cappuccini. Il Masini poi nella sua Bologna perlustrata lo descrive come Fra Bernardino da Bologna perché era stato a Bologna allo Studio ove frequentò ai suoi giorni le Scuole Pie con edificazione dei suoi colleghi. Vero è però che egli nacque in questo luogo da onesti parenti come abbiamo scritto e concludentemente provato nei nostri Elogi alla vita delli uomini e donne illustri di Castel S. Pietro.

Restò poi talmente contento il cardinale nostro arcivescovo Lodovisi della concordia seguita, fra l’arciprete e questi regolari che da Roma concesse alle tre Religioni la predica tanto per l’Avvento che per la Quaresima alternativamente fra di loro.

Il giorno primo luglio 1646 entrò Massaro Filippo Bettini e Podestà il Conte Giovan Battista de’ Bianchi.

Il 10 luglio alla possessione Peschiera di Mario Locatelli nacque ad Alessandro Castellari un vitello con due teste e sei gambe, due davanti e quattro dietro. Morì la madre nel figliare e così dopo pochi giorni fece il vitello che fu spedito a Bologna per imbalsamarlo.

Marsilio Zaniboni, daziere di tutti i dazi di Bologna e suo territorio, intendeva sopprimere del tutto i privilegi di Castel S. Pietro e quindi moltiplicava le angustie a questa popolazione. La Comunità ricorse al Papa e ne ottenne dal medesimo, vive vocis oraculo, speciale monitorio il 5 settembre per gli atti Ricci in Roma. Ottenuto ciò, la Comunità e i paesani si armarono di grande coraggio e quindi, riunito il Consilio il 12 settembre, si decise di procedere contro il Zaniboni che poi sospese gli atti giudiziali. Non si acquietò per questo la Comunità, ricorse al Senato di Bologna facendogli, con supplica informativa, constatare la provenienza dei Privilegi del paese per causa onorevole e per successivi indulti papali.

 I padri di S. Bartolomeo bisognosi di ampliare il loro orto posto sopra al convento chiesero alla Comunità un piccolo pezzuolo di terra verso le mura del Castello in piazza Liana poiché quell’angolo di terreno serviva alle persone oziose per trastullarsi e giocare. La Comunità prontamente condiscese alla petizione e subito i frati fecero chiudere con un muro quest’angolo come si vede anche adesso.

 Entrò Massaro per il primo semestre 1647 Francesco Ricardi e fu Podestà Camillo Paleotti.

Nel mese di marzo, terminato il campanile di questi Padri di S. Bartolomeo, furono fatte rifondere le campane a Imola al fonditore Landi. Avevano questi Padri nella loro chiesa una Compagnia o sia Unione di persone devote sotto il titolo di S. Bartolomeo, la cui origine non ci è riuscito di scoprire nonostante molte indagini, la quale si regolava a sua discrezione. Però così facendo accadevano spesso dei malintesi onde per ovviare ai disordini fu fatto ricorso al vescovato e le questioni furono rimesse al provinciale.

 Il card. arcivescovo in questo mese in ricordo della Passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo istituì la devozione dei Paternoster per l’agonia imponendo ai parroci, arcipreti e pievani della diocesi di darne ogni venerdì alle ore 21 il segno con diversi colpi alle campane maggiori delle rispettive chiese onde il popolo li recitasse e fosse partecipe delle indulgenze.

Si erano scoperti alquanti lupi, che infestando gli ovili delle vicine colline e montagne di Fiagnano, Frassineto, Montecalderaro e talvolta discendevano fino presso il nostro Castello e divoravano anche i cani.  Alcuni del paese cercarono di rintracciare le loro tane. Ne furono ammazzati alcuni e Francesco Vanti e Sandro Ruggi di Castel S. Pietro ne presero nella rete due, maschio e femmina, che ben legati, portarono a Bologna ove furono premiati.

Dopo avere fabbricato il loro palazzo in questo luogo i Marchesi Locatelli, avevano dietro, dalla parte di levante, un gran cortile. Vi fecero una uccelliera e un boschetto per lepri, conigli ed altri animaletti. Fu coperta da una grande rete per i volatili, vi formarono anche una peschiera ove chiudere pesci nostrani.  Nella parte superiore dove fa angolo il Castello, vi fecero fare giochi d’acqua e nicchie per le statue nella parete che serve di mura al Castello. Questi signori si erano resi così cospicui presso la nobiltà di Bologna ed altre nazioni vicine che, passando da questo luogo, tutti venivano a visitare e compiacersi di queste delizie.

Il 10 maggio fu fatto il Capitolo Provinciale de P.P. Agostiniani di S. Bartolomeo in questo Castello. Fu in questo comizio eletto Provinciale il R. P. M. Francesco Agostino da Ravenna. Fu poi eletto priore di questo convento di S. Bartolomeo il Padre Amadio di Bologna per 2 anni.

Il 20 giugno arrivò una grossa grandine nel quartiere di Granara che distrusse la messe matura.

Si sparse anche voce che di notte tempo si vedeva una bestia mostruosa nei nostri intorni, onde le persone stavano assai guardinghe.

Il primo luglio 1647 entrò Podestà Vitale de Bovi e Massaro Pietro Andrini. Il notaio giusdicente, sostituto del Podestà, fu Battista Vignola che, venendo a risiedere in paese, chiese alla Comunità cucina, cantina, granaio ed orto alla Comunità. Questa vi aderì solamente per il tempo del suo ufficio.

Stante la raccolta scarsa dei grani fu fatto il calmiere nel mese di settembre a l. 11 la corba, ma nessuno rispettò questo limite. Anche l’uva fu scarsa e si pagò nove scudi la castellata.

Il 15 settembre cominciarono le Missioni dei gesuiti, giusto il disposto Morelli, che si sarebbero dovuto fare nello scorso carnevale. Capo fu il Padre Muzio Vitelleschi. Durarono quindici giorni e al termine fece fare una solenne processione col SS.mo per tutto il Borgo e Castello ed in fine diede la benedizione al popolo. Il 13 dicembre, secondo il testamento Morelli, fecero la elemosina di pane ai poveri del paese.

1648 – 1649. Dissapori della Compagnia di S. Caterina con quella del SS.mo e l’arciprete. Nuova grave carestia, la gente si nutre di ghiande. Ribellione dei contadi e distribuzione di grano. Nuova guerra tra il Farnese e la S. Sede per Castro e sua distruzione. Collocazione prime pietre della Cappella del Rosario.

Il primo gennaio 1648 entrò Massaro Giovanni Farnè per il primo semestre, Podestà il Conte Marc’Antonio Ranuzzi, suo notaio giusdicente fu Giovanni Masi.

In questo mese si cominciò a vociferare dell’epidemia nei bovini. In seguito furono presi gli opportuni provvedimenti come le guardie e la prescrizione dei medicamenti. Comunque si fecero le feste carnevalesche.

Il 29 marzo, domenica di Passione, si portò il crocefisso scoperto della Compagnia nell’altare maggiore della parrocchiale secondo il consueto per farne la processione, che poi non si fece per le continue piogge fino al sabato Santo.

Abbiamo per la prima volta ricordato da Padre Vanti il Cristo deposto dalla croce della Compagnia di S. Caterina, col quale si faceva il venerdì Santo la processione nel Castello e Borgo portandolo sopra una lettiga. Questa solenne processione, per l’accennato motivo di pioggia, non si fece. Ciò fu motivo di non poche amarezze fra l’arciprete e la compagnia.

Il 18, 19 e 20 maggio si fecero le Rogazioni della Madonna di Poggio alle quali la Compagnia di S. Caterina, per dissapori nati per questioni di precedenza colla Compagnia del SS.mo e per altre coll’arciprete, non vi intervenne.

A cagione delle lunghe piogge e per il freddo si fece una miserabile raccolta di tutto onde fu gran carestia e si pose, sul finire di giugno, il calmiere al grano di lire sedici la corba.

Il primo luglio entrò Massaro Giovanni Benetti.

Essendo ormai tre anni che il card. Legato Falconieri era a Bologna si sparse la notizia della sua partenza. Sembrò questa l’occasione e l’opportunità ai principali facinorosi e sicari di Castel S. Pietro per ricorre ad esso per averne il perdono. Quali fossero i loro crimini si leggono nei loro ricorsi. Comunque furono esclusi dalla grazia.

Stante poi la raccolta carestiosa di ogni genere fu fatto di nuovo il calmiere a l. 20, dove prima era a l. 16, ma i venditori non vi stettero. Il miglio valeva 30 lire la corba, la fava l. 22 ed il formentone l. 17 la corba. Per aiutare il territorio si fece a Castel S. Pietro l’Ammasso delle Biade portate dalla Romagna dai contrabbandieri. In luglio si cominciò a fare il pane di miglio dandone 10 once per due baiocchi. Di pane se ne davano 15 once per 5 baiocchi.

L’8 settembre partì da Bologna il Legato card. Falconieri e fu accompagnato fino a Castel S. Pietro dai Senatori Achille Volta e Matteo Fibbia che si trattennero in questo palazzo Malvasia fino al 10 quando incontrarono il novo Legato Card. Fabrizio Savelli e lo accompagnarono a Bologna.

Il 19 ottobre venne a Castel S. Pietro la visita pastorale del canonico Gabrielle Patrizi deputato dal E.mo Lodovisi arcivescovo di Bologna. Visitò tutte le chiese. Nei suoi decreti scrive: Visitavi Oratorio SS.ti Divo Thome dicatum ubi. Questo oratorio ebbe la dedica a S. Tomaso perché, al principio del corrente secolo, in tal giorno vi fu trasferita dall’arciprete solennemente la compagnia, alzando processionalmente il suo miracoloso Cristo. Soggiunge ancora.  Visitavi Oratorium Annuntiationis in Burgo et mandavi elemosinas que sunt in capsa, nisi interventu Archipresbiteri extrahi ab Hominibus Burgi non possint. Questo decreto fu fatto perché i borghesani come padroni della chiesa intendevano dispoticamente disporre delle elemosine raccolte in essa.

Vertevano differenze fra l’arciprete e la Compagnia di S. Caterina a motivo delle funzioni, delle estrazioni degli ufficiali e della dipendenza dal parroco. Portatosi il Visitatore nella chiesa di questa compagnia, ove era adunato il corporale alla presenza dell’arciprete, gli furono presentate le reciproche pretese. Ne nacquero perciò alterchi tali che il Visitatore, vedendosi impossibilitato a calmarle e comporle, si riservò di presentarle al Vicario generale come attesta nella sua visita: Visitavi eclesiam S. Cattharine eiusdem castri. Hic pariter multe surrecte fuerunt altercationes inter homines et Archipresbiterum (…)

Cresceva talmente la fame che le persone non potevano resistere e per sostentarsi andavano alla campagna a raccogliere le ghiande che, poi abbrustolite, mangiavano. Il Legato aveva alzato il calmiere per spingere le genti a vendere il grano, ma non fu bastante questo intervento così convenne lasciare la piena libertà ai venditori di venderlo al prezzo che gli fosse piaciuto.  Andò il prezzo del grano fino a 50 lire la corba e la povertà lo trovò dai fornai a 54 lire. Le ghiande secche si macinavano ed era ottimo pasto agli uomini. La fame, il freddo e gli stenti produssero mortalità. I poveri non avevano pane per cibarsi, chiedevano la elemosina e poi cadevano mezzo morti per il pane di ghianda o focacce di qualunque mistura di grani e roba. In alcuni luoghi si macinavano gli stecchi secchi di vite, si tritavano e, mescolati con poca farina di biade, si facevano focacce, miche e simili.

Siccome nell’anno 1645 era stata fatta una elezione di comunisti dalla Comunità che non erano stati approvati dal Senato, questi ordinò una nuova elezione che fu la seguente. Nicola Rondoni in vece di suo padre morto, Paolo Matteucci, Lorenzo Albani, Francesco Fabbri in luogo di Innocenzo suo padre, Giovan Battista Villa, Francesco Fiegna e Giacomo Fornasari.  Il Senato ordinò poi che i nuovi fossero subito messi nella imborsazione dei Massari.  I pubblici rappresentanti furono i seguenti: Francesco Fabri, Giacomo Fornasari, Lorenzo Albruni, Stefano Anessi, Nicola Rondoni, Giovan Battista Villa, Bartolomeo Beretta, Paolo Mattioli, Francesco Fiegna, Giovanni Benetti, Giovanni Farnè, Filippo Bettini, Orazio Venturoli, Trajano Scasilioni, Pietro Andrini, Francesco Maria Riccardi che in tutto erano sedici.

Arrivato il nuovo Legato a Bologna gli accennati sicari Bogni, Dall’Oppio e Pignatarini replicarono le loro suppliche ma incontrarono la sorte di prima. Gli originali di tali suppliche li conserviamo fra gli altri documenti del paese.

Infrattanto si giunse all’anno 1649 in cui il primo gennaio entrò Massaro Francesco Maria Riccardi, ma chi fosse il podestà non lo sappiamo.

La eccessiva penuria di viveri era divenuta tale che i contadini avevano deciso di abbandonare i poderi. Il 21 marzo, domenica di Passione, ammutinatisi in buon numero, nel comune di Castel S. Pietro fecero intendere al Massaro Francesco Maria Riccardi che non solo erano determinati ad abbandonare i poderi da essi lavorati ma di stabilirsi nel paese e distribuirsi nelle case e nelle famiglie per alimentarsi nel Castello e Borgo, lasciando i fondi con le bestie a discrezione di chi li avesse voluti.

Il Riccardi subito convocò il Consiglio e dopo lungo dibattimento, anche per evitare una sollevazione plebea nel paese, fu deciso di ricorrere al Governo di Bologna. Quindi fu mandato Traiano Scasilioni e Nicola Rondoni a Bologna agli Assunti di Munizione[109] onde provvedessero al disordine. Anche perché i villani si erano impossessati del Castello e cresceva ad ogni ora la turba, avendo lasciato a casa soltanto le persone inabili. Presentata l’istanza, fu deciso che la Comunità mandasse qualcuno a Bologna a prendere generi dalla Munizione. Fu tutto ciò eseguito ed avuto il grano fu distribuito ai lavoratori da pagarsi con la garanzia dei padroni sul prossimo raccolto.

Per questi accidenti era sottosopra il paese e quindi fu sospesa la processione del Cristo dell’oratorio del SS.mo.

 A queste miserie si aggiungeva anche una nuova turbolenza eccitata da Ranuccio Farnese Duca di Parma[110] che, seguendo anch’esso le orme del padre Odoardo, non voleva pagare alla S. Sede i debiti passati. Essendo stato ammonito da Papa Innocenzo X, cominciò a fare scorrerie nello Stato ecclesiastico. Quindi il pontefice fu costretto ad armare nuovamente[111].

Sebbene si fosse in queste universali afflizioni i nostri paesani non si raffreddarono affatto nella idea di costruire la cappella del Rosario. Ricorsero quindi coll’arciprete al Vicario Gen. di Bologna per averne la licenza. Dovendosi poi costruire in un suolo spettante a tutta la popolazione, per la sepoltura dei paesani, era necessario avere dalla pubblica rappresentanza il consenso ad occupare il suolo.

Intanto si giunse alle Rogazioni di M. V. di Poggio che incominciarono lunedì 10 maggio. Durante queste il falegname Giovanni Filardi da Argenta lavorava intorno ad un calesse mentre passava la processione della S. Immagine. Nell’adoperare l’accetta, diede un colpo falso così che una scheggia di legno lo colpì in mezzo alla fronte come fosse stato un chiodo. Cadde tramortito, poco dopo rinvenuto riconobbe il suo poco rispetto a M. V., se ne pentì e fece voto che se salvava la vita l’avrebbe visitata tre sabati consecutivi a piedi scalzi a Poggio. Cominciò ad ungersi il capo coll’olio che le ardeva davanti ed in breve fu cicatrizzata la ferita e svanì al capo ogni gonfiore, che non gli permetteva più di vedere.  Poi compì il suo voto.

In questo mese fu così deciso il prezzo nelle farine cioè: farina di formentone 17 quattrini la libbra, farina di fava 26 quattrini la libbra, farina di segala 18 quattrini la libbra, farina di miglio 16 quattrini la libbra, frumento pillato 30 quattrini la libbra, il pane venale 14 once per quattro bajocchi.

Premeva molto all’arciprete sistemare la questione della nuova Cappella del Rosario. Aveva avuto il disegno fatto dall’architetto Martini con le offerte dei muratori concorrenti alla costruzione dell’edificio.  Si portò quindi dal Vicario Generale con Livio Accursi per averne la sua approvazione e il decreto. Mancava ancora l’assenso della Comunità in iscritto per la occupazione di parte del cimitero, così il Vicario l’8 giugno fece un suo decreto limitato dalla condizione di ottenere l’assenso di tutti o della parte maggiore dei consiglieri. Sia questo notizia e regola ai posteri per riconoscere la proprietà della Comunità sopra il cimitero e non degli arcipreti che in questo povero paese hanno sempre cercato di opprimere la popolazione, di soverchiarla e farsi padroni di ciò che non hanno se non in puro uso.

In seguito la Comunità assentì formalmente e concorse alla funzione della collocazione delle prime pietre che si eseguì il 29 giugno 1649.  L’arciprete pose la prima dalla parte nord, dalla parte di levante vi pose la seconda Francesco Maria Riccardi, Massaro della Comunità, nell’angolo a ponente ve ne pose un’altra Filippo Berettini Priore del Rosario, nell’angolo opposto ve ne pose un’altra Lorenzo Albruni Priore di S. Caterina e nell’altro angolo ve ne pose un’altra Nicola Rondoni priore della Compagnia del SS.mo. Fatta questa funzione coi soliti riti di S. Chiesa fu cantato il Tedeum.

Il primo luglio 1649 entrò Massaro Orazio Venturoli e Podestà fu Saulo Guidotti.

A causa delle scorrerie che faceva il Duca Ranuccio di Parma nello stato ecclesiastico dalla parte di Lombardia, il papa ordinò che si mettessero in ordine le truppe e si facessero nuovi ufficiali. A Bologna perciò fu nominato capo il Conte Andrea Ghisilieri. Arruolò fra gli altri Raffaele Zacchiroli di Castel S. Pietro col titolo di capitano che si comportò valorosamente con la sua compagnia. In seguito il Duca Savelli generale di S. Chiesa ritornò con un esercito ai danni del ducato di Castro e Ronciglione spettanti al Farnese.

Il Duca, adirato più che mai, assoldò altri soldati, rinnovò con scorrerie le orme del padre negli stati del Papa. Questi   fortificò sempre più le frontiere verso Modena, che poi furono attaccate dal marchese Giacomo Bonfioli, generale del Duca. Sentendo il papa queste nuove e che le armi del duca volevano inoltrarsi verso Castro, passando per le provincie pontificie e per amore o per forza, cercò di opporsi validamente. Nel mese di agosto vollero i parmigiani entrare nel bolognese dalle parti di S. Pietro in Casale e luoghi vicini.  Si opposero i papalini e, venuti alle mani il giorno 11 agosto alla ora prima di notte, si batterono fieramente fino alle ore sette italiane.

Non si poté riconoscere in sei ore di battaglia per chi pendesse la vittoria, così si resto fino al giorno 13 facendo scaramucce da una parte e dall’altra. Poi il generale Bonfioli con un corpo di 4.000 cavalli attaccò presso S. Pietro in Casale i papalini col maggior ardore bellicoso[112].  Restarono battuti i farnesiani con perdita di tutto il loro bagaglio e molti prigionieri che furono poi condotti a Bologna. Ritornò il Duca con poco esercito a casa.

Il Papa adirato per questi fatti fece distruggere Castro, costò la distruzione 25.000 scudi e tolse la pietra dello scandalo. La sede episcopale di Castro fu trasferita ad Acquapendente, che in tale occasione fu dichiarata città. I poveri cittadini di Castro andarono ad abitare chi qua chi là.

Fatta mediocre raccolto il 24 agosto fu posto il grano a l. 16 la corba.

Il 29 ottobre Violante di Antonio Vandini e sua figlia Giovanna entrambe si ammalarono, in uno stesso giorno furono munite di sacramenti e nello stesso giorno morirono non senza sospetto di veleno perché entrambe erano belle e non volevano tresche.

Il primo novembre, avendo ottenuta la condotta medica di questo Castello e Comune, il dott. Alessandro Sarti bolognese venne ad abitare qui.

Per i disagi patiti quest’anno per la fame vi fu molta mortalità che degenerò in una universale epidemia.

Francesco Mondini, essendo malvisto nel paese a motivo della lite perduta delle esenzioni, domandò la cittadinanza di Bologna che gli fu concessa il 3 novembre dal Senato.

1650 – 1652. Concessione al Marchese Locatelli di demolire il bastione presso il suo giardino. La Compagnia di S. Caterina inizia a costruire il suo nuovo oratorio. Problemi per le arti della seta, canapa e lana nel territorio. Presenza della bestia, sua scoperta sotto il bastione demolito, sua uccisione da parte del Marchese Locatelli.

Il primo gennaio 1650, anno del Giubileo, entrò Massaro Nicolò Ronconi e Podestà fu per il primo semestre Paris Maria Graffi.

 Il 4 febbraio nel colmo di Carnevale fu ucciso Antonio di messer Giacomo Fornasari di Castel S. Pietro.

Il 15 aprile, venerdì Santo, la Compagnia di S. Caterina, ad onta delle amarezze coll’arciprete, fece la processione del suo Cristo deposto dalla croce sopra la lettiga, iniziando tale processione dalla stessa parrocchiale e cappella della compagnia, che ora serve da sacrestia grande, alla quale intervennero gli agostiniani e i cappuccini del paese. Questi ultimi riconoscevano alla Compagnia la loro prima esistenza e il ricovero avuto in qualità di ospizio. Così fecero ancora sempre per l’avvenire.

Il giorno primo maggio   si cominciarono le missioni ordinate dal testamento Morelli ai gesuiti suoi eredi. Capo delle Missioni fu il Padre Giacomo Ortensi gesuita, uomo molto considerato nel suo ordine.

 Il 15 maggio essendo cinque mesi che non era caduta pioggia e i terreni erano fortemente secchi, si temeva per una nuova carestia. Quindi furono ordinate dall’arcivescovo processioni di penitenza. A Castel S. Pietro si eseguirono subito il venerdì precedente le Rogazioni e si fece una processione universale di ambi i cleri e la congregazione del SS.mo col suo Cristo.

I giorni 23, 24 e 25 maggio si fecero le Rogazioni di M. V. di Poggio ed il 26 cominciò una discreta pioggia, non ostante la quale fu portata la sera, dopo la S. Benedizione, alla sua residenza a Poggio.

Riferisce il Padre Flaminio da Parma Minore Osservante nella sua Notizie istoriche delli Conventi della Provincia di Bologna che questo convento di S. Francesco si trovava negli anni passati presso che abbandonato perché non aveva il numero prefisso di religiosi.  Poi essendo stato accresciuto di abitazioni e comodi, divenne formale convento ove per la sua deliziosa posizione, per il vago prospetto dei colli, l’amenità dell’aria, cominciarono a starvi dodici religiosi e tutto ciò per opera dell’instancabile Padre Lorenzo da Brisighella guardiano del posto.

Perché dai campanari ed altre persone addette alle pievi e parrocchie si pretendeva la riscossione delle Primizie, furono perciò consolidate l’anno presente 1650 mediante bando dell’arcivescovo che ordinò di portare da tutte le comunità, chiese e rettorati l’elenco onde formarne un catasto, come seguì. Successivamente il nostro arciprete Comelli andò alla Villa di S. Biagio di Poggio e formò ivi il Campione delle Primizie di quella parrocchia, ove si paga grano ed uva.

Terminato il primo semestre, entrò Massaro per il secondo Stefano Anessi e Podestà fu il sig. Duca Sforza Boncompagni.

Il dott. Alessandro Sarti, medico condotto, aveva sofferto una gravissima malaria.  Si rese per ciò vacante la Condotta, venne al suo posto il dott. Paolo Seda mentre c’era una epidemia nel paese. Ma il dott. Seda era Lettore pubblico di Bologna e non poteva continuamente essere presente. Per ciò il Consiglio deputò tre Assunti, cioè Traiano Scasilioni, Lorenzo Albruni e Giovanni Bonetti per concordare il modo di conciliare la Lettura colla permanenza qui. Il governo di Bologna si interessò e si prestò alle premure degli inviati. Si decise di fare in modo che potesse andare 40 volte a fare le sue lezioni in diverse volte e diverse settimane.

Alla metà di agosto fu pubblicato il Giubileo per l’indulgenza dell’anno santo.

Il 26 settembre morì Sebastiano del capitano Annibale Bruni e fu sepolto in parrocchia.

 La corrente del Sillaro minacciava di rovina la sponda del ponte verso ponente. La Comunità ricorse al Governo perché provvedesse al disordine che minacciava la via romana.  Vi fu provveduto con un saldo muro nell’anno 1651 in cui, il giorno primo gennaio, entrò Massaro Giacomo Fornasari e Podestà Matteo Giuseppe Buralti.

La fossa del Castello fino a questa epoca si era sempre conservata erbosa ed in governo della Comunità. Il Senato di Bologna concesse la facoltà di poterla assestare e coltivare per l’annua somma di 25 scudi e di usare questa somma per le spese straordinarie.

Concesse pure il Senato al Marchese Girolamo Locatelli, che per la massima parte dell’anno qui soggiornava, la facoltà di demolire il bastione che faceva angolo nella mura pubblica contro il suo giardino e che i materiali servissero per la fabbrica del restauro del ponte sul Sillaro. Questo bastione era di figura ovale, se ne vede ancora la circonferenza nel suolo ove l’erba non cresce.

Il dottore e Lettore pubblico Paolo Seda nel mese di gennaio sposò Elisabetta di Paolo Matteucci di Castel S. Pietro. Seguirono altresì gli sponsali fra Anna Maria figlia del cap. Rafaele Zacchiroli ed Alessandro Comelli due famiglie originarie di questo luogo ove contano tre secoli di presenza.   

Terminato il convento e la Chiesa di S. Francesco dei M. O. col porticato davanti, non tardò il guardiano Padre Lorenzo di Brisighella di procurare che le lunette del portico fossero abbellite secondo l’uso di questi tempi. Quindi fece dipingere alquanti miracoli di S. Antonio da Padova. Trovò i benefattori che furono le famiglie: Marchesi Locatelli, Conte Malvasia, Farnè, Annessi, Andrini, Scassilioni, Zacchiroli, Tomba. Matteucci ed altre.

 Il pittore fu Giovanni Pietro Possenti bolognese che, come si vede, lavorò al gusto della scuola veneziana. Fece anche dipingere, internamente alla loggia inferiore in alcune lunette, altri miracoli a fresco che poi furono per ignoranza, di chi non conobbe la graziosità del pennello, fatti coprire di bianco. Tanto negli esterni quanto negli interni vi era nome e cognome dei benefattori con il loro rispettivo stemma. In alcuni luoghi si vedono le incisioni del contorno degli stemmi impressi nella parete.

Il primo luglio 1651 entrò Massaro Orazio Venturoli e Podestà il caval. Ciro Marescotti.

 Gli uomini della Compagnia di S. Caterina, volendo demolire il vecchio, avevano cominciato un nuovo oratorio presso la loro chiesa. L’arciprete rifiutava il suo assenso e anzi li voleva far processare stante le inimicizie che vertevano fra esso e la compagnia.  I confratelli per evitare tutto ricorsero al Vicario che concesse loro la seguente licenza:

(…) Concediamo Licenza al sig. priore ed uomini della Confraternita di S. Cattarina di Cas. S. P.ro diocesi di Bologna de demolire l’Oratorio vechio di D. Confraternita e seguitare la fabrica dell’Oratorio novo e finirla per servizio de Confratelli di D. Compagnia (…) . Dat. Bonon. die 18 Juli 1651.

Languivano le arti della seta, lana e canapa nella città e contado di Bologna. Il Governo non se ne prendeva alcuna cura. Si vedevano tante famiglie disoccupate mendicare che si sarebbero potute impiegare.  Ciò succedeva a causa dell’introduzione di merce forestiere e la difficoltà nell’esportazione delle nostre. Fu perciò data supplica al Senato e ad ogni Senatore per averne dei provvedimenti.

In questa supplica, si legge che l’arte della canapa era il mantenimento di questo nostro Castello e si esprime in questi termini: Quest’Arte era (parlasi della canapa) la manutenzione delle tre ben popolate Terre di Medicina, Budrio e Castel S. Pietro, che per non avere coltivato questo Lavoro, tante familie sono spatriate e spiantate, ma non per questo si vide alcuna providenza, perché il Senato alletato dal piacere che colava nella Cassa per li Dazi che pagavansi, pospose il bene universale all’interesse camerale.

Il nuovo card. legato Pietro Carafa che non era ancora venuto alla sua residenza, venne a Bologna per la via di Loreto e Romagna, fu perciò incontrato a Castel S. Pietro dal marchese Tomaso Campeggi e Ferdinando Cospi ambi Senatori, colli soliti onori e quivi posteggiato in casa Locatelli.

Fu in quest’anno grandissima carestia di sale nella città e nel contado perché non se ne poteva avere da Cervia. Dal 24 ottobre fino ai 10 novembre restò chiusa la Salara e dove si vendeva prima a 10 soldi il quartirolo, si vendette fino a 20 soldi.

Il cardinale Savelli, Legato precedente al card. Carafa, partito dalla città fu accompagnato fino a Castel S. Pietro dal Conte Alberto Graffi ed Achille Volta Senatori e qui congedato.

L’11 dicembre il card. arcivescovo Nicolò Lodovisi rinunciò la chiesa episcopale a Girolamo Boncompagni dei Duchi di Sora, pronipote di Gregorio XIII. Era questi prelato e fu subito fatto arcivescovo di Bologna.

Perché alcuni paesani occupavano dei terrapieni del Castello senza il dovuto assenso della Comunità, questa fece fare la pianta del Castello, mura pubbliche e strade a Camillo Sacenti, pubblico perito di Bologna, affinché fosse chiaro ai posteri ciò che era di pubblica ragione. Copia di questa pianta esiste nell’archivio comunitativo estratta dall’originale nell’archivio pubblico di Bologna.

Per riparare i guasti che la corrente del Sillaro minacciava al ponte sopra la strada corriera dalle parti di ponente, si spesero 300 lire, che si dovevano rimborsare a chi le aveva spese.  Fu fatta istanza dalla Comunità al Senato per un comparto sopra i terreni del comune come pure si fece istanza di un comparto simile di altre cento lire per un riattamento fatto alla casa dell’ufficio del Podestà. Questo si ottenne nel seguente gennaio 1652.

Nel principio del 1652 entrò Massaro per il primo semestre Giovanni Farnè e Podestà il Conte Agostino Marsigli.

Essendo priore della Compagnia del SS.mo SS.to Giovanni Andrea Manfredi, propose al corporale della sua compagnia che ogni sera di quaresima si recitassero i sette salmi penitenziali ed ogni venerdì di marzo si scoprisse il loro Crocefisso e si facesse la Disciplina col recitare il Miserere, il che ottenne e per lungo tempo si eseguì la Disciplina.

Proseguiva di quando in quando a farsi vedere lungo il Sillaro, nella massima oscurità della notte, la Bestia di cui se ne diede addietro sentore. Grande era lo spavento delle persone alle quali accidentalmente accadeva di vederla. Per scoprire dove si intanava, alcuni tennero dietro la traccia del suo andamento serpeggiante.

Si riscontrò che oltre il Lazzaretto presso il ponte del Sillaro non si vedevano altri serpeggiamenti, orme o tracce.  Si ritrovarono tracce nel terreno ed ossa scavate nello stesso Lazzaretto ed alcune volte entro il Castello. Per potere trovare precisamente la tana si usarono maggiori diligenze e cautele.

Finalmente fu inteso ed osservato che in certe notti una civetta si fermava sopra i tetti del palazzo Locatelli vicino al loro giardino e che, prima di terminare il solito canto, schiamazzava fortemente con strepito spaventoso.  Postovi ascolto e veglie, finalmente si scoprì che il nascondiglio di questo mostro era poco lontano dal sito dove si fermava la civetta che, spaventata, strepitava fortemente quando lo vedeva.

Pertanto si sospettò che si nascondesse entro le bombardiere interrate del demolito bastione nell’angolo del giardino degli stessi Locatelli.  Difatti il sospetto si avverò riconoscendo il serpeggiamento sul suolo dietro al palazzo.

Il Marchese Gian Francesco pensò di fare scavare l’interno del bastione fino ai fondamenti. Si accinse all’opera facendovi lavorare molte persone. Poco si andò in profondità che fu trovato l’andamento della tana. Quando la bestia si mostrò gli operai si dettero a precipitosa fuga.

 Pensarono alla maniera di averla in qualche modo e per ciò ricorsero al fuoco. Posero alla bocca della tana materiale combustibile ed adatto a far fumo, lasciando intorno una siepe di fuoco. Fu acceso il materiale, fu affumicata la tana e il mostro dovette presentarsi all’uscita sbuffando ed urlando. Gli furono sparate archibugiate senza che essa si arrendesse, ma il Marchese Gian Francesco Locatelli, mettendosi a fianco della bombardiera le dette diversi colpi di spiedo per modo che restò scannata. L’impegno fu grande e meravigliosamente eseguito.

Tratta fuori dalla tana il Marchese se la fece portare entro il suo giardino. La testa era a guisa di lucertola, la dentatura porcina, la pelle giallo oro, la metà del corpo era crestato dalla parte della coda, la grossezza era come un corpo di mastino, la lunghezza di otto piedi circa, le zampe come leonine, brevi come quelle di testuggine e faceva spavento guardarla anche da morta.

Saputo il fatto vennero molti forestieri a guardare quella bestia. Questa fu fatta sventrare dal Marchese, fatta imbalsamare e messa nella sua armeria come trofeo del suo valore e del suo coraggio. La bestia aveva più l’aspetto di un lucertolone che di un coccodrillo.

 Matteo Mondini, che fu segretario del Senato, su questo fatto fece un epigramma latino quando la bestia fu appesa alla volta della sala inferiore di questo palazzo Locatelli.

Il 25 aprile venne a Bologna mons. Girolamo Boncompagni come arcivescovo. Fu incontrato a Castel S. Pietro a nome del Senato da Berlingiero Graffi e Filippo Carlo Medici.

Fra non molto vennero, dopo le Rogazioni di maggio, le missioni del Padre Pietro Malaspina gesuita in esecuzione del testamento Morelli.

Il giorno primo luglio 1652 entrò Massaro Pietro Andrini. Il Podestà fu Cesare Bianchini.

Al Legato cardinale Carafa non si confaceva l’aria del bolognese per cui stava di continuo in letto.  Consigliato dai medici rinunciò al ministero in mano del Papa e il 10 ottobre partì per Roma accompagnato fino a Castel S. Pietro dai Senatori Alessio Orsi e Giovanni Lupari.

Il 14 ottobre venne il nuovo Legato Giovanni Girolamo Lomellini genovese, che fu incontrato ai confini di questo nostro Castello e poi in esso introdotto nel palazzo Malvasia dai Senatori Conte Carlo Francesco Caprara e Marc’Antonio Gozzadini.

Prima di terminare l’anno, il 22 dicembre 1652 si vide una stella cometa che aveva la coda presso il carro celeste e rivoltava al levante, che con lo splendore illuminava la terra, durò a vedersi per quindici giorni.[113]

1653 – 1657.  I Poggesi chiedono la separazione da Castello, loro lamentele. Terminato l’Oratorio nuovo di Santa Caterina. Grossi rischi di epidemia, murata la porta di sopra. Formata la Congregazione dei Preti.

All’entrare del novo anno 1653 prese il possesso di Massaro Paolo Matteucci e così fece il novo Podestà Conte Filippo Bentivogli.

Fabrizio Cavazza, nuovo priore della Compagnia del SS.mo, vedendo che nella sua compagnia portava molto giovamento la pietà per la recita dei sette salmi e si accresceva il culto di Dio, fece in modo che il corporale confermasse il proseguimento di questa devozione.

Il 18 maggio furono uccisi messer Alessandro e messer Pietro Comelli. Per questo poi espatriò della famiglia e si ritirò a Porretta.  Da qui è poi venuto il chiaro sig. Francesco Comelli ingegnere pubblico di Bologna nel 1770.

Il 21 giugno gli uomini abitanti nella Villa di S. Biagio di Poggio, pretendendo nuovamente di smembrarsi da questa Comunità e governarsi da soli, fecero affiggere alla residenza comunitativa una intimazione giudiziale colla quale intendevano separarsi da Castel S. Pietro e farsi un proprio Massaro. Perciò veniva prescritto il termine di otto giorni a questa Comunità per rispondere davanti al Confaloniere e se nessuno compariva al contraddittorio si sarebbe proceduto secondo la intimazione.

Comparve la Comunità avanti al Confaloniere mediante il notaio Francesco Maria Ricardi e il procuratore Camillo Felina che chiesero copia delle richieste che erano queste:

1°- Che intendevano i poggesi sottrarsi da Castel S. Pietro perché dalla Comunità di Castel S. Pietro alla loro Villa vi era una distanza di quattro miglia.

2°- Che non volevano concorrere al salario del medico per non sentirne utile alcuno dovendolo pagare quando lo levano dal Castello e per essi loro è più comoda Medicina.

3°- Similmente il maestro di scuola per la distanza dei loro figlioli.

4°- Non intendono pagare il campanaro ed orologiero di Castel S. Pietro per che a loro nulla serve.

5°- Non intendono concorrere alla spesa del cereo pascale avendolo nella loro chiesa di Poggio.

6°- Che la paga del chirurgo e ministrale non intendono pagarla non essendo mai stata registrata.

7°. Che il comune di Castel S. Pietro era tanto grande che il Massaro di d. Castello non puole attendere a tutto, facendone prova la ruina di tutti li ponti nella Villa di Poggio.

8°- Che le Cavalcate che si fanno in Castel S. Pietro per furti ed omicidi vengono per le medesime gravati li uomini

Il procuratore Felina comparve ed instette che essendo la Comunità di Castel S. Pietro in possesso di ciò che dagli avversari si pretendeva abolire, si dovesse invece mantenere. Andò il decreto manuteneri. Dopo queste vane pretese ne insorsero altre che pure loro furono rigettate.  Così non seguì alcuna innovazione.

Il giorno primo luglio 1652 investì la carica di Massaro Stefano Anessi e quella di Podestà il Conte Alberto Graffi.

I notai giusdicenti, sostituti del Podestà, venivano qui ad abitare al posto del nobile estratto ed avevano spesso a dir con la comunità per il godimento di due stanze a piano terreno contigue all’orto della Comunità.  Per levare tali dissapori, essendo varie le opinioni dei comunisti, il Massaro Stefano Annessi propose che si dovessero decidere se concedere tali stanze al notaio giusdicente oppure la sola residenza dell’ufficio. Ne sortì la risoluzione negativa a maggioranza, così che si dovesse dare la sola residenza dell’ufficio.

Il Conte Antonio Malvasia ammalatosi mortalmente in questo suo palazzo, finì i suoi giorni il 28 novembre e fu con pompa sepolto nella sua cappella in S. Francesco.

La epidemia nei bovini che era già incominciata nei mesi addietro, proseguiva a far strage. Furono perciò chiuse alcune stalle alla pianura nel quartiere del Gaggio e vi perirono bestie. Le stalle della collina si salvarono e poche bestie morirono.

Il primo gennaio 1654 entrò Podestà il Conte Uguzzone Pepoli e suo notaro giudicente fu Taddeo Tacconi. Massaro fu Francesco Fiegna.

Era priore degli agostiniani in questo convento di S. Bartolomeo il Padre Ottavio Baroni originario del paese. Questi fece accomodare l’altare della Cintura in cornu epistole con la nicchia interna nella parete per metterci poi la statua di M. V. e intanto lasciò la pittura rappresentante la Madonna che fu poi levata e portata nella sagrestia, ove tuttora si vede.

I Marchesi Locatelli dalla parte opposta in cornu evangeli misero a posto l’altare di S. Tomaso da Villanova col quadro dipinto dal Gennari da Cento discepolo del Guercino.

Gli stessi Marchesi avevano fatto dipingere, sulla volta della prima sala a terreno del loro palazzo, il ritratto del Marchese Gian Franco colla spada e una civetta ai piedi in memoria dell’uccisione del mostro. Sotto il ritratto vi fecero appendere in alto l’imbalsamata o, per dir meglio, imbottita pelle di quello smisurato animale. Era sostenuta da una catena di ferro e aveva la testa rivolta verso l’ingresso.  Faceva spavento a chi non sapeva se la smisurata spoglia fosse morta o viva.

Poi fra i due finestroni vi fecero fare una iscrizione, indicante laconicamente il fatto della bestia che, per il passaggio delle truppe alemanne nel 1735 come nemiche, fu cancellata.

Era costume degli antichi appendere simili spoglie di coccodrilli nelle chiese ove si trovavano sopra tutto nelle sepolture. Anche a Bologna nella chiesa di S. Giovanni in Monte fu trovato un coccodrillo in una sepoltura e, ucciso, stette lungamente appeso nella volta, alla vista di tutti, nella navata destra della chiesa.

L’aver trovato questo mostro nel bastione demolito tra gli sfacimenti interni, fu un forte motivo ai Locatelli per fare vuotare l’altro baluardo nell’angolo superiore del Castello a levante per scoprire se all’interno vi erano altre simili bestie oppure le loro uova. Nulla vi trovarono e vi costruirono poi la torre rotonda che ora si vede detta volgarmente il Torregiotto. La costruzione fu terminata nel 1656, come da memoria segnata dai muratori nella calce che lo intonaca verso mattina.

 Nel seguente maggio a norma delle disposizioni Morelli, si fecero le Missioni dei P.P. gesuiti in Castel S. Pietro, Capo fu il gesuita Padre Tarquinio Galazzi.

Il 25 giugno monsignor Girolamo Boncompagni arcivescovo di Bologna fece la sua prima visita pastorale a Castel S. Pietro e la Cresima alla popolazione. Volle la numerazione delle anime di questa arcipretale che ascese a 2300 dei quali solo 1200 abili alla S. Comunione. Nel primo articolo della visita si riscontra la rendita di questa arcipretale essere di 2.000 lire. Annovera il Visitatore tutti gli altari e in quasi tutti vi era un qualche beneficio lajcale.

Poi passa alla Cappella del Rosario ed annota essere stata edificata colle elemosine di più fedeli e la erezione della Compagnia del Rosario.

Dopo tale visita passò all’oratorio della Compagnia del SS.mo di questa annota la rendita di lire 200 e fa la aggregazione ed unione della stessa all’Arciconfraternita del Baraccano di Bologna.

Passò poi al Borgo e visitò la chiesa della B. V. Annunziata e di essa ne segnò che veniva custodita da un sacerdote del Borgo detto anche Rettore o Custode.

Ed avevano ben ragione i borghesani di farla custodite da un sacerdote abitante nel Borgo, stante che fu costruita da questa popolazione onde Don Giorgi era assunto da quegli abitanti che stavano accanto alla chiesa.

Da qui andò al ponte sopra il Sillaro all’Oratorio dei SS. Giacomo e Filippo che da quanto c’era stata la pestilenza non era stato più visitato.

C’era poi fuori del Castello una piccola chiesa detta dei Manzi dedicata a M. V.  Di questa per essere trascurata e resa inabile alla celebrazione ordinò la demolizione.

Nello stesso Libro di Visita ritroviamo che nel Borgo vi era un altro oratorio dedicato a M. V. nel quale andavano i paesani a pregare e facevano non poche offerte che, trattenute dai borghesani, erano comunque usate nella celebrazione delle messe. L’Arcivescovo per ovviare a qualche disordine decretò che fossero gestite dall’arciprete.

Il primo luglio 1654 entrò Massaro Lorenzo Albruni e Podestà Andrea Pasi.

Il primo agosto morì il dott. Paolo Seda medico condotto e fu sepolto con onore in parrocchia.

Li P.P. agostiniani di S. Bartolomeo, avevano fatta fare una statua di M. V. della Cintura per solennizzare la sua gloria. Era priore del convento il P. Pietro Ottavio Ravoni di Castel S. Pietro nel convento e collocò la nuova Immagine la prima domenica di settembre nella nuova nicchia. In seguito formò una unione di devoti che col tempo divenne una Compagnia larga sotto il titolo della Cintura. Fu poi deciso di fare in avvenire la festa la prima domenica dell’Avvento di ogni anno nella stessa chiesa di S. Bartolomeo.

L’11 ottobre morì Don Alessandro Comelli cugino dell’arciprete e fu sepolto in parrocchia.

Morì in quest’anno anche il Padre Leone cappuccino, vicario di questo convento che, benché fosse cugino di mons. Girolamo Bertuzzi di questo Castello, veniva chiamato da Bologna.

Era finalmente terminato il bell’oratorio della Compagnia di S. Caterina costruito accanto la sua chiesa su disegno dell’architetto pubblico Pietro Martini.  Vi si cominciò ad officiare e perché aveva i sedili e gli inginocchiatoi antichi e di cattiva fattura, la Compagnia decise di farne dei nuovi di noce. Fu concordato con Domenico Gobi bolognese il lavoro su buon disegno e fu convenuta la spesa di 2.700 lire da pagarsi in più rate e cioè 300 l’anno. L’opera riuscì bellissima, ma, dopo l’abolizione della Compagnia, non restò in paese che il solo posteriore del banco degli ufficiali che si vede nella sacrestia grande della parrocchia, tutto di noce con S. Caterina e S. Sebastiano dipinti su tela.

Essendosi estinta la famiglia Santoni in Girolamo, i frati di S. Bartolomeo furono chiamati da Sante Santoni alla eredità per il testamento rogato l’anno 1645 e ne presero il possesso legale.

Il primo gennaio 1655 entrò Massaro Traiano Scasilioni e Podestà fu Filippo Bentivoglio.

Il 6 gennaio morì il Papa Innocenzo X.

L’edificio cominciato intorno alla fonte della Fegatella negli anni addietro da Giacomo Galvani, muratore, a spese della Comunità, fu terminato.

 La S. Sede rimase vacante per due mesi poi in aprile fu creato Papa il cardinale Fabio Chigi senese col nome di Alessandro VII.

La mura pubblica del Castello si trovava deteriorata nella parte di levante presso l’orto degli zoccolanti. Fu ripristinata a spese comunali.

Il 27 marzo, venerdì Santo, capitò per caso di passaggio Salomone un ebreo di Lugo e fermatosi nel Borgo alla taverna della Corona fu riconosciuto dal corso Tomaso Filetti che abitava qui come guardia. Avendo il segnale nel capello che usano gli ebrei, alcuni ragazzi, che se ne accorsero, cominciarono a batterlo e fischiarlo, facendo rumore con quei strumenti che si usano in questi giorni per battere i mattutini. La guardia corsa, mossa a compassione dell’ebreo insultato, levò di mano ad un ragazzo la verga e cominciò a dissipare l’assembramento. I ragazzi allontanati dopo poco replicarono le fischiate e poi con mele ed anche sassi cominciarono a colpire l’ebreo, così che dovette ripararsi e nascondersi nella osteria. Stette dentro tutto il tempo che si fecero le funzioni nelle chiese, lusingandosi di potersene andare mentre i ragazzi erano impegnati.  Venne intanto il tempo della solita processione del Cristo deposto sulla lettiga che si faceva dalla Compagnia di S. Caterina col clero.  Mentre questa si faceva entro il Castello, l’ebreo credette di fuggire sicuramente dai ragazzi, ma si ingannò poiché fu visto e fu nuovamente assalito gridando dietro: Dagli! dagli!  Al rumore cresceva la turba e gli convenne gettargli del denaro e, mentre si perdevano a raccoglierlo, fuggirsene verso Imola.

Lunedì 13 maggio, primo delle Rogazioni di M. V., si stava portando la S. Immagine di Poggio processionalmente entro il Castello. Alcuni contrabbandieri di Casalfiumanese avevano portato al mercato farine di grano per venderle al minuto ed all’ingrosso.  Un loro sacco fu accidentalmente rovesciato dal popolo affollato che si spostava per far posto alla processione. Fu tale l’ira del padrone della farina che, dato mano all’archibugio che teneva sui sacchi, cominciò a farsi largo contro chi passava. Alcuni, sdegnati ed offesi, presero di mano al contrabbandiere l’arma. Questi diede tosto mano alle pistole e ne scaricò una contro chi aveva l’archibugio.  Per grazia di Maria andò in fallo l’archibugiata. Il contrabbandiere era della famiglia Alvisi ed il villano dei Naldi di Varignana.

In questo tempo il ponte di pietra sopra il canale che va a Medicina era in tal modo rovinato che nessuno poteva attraversarlo. I medicinesi pretendevano che la Comunità di Castel S. Pietro l’accomodasse. Fu portata la causa avanti il Legato card. Lomellini e fu decretato che la spesa toccasse ai medicinesi ed agli aventi il comodo dell’acqua, che vi passava sotto.

Il primo luglio 1665 entrò Massaro Stefano Annessi e Podestà Carlo Emanuele Visani.

L’8 ottobre fu ucciso in questo luogo messer Alessandro Morandi di S. Agata e la cavalcata si fece solo in dicembre.

Nella fontana della Fegatella aveva sopra l’uscio una finestra senza inferriata e per essa entravano ragazzi ed altre persone e vi facevano sporcizia.  La Comunità il 14 ottobre le mise l’inferriata.

I lavori fatti al ponte sopra il Sillaro non erano stati sufficienti e si era spaccato il muro che difendeva la strada verso ponente. Si dovette un’altra spesa che ammonto a 360 lire che furono poste in comparto alle comunità che ne sentivano il comodo.

Entro quest’anno seguì il matrimonio fra Domenico Bartolucci e Ginevra di Nicola Nicoli dai quali venne poi il chiaro dott. Francesco.

Perché il numero de consiglieri non era completo, fu necessario completarlo e furono i seguenti: Andrea Ulivieri in luogo di Sante Simbeni, Francesco Fuzzi in luogo di Innocenzo Fabbri, Fabbrizio Cavazza al posto di Gabriele Cuzzani, Carlo Rondoni in luogo di Gabriele Cuzzani, Sante Alberici al posto di Francesco Prati, Giovanni Andrea Tomba in luogo Comelli.  Ma perché non furono presentati al Senato, non furono dichiarati uomini del Consiglio.

Il primo gennaio 1656 entrò Massaro Paolo Matteucci e Podestà il Conte Camillo Ranuzzi Manzoli per il primo semestre.

Avute notizie dalla parte di Roma che l’epidemia[114] negli uomini faceva in quelle parti progressi, il Governo di Bologna prese subito le necessarie provvidenze, si profumavano per ciò le lettere che arrivavano, poi fu mandata la guardia ai passi e ai confini al comando del castellano Pellizzoni, inoltre si stabilirono qui 20 soldati corsi di guardia, capo dei quali era certo Luca Andrea.

E poiché si poteva in Castello entrare e uscire liberamente senza passare dalla porta perché vi erano buchi ed aperture nelle mura, fu tosto ordinato dal Senatore Marchese Magnani che venissero chiusi.  Il che seguì immediatamente.  Furono anche posti i cancelli alle porte dei frati di S. Francesco ed alle altre porte del Castello.

I Corsi guardavano il Castello non solo per difenderlo dalla pestilenza ma anche dai malviventi che si erano qua e là ribellati e commettevano del male. I Corsi perciò pattugliavano anche fuori del Castello d’ordine del capo Notaio del Torrone che era venuto a Castello dove poi aveva lasciato un notaio.

Avuta notizia che si erano imboscati alquanti contumaci e scapestrati nel vicino bosco di Maleto dietro il Sillaro, i corsi li bloccarono e riuscirono a prenderne uno, che fu Giovan Battista Fiegna di Castel S. Pietro. Lo assicurarono in queste carceri del Podestà, che però non erano robuste e il Fiegna riuscì fuggire e beffare i corsi.  Le carceri furono poi subito accomodate dalla Comunità.

Fu contemporaneamente fatto nel Borgo alla porta di levante un casotto di assi per il profumiere Ercole Mezetti, qui destinato da Bologna.

Essendosi rotta la campana mezzana della Comunità nel campanile presso la parrocchiale, sino ad ora di ragione pubblica, fu fatta rifondere a spese della Comunità. Il fonditore fu Domenico Dinarelli bolognese, pesò libbre 925.

Perché cresceva il timore della epidemia si fece murare dal muratore Francesco Ballotti la porta superiore del Castello che porta ai cappuccini.

Oltre la epidemia cresceva ancora la penuria dei viveri vendendosi il grano 26 paoli la corba e più. Si facevano perciò orazioni ovunque per placare Iddio castigatore.

Il card. Legato di Bologna per incutere timore ai malviventi e ai fuorusciti di questo paese mandò qui l’ultimo giorno di giugno, di notte tempo, il Mastro di Giustizia di Bologna. Questi il primo luglio1656 fece piantare le forche tanto nella piazza del Castello che fuori al Borgo nella via corriera per cui la comunità spese 15 lire.

Nello stesso giorno prese il possesso di Massaro Francesco Fiegna. Podestà fu Marc’Antonio Gozzadini.

Arrivavano notizie da Roma che a Napoli morivano giornalmente 3.000 persone e che il papa non dava più udienza ed erano chiusi i tribunali. Perciò il 10 luglio si fecero accomodare nuovamente la mura del Castello dalla parte che guarda i cappuccini, furono accresciute le guardie al numero di 30 corsi che venivano comandati dal notaio commissario del Torrone Ercole Mezetti che qui domiciliava. Gli stessi corsi, dato che erano militari, avevano i loro sbirri, che per fermare la gente e arrestarla erano comandati dal caporale corso Gregorio Castellani.  Il Mastro di Giustizia dopo una permanenza di dieci giorni tornò a Bologna. Il quartiere dei corsi era nella casa dei Fabbri in faccia alla piazza dove è ora è il grandioso portico della stessa famiglia.

Il torresotto Locatelli costruito sopra il baluardo nell’angolo superiore del Castello era stato terminato. Fu intonacato all’esterno e imbiancato e misero all’interno una gran quantità di colombi. La manifattura fu di Francesco Ballotti capo mastro muratore, se ne legge la memoria, incisa nella calcina dalla parte verso levante sopra il primo cordone di pietra cotta, in questa forma

1656

Adì VII Lulio F. Balloti F.

Il 13 agosto si pubblicò un Giubileo per un mese continuo per il contagio che si estendeva negli stati pontifici e lo scarso raccolto.

Il 25 settembre i corsi presero messer Giulio Rivani e fu subito condotto a Bologna a pagare il fio.

Il 10 ottobre fu ucciso dai fuorusciti un figlio a Michele Fucci, famiglia che conta la sua origine in Castel S. Pietro fino dalla sua fondazione e che diede luminosi Dottori e Prelati. Non andò molto che fu ucciso un altro figlio da un maiale che lo sbranò vivo e restò per ciò estinta questa famiglia.

Il 22 di questo stesso mese il marchese Camillo Pepoli usciva dalla città da strada maggiore per venire in campagna al suo palazzo sulla Gajana detto Coccapane, scortato da molti bravi. Quando fu arrivato alla Gabellina fuori di strada Maggiore fu fermato dal Bargello con altri sbirri forestieri che lo voleva arrestare. Si scontrarono ed andarono sette archibugiate e restò morto il Bargello con due sbirri, gli altri sbirri fuggirono. Il capo dei bravi del Pepoli era Camillo Pizzati di Castel S. Pietro e c’erano due dei Tesei.

Perché nell’edificio della fontana della Fegatella, che era in mano della Comunità, si erano aperti alcuni passaggi e a volte dentro si nascondevano dei malviventi, così il commissario Mezzetti ordinò alla Comunità che fossero turate, come fu prontamente fatto. 

Il 31 ottobre passarono 30 Corsi provenienti da Bologna diretti ad Imola tutti a cavallo che, dopo avere pernottato qui alquanti giorni, partirono. Era loro capo Luca delli Andrea.

Il 6 dicembre morì Vincenzo Maria figlio del defunto dott. Paolo Seda già medico condotto e che aveva radicato in questo luogo la sua famiglia.

Non cessavano i dazieri di Bologna di disturbare la Comunità nelle sue esenzioni e perciò questa fece non poche istanze, agli atti di Camillo Felina, per essere mantenuta nel loro possesso.

L’anno 1657 entrò Massaro Stefano Annessi per il primo semestre e Podestà il dott. Carlo Luigi Scappi, suo notaio fu Silvestro Bernardino Ferrari.

La pestilenza, che si credeva svanita, cominciò nuovamente a farsi sentire, perciò il cap. Gregorio Castellani fu confermato per commissario a Castel S. Pietro con i soldati corsi.

 Don Alessandro Gottardi di Castel S. Pietro, prete della congregazione di Filippini della Madonna di Galliera di Bologna, volendo mostrare il suo affetto alla Compagnia di S. Caterina, di cui ne era confratello, le donò, il 12 gennaio, una sua casa a Castello con l’obbligo di fare celebrare perpetuamente un officio di requie nella sua chiesa oppure nella sua cappella esistente nella chiesa parrocchiale.

Il 18 marzo, domenica di passione, stante le presenti calamità di pestilenza, si fece la solita processione del Cristo non velato dalla Compagnia del SS.mo e fu portato a tutte le porte del Castello e del Borgo. Poi fu data la S. Benedizione in ogni porta e bocca di strade. I confratelli in questa occasione portarono una fune al collo e la disciplina in mano. I sacerdoti avevano rami di olivo ed invece di cantare il Vexilla Regis cantavano il Miserere.

Il giorno primo aprile, solennità di Pasqua, andò la Compagnia di S. Caterina, secondo l’uso introdotto, a visitare la Madonna del Cozzo. Intanto ritornava da questa la Compagnia del SS.mo. Quando furono sul ponte del Sillaro si incontrarono i confratelli delle due Compagnie. Qui quelli del SS.mo, che volevano intonare il De profundis alle anime dei sepolti nel vicino Lazzaretto, furono disturbati dai cantori della altra compagnia. Nacquero serie divergenze tra quegli individui e di qui cominciarono le ostilità vicendevoli che durarono a lungo, ora per un incidente ora per una ambizione ora per altri puntigli come diremo.

Le riparazioni fatte al ponte sopra il Sillaro nella via corriera non potendo resistere all’impeto delle acque, si dovette farvene altre. Si spesero 630 lire che furono ripartite tanto tra i proprietari che i coloni dei terreni.

 L’8 maggio Domenico Rinaldi, padrone della casa che fa angolo nella piazza maggiore, avendo bisogno di ingrandire la sua spezieria mediante una bottega e un occhio di portico, chiese alla Comunità una parte di suolo della piazza. Si offrì, in compenso, di fabbricare a sue spese un muricciolo di pietra, per tutta la lunghezza della piazza, dritto fino all’incontro della via che porta a S. Francesco. Questo per comodità ai villani che vengono al mercato dei pollami.

La Comunità aderì alla richiesta e fu perciò fatto il muricciolo tutto di mattoni alto dal suolo 18 once, che si univa alla colonna del nuovo portico Rinaldi.  Questo muricciolo si conservò fino all’epoca che fu pavimentata di sassi tutta la piazza e se ne vedono ancora i fondamenti fronteggianti la via di mezzo.

 Il 13 maggio, giorno del Corpus Domini, venne all’improvviso una dirottissima pioggia che, non potendola portare i coperti e le strade, le persone non poterono stare in casa e le cantine furono allagate.

D’ordine del Senato fu fatta la nota di tutte le teste per il comune di Castel S. Pietro. Il Castello e il Borgo non furono compresi.

Il primo luglio 1657 entrò Massaro Giovanni Farnè e Podestà il Conte Francesco Preti.

Alcuni sacerdoti secolari di Castel S. Pietro si erano messi d’accordo di formare fra di loro una congregazione. Fu talmente applaudito questo progetto che il 9 luglio si radunarono in un buon numero nella sagrestia della parrocchiale. Furono l’arciprete D. Alessandro Comelli, D. Antonio Maria Spanochia arciprete di S. Martino in Petriolo, D. Antonio Garofali, D. Sante Poggi, D. Alessandro Cuzzani, D. Domenico Montanari, D. Giovanni Chierici, D. Francesco Pavolacci, D. Antonio Balotti e D. Sebastiano Cavolazzi. La loro intenzione era di concordare come formare le Capitolazioni delle regole. Fu per ciò a voce eletto per primo priore l’arciprete di S. Martino il quale prese l’incarico di formare la Capitolazione. Elessero per suo segretario D. Sebastiano Cavolazzi e depositario D. Sante Poggi. Ciò fatto presero tempo quindici giorni per riunirsi di nuovo per la conclusione da approvare poi dall’E.mo arcivescovo o dal suo vicario.

Spirato il termine si radunarono il 24 luglio nella stessa sagrestia ove fu tutto deciso. Successivamente nella chiesa arcipretale fu cantata la messa solenne dall’arciprete Spanochia. Dopo con tutti i preti in cotta si fece una solenne processione entro la chiesa cantando il Veni Creator. Terminata la processione si rinchiusero nella sagrestia per firmare la loro Unione.

Dopo varie riflessioni per evitare ogni dubbio di lesa giurisdizione ed evitare problemi per parte dell’arciprete Comelli, deliberarono di trasferire altrove le loro adunanze ove potere più liberamente discutere i loro disegni. Conclusero perciò di incontrarsi in avvenire nella chiesa dei Padri di S. Francesco posta nel comune di Casalecchio dei Conti, cioè al Conventino, e fecero lì le loro risoluzioni come a suo tempo riferiremo.

Il 29 luglio morì Gaspare Fiorentini in questa sua patria ove il suo casato conta più di tre secoli di domicilio. Da questa famiglia ne riportò il nome la possessione nel quartiere del Gaggio ove era l’antico castelletto, che viene tuttora nominata la Fiorentina.

Il 31 luglio fu ucciso Silvestro Cavina di Castel Bolognese con una archibugiata.

La fonte della Fegatella fu nuovamente riparata nelle pareti che erano state in alcuni punti aperte.

Nel mese di novembre il capitano corso Giovanni Bartolomeo Falconetti, che si era già stabilito in questo Castello, sposò Laura Manfredi di Castel S. Pietro. Si era pure qui stabilito Giovan Battista Dalle Vacche, che fu poi detto Vacchi, proveniente dal Sabbioso. Si sposò con Angelica di Giovanni Cavoni e fu lei che lo fece radicare qui. Questa famiglia, rimasta altre la metà del 1700, divenne facoltosa e riguardevole. Da Giovan Battista venne Girolamo, uomo di grandissima fortuna, detto poi volgarmente Girominone, il quale fece moltissimi acquisti e si fabbricò questo suo bel palazzo nella via del canale sopra un fondo con una tintoria sopra. Quanto fu egli uomo di parola e molto fortunato, fu altrettanto riconoscente a Dio e prodigo verso la povertà poiché nessuno cacciava mai da esso, fosse paesano o fosse forestiero. Aveva questa particolarità che lasciava ai richiedenti elemosine la opzione di questi tre generi cioè pane, vino e fascine. Così a chi desiderava bere, dava un fiasco di vino, ad altri che lamentavano il freddo, dava un fascio per scaldarsi ed altri che chiedevano il pane dava un pane a testa. Ciò accadeva giornalmente e il sabato, dedicato alla gloria di M. V., faceva una generale elemosina a tutti i poveri paesani. Inoltre ai frati cappuccini e francescani pagava settimanalmente una pietanza per ciascun individuo.

Non fu dissimile da lui il suo primogenito Giuseppe. Girolamo sposò Mattea Vanti e fu beneficato nella figliolanza. Ebbe molti maschi e fra questi il solo Giuseppe prese moglie, gli altri furono Don Francesco che fu prete ed ebbe la abbazia di S. Maria in Cosmodin, l’altro fu Canonico in S. Giovanni in Monte e salì tutti i gradi del suo ordine fino al generalato, il quarto fu cappuccino per nome Padre Felice che morì in patria, il quinto fu Padre Domenico dei Minori Conventuali. Il sesto fu Padre Luigi, pure lui conventuale che per lungo tempo fu guardiano nel convento di S. Francesco in Faenza. Qui nel 1750, intraprese la fabbrica di quella bella chiesa e fece fare il campanile e coro spendendovi molto del suo. Il settimo fu Don Domenico prete secolare.

Il primogenito Giuseppe ebbe due mogli, la prima fu Giovanna Giorgi di Castel S. Pietro da cui ebbe Battista, che vive celibe e una figlia per nome Caterina che morì celibe e Gertrude canonichessa in S. Lorenzo di Bologna. Dalla seconda moglie per nome Rosa Brusa bolognese ebbe Maria Teresa celibe, Girolamo ed Alessandro che morirono ancor ragazzi e finalmente Maddalena che si accasò col cittadino Giovanni Pietro Zanoni di Bologna che fu poi erede di tutto con una rendita annua di tremila e più scudi.

I preti della nuova congregazione, non avendo potuto ottenere da frati Minori Conventuali il comodo della chiesa del Conventino, si riunirono nella chiesa parrocchiale di S. Michele di Casalecchio dei Conti ove vennero accettati da quel parroco Don Sante Poggi. Qui cantò messa il priore Spanochia, poi si fece la processione entro e fuori della chiesa. Terminata questa il segretario D. Sebastiano Cavalazzi lesse i Capitoli scritti che furono tutti approvati. In questa sessione la chiesa fu dichiarata, con il consenso del parroco, come residenza della Congregazione riservandosi però di potersi trasferire altrove qualora si decidesse diversamente.

I Capitoli approvati furono stampati l’8 dicembre 1657 ove si leggono li nomi e cognomi dei rappresentanti la congregazione che sono li seguenti D. Antonius Maria Spanocchius Archipresbiter S. Martini de Petriolo primus Prior, ill.mus D. Alexander Campegius, R. D. Jo. Babtist. Paoluccius Archipresbiter S. Laurenti Varignane, R. Sanctes de Poggis Curatus S. Micaelis Casalechi Comitum Depositarius, R. D. Dominicus Montanarius Curatus S. Bartolomei Fraxinati magister Ceremoniar., Cesar de Florentinis, Francicus Paeluccius Rector S. M. De Varignana, Jo. a Clerico Curatus S. M. de capella, Alexander de Cuzzanis curatus S. Mame de Liano, Antonius Balotta curatus S. Laurenti Dutie, Jo. Balestrerius a Ditia, Sebastianus Cabalatius Capellanus castri S. Petri secretarius. Jacobus Poletus a Dutia, Franciscus Joseph Riccius a Dutia, Jo. Orianus a Dutia, Carolus Andreas Poletus a Dutia, Dominicus Manrius, Cesar de Fabbris, Jacobus Salvatorius, Carolus Canonicus, Paulus Celius, Petrus Antonius Garofalus Curatus S. Blasi Podi, Jo. Maria Minellus, Jo Babtista Mondinus Martinus a Quaderna, Lazarus Ronchius, Pompeius Manaresius, Franciscus Liggius, Bartolomeus Cennius a Dutia, Hiacintus Lanserius per Jo. Prellinus.

1658 – 1662. Di nuovo liti tra le compagnie del SS.mo e di S. Caterina. Orologio solare con sistema di specchi nel convento dei cappuccini. Il gesuita padre Vaschi mette pace tra le compagnie, regolato il turno delle precedenze. Arciprete impedisce alla Comunità l’accesso alle campane poi all’orologio pubblico.

Giunto poi l’anno 1658 il primo gennaio entrò Massaro Giovanni Bonetti e Podestà il marchese Antonio Bolognetti, suo notaio giusdicente fu Bernardino Ferrari.

Cessato il timore della pestilenza, dopo la Epifania si disfecero i caselli alle porte del Castello. Il 12 gennaio si disfece anche il capanno di assi coperto a coppi che era ai confini di Romagna nella via romana dove stava il purgatore delle robe sospette.

Le robe e le lettere sospette, che erano state qui inoltrate senza certificati, furono trasportate a Bologna per purgarle col fuoco. Contemporaneamente fu pulita la fontana e suoi condotti.

Il 22 gennaio Antonio Menghini di Castel S. Pietro, compratore di polvere da archibugio, era andato a Budrio in casa di Giovanni Orfei, per comperare della polvere. Volle provarla col fuoco, una scintilla andò al sacchetto che era di 30 libbre. Saltò in aria tutta la casa. Si salvarono solo il Menghini, la serva ed un fanciullo dell’Orfei. Il Menghini essendosi salvato attribuì ciò a un miracolo di M. V. di Poggio della quale era molto devoto.

Essendo morto Don Lazzaro Ronchi di Castel S. Pietro che fu il primo della accennata congregazione di preti, gli fecero il 12 febbraio le esequie nella chiesa di S. Biagio di Poggio.

Riconobbe poi la Congregazione quanto fosse scomoda la situazione di Casalecchio per effettuare i suoi suffragi (motivo per cui furono fatte le esequie al Ronchi a Poggio). Riunitasi il 19 febbraio fu deciso di trasferire la sede nella chiesa di S. Pietro nel Borgo di questo Castello, luogo più comodo a tutti.

 Ma perché questa chiesa era di pertinenza del card. Flavio Ghigi, commendatario dell’abbazia di S. Stefano a cui la chiesa era sottoposta, la congregazione fece supplica al cardinale che ne concedesse l’uso. La richiesta fu subito spedita a Roma.

Si erano in questo tempo fatti tanto audaci i malviventi che entravano a commettere delitti perfino entro i luoghi murati. Il 20 febbraio si arrischiarono fino entro il nostro Castello.  Fu assalito Sebastiano Baducci di Castrocaro e fu svaligiato. Perciò venne poi qui con gli sbirri il Notaio Criminale Dassarini a fare la Cavalcata.

Si nascondevano costoro specialmente nell’edificio della Fegatella ove avevano abbattuto la porta e fatto nelle mura di essa alcune feritoie. Il Notaio perciò ordinò alla Comunità che fosse rifatto l’uscio, murate le feritoie e accomodata dove serviva. 

Perché erano vacanti dieci posti di consiglieri ed erano rimasti solo in sei, questi presentarono al Governo di Bologna i seguenti soggetti: Carlo Rondoni in posto di suo fratello Nicola, Benedetto Fiegna in luogo dello zio Francesco, Giacinto Simbeni in luogo di Bartolomeo Beretta, Giovanni Rapini in luogo di Paolo Matteucci, Francesco Fanti in luogo di Orazio Venturoli, Biagio  Sgarzi in luogo di Giacomo Fornasari, Lorenzo Graffi  in luogo del padre Alfonso, Francesco Ruggi in luogo di Francesco Ricardi, Giacomo Tomba in luogo di Filippo Bittini, Stefano Alberici in luogo di Pietro Andrini.

Il 25 marzo morì Lodovico Antonio Seda figlio del fu dott. Seda, giovine di grande aspettazione per le virtù che l’adornavano.

La richiesta che la congregazione dei preti aveva mandato al cardinal Ghigi per avere la chiesa di S. Pietro ove officiare ebbe risposta positiva il 30 marzo. Non fu lenta la congregazione a trasferirsi da Casalecchio nella chiesa di S. Pietro ed a prenderne il possesso. In seguito il 20 maggio 1658 si celebrò in questa chiesa l’anniversario stabilito nei capitoli della congregazione al quale vi intervennero D. Antonio M. Spanochia priore, D. Giacomo Presi, D. Giovanni Oriani, D. Giacomo Boschi, D. Galeazzo Di Alfonso Graffi, D. Domenico Moruzzi, D. Gio.  Battista Paolazzi, D. Cesare Fiorentini, D. Francesco Paolazzi, D. Giacomo Filippo Balestrieri, D. Carlo Andrea Poletti, D. Giovanni Chierici, D. Alessandro Cuzzani di Castel S. Pietro, D. Carlo Cenni, D. Bartolomeo Cenni, D. Antonio Balotti, D. Sebastiano Cavalazzi, D. Domenico Montori, D. Gio.  Battista Mondini, D. Domenico Montanari, D. Francesco Lippi Maldini, D. Giovanni Grillini e D. Sante Poggi.

L’anno scorso nelle feste di Pasqua c’erano stati dei dissapori tra compagnie del SS.mo e di S. Caterina. Venuto il tempo delle Rogazioni della Madonna di Poggio la cui immagine spettava alla compagnia del SS.mo, la compagnia di S. Caterina voleva, come più antica del paese, portare essa per la prima la S. Immagine, reggere le processioni e fare tutto ciò che spettava all’altra compagnia. Questa, saputa la pretesa, fece intendere che stante le disposizioni del suo Statuto non poteva più accordare al priore della compagnia di S. Caterina di stare a fianco della B. V quando la si portava in processione né le passate convenienze.

La compagnia di S. Caterina si sentì fortemente offesa da ciò e cessò di intervenire non solo alle Rogazioni di M. V. ma anche alle processioni del SS.mo e specialmente a quella del Corpus Domini. Si accesero quindi liti civili e da queste si passò a liti più cruente che a suo tempo riferiremo.

Intanto terminata la sua legazione il card. Lomellini partì da Bologna il 13 giugno e venne accompagnato fino a Castel S. Pietro dal Marchese Camillo Paleotti e dal conte Michele Calderini.

I consiglieri espressi dalla Comunità furono approvati dal Senato e il 14 giugno furono subito imborsati nella borsa dei Massari.

Il 24 giugno arrivò a Castel S. Pietro il card. Girolamo Farnese come nuovo Legato di Bologna e fu incontrato ai confini del nostro Castello dal Marchese Girolamo Zambeccari e Vincenzo Fachinetti.

Gli assassini in questo tempo andarono in Borgo in casa di Giovanni Rambaldi e lo svaligiarono a mano armata

Il primo luglio 1658 entrò Massaro Benedetto Fiegna per la prima volta e Podestà fu il Senatore Annibale Marescalchi, suo notaio giusdicente fu Taddeo Tacconi.

Il 12 agosto si fece rigorosa Cavalcata per il crimine commesso in casa del detto Rambaldi. Appena terminata il 17 agosto fu ucciso Giacomo Fantelli. Non si poté scoprire i colpevoli dell’uno e dell’altro misfatto e la Comunità dovette pagare entrambe le cavalcate.

Governava in questo tempo lodevolmente la sua parrocchia di Rignano Don Antonio Galeazzo Graffi di Castel S. Pietro, fratello del nuovo comunista. Una notte di questo mese dei delinquenti mascherati si portarono alla sua abitazione e, entrati in chiesa, portarono via tutti i vasi d’argento. Per questi crimini, che accadevano nelle nostre vicinanze e a Castel S. Pietro, furono qui stanziati quattro sbirri e quattro corsi. Ciò non ostante 2 ottobre fu ucciso Ascanio Graffi che fu poi sepolto in parrocchia.

Per queste malvagità i gesuiti affrettarono le loro Missioni prescritte dal testamento Morelli. Domenica 6 ottobre, festa del SS. Rosario e di S. Brunone, furono cominciate dal gesuita Padre Giberto Gianini che predicò aspramente contro ladrocini e l’oppressione dei poveri.

 Una mattina si vide attaccata alla porta di questo suo ospizio il seguente componimento

Voi Rettor de Galabroni

che veniste a far milioni

e gridate così forte

contro il vizio d’ogni sorte,

Caro Padre, se guardate

a ciascuno vostro frate

che si ingoia dei Morelli

ciò che deve ai poverelli

di codesto pover loco.

come fosse un dolce gioco.

Io vi giuro in fede mia

che la vostra è Ipocrisia.

Se si vol che vi crediamo

date quel che aver dobbiamo

e tornate al Convento

che sarete più contento.

Egli è questo il parer nostro

egli è questo il Dover vostro.

Fece tale impressione questo fatto al povero missionario che lo rese sbigottito. Fu informato che ciò proveniva dall’essere sospesa dalla sua religione la elemosina destinata dall’eredità del Morelli. Terminate le Missioni fece egli fare una copiosissima elemosina non solo a tutti i miserabili del paese ma anche a tutti gli altri poveri forestieri si aspettavano elemosine dai legati Morelli sospesi.

Il primo gennaio poi 1659 entrò Massaro Stefano Anessi e Podestà il Conte Girolamo Gessi, che deputò per suo giusdicente Bernardino Ferrari.

 Il 20 gennaio morì Pietro Cavazza.

Il Senato di Bologna volendo ringraziare il Marchese Girolamo Locatelli per gli incomodi sofferti per il passaggio dei cardinali e per le ospitalità date in Castel S. Pietro gli concessero il 18 gennaio 1659 di occupare il suolo pubblico che gli abbisognava.  

La Compagnia di S. Caterina aveva istruito una causa circa il modo di officiare nelle processioni contro la Compagnia del SS.mo. Patì decreto contrario avanti monsignor Vicario Generale di Bologna nel foro vescovile, fu perciò imposto tale decreto ai priori e uomini della compagnia di S. Caterina con l’ordine di dovere osservare l’altro suo decreto sopra le processioni della B. V. di Poggio e del SS.mo.

Si era reso così esoso l’arciprete alla Comunità e alla popolazione tutta di Castel S. Pietro col volere dissanguare anche i poveri mediante la introduzione di una tassa sopra il suono della campana per i funerali.

Intendeva inoltre fare un campanaro custode a suo piacere delle campane pubbliche, campane mantenute esclusivamente dalla Comunità e dal popolo. Fu perciò in necessità la Comunità di ricorrere alla Giustizia e fece le opportune istanze al vescovato. In seguito a ciò fu decretato provvisoriamente che il parroco esigesse il consueto, e che sulle altre pretese si sarebbe discusso.   

Questo decreto non fece altro che accrescere il livore e l’odio all’arciprete che non poteva sortire di casa senza pericolo di fischi e contumelie all’avarizia. Una mattina fra le altre, fu ritrovata affissa alla porta dell’arciprete e in altri luoghi questo cartello.

Auri sacra fames? quid non pote diva cupido?

Che non puoi tu brutta ed esecrabil fame

d’oro ed argento nelli petti umani?

Causi che s’odi il dritto e il torto si ame

che mesti sian li buon, lieti i profani!

Fu attribuito questo fatto ad uno dei preti della nuova congregazione poiché anche essa era stata contrariata dall’arciprete allorché si voleva stabilire in parrocchia e avevano invece dovuto cercare un altro sito, al Conventino, poi a Casalecchio quindi a Poggio e finalmente nella chiesa di S. Pietro di questo Borgo.

Il 15 maggio Ercole Santini di Castel S. Pietro uccise Alessandro Monduzzi e fuggì tosto nella vicina Romagna.

Il 19, 20 e 21 maggio   si fecero le solite rogazioni di Maria SS. di Poggio alle quali vi intervennero solo le tre Religioni dei regolari, senza intervento della Compagnia di S. Caterina, così seguì pure il giorno del Corpus Domini che cadde il 12 giugno.

Il primo luglio 1659 entrò Massaro Stefano Alberici e Podestà Achille Pellegrini.

Si trovava in questo convento dei cappuccini il Padre Gianfilippo da Cento della famiglia Figatelli uomo di singolari virtù e prerogative sopra tutto nelle Tavole Gnomoniche[115]. Per lasciare in questo convento una cosa degna di memoria della sua scienza costruì, a capo del primo braccio sinistro del chiostro inferiore, un bellissimo orologio solare detto catottrico[116]. Uno specchio, posto sopra l’architrave della porticella dell’orto, rifletteva, per una piccola apertura, un piccolo raggio solare che, diretto nella volta interna del chiostro ove stava dipinto l’orologio con linee e colori diversi, mediante gnomone, segnava i pianeti, i giorni del mese, l’ora del pianeta, le feste dei Santi tanto all’uso di Francia che d’Italia.

Ma è sciagura che questo si sia perduto per opera di un certo Padre Michelangelo Filicori, guardiano della famiglia, che quanto era uomo di buoni costumi e vita, altrettanto era ignorante. Questi fece imbiancare quella operazione studiosa e bella e rarissima, che non se ne trova altra simile che nel convento cappuccino di Faenza. Così privò questo monastero di Castel S. Pietro di tanto studioso lavoro. Di esso si riconoscano ancora le linee. Veniva poi decorata questa manifattura della seguente scritta:

Horologium Catopricum cognominatum

factum Anno D.ni MDCLIX

Nell’architrave vi era il seguente moto: In umbra deficio.

Si ha per tradizione che autore ne facesse altri due simili uno cioè in S. Giovanni in Persiceto e l’altro nella libreria dei cappuccini di Bologna, non garantiamo però sia vero. 

La residenza comunitativa e l’ufficio della podesteria si trovavano in pessimo stato. La spesa, secondo la perizia, ascendeva 937 lire. Fu fatto ricorso al Senato perché decretasse un comparto alle comunità soggette. Fu fatto il 29 dicembre.

Il primo gennaio 1660 entrò Massaro Carlo Rondoni e Podestà Mario Casali, suo notaro giusdicente fu Bernardino Ferrari che mori il 14 gennaio e fu sepolto in parrocchia con singolare onore. Occupò il suo posto Alessandro Marchesini.

Erano diventate le esazioni camerali dei possidenti così difficoltose che i massari non potevano riscuotere e corrispondere alla Camera di Bologna l’importo ed erano perciò spesso in questioni e liti per pretesi privilegi ed esenzioni.  La Comunità ricorse al Legato Girolamo Farnesi e questi il 17 febbraio ordinò che i massari avessero il potere di intervenire Mano Regia more camerali et apostolico contro i morosi e chi faceva difficoltà. Messa in uso questa medicina ognuno pagò puntualmente la sua tassa.

Degli zingari dettero fuoco a questo Ospitale de Pellegrini nel Borgo perché quel custode non li aveva voluto albergare. Gli incendiari furono subito inseguiti tostamente sopra il Castello, ma non si poté avere la soddisfazione di prenderli perché si dispersero nelle vicine boscaglie.

Per la fabbrica della nuova cappella del Rosario il priore di quella compagnia chiese una larga sovvenzione alla Comunità che la corrispose con quindici scudi d’oro.

Il 10 febbraio, ultimo di Carnevale, i nostri villani fecero secondo l’uso i soliti falò. Il vento causò tre incendi nella vicina collina. Uno a Fossa Livara, l’altro vicino al demolito Castello d’Alboro e l’ultimo vicino alla chiesa di Monte del Re. Furono solo di qualche danno poiché le persone furono sollecite all’intervento. Fu d’aiuto anche la neve alta nei tetti.

Il 14 marzo, domenica di Passione, si fece la solita processione col Cristo scoperto della Compagnia del SS.mo alla quale intervenne il solo clero. Il 26 marzo, venerdì Santo, si fece dalla Compagnia di S. Caterina la processione del Cristo deposto sulla lettiga a cui intervenne solo il clero secolare. Pure le processioni delle Rogazioni colla Madonna di Poggio nel dì 3, 4, 5 maggio furono fatte senza la Compagnia di S. Caterina.

Il primo luglio 1660 entrò Massaro Giacinto Simbeni e Podestà il Conte Paolo Caprara.

Codesti PP. agostiniani nel convento di S. Bartolomeo, volevano fare colla nuova loro Immagine di M. SS. della Cintura la processione per il Castello e Borgo nella prima domenica di settembre. Processione che in passato si faceva intra septa conventus colla sola reliquia di M. V. Arrivò la notizia all’arciprete Comelli che, geloso dei diritti parrocchiali, non mancò di esporre il suo fiele lasciandosi uscire di bocca che avrebbe impedito la processione ai frati. Questi però furono più scaltri dissimularono e fecero la processione con la solita reliquia nel contorno della loro chiesa, processione che chiamavano di S. Monaca a cui non vi intervenne alcuna corporazione ecclesiastica.

Nel 1661 entrò Massaro Giovan Battista Villa e Podestà il conte Vittorio Vittori.

 Nella lite a Roma per le immunità del paese fra i dazieri di Bologna e la Comunità fu emesso un decreto sospensivo a favore di questa: manuteneri in possessione la Comunità donec et ad exitum.

Il 28 marzo si fece sentire il terremoto.

Il 7 maggio   si fece la Congregazione Capitolare degli agostiniani in questo convento di S. Bartolomeo ove, essendo il Provinciale della Religione Padre Giovanni Bondioli da Bologna, fece priore di questo convento il Padre Deodato Venturoli di Castel S. Pietro.

Le discordie che erano tra le compagnie del SS.mo e di S. Caterina, non si erano potute comporre quindi l’arciprete procurò che venissero in paese le Missioni dei gesuiti. Il 15 maggio venne il Padre Francesco Vaschi che oltre ad avere grande eloquenza e zelo cattolico era pure uomo di maneggio. Questi tanto si adoprò che gli riuscì di unire le due compagnie e fu ripristinato il culto di Dio. Le Rogazioni di M. V. che caddero il 23, 24 e 25 maggio furono eseguite pomposamente con edificazione del popolo.  Padre Vaschi, per consolidare di più l’unione tra le compagnie, propose che nel turno del ricevere la S. Immagine di Poggio si ammettesse anche la chiesa della Compagnia di S. Caterina. Questo fu approvato dai superiori di Bologna e il Vicario Generale ingiunse all’arciprete di fare in modo che per l’avvenire così si continuasse a gloria di Dio e M. V. Questa turnazione si è conservato sempre fino all’epoca in cui fu abolita la Compagnia di S. Caterina dal card. arcivescovo Vincenzo Malvezzi.

Lo stesso Padre Vaschi, terminate le Rogazioni, volle dare la benedizione al popolo colla miracolosa Immagine dopo un tenerissimo sermone sopra la pace.  Si videro allora, nella piazza maggiore del Castello, gli uomini cappati delle due compagnie abbracciarsi vicendevolmente fra tenerezze e lacrime.

Il 14 giugno, sulle ore 21 italiane, morì Don Francesco Camelli in casa di questo arciprete nella canonica, assistito dai cappuccini. Fu uomo esemplare ed elemosiniere, il 15 fu portato fuori dalla canonica dalle due compagnie e trasportato da una all’altra porta del Castello, accompagnato dal clero e dai regolari.  Poi fu posto il suo cadavere nella chiesa arcipretale, ove si tenne insepolto fino al 17, dopo la festa del Corpus Domini, e poi inumato nella parrocchiale.

Il primo luglio 1661 entrò Massaro Giacomo M. Tomba. Il Podestà non ci è noto.

Il 5 luglio fu ucciso Annibale Maserata forestiero.

Don Petronio Gardenghi di Castel S. Pietro fu fatto canonico a Roma della collegiata …

Nel gennaio 1662 entrò Massaro Traiano Scasilione e Podestà il Marchese Ferdinando Riari, suo notaio sostituto e giusdicente fu Alessandro Marsimili.

La Congregazione dei preti si era trasferita nella chiesa di S. Pietro in questo Borgo. Il 17 aprile, essendo priore D. Francesco Paulazzi rettore di S. Maria di Varignana, chiese all’e.mo abate Flavio Ghigi, commendatario della chiesa, di darla in proprietà alla congregazione.

Pier Maria di Ottaviano Cavazza, fratello di mio nonno finì i suoi giorni e fu sepolto in questa parrocchiale.

Il 7 maggio   il card. Farnese Legato di Bologna, chiamato dal Papa a Roma, venne accompagnato fino a Castel S. Pietro dai Marchesi e Senatori Nicolò Tanara e Carlo Scappi e onorevolmente congedato ai confini.

 Ai 15, 16, e 17 maggio, giorni delle Rogazioni di M. V., si fecero con la Immagine di Poggio le consuete processioni alle quali vi intervennero le tre religioni dei regolari, clero e compagnie unite. Si cominciò qui a dare esecuzione al turno prescritto dal Padre Vaschi onde il lunedì si celebrò nella parrocchia, il martedì in S. Bartolomeo ed il mercoledì in S. Francesco, nell’anno venturo fu decretata la chiesa de Cappuccini e poi quella di S. Caterina.

Il 25 maggio venne a Bologna per la via di Loreto il nuovo Legato di Bologna Pietro Vidoni cremonese e fu incontrato a Castel S. Pietro dai senatori Achille Volta e Carlo Francesco Caprara e fu banchettato in questo palazzo Locatelli.

Domenico Dalfoco di Castel S. Pietro cominciò a dipingere d’architettura a chiaro e scuro la volta della cappella del Rosario. Tale dipinto durò fino al 1760 quando, ammodernata la cappella nelle sculture, fu anche coperto questo dipinto e sostituito da un altro dipinto del chiaro pittore Scandelari.

Il primo luglio 1662 prese il possesso di Massaro Sebastiano Sgarzi e Podestà fu Bartolomeo Lambertini Senatore.

Questi padri agostiniani, memori della avversione dell’arciprete Morelli a permettere di fare la processione della B. V. della Cintura, con la nuova Immagine fatta fare a questo scopo dalla unione di molti devoti paesani, ricorsero al pontefice Alessandro VII perché concedesse il permesso, unitamente ad un’ampia indulgenza, per la prima domenica di settembre. Il Pontefice, trattandosi di culto a Dio e M. V. e suoi santi, aderì alla supplica e il 19 agosto concesse tale processione da farsi dai Cinturati, confraternita eretta nella chiesa di S. Bartolomeo. La Processione era concessa nella prima domenica seguente la festa di S. Nicola da Tolentino, che era solita farsi nella prima domenica dell’Avvento.

Il 22 agosto Marco Gallo sposò Lucia di Lorenzo Gordini.

Mons. Girolamo Bertuzzi di Castel S. Pietro, nato l’anno 1582, attese alla via ecclesiastica ed agli studi a Bologna dove, divenuto sacerdote il 9 giugno 1605, si dette allo studio delle leggi, fu poscia laureato d’anni 22 in ambedue le leggi, fu insignito del Carattere di Protonotario apostolico e maggiore Cancelliere di tutta la scuola di Bologna. Dopo il 1640 si trasferì in Roma ove, il 26 aprile 1649, fu fatto Abate di S. Maria di Monte Armato di Bologna con lettere papali di Innocenzo X presentate a mons. Domenico Odofredi Vicario Generale del vescovato di Bologna, accettate e riconosciute il 6 maggio 1649. Dopo ciò il 14 settembre 1652 fu fatto canonico della Basilica di S. M. Maggiore di Roma come da Bolla di papa Innocenzo X che il primo ottobre lo dichiarò suo Datario e Referendario nell’una e nell’altra Segnatura e suo Prelato domestico, come da altra Bolla segnata il primo ottobre 1652 data in Roma presso S. M. Maggiore. Il 16 marzo 1654 fu fatto canonico della Basilica di S. Pietro di Roma come appare da altra Bolla pontificia. Finalmente carico di meriti ed onori finì i suoi giorni in Roma l’anno presente 1662. La sua sepoltura fu nella chiesa parrocchiale di S. Biagio della Fossa, come da sua volontà testamentaria.

Questo illustre soggetto nel corso di sua vita si procacciò l’amore universale di chi lo conosceva. Lasciò una mediocre eredità, poiché egli era uomo generoso ed elemosiniere.

Il 3 settembre, prima domenica del mese questi P.P. Agostiniani di S. Bartolomeo fecero per la prima volta la processione per il Castello e Borgo con la nuova immagine della Cintura senza intervento dell’arciprete e del clero secolare ma colla sola compagnia di S. Caterina e così diedero esecuzione alla grazia riportata a contro l’ostilità dell’arciprete. Terminata la funzione si diede la benedizione al numeroso popolo in mezzo alla strada maggiore del Castello presso la chiesa di S. Bartolomeo.

Qual rammarico ne provasse l’arciprete è inenarrabile. Questi, divenuto nero con tutti, dopo questo fatto, si volle rivolgere contro la Comunità e le impedì l’accesso alle campane pubbliche che sono nel campanile di proprietà della Comunità vicino alla chiesa arcipretale. Mise all’ingresso del piano terreno una chiusura con la chiave in modo che solo dal basso si potevano suonare le campane e comunque solo col suo permesso.

Ricorse la Comunità al superiore ecclesiastico pretendendo il libero accesso alle campane per chiamare al bisogno il popolo all’armi, al fuoco e ad ogni altra circostanza. Campane che erano di proprietà pubblica e il campanaro era comunque obbligato ad obbedire alla Comunità. Fu istruito il giudizio avanti il Vicario Generale vescovile di Bologna e chiamato in contradditorio l’arciprete con gli uomini componenti la Comunità. Il 14 dicembre si venne al contraddittorio giudiziale coll’arciprete in seguito del quale fu decretato che, ferma rimanendo alla Comunità la facoltà di nominare il campanaro, si dovesse fare un uscio ed ingresso al campanile in luogo più comodo in modo che potessero i Massari avere accesso alla campana per chiamare il popolo e che l’uscio fosse chiuso con due chiavi da tenersi una dall’arciprete l’altra dalla Comunità. Ciò fece il cardinale per il bene e pace del paese.

Possibile che i parroci di questo luogo debbano sempre provocare disturbi al loro gregge! Così faranno successivamente anche altri parroci successori a questo arciprete.

 In seguito di tale decreto fu fatta una scala provvisoria fuori della sagrestia mediante la quale, passando per il cimitero, si saliva alle campane. Si sperava così che fossero appianate tutte le difficoltà e che l’arciprete si acquietasse e rispettasse la volontà dell’arcivescovo.

Fu tutto l’opposto, da questa nuova scala si entrava nel campanile ma poi dal campanile si poteva andare, per un piccolo corridoio sopra la volta della chiesa, all’orologio pubblico. Orologio che era nell’angolo sinistro della facciata della chiesa con la mostra fronteggiante la via maggiore del Castello. L’arciprete Comelli non rinunciando alla sua ostilità, impugnò questo secondo diritto di passaggio per cui non si sarebbe più potuto andare all’orologio. Il paese rimase quindi senza sentire le ore e cominciò a mormorare.

Si ricorse di nuovo all’Arcivescovo e al Vicario Generale Ridolfi che spedì a Castel S. Pietro il Reverendo Padre Antonio Maria Gherardi dei Minori Conventuali, Lettore pubblico di Bologna, per sedare la controversia ed il tumulto che si era iniziato nel popolo. Questi operò col maggior calore possibile ma fu vano perché l’arciprete ostinatamente non si volle piegare ad alcun progetto.

La Comunità dovette ritornare agli atti giudiziari. In seguito, il 23 dicembre, ottenne un decreto favorevole ottenendo le chiavi del campanile per l’accesso all’orologio.

1663 – 1666. Incidenti alla festa di Mezza Quaresima. Condizioni dell’accordo tra Comunità e arciprete su campanaro e campane. Redazione del Campione delle strade del Comune. Nuovi contrasti tra la Compagnia di S. Caterina e l’arciprete.

All’entrar di gennaio 1663 occupò la carica di Massaro per il primo semestre Francesco Vanti. I nomi del podestà e del notaio mancano dall’archivio pubblico.

Il 15 gennaio tuonò ripetutamente con lampi e grande strepito, cosa mai sentita in questa stagione ed il 18, dopo un impetuoso vento di scirocco, venne una neve altissima così che fu necessario scaricare i tetti delle case. Chi non lo fece patì molto. Alla chiesina di S. Giacomo e Filippo al ponte Sillaro cadde il tetto, al Castelletto cadde un pezzo di fabbricato e rimasero sepolte le bestie. Nel Castello rovinarono tre casette nella via di piazza Liana, nel Borgo verso S. Pietro un coperto alla casa di Alfonso Graffi. L’Ospitale dei Pellegrini ed Esposti in questo Borgo patì la stessa sorte.  Alcuni pellegrini, se non partivano la mattina di buon’ora, restavano sotto le rovine di una parte del tetto. Per quanto successo poi molti paesani puntellarono le case più deboli ed altri le fecero scaricare.

Il 5 febbraio, ultimo giorno di Carnevale, nella chiesa di S. Bartolomeo fu fatta una solenne festa in onore di S. Agata da una unione di donne devote che, come una congregazione, eleggevano la loro prioressa ogni anno. Questa unione continuò fino al 1678, più oltre non ne abbiamo memoria.

È sempre stato costume del bolognese che quando si giungeva alla metà di Quaresima si faceva festa e in alcuni luoghi si bruciava una figura di donna vecchia che avrebbe dovuto rappresentare la Quaresima. In alcuni luoghi si riempiva questa figura di robe commestibili e frutti secchi quaresimali per poi segarla a traverso per far cadere l’interno e i frutti secchi.

Seguendo questa usanza di segare la vecchia alla metà di quaresima, il primo marzo accadde che Giovan Battista Marochi di Castel S. Pietro, uomo tanto scherzoso e di talento, quanto facile a mettersi in impegni di baccanali e feste popolari, fece alzare nella pubblica piazza un rogo di fascine e legna secca e poi vi mise sopra un grande pupazzo pieno di paglia e cartoccini di polvere da archibugio che, accesi dal fuoco avrebbero saltellato qua e là.

 Acceso il rogo, si innalzò la fiamma in modo che ognuno poteva avvicinarsi per scaldarsi. Una povera donna in età avanzata ebbe con altre il coraggio di approssimarsi al circolo che faceva la plebaglia e i ragazzi intorno al rogo. Dato che i ragazzi sono impertinenti, ce ne fu uno che gridò: brucia la vecchia! brucia la vecchia!  Quella se ne ebbe a sdegno e con poca prudenza dette un pugno ad uno di quelli che gridavano.

Questi, sentendosi offeso, si adirò e con i suoi compagni le dettero delle spinte.  Questa non ebbe abbastanza forza da resistere alle spinte e si avvicinò troppo alle fiamme.  Si attaccò il fuoco ai cenci che la coprivano per cui la meschina cominciò a bruciare. Mentre che le persone volevano spegnerle il fuoco cominciarono a crepitare i globi di polvere che erano dentro la figura della vecchia che bruciava sul rogo. La meschina fu poi portata fuori dalle fiamme ma restò maltrattata. Nacque un tale rumore che si scompigliò tutta la festa e molti corsero il rischio di rimanere offesi.

Lunedì 30 aprile, primo giorno delle Rogazioni di M. V., mentre si trasportava in processione la sua Immagine per il Castello, giunti alla porta di sotto si sentirono molte archibugiate nel Borgo, segno di una accesa baruffa. Il popolo cominciò a correre e si tornò indietro con la funzione. Durò un’ora buona l’azione nella quale crepitarono le armi ma nessuno restò colpito. I rissanti furono in parte di Casalfiumanese e Fontana e di Castel bolognese. Il non essere perito alcuno fu grazia singolare di M. V, alla quale per trofeo furono portate le armi.

Il 29 maggio in Bologna morì il dottore di leggi ed avvocato Domenico Comelli di questo nostro Castello e cugino dell’arciprete. Lasciò erede un suo figlio naturale che, morto senza successione, ordinò la fondazione di un collegio a Bologna sotto il proprio cognome.[117]

Proseguendo questi P.P. agostiniani ad accrescere il culto a Dio e Santi, avevano già prima incominciata in questa loro chiesa di S. Bartolomeo una pia Unione di uomini e donne sotto la protezione dell’Angelo Custode. Procurarono poi, per maggiormente rassodarla, che fosse eretta canonicamente in Compagnia. Ricorsero quindi al Vicario Generale del vescovato di Bologna mons. Antonio Ridolfi che, intesi i testimoni degni di fede, ne emanò il decreto il 15 giugno 1663 sotto il giorno XV giugno.

Proseguiva intanto acremente la lite del campanaro, campanile ed orologio fra la Comunità e l’arciprete Comelli. La Comunità aveva visto il Vicario Generale più propenso a favorire l’arciprete, avendo patito decreto contrario. Quindi si appellò al Vice Legato, questi decise una visita giudiziale per verificare le ragioni e la verità sul fatto. Il 18 giugno mons. Ridolfi si portò qui, a spese della Comunità, con i curiali d’ambo le parti. Alla visita seguì il contradditorio fra le parti e il Vicario, pesate le ragioni della Comunità, moderò il decreto già fatto e favorì la Comunità.

Il primo luglio 1663 entrò Massaro Lorenzo Graffi, Podestà fu Annibale Prati e suo giusdicente Tomaso Boschi.

La raccolta di grano fu scarsa per cui immediatamente fu fatto il calmiere a 11 lire la corba.

In questo tempo, mentre si contendeva giudizialmente l’accesso al campanile e all’orologio fra la Comunità e l’arciprete, si ruppe, per incidente o malizia, la seconda campana, detta volgarmente la mezzana. Fu subito levata e trasferita nella casa comunitativa per poi a suo tempo rifonderla. Fu questo accidente un forte motivo alla Comunità di sostenere i suoi diritti sopra la campana e campanile come pure sulla tassa dei morti. Pendendo questa rabbiosa lite si interposero alcune qualificate persone per la sua composizione ed intanto si sospesero gli atti giudiziali.

Avendo gli sbirri assediati alcuni banditi fuorusciti nel luogo detto la Tombazza, ove si erano fortificati, ne seguì non scontro fra i banditi e gli sbirri. Alcuni di questi vennero uccisi e convenne agli altri abbandonare l’assedio, anche perché gli assediati furono rinforzati da altri banditi romagnoli e locali. Se ne fece una processura nel settembre che durò molti giorni.

Essendo vuoti sei posti di consiglieri nella pubblica rappresentanza di questo Castello, furono nominati dal Senato i seguenti: Carlo Andrini al posto di Pietro suo padre, Domenico Battisti al posto di Lorenzo Albruni, Lorenzo Gordiani al posto di Giovanni Bonetti, Marco Calanchi in luogo di Giovanni Farnè, Giovanni M. Martelli in luogo di Francesco Ruggi e Giacomo Galassi in luogo di Francesco Vanti. Furono tutti il 27 dicembre abilitati al governo ed alla carica di massari.

Il Canonico Don Petronio Francesco Gardenghi dopo avere fatto il suo testamento nell’ottobre scorso in Roma beneficò i suoi congiunti e i concittadini di questo paese. 

Il primo gennaro 1664 entrò Massaro Giacinto Simbeni, fu Podestà per il primo semestre il Conte Filiberto Vizani e suo not. giusdicente Tadeo Tasconi.

Per dare una conclusione alle vertenze giudiziali fra l’arciprete Comelli e la Comunità si convenne che nuovamente il Vicario Generale si portasse in luogo a visitare il fatto. Il 14 gennaio si portò a Castel S. Pietro col notaio Carlo Vanotti. Dopo lungo contrasto fra i legali d’ambe le parti si venne finalmente ad un accordo, del quale, perché non nascessero dubbi, fu ordinato la stipulazione per rogito pubblico. Nell’accordo è scritto:

– Che alla Comunità spetta il nominare tre sogetti per campanaro idonei e che all’arciprete spetti eleggerne uno delli tre nominati.

2° – Che il campanaro si obblighi di fare fedelmente il suo officio tanto per la custodia delle campane che per l’orologio.

3° – Che in caso di licenziare il campanaro siavi l’intendimento comune.

4° – Che spetti alla Comunità pagare il campanaro ed all’arciprete darvi l’abitazione.

5° – Che fin a tanto che sarà fatta la scielta del campanaro si ascenda alle campane per l’uscio fatto dalla parte della corte, che corrisponde nel cortile vicino al cemeterio e la chiave di d. uscio poi stia presso l’arciprete.

6° – Fatta che sia la chiave di d. uscio stabile, stia la chiave presso il Massaro.

Quanto poi alla tassa per i morti si rimise tutto a monsignor Vicario.

Perché in questo tempo vertevano differenze fra i Principi cristiani sopra tutto dalle parti della Lombardia.  Gli austriaci temendo di essere assaliti da quest’altra parte, spedirono truppe, soprattutto alemanne, nello stato ecclesiastico ed a Bologna. Il Papa che vedeva un grande scompiglio emanò un Giubileo papale nei suoi stati. A Bologna fu pubblicato il 23 marzo ed a Castel S. Pietro il 27.

Intanto monsignor Girolamo Boncompagni era stato nominato Card. Arcivescovo di Bologna. Nella diocesi se ne diedero universalmente segni di giubilo. In questo nostro Castello si diede simile dimostrazione nell’oratorio della Compagnia del SS.mo il 30 marzo, domenica di Passione. Il miracoloso Cristo fu esposto scoperto e fu solennemente portato nella vicina arcipretale poi davanti a Lui si cantò l’inno ambrosiano, dopo essersi presa da quella Compagnia l’indulgenza del giubileo.

Il giorno primo luglio 1664 occupò la carica di Massaro Stefano Alberici, quella di Podestà Antonio Andrea Boni ed il notaro suo fu il detto Tacconi.

Composte poi le differenze fra la Comunità e l’arciprete fu rifusa la campana mezzana. Non fu posta però in opera finché non furono ultimate tutte le vicende. Solo il 14 luglio1664, giorno di S. Bonaventura, fu posta nel campanile. Attorno alla campana c’era, superiormente, questa inscrizione: Deo Patri Virgini Marie, Beatoque Petro. ed inferiormente alla bocca: Haec sumptibus pubblicis refacta Campana, Hiacintus de Simbeni Massar. Anno D.ni MDCLXIV. Da una parte c’era lo stemma della Comunità rappresentante due chiavi incrociate col gonfalone sopra, dall’altra l’immagine di S. Pietro. C’erano anche due medaglioni, in uno un crocefisso e nell’altro l’immagine di M. V. e di S. Biagio, infine la inscrizione del fonditore Jo. Dinarellus Professor Bonon. Fu di peso. 934 libbre e costò 139 lire di Bologna. Durò fino al 20 marzo 1707 in cui fu di nuovo rotta.

L’8 agosto Girolamo Rossi di Castel S. Pietro per adempiere ai suoi obblighi all’altare delle stigmate di S. Francesco in questa chiesa dei MM. OO. assegnò alla Compagnia di S. Caterina due case nella via Framella di fronte il convento di S. Francesco.

Terminati gli arcibanchi di noce della Compagnia di S. Caterina furono collocati al loro posto. Costarono 2.700 lire.

L’anno seguente 1665 fu Massaro Carlo Rondoni e Podestà il Conte Astorre Bargellini.

Le comunità del contado poste al confine, come la nostra di Castel S. Pietro, erano quelle che erano più soggette ai disordini. Per i misfatti che vi accadevano erano gravate a pagare le Cavalcate che si facevano dal Tribunale Criminale di Bologna. Avrebbero poi dovuto farsi rimborsare queste spese dai malfattori condannati, il che non accadeva quasi mai a motivo che i malviventi erano miserabili. Tutte queste comunità di confine si unirono e ricorsero al Legato card. Pietro Vidoni, facendogli constatare che i pagamenti delle Cavalcate si ponevano in riparto nelle collette comunitative e si pagavano dai contadini e dai possidenti senza mai averne un rimborso.

Il Legato conosciuta giusta la istanza decretò il 26 febbraio che in avvenire i contumaci non si potessero accordare col tribunale se non colla fede della Comunità di essere state rimborsate delle spese patite per i loro reati, mentre per l’addietro si poteva fare l’accordo col tribunale senza pensare ad altro.

Alla fine di febbraio cominciò tanta neve che durò in terra in fino a maggio.

Il capitano Giovan Battista Fabbri fu dichiarato Lanza Spezzata dal colonnello Costanzo Zambeccari.

Il Marchese Guido Barbazza, abusando della bontà del card. Legato, fece uscire dal carcere persone sue dipendenti, che ci stavano con i cappi ai piedi ed anche altri carcerati. Per tante protezioni il contado era divenuto un luogo pieno di malviventi e tradimenti.

Durante la legazione di questo Legato Vidoni, che già terminava nel corrente giugno, si contarono, denunziate al Torrone, tremila persone ammazzate.

Il 16 giugno il Legato partì per la via di S. Giovanni in Persiceto. Il 22 venne da Roma il nuovo Legato Cardinale Carlo Carafa. Fu incontrato a Castel S. Pietro dal Marchese Odoardo Pepoli ed Alessandro Fachinetti  e immediatamente se ne andò a Bologna.

In questo tempo fu ordinata la descrizione delle strade nel comune di Castel S. Pietro. Per la effettuazione del campione delle Strade furono fatti Assunti: Giovanni Rapini, Massaro, Biagio Sgarzi, Lorenzo Graffi, Traiano Scasilioni e Stefano Alberici.

Il primo luglio 1665 entrò Massaro Giovanni Rapini e Podestà il Conte Rizzardo Isolani.

Non ostante le nevi e il freddo patito fino a maggio, che si pensava avesse distrutto i frumenti, si fece un discreto raccolto e fu perciò fissato il calmiere a lire 7: 10 la corba.

I turbolenti uomini della Villa di Poggio che non volevano vivere subordinati a Castel S. Pietro, fecero nuove istanze giudiziali per la smembrazione dal nostro comune, ma patirono decreto contrario.

Terminato il Campione delle Strade fu presentato dai su detti Assunti il 15 novembre all’Ufficio dell’Acque.

Il primo gennaio 1666 entrò Massaro Biagio Sgarzi e Podestà fu il Conte Angiolo Michele Guastavillani, suo giusdicente Tadeo Tacconi. Poco abbiamo da narrare in questo primo semestre poiché il card. Legato Carafa si faceva temere.

Il mercoledì 13 aprile, primo giorno dopo le feste di Pasqua, fu sentito da tutti il terremoto, perciò si fecero orazioni di penitenza anche perché di quando in quando continuò a farsi sentire.

Il 2 maggio   venne a Castel S. Pietro il Padre Francesco Serafini gesuita, oratore insigne, a fare le Missioni che durarono fino alle Rogazioni che caddero il 31 maggio.

Gli uomini della Villa di Poggio, nuovamente inquieti, fecero istanza all’Assonteria affinché si facesse l’obbligazione della loro inghiarazione separata dal comune di Castel S. Pietro. L’Assonteria, per non dare adito ai loro cavilli, decretò: Servari solitum.

 Il primo giorno di luglio entrò Massaro Traiano Scasilioni. Il giusdicente del Podestà fu Filippo Carlo Medici.

Il dottor Giacomo Laurenti di Castel S. Pietro, detto volgarmente dalla Broccarda perché abitava continuamente in questa sua villeggiatura, sposò Lucia Comelli. Questa famiglia Laurenti si è estinta dopo il 1750 la cui eredità in passò all’altare del Crocefisso e Santi Pietro ed Andrea nella cappella del Rosario, ove c’è il bel quadro di Pietro Facini dipinto a tempera su tela, opera fatta in 48 ore e nella quale solo la testa del Cristo è terminata.

Il R. Padre Maestro Francesco Maria Nicoli, MM. OO. di Castel S. Pietro, uomo di gran merito, fu in quest’anno eletto Definitore nel capitolo generale in Spagna e nello stesso tempo dichiarato Provinciale di Lombardia.

La Compagnia di S. Caterina, inquieta coll’arciprete, su suggerimento di alcuni, venne in determinazione di fare nella propria chiesa una solenne festa alla sua protettrice il giorno 25 novembre. Poi con la sua reliquia fare la processione per il paese. Giunta la festa i confratelli, dopo avere cantato il solenne vespro, vestiti di cappa, incominciarono ad uscire per il Castello e Borgo senza l’intervento dell’arciprete e neppure con la sua licenza.  Dopo aver camminato per il Castello e il Borgo, ritornati a casa dettero con la reliquia la benedizione al popolo.

Spiacque all’arciprete, e giustamente, una tale novità onde ricorse al tribunale ecclesiastico per il violato Jus parochiale. Furono perciò processati nel vescovato i capi di questa azione e furono messer Arcangelo e Lorenzo Albruni, Traiano Scafilioni, Angiolo Righi, Annibale Dalmonte, Giacomo Frabboni, Paolo Maltaresi, Cristoforo Cappucci, Girolamo Trapondani, Vincenzo Furnioni, Benedetto Fiegna e Paolo Albruni.

Dalla Processura Criminale si venne poi ad una lite civile nella quale furono promosse molte pretese da parte di quelli contro l’arciprete e segnatamente di potere fare indipendentemente le proprie funzioni.

Quanto tutto questo aizzasse il mal animo dei componenti la compagnia contro l’arciprete ognuno se lo può immaginare. Quanto alla Compagnia, non ostante avesse l’obbligo di celebrare due messe settimanali nella sua cappella nella chiesa arcipretale, cioè lunedì e venerdì, sospese questa celebrazione facendola eseguire non più nella detta cappella ma nella loro chiesa.

1667 – 1670. Morte arciprete Comelli. Don Scherlatini nuovo arciprete. Suoi tentativi estirpare superstizioni tra i villani. Baruffa alla Fegatella tra castellani e sassoleonesi. Morte zingaro in Borgo, lamentazioni sue donne. Passaggio duca Farnese di Parma e sua principessa.

Intanto che si agitavano queste cose giunse l’anno 1667 in cui al primo gennaio entrò Massaro Benedetto Fiegna e Podestà Andrea Ghislardi, fu suo notaio giusdicente Alessandro Marsimili.

Il 25 gennaio venne una grossa neve che durò poco in terra così che al principio di febbraio non se ne ritrovò più. Per tale neve la parte posteriore della chiesa dell’Annunziata nel Borgo, che forma il coro, cadde di notte tempo. Fu subito dai borghesani ricoperta ed il bel quadro, rappresentante l’Annunziazione opera di Orazio Samacchini, che stava sulla parete posteriore fu levato e trasportato sopra l’altare, separandosi la chiesa dal coro come si vede ora.

Il 23 febbraio, primo giorno di Quaresima, venne una dirottissima pioggia che sciolse i ghiacci nelle superiori montagne. Il Sillaro ne trasportò molti nella corrente e si chiuse un occhio del ponte. La fiumana cominciò a minacciare dalla parte di ponente la via romana ed allagò le vicine campagne.

Il 27 marzo, domenica di Passione, trasportato il crocefisso della compagnia del SS.mo, scoperto secondo il consueto, nella arcipretale, si fece la processione. In questa funzione la Compagnia di S. Caterina voleva precedere, come più anziana, nella processione e dirigerla con due bastonieri. La Compagnia del SS.mo allora la escluse dall’intervento, così il solo clero secolare e la compagnia del SS.mo, fecero questa funzione.

Il 6 aprile, venerdì santo, non si fece la processione del Cristo deposto dalla croce della compagnia di S. Caterina stante le controversie coll’arciprete.

Il 10 aprile, giorno di Pasqua, si fece sentire il terremoto e replicò poi il giorno 17 su le ore 21 italiane, durando un’Avemaria a tremare la terra con gran terrore di tutti.

Papa Alessandro VII si infermò gravemente in maggio e il 21 morì santamente. Vacò la S. Sede fino al 26 giugno in cui successe il cardinale Giulio Rospigliosi di Pistoja col nome di Clemente IX.

Il primo luglio 1667 entrò Massaro Giacomo M. Tomba, Podestà il Conte Lelio Bonfilioli, suo not. giusdicente Taddeo Tacconi.

Il 4 agosto morì l’arciprete Don Alessandro Comelli, figlio dell’illustre Matteo Comelli, in età d’anni 81 a cui fu fatto dalla famiglia un decoroso funerale. Questo arciprete fu l’ultimo presentato dalla Comunità all’ordinario vescovile. Si fece egli non poco odiare dalle Compagnie del paese ed anche dai frati e preti onde alla porta della chiesa parrocchiale il giorno del settimo si trovarono affissi i seguenti versi:

Miseri alfin miriam di nostra vita

al vil principio che abbiam in terra

che come nuda al mondo nostra uscita

così nudo il ritorno anco sotterra,

e spenta poi riman dal ciel sbandita

la nostra gran superbia, che ne atterra

e restan dopo noi l’ampia richezza,

la pompa, gli agi e l’altre contentezze.

Ciò fu attribuito ai confratelli della Compagnia di S. Caterina perché da lui furono fatti processare criminalmente.

In questo mese fu ucciso Stefano Annessi d’anni settanta, furono sospettati Antonio e Giacomo Tomba figli del fu Matteo Tomba che era anche chiamato il Bravo per le sue bravate onde fu poi processato molte volte e bandito.

Dopo la morte dell’arciprete Comelli il 4 agosto fu conferita dal card. arcivescovo Giacomo Boncompagni questa arcipretale all’ill.mo Don Ottavio Scherlatini, oriundo di Reggio e ora nobile di Bologna, colla derogazione dal Jus patronato della Comunità.

Il 9 agosto fu pubblicato il Giubileo Universale dopo la elezione del nuovo Papa.

Matteo Mondini figlio di Francesco di questo nostro Castello, già fatto aiutante della pubblica segreteria di Bologna il 22 gennaio 1658, pubblicò per le stampe Barbieri in Bologna un suo libro titolato: Insinuazioni politico-morali, con 50 lettere dirette ai 50 Senatori di Bologna. Di questo casato si distinse anche Vincenzo Mondini che fu Lettor pubblico di Bologna in filosofia.

Il 24 dicembre venendo al 25, notte di Natale, essendo stata compiuta la fabbrica della chiesina sopra la via corriera al fondo Polesina sul confine col comune di Liano, fu gratificata questa di un singolare privilegio pontificio per la celebrazione della Santa Messa. Questo fatto era stato universalmente pubblicato e per ciò questa notte vi concorse molto popolo, tanto più che la notte fu chiara e limpida. La Compagnia del SS.mo cappata, per essere bene affetta alla nobile famiglia Pollicini bolognese, si portò in uniforme a quella funzione assistendo il celebrante.

La chiesa fu dedicata alla B. V. del Carmine, S. Petronio, S. Francesco d’Assisi, S. Giuseppe e S. Antonio da Padova. Vi fu esposto il quadro di mano di Giovanni Dinarelli, che fu anche eccellente fonditore di metalli e che, come si scrisse, fuse la campana minore di questa Comunità. Nel quadro sta scritto: Joannes Dinarellus pingebat.

Nel primo gennaio 1668 subentrò nel posto di Massaro Giovanni Maria Martelli e Podestà fu il Conte Astorre Ercolani, suo notaro giusdicente fu confermato Taddeo Tacconi.

Nel febbraio il sig. Andrea Anessi sposò la signora Agostina del cap. Nicolò Fabbri ambi di Castel S. Pietro con licenza apostolica.

Quantunque i paesani sentissero con dispiacere la concessione di questa arcipretale fatta dal card. Boncompagni all’arciprete Scherlatini senza riguardo del Jus patronato spettante alla Comunità, la dottrina e il merito dello stesso arciprete calmò i malcontenti. Egli, col suo lodevole operare si guadagnava giornalmente l’affetto con le sue buone maniere. Pensò egli subito di estirpare le superstizioni in questa popolazione massime nei villani.

La prima di esse fu che i villani usavano legare una funicella ai piedi del cadavere e quando giungevano i parenti per accompagnarlo alla sepoltura, ciascuno gli diceva un Pater e poi faceva un nodo alla funicella. Terminato il concorso dei parenti, si portava in chiesa il cadavere e gli si poneva in seno la cordicella. Se era una donna, la parente più vicina le riponeva la funicella coi nodi fatti fra le mammelle. Accadeva per ciò che alle donne puerpere o lattanti, morte di mal violento, si vedevano delle indecenze.

A questo rito si aggiungeva anche questa superstizione. Mentre si facevano le esequie al morto in chiesa, una parente donna, quando il sacerdote giungeva all’offertorio, si alzava di ginocchio, andava con un panierino da tutti i parenti a raccogliere quattrinelli e candeline poi con tre parenti dell’uno e dell’altro genere, con sette pani fatti a posta, si presentava a piedi dell’altare finché il celebrante aveva consumato, poi se ne andava via dall’altare.

Credevano ed asserivano che i sette pani, i sette quattrinelli e le sette candeline erano presso Dio il viatico per cancellare i sette peccati mortali.  Dicevano poi che il numero tre dei generi diversi equivaleva alle tre virtù teologali. Il nuovo arciprete abolì queste cerimonie con prudenza e convinse ognuno a rinunciare in avvenire a tale costume.

Il 16 marzo, domenica di Passione, fu trasportato nella chiesa parrocchiale il miracoloso crocefisso della Compagnia del SS.mo.  Non mancò il nuovo arciprete di infervorare il popolo con un distintissimo sermone alla venerazione di questa S. Immagine, anzi volle coll’esempio accrescerne il culto e fece la solenne processione per il Borgo e Castello portando sempre esso la S. Immagine.

Il 20 aprile fu dichiarato cittadino di Bologna il Padre Rev.mo Francesco M. Nicoli M.M. O.O. di Castel S. Pietro con 22 voti favorevoli del Senato.

Il 6 maggio, domenica prima delle Rogazioni di M. V., Andrea Molinari, Giovanni Molinari, Marc’Antonio Molinari e Domenico Molinari tutti di Castel S. Pietro e congiunti di sangue, si erano portati al prato vicino alla fonte della Fegatella per ivi fare una scampagnata. Accadde che incontrarono alcuni delle famiglie Michelini di Sassoleone che venivano al Castello.  Questi stavano andando tranquilli per la loro strada quando i Molinari con parole offensive li provocarono. Dalle parole si passò ai fatti ed andarono archibugiate. Al rumore accorsero altri montanari in aiuto ai Michelini ed altri del Castello in aiuto dei Molinari. Si fece una violenta baruffa nella quale si ebbero feriti da una parte e dall’altra.

Il 14 maggio, domenica dopo l’Ascensione, cominciarono le Missioni dei gesuiti, dei quali era capo il P. Carlo Gherlinghelli, uomo di consumata dottrina per la quale fu poi fatto Prevosto dal 1679 nel suo ordine. Durarono solamente otto giorni.

Il 16 nel Capitolo provinciale de P.P. M.M. Osservanti della Annunziata di Bologna fu eletto provinciale di questa provincia il P. Francesco M. Nicoli di Castel S. Pietro.

Il primo luglio 1668 entrò Massaro Lorenzo Graffi e Podestà fu il Conte Francesco Malvasia, proseguì la giusdicenza il notaio Taddeo Tacconi.

Il 15 dicembre il Papa mediante una sua Bolla soppresse alcuni ordini religiosi. Venne perciò l’ordine a Bologna che fossero sciolti i Frati di S. Gregorio e i Gesuati il cui fondatore fu il Beato Giovanni Colombino da Siena e i Frati delle Grazie. Ci fu perciò un gran rumore. I sacerdoti si vestirono da preti e i laici tornarono allo stato secolare.

Girolamo Cavazza, Giacomo Galli ambi compatrioti dell’ordine dei Gesuati se ne ritornarono in patria. Il primo dopo poco passò all’ordine dei Minori Osservanti e andò a Lucca ove, non potendo resistere alle austerità della religione, spogliò l’abito e insediò la sua famiglia. Il Galli si ammogliò e dopo poco finì suoi giorni.

L’anno successivo 1669 fu Massaro (…..) e Podestà fu Enea Bonfilioli, sotto cui proseguì la giusdicenza il not. Tacconi, che questo anno sposò Margarita di Giovanni Astorri di Castel S. Pietro.

Il 7 marzo morì nel proprio palazzo in Castel S. Pietro la Contessa Anna M. Gabrielli Malvasia d’anni 73, figlia del defunto Conte Napulione Malvasia. Fu con decoroso funerale sepolta nella chiesa di S. Francesco dei M.M. O.O. nella sua cappella

In questo tempo si diede principio alla fabbrica del maestoso portico in faccia alla piazza del Castello dalla famiglia del capitano Giovan Battista Fabbri. Così pure fece la famiglia Nicoli nella strada maggiore di fronte allo stradello Vanti[118]che fu poi detta la casa del cordone. La costruzione, con decreto del Senato, aveva occupato un pezzo di stradello[119] contro l’abitazione del Conte Nicolò Calderini per cui vi furono grandi liti e dispetti fra i Calderini e i Nicoli.

La sollecitudine pastorale dell’arciprete Scherlatini, impegnata a far crescere l’onore a Dio di giorno in giorno, procurò che terminasse la doratura del bell’ornato del nuovo altare della Compagnia del Rosario in questa arcipretale. Fu egregiamente eseguito il lavoro da Bartolomeo Macolino indoratore bolognese. Costò la doratura cento doppie tutte offerte. Era priore della compagnia Giovanni Ronchi proavo del moderno comunista di Castel S. Pietro 1796 Agostino Ronchi che, per la mutazione di governo nella venuta dei francesi in Italia, fu con gli altri suoi colleghi dimesso dalla carica.

Il 13 giugno, festa di S. Antonio da Padova, presso la chiesa di S. Giacomo al ponte Sillaro avvenne la morte improvvisa di uno zingaro che era di passaggio con altri suoi compagni uomini e donne.  Nacque tra questi uno schiamazzo grandissimo, vennero le donne scarmigliate al Borgo, gridavano e piangevano con alte voci. Gli abitanti credettero qualche grave infortunio poiché queste zingare, oltre lo strepito, cominciarono anche a battersi il petto e strapparsi i capelli dal capo. Qualcuno volle quietarle ma non vi fu modo poiché dicevano essere questo l’uso della loro nazione. Avuta tale notizia l’arciprete Scherlatini, volendosi accertare di ciò, chiamò a sé le scalmanate e chiese per che tanto facessero. Risposero che questo era il loro costume dal quale non potevano dispensarsi. Si convenne perciò di lasciarle in balia alle loro pazzie.

Oltre alla presente memoria che abbiamo ricavato dal manoscritto del Vanti, ce lo conferma lo stessa Scherlatini nel suo libro stampato col titolo di Uomo Simbolico in questi termini: Io posso attestare di avere veduto li Zingari, nazione per altro barbara ed aspra, tantosto seguita la morte di uno de suoi, la Donna essere corsa a pigliar forbici e coltelli ed alla mia presenza troncarsi la chioma. Dei Greci racconta Plutarco che nei loro funerali li Uomini si nutrivano e le donne si troncavano li crini.

In seguito a questo fatto, lo Scarlattini si rese conto che anche nel nostro comune di Castel S. Pietro si facevano dai villani alcune cose simili alle accennate degli zingari. Quando moriva uno dei capi della famiglia, il bifolco di quella usava sciogliersi, togliendosi la cintura, il camiciotto o sia saccone e portarlo per otto giorni sciolto. Procurò estirpare subito questo rito facendo capire che nessun sollievo e suffragio andava all’anima del trapassato. Il rito poi di sciogliersi il giubbone o sia saccone e camiciotto si ripeteva dagli stessi greci costume che poi passò in ai latini.

Questo era quanto avveniva per la superstizione sui vestiti. Per quanto poi riguarda il cibo, i nostri villani tenevano e tuttora tengono questo comportamento. Quando muore un villano, di qualsivoglia sesso, si invitano i parenti più prossimi a casa del defunto per poi accompagnarlo alla sepoltura al tempo ed ora prefissa. Gli invitati accompagnano il cadavere fino alla chiesa in truppa, distanti poco dal defunto. Giunti alla chiesa, appena fatta la assoluzione dal sacerdote, se ne ritornano tutti in truppa alla casa del defunto. Qui è stata preparata una smisurata minestra di lasagne che si divora a crepapancia. Finché i commensali si nutrono, ora l’uno ora l’altro annovera le prerogative del defunto. Alla mensa è proibito alle donne sedersi, anche se il defunto è una donna. Ciò terminato ciascuno se ne ritorna a casa. Se la mattina seguente c’è l’officio da morto, si replica lo stesso.    

Lo Scherlatini provò ad estirpare questa usanza ma fu frustrata ogni sua premura ed altro non ottenne che imporre la recita della terza parte del Rosario per l’anima del trapassato e così contestare questa costumanza. Molte altre cose potremmo aggiungere a questo proposito che si facevano non solo nel nostro comune ma anche altrove ma non essendo questo il nostro scopo abbiamo raccontato solo quelle che sono a noi pertinenti.

Chi fosse il Massaro del seguente semestre 1669 non l’abbiamo nelle carte comunitative. Podestà fu il Marchese Girolamo Malvezzi.

Appianate le differenze passate fra il defunto arciprete Comelli e la Compagnia di S. Caterina, il moderno parroco Scarlatini intervenne alla solenne festa che si fece da quella nella sua chiesa il 15 novembre.

Il primo dicembre fu dichiarato Legato di Bologna il card. Lazzaro Pallavicini.

Il 9 dicembre morì Clemente IX. Partirono perciò il Legato Carafa e l’arcivescovo Boncompagni per il conclave tenendo questa strada di Castel S. Pietro.

Fu terminato in questa nostra villa di Poggio il bel palazzo dal marchese Vitale de’ Buoi in mezzo ai suoi beni.

Svuotata la borsa dei massari si procedette ad una nuova riempitura dalla quale estratto il 22 dicembre Lorenzo Gordini che investì la carica di Massaro il primo gennaio 1670. Podestà fu il Conte Luigi Zani.

Il 21 gennaio morì in questo Castello il Conte Galeazzo Malvasia, padre del senatore Conte Giuseppe e del Conte Cesare, in età di anni 95. Fu portato alla chiesa di questi Padri Cappuccini dalle compagnie, fraterie, clero e corpo comunitativo, con tutti gli stipendiati pubblici del Castello. Il donzello della Comunità, che portava la livrea rossa fu coperto in questa occasione di zimarra nera e benda su la spalla sinistra. Il cadavere fu sepolto nella sua cappella dedicata ai Santi Giuseppe e Felice cappuccino. Qui c’era il bel quadro di Giacomo Cavedoni. Al suo posto c’è il dipinto con S. Giuseppe e M. V. che presenta il divin figlio a S. Felice, opera di prima maniera dell’egregio pittore Giuseppe Marchesi detto Sansone sul gusto di Marc’Antonio Franceschini, suo maestro.

L’arciprete Scherlatini che voleva evidenziare l’onore e la considerazione del sacerdozio, vedendo che nella sua chiesa non vi era un luogo ove fare sedere il clero per la predicazione sia dell’Avvento che per la Quaresima, il 17 febbraio fece istanza alla Comunità affinché provvedesse. Ascoltò la pubblica rappresentanza la petizione e il 19 febbraio, primo giorno di quaresima, fece porre un banco a fianco della sedia dello stesso arciprete ed un altro banco fu posto per la pubblica rappresentanza dall’altra parte. Così l’arciprete sedeva in mezzo alle corporazioni secolari ed ecclesiastiche.

Il 13 aprile il Duca Farnese di Parma con la sua Principessa e accompagnato da molti nobili, andando a Loreto con la carrozza, transitò per il nostro Borgo. Qui gli morirono due cavalli, caduti per la corsa troppo veloce. Fu necessario a questo signore fermarsi con la principessa e ristorarsi per la paura avuta e lo scompiglio delle altre carrozze e del seguito. Essa entrò col consorte in Castello e si trattenne per due ore in casa Locatelli poi se ne partirono alla volta d’Imola con altri cavalli di posta.

Il 15 aprile una compagnia di fanti papalini che aveva militato contro il Turco nella Candia[120], venendo dalla Romagna passò a Bologna e poi il 16 a Forturbano.

Il 29 aprile 1670 fu creato Papa il card. Emilio Altieri col nome di Clemente X.

Le porte del nostro Castello erano, per il passare del tempo, ormai rovinate e disdicevoli non che inutili al bisogno. La Comunità ricorse al Senato per il ristoro che ammontava alla spesa di l. 855.

Il 12 giugno si pubblicò il Giubileo universale per la nuova elezione pontificia ed il primo luglio 1670 prese il possesso di Massaro Lorenzo Gordini. Chi fosse Podestà non l’abbiamo dalle note.

Il 4 agosto Girolamo Lelli di anni 42 fu ucciso in Castello da sicari e i corsi, che qui soggiornavano a guardia del Castello, non riuscirono ad impedire il misfatto.

Il 14 ottobre venne a Bologna il nuovo card. Legato Lazzaro Pallavicini. Immediatamente fece pubblicare un rigoroso bando sulle armi.

 In seguito della istanza fatta al Senato per le porte di questo Castello, con ordine dell’Assonteria si cominciò a mettervi mano e furono collocate al loro posto.

Intendeva il nuovo arciprete unire la sua canonica alla chiesa e fabbricare sopra la sua cappella alcuni suoi comodi, chiese per ciò la licenza alla Comunità, come padrona della chiesa, di fare tale lavoro. Fu negativa la Comunità. Quindi esso ricorse al Vicario Generale che, sentita le opposizioni della pubblica rappresentanza, ordinò una visita formale. Quindi, per ovviare alle questioni legali, fu concesso all’arciprete di formare un corridoio sopra la volta della cappella colla condizione che l’arciprete facesse un piccolo organo nella chiesa, come poi fece. La Comunità gli dette un piccolo contributo.  

Sarebbe stato meglio per esso che mai si fosse fatto tale corridoio ove, andando egli a rilassarsi e a dare sfogo ai suoi studi e alle sue fissazioni senza essere disturbato, non sarebbe uscito di senno ed avrebbe sfuggito l’infelice fine che lo portò all’altra vita.

Il 6 dicembre Marc’Antonio Benetti di Castel S. Pietro, avendo commesso l’omicidio, come si disse, nella persona di Giovanni Morandi fu appiccato per la gola a Bologna.

1671 – 1674. Tumulti per la diminuzione del peso del pane. Accademia degli Immaturi, sue origini. Concessione ai M. O. di chiudere il vicolo di fianco alla chiesa di S. Francesco. Casella postale trasferita prima all’osteria del Portone poi alla Corona.

Era vacante la condotta medica di questo luogo. Concorsero illustri soggetti e fu conferita al celebre dott. Lorenzo Legati, che non cominciò ad esercitarla che il seguente 1671 in cui entrò Massaro il capitano Biagio Sgarzi e Podestà il Conte Nicolò Calderini col giusdicente Taddeo Tacconi.  Questo Podestà aveva il suo palazzo nel nostro Castello, ove villeggiava la maggior parte dell’anno, così lunedì 25 gennaio venne in paese a farsi riconoscere. Ciò a differenza dei suoi predecessori che evitavano di farsi vedere. Fu per questo accolto con acclamazione popolare da tutta la nazione e al sommo esaltato.

Il 20 febbraio il card. Legato aveva alzato il calmiere al grano all’improvviso dalle 7 lire alle 9. Si disse dopo che avrebbe ricevuto molto denaro dai fornai. Nacque un tumulto nella città che durò molto tempo. Su questo esempio accaddero anche nel contado simili tumulti e specialmente a Castel S. Pietro. Per evitare un maggiore disordine per il pane calato di peso, fu ordinato in molti conventi di fare del pane e così si fece anche nel contado. Per tenere calma la popolazione cittadina camminavano pattuglie di soldati e nella campagna la sbirraglia.  Fu obbligato il Legato a far ritornare il pane al suo peso di prima.

Il 15 marzo, domenica di Passione, dopo terminata la processione del Cristo scoperto e riportato nel suo oratorio, il nuovo medico Lorenzo Legati recitò una orazione funerea ad onore del Cristo a cui intervenne infinito popolo. Il venerdì Santo, 22 marzo, nella chiesa di S. Caterina fece lo stesso l’arciprete Scherlatini sopra la deposizione del Cristo morto, portato in processione da questo Compagnia secondo il consueto.

Il 4 maggio, lunedì delle Rogazioni, venne una foltissima nebbia e così puzzolente che le persone stettero in casa fino al pomeriggio.

Il 20 giugno si fece sentire il terremoto e si fecero preghiere in ogni chiesa del paese.

Il giorno primo luglio 1671 entrò Massaro Giuseppe Fabbri e Podestà fu il Conte Francesco Marsigli.

 Intanto arrivavano voci di contagio negli uomini in diverse parti della Lombardia e nel veneziano. Il 22 luglio il Cardinale fece pubblicare un bando per proibire ai miserabili di introdursi nella città e quelli che già c’erano dovessero entro 24 ore partire sotto pena di galera. Il sospetto era che ungessero le porte per introdurre il contagio, come era stato fatto in taluni luoghi.

Il grano, per le nebbie passate aveva patito. Il raccolto fu scarso.  

Il 25 ottobre si celebrò a Bologna il Capitolo provinciale dei Minori Osservanti alla Annunziata ed in esso eletto per ministro provinciale il Padre Lorenzo da Castel S. Pietro della famiglia Nicoli, nipote del rev.mo Francesco M. Nicoli. Durò in questo ministero fino al 1675.

 Resa vacante la condotta medica fu subito conferita all’eccellente medico ed antiquario Dott. Lorenzo Legati cremonese, professore di lettere greche a Bologna. Fu amicissimo dell’arciprete Scherlatini. Fu scelto poi come medico dalla casa principesca Gonzaga, nominato da Don Alfonso Gonzaga[121]. Compose e stampò diverse opere. Si rileva da questa nomina in quale considerazione fosse in questa epoca la condotta medica di Castel S. Pietro avendo lettori pubblici al suo stipendio come il dott. Paolo Seda e di altri in passato.

Esisteva nel nostro Castello una Pia Unione di fedeli i quali annualmente, nella chiesa degli agostiniani di S. Bartolomeo, faceva celebrare una certa quantità di messe per le anime del purgatorio all’altare di S. Nicola da Tolentino, senza avere titolo particolare. Procurarono per ciò i padri locali di trasformare tale Unione alla forma di Compagnia. Ricorsero al pontefice Clemente X che, ascoltata la supplica, il 16 ottobre firmò il Breve di erezione e la decorò di molte indulgenze, che si vedono enunciate negli statuti fatti poco dopo, cosi che in breve divenne numerosissima.

Il nuovo Provinciale dei M.O. di S. Francesco Padre Lorenzo da Castel S. Pietro non mancò di rimpatriare nell’anno presente e farsi riconoscere nella sua carica. Nel mese di dicembre 1671, celebrandosi nella sua chiesa la gloria di M. V. Immacolata, si fece una Accademia letteraria.

Fu chiamata questa Accademia degli Immaturi. Non abbiamo trovato L’inizio di questa accademia più indietro nel tempo. A questo proposito il Fantuzzi nella sua Opera de Scrittori Bolognesi, sotto l’articolo Scherlatini, riferisce: Che assai prima del 1667 fioriva in Castel S. Pietro questa Accademia secondo le notizie avute dal Conte Baldassare Carati e che prendesse maggior fervore dallo Scherlatini, la quale radunavasi nella chiesa de Francescani onde è credibile che questi fossero li fondatori e lo Scherlatini ristoratore.

Che poi i religiosi fossero i fondatori noi non lo sappiamo. Il frate M. O. Flaminio da Parma M.M. nelle sue memorie riferisce che solamente nel 1651 questo asilo francescano ebbe figura di convento. Paolo Masina, scrittore delle cose di Bologna, assicurava la fondazione di questa Accademia nel 1670.  Crediamo si possa dire che fra il 1651 e il 1664 avesse la sua origine e l’avesse dai paesani, poiché il paese era fornito di un dotto clero, contava nella gerarchia secolare molti laureati qui domiciliati come il dott. Francesco Laurenti e il figlio Giacomo giuristi, dott. Silvio Scasilioni medico, dott. Paolo Seda, Matteo Monduzzi, dott. Antonio Fiorentini, Giulio Orsolini e molte altre persone letterate viventi al tempo dello Scherlatini.

Il dott. Lorenzo Legati, amicissimo dello stesso Scherlatini, nel suo Museo Cospiano fa pure menzione di questa nostra Accademia delli Immaturi e notò che entrambi la resero illustre e non che la rifecero.  Qui seguiamo l’opinione del Fantuzzi che scrive che lo Scherlatini fosse il ripristinatore. Senza dubbio questo dottissimo arciprete sapeva di questa Accademia poiché, oltre l’essere egli socio, assai la loda nel suo libro dell’Uomo figurato simbolico stampato nel 1683 per Giacomo Monti in Bologna così egli parla:

 L’impresa di questa Accademia servì di scorta a dare il nome ad una mia impresa. Li Signori Accademici Immaturi quali, per dimostrare la loro concordia, si servono della antica impresa che dimostra un fascio di spiche verdi col moto: Flavescent. Figurai ancor io una Mano che andava cernendo le più elette e stagionate con isperanza averne a suo tempo il frutto dessiderato e vi posi per moto: Bella Messe di Speme io Scielgo intanto.

Sappiamo che questa accademia si radunava il giorno della Concezione di M. V. nella chiesa di S. Francesco dove ha continuato fino a dopo il 1745 usando la sua antica insegna, che fortunatamente recuperammo nella vendita dei mobili di questa illustre famiglia Rinaldi, figurante un grande fascio di spighe verdi col sole in alto che le sovrasta con i raggi ed una fascia con la scritta: Flavescent, e sotto nella base Imaturi. Questo è quanto a questo proposito abbiamo trovato.

Giunto l’anno 1672 entrò Massaro Stefano Alberici e Podestà il Conte Gioseffo  Carlo Bianchi e suo giusdicente fu Filippo Carlo Medici che venne qui a stabilirsi. Lo stesso fece il dott. Lorenzo Legati nominato l’anno scorso medico a questa condotta.

Il 29 gennaio, fu eretta la Compagnia di S. Antonio da Padova nella chiesa di questi francescani per decreto di Clemente X all’altare della famiglia Ricardi ove stava collocata la statua di S. Antonio, fatta fare per comodo delle processioni da Carl’Antonio Graffi, avo materno di me Ercole Cavazza scrivente le presenti memorie.

Il 3 aprile, domenica di Passione, si vide alzarsi un sole più rubicondo del solito che infiammava per così dire il mondo. Fu osservato che alle ore 22 italiane rendeva poca luce per cui le genti cominciarono a sbigottirsi. Da questo accidente l’arciprete Scherlatini prese motivo di fare nella sua arcipretale un bellissimo sermone ad onore del Cristo della Compagnia del SS.mo che era stato prima portato scoperto in processione per il Castello e il Borgo. Prese il testo delle Scritture: Obscuratum est Sol.

Dopo alcuni giorni si fece sentire il terremoto già enunciato e previsto casualmente dallo Scherlatini nella sua orazione, cosa che fece somma impressione in questi giorni santi al popolo fedele. A Rimini fece molto danno alle chiese e perirono più di 400 persone.

Nel venerdì Santo che cadde 15 aprile dopo essersi fatta la solenne processione dalla Compagnia di S. Caterina col suo Cristo deposto dalla croce, lo Scherlatini, facendo riferimento all’occorso terremoto, fece un altro bellissimo sermone al suo gregge prendendo il testo delle Scritture: Factus est Terramotus magnus super Terram. Riscosse egli non solo lode ma profitto dal suo gregge.

Il 17 aprile, domenica di Pasqua, vedendo l’arciprete Scherlatini l’uso delle due compagnie di S. Caterina e del SS.mo di andare dopo pranzo alla visita della Madonna del Cozzo e nel ritorno fermarsi sopra il ponte del Sillaro, si portò inaspettatamente all’oratorio di S. Giacomo e, nel ritorno delle compagnie, le fermò entrambe e, vestito di cotta e stola, fece qui la solenne assoluzione ai morti sepolti nel vicino Lazzaretto. Questa cosa non era mai stata fatta da alcun altro arciprete.

A motivo del terremoto passato che ancora non cessava ed altri castighi che Dio mandava, l’arcivescovo Boncompagni in Bologna ordinò le Missioni per otto giorni nei quattro quartieri. Missioni che furono poi fatte pure nella diocesi.

L’11 maggio successe che, trasferendosi la miracolosa Immagine di M. V. di Poggio a Castel S. Pietro per fare le solite Rogazioni, il nuovo arciprete Scherlatini introdusse l’uso di andare ad incontrarla sulla via di Medicina fino ad un luogo, detto il Pilastrino, con il suo clero e con la croce innalzata.

Il 25 maggio, giorno di domenica, si incominciarono le Missioni del Padre Ghelinghelli gesuita e terminarono il 3 giugno festa del Corpus Domini. La mattina fece fare alla popolazione una comunione generale e la sera la processione per il Castello e il Borgo col SS.mo alla quale intervennero tutte le corporazioni ecclesiastiche e secolari del paese.

L’8 giugno la Compagnia di S. Antonio da Padova, essendo stata eretta con chirografo apostolico, dette supplica all’arcivescovo card. Boncompagni per fare la processione del santo colla nuova statua. Le fu accordato.

Il primo di luglio 1672 entrò Massaro Lorenzo Gordini e Podestà il Conte Francesco M. Grati.

I coniugi Girolamo Rossi e Angiola Fabbri per mostrare la loro devozione alla B. V. di Poggio cedettero alla Compagnia di S. Caterina le rendite di due case poste nella via Framella in faccia al convento di S. Francesco. La condizione era che di tali rendite se ne facessero tre parti, due ai frati di S. Francesco e la terza all’arciprete pro tempore di Castel S. Pietro, con peso di contribuire annualmente sei candelotti di cera di sei libbre l’uno per servire la B. V. di Poggio al tempo delle Rogazioni.

Il 9 settembre si alzò un temporale dalla parte di Bologna con impetuoso vento, grandine e lampi. Scoppiò una saetta che colpì la croce di legno di questi Padri Cappuccini e la incendiò, lasciando un grande fetore per il paese.

Il 2 novembre Girolamo Galli, marito di Maria Trapondani, giovane di anni 22, fu miseramente ucciso in questo luogo.

 Il 20 morì Battista Tomba all’età di 106 anni, con tutti i sentimenti, ricevendo tutti i sacramenti, assistito da Don Luca Mazzini nuovo cappellano dello Scherlatini.

Oltre il sofferto castigo del terremoto, il Turco con le armi fece nuove molestie alla cristianità. Perciò molti nobili bolognesi ed altri del contado andarono volontari alla guerra. Il Papa, che vedeva travagliata la sua chiesa dalla mano di Dio, aprì i suoi tesori con un Giubileo universale che fu pubblicato il 24 novembre con indulgenza plenaria.

L’8 dicembre, giorno della SS. Concezione di M. V., nella chiesa di questi Padri Francescani si fece l’accademia letteraria in suo onore che, gareggiando fra di loro l’arciprete Scherlatini ed il nuovo dottor condotto Lorenzo Legati, riuscì più brillante degli anni addietro.

Sebastiano Annessi estratto Massaro prese il possesso della sua carica il primo gennaio 1673. Così fecero gli altri ufficiali del Governo. Podestà di questo primo semestre fu il Conte Ugo Giuseppe Pepoli.

Fu pubblicato in questo tempo un Monitorio papale di scomunica maggiore contro coloro che avevano sparato archibugiate in Roma contro il Vescovo Patriarca. Fu ordinato che si pubblicasse anche nelle diocesi e si intimasse la scomunica mediante i riti di S. Chiesa col gettare candele accese.

Non fu tardo lo Scherlatini ad eseguire ciò con quella pompa cattolica che si doveva. Quindi il 6 gennaio, giorno della Epifania, fece alzare in questa arcipretale un palco e, quando fu alla metà della messa, vi salì con abito a lutto e con candele nere accese, maledì nel nome della SS. Trinità tutti coloro che avevano commesso il delitto e gettò a terra le candele

Il 27 febbraio il Legato card. Pallavicini per bando proibì, nel colmo dell’inverno, l’introduzione del pane forestiero nella città e nel contado, proibì il pane fabbricato fuori stato per cui ci fu un gran subbuglio nella povertà. Una tale legge fu procurata dai fornai, avidi di farsi una esclusiva, che, per avere tale bando, spesero e regalarono molto danaro all’Uditore di Camera che addusse false ragioni di eccedenza. Si lasciò convincere il Legato e così l’Uditore tradì la fiducia del Principe, vendette senza vergogna ed a forza d’oro la ragione della povertà e si procurò l’editto. D’onde si vide avverato il detto delle Scritture Omnia hobediunt pecunie

Il 2 aprile, giorno di Pasqua, si ammalò gravemente l’arciprete Scherlatini. Fece ricorso alla B. V. del Rosario di cui era devoto. Ottenuta la grazia della salute, procurò di mostrarne la gratitudine anche al suo gregge. Promosse perciò di far fare una statua di M. V. atta a portarsi in processione, poiché quella che si trovava in parrocchia nel nuovo altare era assai piccola.

Trovò l’accordo dell’Unione dei devoti del Rosario o sia Compagnia Larga, che era composta sia di uomini della Comunità e sia delle altre due compagnie. Ne fece il progetto e fu da tutti applaudito. In conseguenza fu incaricato lo stesso arciprete a procurare tale statua. Egli scrisse al miglior statuario di Lucca, Michele Andreucci e poco dopo si ebbe l’effettuazione della nuova statua. Concorse anche lui alla spesa.  

Nel giorno del Corpus D. primo di giugno, si gonfiò talmente il nostro torrente Sillaro, per la pioggia improvvisamente caduta al monte, che, alzatasi la piena sopra le sponde, inondò campi vicini, le messi, portò via animali e annegò due fanciulli che furono poi trovati a Castel Guelfo.

Nel primo di luglio 1673 entrò Massaro Andrea Marocci e Podestà Angiolo Michele Guastavillani.

Perché il piccolo vicolo a fianco la chiesa di S. Francesco pregiudicava la quiete della chiesa, i frati chiesero alla Comunità ed al Senato la facoltà di poterlo chiudere. Il Senato fu condiscendente e il 29 agosto 1673 dette il permesso  in questi termini Facoltà a P.P. di S. Francesco di Castel S. Pietro di chiudere un vicolo presso la loro chiesa che conduce alla mura del Castello ed alzarvi un ochio di portico presso lo spigolo di d. chiesa per unirlo a quello dell’orto Rondoni colla condizione di rissarcire le mura del Castello per quanto lungo il loro sito, (…) senza però aquistare mai Gius o possesso alcuno anzi  fosse in potere del pubblico di tenere sempre conficatai l’arma del pubblico in macigno dentro e fuori di d. mura e di non potere giammai in alcun tempo aprire la porta serata nel d. muro ne farvi alcuna apertura senza licenza del Senato.

In seguito di quel decreto i frati ne segnarono la memoria in una lapide in macigno, che fu poi affissa solo nel 1759, di questo tenore.

A solo uso de P.P.

 M. Minori osservanti

fu concesso dall’Ill.mo Senato questo Vico

Adi XXIX Agosto MDCLXXIII

Il 17 settembre, avendo terminata la sua legazione, il card. Pallavicini partì da Bologna per la via di Firenze. Il 28 ottobre venne il card. Buonaccorso Buonaccorsi che fu incontrato a Castel S. Pietro dai nobil uomini senatori Giovanni Francesco Sampieri e Conte Giuseppe Malvasia, che avevano per compagni il Conte Giovanni Legnani Ferri, Bonincontro Guastavillani, Marchese Giovanni Francesco Locatelli e Camillo Scappi. Arrivato a Castel S. Pietro fu banchettato in casa Malvasia.

Era usanza dai Mastri di Posta di Bologna e Romagna portare le lettere e spedire le lettere di questo luogo mediante un postiglione. Le lettere le riceveva il Donzello della Comunità che poi consegnava le altre che si spedivano via. Le lettere ricevute venivano poste in un recipiente apposito nella casa comunitativa.  Siccome nascevano spesso inconvenienti per le infrazioni dei postiglioni che non lasciavano le lettere qui dirette o se le dimenticavano in tasca nel cambio che facevano dei cavalli, la Comunità ordinò che per l’avvenire si pagassero al custode nominato dalla Comunità le venti lire che si davano al postiglione. Inoltre decise che si levasse il recipiente dalla casa comunitativa e si trasferisse questo alla locanda del Portone, sempre che ci fosse l’accordo del proprietario della locanda. Il che si ottenne e fu ciò stabilito il 17 dicembre 1673.

Il primo gennaio 1674 prese il possesso dell’ufficio di Massaro Giovanni Rapini, il Podestà fu Carlo Bolognetti.

Il dott. Lorenzo Legati, quantunque fosse stato confermato in questa condotta medica, essendosi licenziato per coprire maggior carica, se ne partì dal paese dispiaciuto da tutti e massime dallo Scherlatini col quale intercedeva familiarità stretta. Successe nella sua carica Antonio Bersani, uomo valente nella sua professione.

I tre deputati della Congregazione dei preti D. Giovanni Paolazzi, D. Domenico Montori e D. Girolamo Marzochi non avevano operato con la dovuta premura per avere dal card. commendatario in proprietà la chiesa di S. Pietro. Il 16 aprile 1674, essendo priore D. Angiolo Zanetti e segretario D. Bartolomeo Righi di Castel S. Pietro, prete molto attivo, la Congregazione decretò che si replicasse la petizione all’E.mo Ghigi. Fu deputato nuovamente D. Girolamo Marzocchi incaricandolo di tutto con ampia facoltà. Spedì subito la supplica a Roma ma arrivò risposta negativa.

Il Papa, che aveva in vista i meriti del nostro Padre Rev.mo Nicoli francescano minorita, lo promosse quest’anno con suo particolare chirografo alla carica di Ministro Generale dell’Ordine in luogo del Padre Francesco Maria Rini che passò arcivescovo in Sicilia.

Dal principio della quaresima fino ai primi giorni di giugno vi fu un tale siccità che ogni cosa era inaridita, finalmente il giorno 3 giugno venne una grossissima tempesta mischiata a fulmini e saette che spaventò tutti e durò così tutto il mese a sfogarsi il tempo e non passava giorno che non cadessero ora qui ora là due o tre saette e grandine grossa con danno dei raccolti. Furono per ciò fatte orazioni su ordine del card. arcivescovo affinché Dio ci liberasse da tanto castigo.

Nel dì primo luglio entro Podestà il Conte Marchione Manzoli e Massaro fu Domenico Battisti.

 Il 29 di questo mese, atteso il desiderio che aveva di essere fatto figlio di questo convento di S. Bartolomeo il molto Rev. P.re Maestro Marco Bondioli provinciale, ne fu fatta la seguente proposizione dal P. Angiolo M. Fiegna priore e Vicario del S. Ufficio ai padri agostiniani locali. : Sono già noti alle P.P. vostre li meriti del molto R. I. Maria Marco Bondioli nostro provinciale, io dunque bramoso di comunicare a questa nostra casa la Bontà e le Virtù di un tanto padre onorato prego la  Paternità V.V. compiacersi elegerlo p. Seniore. La proposta fu accolta e fu confermata nel Libro delle proposte da tutti i locali che furono: P. Angiolo M. Fiegna priore e vicario, P. Deodato Venturoli, P. Dionigio Mascriardi, P. Francesco Aurelio Santi e P. Francesco Signori da Cento che era tutta la famiglia agostiniana in questo luogo e così nel venturo agosto il provinciale stabilì qui la sua residenza.

Li 9 di novembre Marchione di Gio. Battista Fabbri di Castel S. Pietro fu fatto sergente di cavalleria a Bologna sotto Costanzo Zambeccari per la guerra presente contro il Turco, onde tosto partì per i confini della Germania ove il Turco si era inoltrato e si teneva forte in Buda.

Il 22 di questo mese morì la illustre signora Anna Ringhieri moglie di Flaminio Comelli in questa loro casa entro il Castello alla sinistra dell’ingresso maggiore, che fu poi palazzo Malvezzi ed ora dello scrivente le presenti memorie. Fu sepolta in parrocchia con funerale adeguato alla sua nobile nascita.

La posta delle lettere che si era fissa alla locanda del Portone, vedendola poco sicura ed incomoda ai paesani, la Comunità la fece trasferire alla locanda opposta della Corona ove è stata più di un secolo.

1675 – 1678. Fatta l’inferriata alla Cappella del Rosario. Turbine scoperchia la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo al ponte, era passata un’ossessa. Marchese Locatelli dona reliquie alla compagnia del SS.mo. Inizio contrasti tra Don Scherlatini e la Congregazione dei Preti. Anche il Conte Ramazzotti dona una reliquia.

Il primo gennaio 1675 investì la carica di Massaro Benedetto Fiegna e quella di Podestà fu investita solamente alla metà del mese dal Conte Gianbattista Cattani figlio del senatore Filippo Sanpieri.

Lo Scherlatini aveva capito che il card. Ghigi era irremovibile nel negare alla Congregazione dei Preti la chiesa di S. Pietro e che perciò i capi di questa avevano rivolto le loro mire alla chiesa della Annunziata nel Borgo. Questa chiesa era proprietà dei borghesani e quanto ai diritti parrocchiali dipendeva dallo stesso arciprete. Egli per levare le occasioni di litigio fra la Congregazione ed esso e gli stessi borghesani, nel caso che quella si volesse lì stabilirsi, si fece cedere la chiesa dai borghesani con rogito pubblico a mano di Ser Carlo Filippo Medici.

Nel dì primo maggio l’alfiere Gioseffo Fabbri abitante nel Borgo, per fare uno scherno ai castellani, piantò nella fossa vicina all’ingresso maggiore del Castello i Maggi. Ne nacquero tumulti, ma furono poi calmati.

I frati M. O. di questo luogo, intenti a propagare il culto di Dio e dei Santi, eressero in questa loro chiesa di S. Francesco la Compagnia del Cordone. Gli stessi frati, per avere una maggior comodità di uscita dal Castello, si procurarono mediante il loro guardiano Padre Sante della famiglia Fabbri, amico del card. legato Bonaccorsi, la facoltà di aprire la porta nella mura aderente alla loro sagrestia che si teneva chiusa a motivo delle pestilenze. La grazia gli fu concessa il 23 maggio 1675 come si legge dal libro del convento:

Milleseicento settantacinque sotto la Legazione dell’E.mo Bonacorsio Bonacorsi il P. Sante da Castel S. Pietro come guardiano di questo tempo e familiare di d. Porporato ottenne per suo mezo in voce dall’Ill.mo Senato di Bologna di potere aprire la porta già serrata che guarda il fiume, posta nel vico, con questo che la relligione la tenesse sempre custodita di persona e chiave e che queste stessero sempre appresso il Superiore locale del Convento per maggior cautela del paese, così pure per comodo de relligiosi, quale fu aperto il dì 23 maggio 1675.

Il portone necessario e finito di serramenti fu fatto a spese del convento.

Terminata la Cappella del Rosario nella parrocchiale si facevano qui quasi tutte le funzioni. Accadeva che la turba dei contadini si affollava in essa in modo tale che nasceva grande confusione. Giovanni Ronchi priore della compagnia, per riparare in qualche modo a questo inconveniente, propose che all’ingresso della Cappella vi si facesse una alta inferriata ornata di ottone. Fu adottata tale proposta, si fece la inferriata e costò lire 2.000 lire di quattrini di Bologna.

Il 13 giugno, giorno del Corpus Domini, l’arciprete Scherlatini terminata la funzione, fece istanza alla Comunità che si accomodasse il cimitero in quella parte che era senza muro. La Comunità vi aderì per la sua parte e per l’altra la Commenda di Malta e fu accomodato ma malamente dagli operai che assunsero il lavoro.

Il primo luglio 1675 entrò Massaro Giovanni M. Martelli e Podestà fu eletto Antonio Tortorelli.

Il 30 novembre fu terminata il muro attorno al cimitero alto quattro piedi da terra tanto che i cani e le bestie non vi entrassero. Nel mezzo del cimitero vi fu posta una piccola colonna di macigno sopra alto piedistallo quadrato che è quello che ora si vede. Era stato levato l’altro piedistallo rotondo, scannellato all’uso greco, di marmo grigio, che è quello che ora si vede appoggiato alla fiancata della casa dell’arciprete nella strada maggiore ove ora c’è una stalla

In questi tempi si cominciò a fare da questi francescani la Novena solenne prima di Natale sull’alba del giorno. Ogni mattina vi intervengono nove zitelle ed una loro direttrice denominata la Matrona e si canta messa solenne, le intervenienti offrono una candela di cera che tengono sempre accesa davanti ed un candelotto davanti alla matrona. Le cere che restano sono poi tutte per elemosina alla chiesa. Ogni giorno si muta la Matrona e pensa ella a tutta la spesa che tuttora si fa ascendere a circa 40 paoli per ciascuna. La Novena è di gran concorso e devozione.

Nell’entrante gennaio 1676 prese il possesso della carica di Massaro Carlo Andrini, il nuovo Podestà fu Antonio Francesco Pastarini.

Il 31 marzo sull’ora in punto di notte si vide per l’aria un gran fuoco che dall’oriente passò all’occidente così velocemente che non si poté distinguere cosa fosse. Splendette così forte che sembrava mezzogiorno, aveva una lunga coda da cui cadevano scintille di fuoco. Passò sopra molte città di Romagna. Il fenomeno fu attribuito alla gran siccità essendo parecchi mesi che non era caduta pioggia e la gente sudava senza fare fatica come in estate. Si fece la stampa e relazione di questo fenomeno che aveva il capo rotondo volto ad oriente e la coda al ponente.

Il Padre Nicola Casalini provinciale agostiniano concesse a questi agostiniani di S. Bartolomeo la facoltà di ingrandire la loro sagrestia a richiesta del moderno priore Padre Deodato Venturoli.

Il selciato della via maggiore del Castello era così malandata che fu necessitata la Comunità ricorrere al Senato per il ristoro. Corrispose questo alle istanze e procurò i materiali. Così la strada fu in breve accomodata.

La Congregazione dei preti, vedeva da una parte di non poter ottenere in proprietà la richiesta chiesa di S. Pietro e per l’altra parte riconosceva che la chiesa dedicata alla B. V. Annunziata nel Borgo era adatta per le loro funzioni ecclesiastiche, anche per essere nella via corriera. Inoltre in essa si celebravano quotidianamente e per ciò era frequentata dalla popolazione. Pensò di stabilirsi in quella ma, perché ci voleva l’assenso del parroco come capo in spiritalibus e come rinunciatario della stessa chiesa ceduta dai borghesani, così ne fecero la richiesta all’arciprete.

 Questi fu compiacente limitatamente al solo esercizio delle funzioni sacre e colla condizione che acconsentissero i borghesani. Immediatamente ne fu richiesto l’assenso, si ottenne da quelli che furono i signori Lodovico Villa, messer Giovanni Rapini, Carlo Andrini, Francesco Vanti, Andrea Baroncini, Giovanni Battista Dalferro, Paolo Giorgi, Antonio Tomba, Domenico Santini, Antonio Calanchi, Lorenzo Bertuzzi e Giovanni Molinari, come famiglie principali del Borgo e possidenti per se per gli altri di quell’abitato.

Intanto che si facevano queste cose l’Ordinario intimò gli esercizi spirituali ai preti, si cominciarono il14 maggio, giorno dell’Ascensione, e furono terminati il 17 giorno di domenica. Chi diede gli esercizi fu Don Angiolo Tormanini bolognese che, d’ordine del Vicario Generale, venne a Castel S. Pietro. Trasferitasi poi la Congregazione del Suffragio dei Preti nella chiesa dell’Annunziata, pensò l’arciprete a riformarne i Capitoli.

Il primo luglio 1676 entrò Massaro Giacomo M. Tomba e Podestà il Conte Ercole Malvezzi.

 Essendo vacanti alcuni posti di consigliere furono riempiti da Domenico Menghini, Francesco Vanti e Giorgio Dalfoco.

Morì in questo tempo Troiano Scasilioni uomo di grande affezione alla popolazione ed al ben pubblico di Castel S. Pietro.

Avutasi notizia il 25 luglio che il 22 era morto Papa Clemente X, il card. Legato se ne partì per Roma.

Il ponte sulla via Emilia sopra il torrente Gaiana, chiamato Ponte del Diavolo era rovinato dalla parte di levante. La Comunità di Castel S. Pietro fu obbligata, per decreto del Senato, a concorrere alla spesa con 220 lire. Il danaro fu preso in prestito, con restituzione in tre anni e, perché il comparto non fosse gravoso, fu ripartito alle Comunità di Castel S. Pietro, Liano e Casalecchio dei Conti.

 Il terremoto si fece sentire con replicate scosse.

Il 22 settembre si pubblicò la elezione pontificia nel cardinale Benedetto Odescalchi da Bergamo col nome di Innocenzo XI.

Estratto Massaro per il venturo semestre 1677 Giovanni M. Martelli, ne prese l’incarico il primo gennaio. Il Podestà fu Carlo Cignani celebre pittore.

 La nuova statua di M. V. del Rosario, fatta a Lucca, che doveva esporsi il primo giorno dell’anno, fu esposta solo il giorno della Epifania a causa del suo ritardato arrivo. La Cappella fu sontuosamente apparata e fu celebrata la solenne messa in musica. L’immagine vecchia fu levata e trasportata nella canonica.

Come i suoi predecessori il nuovo pontefice Innocenzo XI concesse un pubblico Giubileo, che fu nel corrente gennaio pubblicato per tutta la diocesi di Bologna.

 Il 20 febbraio ritornò a Bologna il Legato, passando per Castel S. Pietro e si fermò a pranzo in casa Malvasia ma privatamente.

Il 26 aprile, essendosi riunita la Congregazione dei preti nella nuova residenza della Annunziata, furono esposte alcune lagnanze sopra le sue Regole. Per rimediarvi fu decisa una riforma. A questa furono deputati l’arciprete Scherlatini, D. Paolo Baldi arciprete di Pizzocalvo, D. Girolamo Marzochi e D. Lodovico Generoli.  Perché questo Congregazione si mostrava edificante nel paese, molti secolari, uomini e donne, domandarono di essere associati. Fu accettata la supplica.

Perché avanzavano le armi ottomane contro la Cristianità, il Papa fece pubblicare una indulgenza plenaria in forma di Giubileo nel mese di maggio con ordine di fare le Missioni a Bologna e nella sua diocesi. In conseguenza queste furono effettuate nei quattro quartieri della città, poi si fecero nella diocesi.

A Castel S. Pietro fu assegnato D. Saverio Masetti parroco di S. Matteo delle Pescherie di Bologna, sacerdote di gran dottrina e bontà. I suoi sermoni ebbero grande successo sopra tutto nella plebe e nei canapini ai quali donò la insigne reliquia del loro protettore S. Vincenzo Martire, cioè un osso di una gamba.

Usava la Comunità in questi tempi iscrivere nella divisione delle collette camerali le spese che accadevano durante l’anno senza parteciparle alla popolazione. Fu quindi fatto ricorso al Governo. Questi decretò che in avvenire si dovessero prima leggere e pubblicare in Consiglio e fuori. Questo in modo che, se qualcuno avesse voluto opporsi, potesse farlo. Altrimenti non si ammettesse l’iscrizione sotto pena di nullità.

Il 31 maggio questi Padri M.O. dettero supplica in Roma alla Congregazione dei Riti perché gli fosse confermata in perpetuo la grazia fattale dal card. arcivescovo per la processione di S. Antonio da Padova per il Borgo e il Castello senza l’intervento del parroco. Fu risposto che si ricorresse all’arcivescovo e si eseguisse la sua decisione.

Il 23 giugno Francesco Bartolucci di Castel S. Pietro, che fu alunno del collegio Comelli per la parentela che intercorreva con i Nicoli e fra questi e i Comelli, fu laureato in ambe le leggi. Gli furono perciò fatte molte poesie che si leggono in un opuscolo stampato col titolo: Giardino di Pindo. L’opuscolo fu dedicato al Rev.mo Francesco Nicoli, zio del laureato. In questo si elencano le cariche del Rev.mo di Ministro generale di tutto l’ordine francescano, Commissario Generale dello stesso, Qualificatore del S. Ufficio, Consultore della S. Congregazione dei Riti e Indici. Il laureato, essendo giovine di molto talento, laborioso, dotto e di grande aspettazione fu in seguito chiamato alla corte dello zio a Roma. Egli rifiutò avendo altre mire, rilevasi ciò dal detto opuscolo.

In questo giorno 23 giugno fu ucciso Giovanni Domenico Taliani romagnolo nel nostro Borgo da altri romagnoli.

Nel dì primo luglio 1677 intraprese la carica di Podestà di questo luogo Achille Vezza Albergati e Massaro entrò Giorgio Dalfoco, ma perché poi fu riconosciuto inabile alle fatiche della sua carica fu sospeso.

Era stato calato il peso del pane nella città di Bologna. Nacque una sollevazione popolare che durò per un po’ tempo. Capo di questo fatto fu Gherardo Tacconi brentatore[122] di vino, i fatti che accaddero in seguito si leggono diffusamente nella Cronaca Fava

Bernardino Fabri, discendente della famiglia Fabri abitante nel Borgo di Castel S. Pietro e citata in vari rogiti in questo luogo fino dalle prime epoche dalla fondazione del Castello a proposito dei tumulti civili di Bologna e radicata qui da Fabbro di Ferro, desideroso di fruire le beneficenze civiche di Bologna, dopo essere stato molto tempo fuori e coperto luminose cariche in stati esteri, domandò al Senato la reintegrazione di cittadinanza.

 Il Senato, viste le prove portate della sua ascendenza e che fu cavaliere gerosolomitano della Sacra Religione dei SS. Maurizio e Lazzaro, Commendatore in Roma di Castel Gandolfo e Consigliere emerito del Re di Savoja, si prestò immediatamente a favorirlo.

Quindi nel seguente anno 1678, in cui entrò Massaro Carlo Andrini e Podestà Vincenzo Marescotti, il 4 gennaio fu accolta la sua richiesta.

Il 18 aprile, dopo seria malattia, il card. Legato di Bologna morì compianto da tutti i poveri perché molto amoroso verso loro. Fu sepolto in S. Pietro con tutti gli onori.

La mattina del giorno primo di maggio sulle ore 12 italiane, mentre si faceva, secondo il consueto, la festa agli apostoli SS. Giacomo e Filippo all’oratorio a loro dedicato presso il ponte del Sillaro nella via corriera, si alzò improvvisamente un impetuoso turbine che levò le tegole sopra quell’edificio. Queste volavano nella vicina strada e nei campi. Le genti si diedero alla fuga lasciando il sacerdote solo all’altare dove aveva consacrato e fatta la elevazione della S. Ostia. Il motivo fu attribuito al passaggio di una ossessa che veniva dalla Romagna ed andava a Bologna a farsi esorcizzare. Questa mentre passava davanti all’oratorio diede in alti strepiti ed urli che spaventarono le persone. In questo infortunio, che non oltrepassò l’intorno della chiesa, non rimase alcun offeso, come ci lasciarono scritto i ricordi dei Mondini proprietari della chiesa.

La Marchesa Maddalena Locatelli, molto affezionata a questa Compagnia del SS.mo, volendo dimostrarle la sua amorevolezza le donò le insigni reliquie di questi santi martiri: Vitale, Giustino, Placido, Vincenzo e S. Antonio Abate. La Compagnia si dimostrò riconoscente di un tanto dono e volle testimoniare al pubblico la sua gratitudine nel trasporto dal suo palazzo all’oratorio. Quindi fu eretto nella loggia del suo palazzo un pomposo altare con apparato e lumi. Il 16 maggio la Compagnia in cappa qui si portò coll’arciprete e il clero, intonato l’Inno Martiri al suono di strumenti musicali, furono levate le reliquie in un grande ostensorio ed indi trasportate processionalmente alla parrocchia. Da qui, data la benedizione al popolo, furono portate nel vicino oratorio della compagnia.

Non essendosi ancora terminata la riforma della Congregazione dei preti dai quattro deputati, furono nuovamente confermati gli stessi in questo impegno, con il pieno accordo dell’arciprete Scherlatini che fu, in questo giorno 20 giugno, estratto priore. Da qui cominciarono ad originarsi le invidie e le amarezze all’arciprete.

La pubblica rappresentanza venne a conoscenza delle lagnanze che si facevano per la poca soddisfazione di portare e ricevere le lettere della posta alla locanda del Portone per la sua scomodità. quindi decise di levare di là il buco o recipiente delle lettere e trasferirlo alla locanda della Corona nel Borgo. Ciò seguì il 29 giugno ed ognuno restò contento.  Si pagò al locandiere, per il suo incomodo, 6 lire all’anno.

Il primo luglio 1678 entrò Massaro Giacomo Tomba e Podestà il Conte Filiberto Vizani.

Il 6 luglio, attesa la vacanza della Legazione di Bologna per la morte del card. Legato, venne da Roma il cardinale Girolamo Castaldi e fu incontrato dal Conte Nicolò Calderini e dal Marchese Cesare Tanara, senatori bolognesi, che lo banchettarono nella casa dello stesso Calderini in questo Castello. Partì il dopo pranzo con gli stessi ambasciatori.

Il 11 luglio il Padre Rev.mo Francesco M. Nicoli fu dichiarato Presidente Generale dell’Ordine. Contemporaneamente fu dal Senato di Cremona dichiarato cittadino di quella città dove era già stato eletto negli anni addietro Provinciale di quella città e provincia.

Il Conte Francesco Ramazzotti, confratello della Compagnia del SS.mo, ad imitazione del Marchese Locatelli, se non vogliamo dire ad emulazione essendo queste due famiglie congiunte in parentela, donò anch’esso alla compagnia la insigne Reliquia del capo di S. Floro martire. E perché le cose fossero fatte con quella solenne pompa che conveniva, la funzione si fece in questa maniera: La seconda domenica di ottobre che fu il giorno 9 fu esposta la S. Reliquia nella cappella dei sig. Pollicini nella via corriera, nel comune di Liano, al nostro confine. Qui la mattina si portò la Compagnia cappata con l’altra compagnia di S. Caterina, arciprete e clero, ove c’era anche il parroco di Liano per essere quelle Cappella nella sua giurisdizione. Da qui, intonato l’Inno dei martiri, fu trasportata processionalmente con numeroso popolo alla parrocchiale del Castello. Qui fu solennemente cantata la messa dal cappellano e fu poi recitato dall’arciprete Scherlatini un bellissimo panegirico ad onore del Santo. La sera si fece la processione per il Castello e, data la benedizione nella pubblica piazza, fu consegnata questa reliquia all’oratorio della compagnia. Quantunque la festa di questo S. Martire cada il 18 agosto nondimeno dalla compagnia viene solennizzata la seconda domenica di ottobre nell’anniversario della sua traslazione.

1679 – 1683. Contrasti tra lo Scherlatini e il Spanochia nella Congregazione dei Preti. Crescono i sospetti di contagio, provvedimenti contro i mendicanti. Concesso permesso per la prima fornace per pignatte. Grandi processioni di penitenza per l’attacco del Turco. Rissa alla festa dell’Ascensione tra montanari.

L’anno seguente 1679 entrò Podestà Andrea Bovio e Massaro Domenico Menghini.

Il 24 gennaio morì l’Alfiere Giuseppe Fabbri di anni 44 e fu sepolto in S. Bartolomeo nell’avello Fabbri avanti l’altare di S. Stefano.

 Il 20 febbraio fu ucciso nel Borgo Giovan Battista Zacchiroli d’anni 26, fu giovane molto ardimentoso e perciò incontrò questa sorte funesta.

Molti miserabili nel comune di Castel S. Pietro erano inabili al pagamento del dazio sgravio sali, imposto nel Libro delle Colette comunitative. Fu fatto ricorso alla Comunità per averne lo sgravio. Questa perciò, mediante il suo Massaro Domenico Menghini presentò il ricorso al Governo. Questi ascoltò l’istanza e decise che la soddisfazione del debito fosse ripartita tra chi era in grado di pagare.

Il giorno 17 aprile era stata convocata la Congregazione dei preti per fare la solita celebrazione ai suoi defunti. L’arciprete Scherlatini, quantunque priore, avendo previsto che a molti non piacevano i Capitoli riformati e stampati, si astenne dall’intervenire per evitare provocazioni. Tutto il rumore proveniva dall’arciprete di S. Martino Don Antonio Spanochia, uomo di famiglia facinorosa, che, non essendosi potuto sfogare, se ne ebbe molto a male e covò l’ira e la vendetta in una migliore occasione.

Per il passaggio delle truppe estere che era incominciato in queste parti per la guerra fra la Spagna, Francia ed Olanda[123], gli sbirri di Bologna raccoglievano essi i foraggi. Questo creava problemi ai massari che non riuscivano poi a trovarli.  Ricorse la Comunità al Governo di Bologna che, sentito l’Uditore del Torrone, ordinò che tali fieni si raccogliessero dal funzionario del paese.

Si cominciò in questo tempo a dubitare di una influenza pestifera nel veneziano, onde si cominciarono ad usare precauzioni.

Domenico Dalfoco, che per la sua vecchiaia era inutile al maneggio degli affari pubblici, rinunciò al governo di questi.

Convocatosi nuovamente la Congregazione dei preti nella chiesa della Annunziata per sistemare il loro istituto, vi intervenne lo Scherlatini che fu accusato di mancanze. Espose la sua difesa ma, per il complotto dell’arciprete Spanochia, non fu presa nessuna decisione ma fu tutto rimandato a una nuova nova adunanza.

I coloni degli ecclesiastici del contado pretendevano di non essere soggetti anche al pagamento dei pesi camerali comunitativi. Le Comunità si riunirono e ricorsero al Senato per avere la decisione su questo fatto nuovo. Il Senato ricorse al card. arcivescovo Boncompagni quale, esaminate le ragioni il 13 giugno decretò a favore delle comunità.

Al cominciare di luglio 1679 intraprese il ministero di Massaro Domenico Battisti e quello di Podestà il marchese Cesare Marsigli.

Riunitasi nuovamente la Congregazione dei preti nella chiesa della Annunziata e ripresentatesi le precedenti difficoltà sui capitoli formati l’anno 1657 ed approvati l’8 dicembre dal Vicario Generale, fu respinta la riforma.  Seguirono varie proposte e il 21 ottobre furono deputati nuovi incaricati per la riforma e la stesura dei nuovi Capitoli.  Fu nuovamente incaricato lo Scherlatini che riprese dall’inizio la stesura della costituzione. Questa da principio era stata composta dall’arciprete Spanochia che fu il primo priore di questo istituto. Lo Scherlatini cambiò subito qualche cosa nell’esordio della prefazione ritenendolo offensivo al sacerdozio.

 Lo Spanochia ritenne ciò un affronto e cominciò a far parte contraria, cosa che al momento non ebbe successo. Ma poi tanto maneggiò che una parte, per timore del proprio interesse, si rivoltò contro lo Scherlatini quantunque questi avesse tutta la ragione.

Amareggiato per un tale torto lo Scherlatini ricorse al Vicario Generale per averne la dovuta giustizia. Fu da questo consigliato ad agire giudizialmente. Non perse tempo e il 23 ottobre citò la Congregazione a comparire e a vedersi prefiggere un termine, non solo alla costruzione della cappella maggiore nella chiesa, già ideata dalla Congregazione, ma anche ad accettare la modificazione dei Capitoli. Era priore in questo tempo Don Angiolo Dalla Noce, che dissentì dalla avversione dello Spanochia e informò estragiudizialmente della soperchieria di quest’uomo il Vicario giudice. Lo Scherlatini produsse i Capitoli ordinati, chiedendo che venissero approvati ed accettati dalla Congregazione.

Vedendosi dalla parte della perdita il partito dello Spanochia cercò altre strade per opporsi ed inquietare lo Scherlatini. L’accusarono quindi di essersi approfittato nella sua chiesa delle suppellettili della Congregazione senza l’assenso della stessa, di avere mancato di celebrare la messa solenne nell’anniversario come suo obbligo ed altre cose di minore importanza.

Non contenti di questo lo cancellarono dalla Matricola della Congregazione. Lo Scherlatini non si preoccupò delle accuse ma la cancellazione, essendo stata fatta senza ordine del Superiore ma di prepotenza dello Spanochia, non la mandò giù. Ricorse per ciò al Vicario per la reintegrazione e nella effervescenza di queste vicende fece intendere alla Congregazione che la chiesa della Annunziata, essendo dell’arciprete di Castel S. Pietro, non intendeva che la Congregazione dovesse avere da qui in avanti qui la sua residenza ed estragiudizialmente le intimò la espulsione.

Intanto il Vicario reintegrò lo Scherlatini nella Congregazione con tutti gli oneri e onori. I Preti si appellarono avanti il Vice legato e la causa fu affidata al suo uditore Ascanio Fabi, che si pronunciò definitivamente a favore dello Scherlatini. Fu subito intimata questa sentenza agli incaricati Don Girolamo Marzochi e Don Lodovico Zanaroli che erano contrari allo Scherlatini.  

Quanto poi ai capitoli della Congregazione, furono, d’ordine del Vicario, inviati all’Inquisitore per il controllo. Questa causa fu difesa dallo stesso Scherlatini e fece da sé gli atti legali. Fece rilevare la malignità degli avversari e, alla fine di una di essi, li paragonò i fanciulli che bisticciano per il gioco del tiro coi sassi ai mucchietti di noci.

Nonostante questa decisione contraria, i preti malevoli non si acquietarono anzi ancora di più si accanivano anche per essersi sentiti trattati da fanciulli. Quindi di nuovo si appellarono alla Segnatura ma poi la causa restò deserta.

Mattia di Nicola Rondoni e di Cecilia Albruni fu ucciso in Borgo con una archibugiata.

Crescendo sempre più il sospetto del contagio nel veneziano il 13 novembre si misero le guardie nel contado. Tutti gli uomini che nella città non avevano ricovero furono arrestati, specialmente i mendicanti e gli esiliati. Venivano, d’ordine del Legato, visitati dai medici e poi rilasciati ed esiliati. Nel nostro Borgo cominciarono a pattugliare e far la guardia i miliziotti locali e le sentinelle erano state messe alle porte del Castello e agli ingressi del Borgo dalla parte di Medicina e della Romagna.

Nel 1680 Massaro fu Francesco Lorenzo Gordini. Podestà il Conte Francesco Carlo Caprara.

I preti della Congregazione, mal contenti delle sentenze patite e dei decreti contrari ma anche della riforma fatta alle loro leggi dallo Scherlatini, per rifarsi contro di lui non vollero più accettare la riforma.  Anzi per ripicca, fecero ristampare la prima versione delle Regole già approvate dal 1657, ripudiando così ogni nova determinazione e non vi cambiarono che il frontespizio.

Vi fu pure replicata la stessa prefazione dell’arciprete Spanochia riprovata dallo Scherlatini.  Infine sono elencati e i nomi e cognomi dei componenti la Congregazione allorché fu instituita e trasferita a Castel S. Pietro.

Antonio Spanochia, arciprete di S. Martino in Pedriolo, Conte Don Alessandro Campeggi, Battista Paulazio, arciprete di S. Lorenzo di Varignana, Sante Poggi, parroco di S. Michele di Casalecchio, Domenico Montanari, parroco di S. Bartolomeo di Frassineto, Cesare Fiorentini, sacerdote, Giovanni Clerico, parroco di S. Maria della Cappella, Alessandro Cuzzani, parroco di S. Mamante di Liano, Antonio Ballotta, parroco di S. Lorenzo di Dozza. Giovanni Ballestrieri di Dozza. Francesco Giuseppe Bicci. Oriano da Dozza. Carlo Poletti da Dozza. Domenico Montorio. Cesare Fabbri, rettore di S. Martino di Monte Calderaro. Iacobo Salvatori. Carlo Cenni, rettore di S. M. della Sellustra. Paolo Celi. Pietro Antonio Garofalo, parroco di S. Biagio di Poggio. Giovanni Maria Minelli. Giovan Battista Mondini. Martino Aquaderni, plebano di Monte Cerere. Lazzaro Ronchi, capellano di S. Antonio della Gaiana. Pompeo Giacinto Manaresi. Francesco Liggio da Mordano. Bartolomeo da Dozza. Giacinto Penserio, rettore di S. Giovanni dei Boschi. Giovanni Grillini, parroco di S. Giorgio di Varignana.

A questa novità non si sbigottì punto l’arciprete Scherlatini anzi con maggior impegno ed energia proseguì gli atti giudiziali contro i suoi avversari.

 Il 20 marzo Lelio Lelli di Dozza, esercente l’arte di pignattaro a Imola dai padri Francescani, desiderava esercitare qui il mestiere. Domandò alla Comunità la licenza di costruire una fornace di pentole presso casa sua, vicino alle mura dalla parte di levante. La Comunità annuì a condizione che non fosse danneggiata le pubbliche mura. Tanto eseguì e riuscì perfettamente. Questa è la prima fornace da terra cotta che troviamo costruita nel paese. Durò a funzionare fino al 1780, quando Ercole Bergami, che aveva acquistato la casa da Francesco Galavotti, successore dei Lelli, distrusse tutto l’edificio vecchio facendone uno nuovo per la stessa attività.  Ma poi si pentì, non eseguì più altro ed il paese è rimasto privo di questa manifattura locale.

Era ridotto a così poco numero dei consiglieri che fu necessario ricorrere al Senato per la nomina di nuovi soggetti. Furono questi: Vincenzo Nicoli, Domenico Bartolucci, Clemente Righi, Carlo M. Comelli, Andrea Fiegna, Santino Ronchi, Lorenzo Bertuzzi, Giovanni Rinaldi, Sante Landi, Nicolò Gattia, Francesco dall’Oppio ed Antonio Zoppi, Il 18 marzo fu presentata la lista all’Assunteria di Governo e furono da questa abilitati al governo.

 A motivo delle grandi nevi cadute nello scorso inverno aveva patito molto danno la chiesa e convento di S. Bartolomeo. I Padri Agostiniani ricorsero alla Comunità per essere sussidiati e, quantunque fossero possidenti di terreni e case, la Comunità per i gravi danni patiti, gli somministrò cento lire, somma in questi tempi rilevante e considerevole. Fu anche alleggerito il numero dei padri e vennero ad abitare nel convento solo padre Giuseppe Reversi priore, padre Agostino Soprani vice priore e padre. Bernardino Maggi con un solo converso che serviva per ogni bisogno.   

Il primo luglio 1680 entrò Massaro Francesco Vanti e Podestà fu il cavaliere Filippo Carlo Fontana.

Il 20 luglio Il cardinal Giacomo Boncompagni venne a Castello per la visita pastorale e la Cresima. Alloggiò presso lo Scherlatini nella canonica ove gli fece molte attenzioni. In tale circostanza i francescani si presentarono al Cardinale e lo pregarono di concedere la grazia di fare la processione colla loro statua di S. Antonio per il Borgo e Castello senza l’intervento del clero secolare. Questi annuì, sempre che l’arciprete acconsentisse. Questi interpellato favorì la petizione offrendosi di dare l’assenso per sé e suoi successori negli atti di un notaio del foro vescovile. Tale generosità eseguì poi in gratitudine dei servigi che questa famiglia religiosa prestava agli infermi e ai moribondi.

In seguito dell’assenso ottenuto i frati ne fecero incidere la memoria in una lapide in marmo nero che fu collocata a fianco dell’altare di S. Antonio da Padova in questa loro chiesa. Da lì fu levata dal Padre Giuliano Giuliani da Bologna, già confessore del card. Legato Fabrizio Serbelloni, che gli fu sempre protettore. Questo gli permise di fare tante pazzie in questo povero convento che se ne risente ancora.

Il 24 dicembre, vigilia di Natale, si vide, come pure molte altre notti verso ponente dalla parte montana, una grandissima cometa in aria, colore pallido con coda come di cavallo. Gli astronomi la calcolarono lunga 5.900 mila miglia, situata nel cielo di Mercurio.

Cominciato poi l’anno 1681 entrò Massaro Clemente Righi, Podestà fu il Marchese Filippo Barbazza.

Il 25 gennaio morì Don Antonio Galeazzo Graffi di Castel S. Pietro, essendo parroco di Rignano.

Il 18 febbraio, ultimo di carnevale, accadde una gran lite fra i Benetti e i Magnani, famiglie manesche del paese, a motivo di amori. Seguirono archibugiate per lo spazio di due ore ma nessuno perì.

Il 27 marzo, domenica di Passione, in cui si doveva fare la processione col Cristo della Compagnia del SS.mo scoperto, fu impedita da una grossa neve che fioccava fortemente e si diede solamente la benedizione al popolo.

Il 6 aprile, giorno di Pasqua, fu un tale freddo e gelo per cui cadevano le persone e non si riusciva a stare in piedi così si ebbero lussazioni e fratture di ossa.

Il 29 maggio, festa delle Pentecoste, la Compagnia di S. Caterina si portò processionalmente alla visita della B. V. del Lato nel comune di Monte Calderaro per chiedere la grazia dell’allontanamento della influenza pestifera nei corpi umani e nei bestiami. Il male nei bovini era nella bocca e si chiamò cancro volante. Gli veniva sotto la lingua e in poco tempo morivano. Lo si curava con un rimedio di sale, rosmarino, salvia, aceto ed olio. Simile male si ridiffuse nel 1748 e fu guarito usando lo stesso rimedio.

A Nicolò Comelli, uomo facoltoso, era morto il suo unico figlio di nome Aurelio. Per questo motivo rifece il suo testamento, fatto l’anno precedente, nel quale fece eredi i discendenti della sua sorella maritata al dott. Giacomo Laurenti. Quando questi fossero estinti i beni sarebbero andati all’altare del Cristo e S. Andrea nella cappella del Rosario con obbligo di cinque messe ogni venerdì  in perpetuo.

La famiglia Laurenti si è estinta nel 1778 e la eredità, consistente in una casa posta nella via di Saragozza di sotto presso il già palazzo Malvezzi, una casa a Bologna nella via di Cartoleria vecchia, in un luogo nel comune di Casalecchio de Conti di sopra di semente annua corbe 6 ed in un altro piccolo luogo sopra S. Lazaro di semente corbe 3.

Nel mese di maggio vennero a Castel S. Pietro le missioni dei gesuiti, capo dei quali fu il Padre Paolo Segueri, celeberrimo oratore, e durarono dal 20 fino alla fine di maggio con molta edificazione del popolo.

Nel giorno primo di luglio 1681 entrò Massaro Francesco Vanti, avendo rinunciato Sante Landi e Vincenzo Nicoli. Podestà fu Giovan Battista Cinzi.

L’8 ottobre Girolamo Galli di Castel S. Pietro unitamente con Agostino Mariotti lucchese furono impiccati a Bologna.

il 18 ottobre, giorno di S. Luca, fu pubblicato un Giubileo universale per avere l’aiuto divino nelle presenti circostanze di epidemia.

Morì in Roma in questo tempo il dott. Nicolò Comelli di Castel S. Pietro, legale di grido, addottorato in quella Sapienza. Fu cugino dell’accennato Comelli.

Il 30 dicembre Giovan Battista Fabbri fu fatto sergente della compagnia dei cavalli comandata da bolognese Costanzo Zambeccari.

In questo tempo nella chiesa dell’Annunziata nel Borgo fu esposto, nella cappella prima dedicata a S. Carlo, il quadro dei santi Giuseppe e Pietro dipinto dal giovinetto Paolo Gavoni di Castel S. Pietro. Questa cappella era giuspatronato della famiglia Calanchi estinta nel 1786 in Giovanni Alessandro che instituì erede sua moglie Barbara Cerè. La eredità consisteva in una casa posta nella via corriera di questo Borgo. Al suo altare pesa un obbligo di una messa ebdomadaria (settimanale) per cui è ipotecata questa casa.

L’anno seguente 1682 investì la carica di Podestà il Conte Ottavio Piatesi, Massaro fu Lorenzo Gordini per la rinuncia di Domenico Bartolucci.

Il 4 gennaio fu ucciso in Borgo in una rissa Giovan Battista Matarini.

Proseguiva la lite fra l’arciprete e la congregazione. Questa rifiutava di mostrargli quel rispetto che gli si doveva. Di conseguenza lo Scherlatini intimò la espulsione dalla chiesa dell’Annunziata. La questione stava degenerando in modo scandaloso per ciò si interposero le autorità e fu convenuto un accordo che sarà esposto a suo tempo.

Carlo Davia, nobile bolognese, capitano di fanteria destinato al Piemonte contro i francesi, bisognoso di gente ne assoldava dove poteva. A Castel S. Pietro se ne assoldarono molti, fra i quali Ercole Pirazzoli, Alessandro Ruggi, Matteo Zoppi, Tomaso Rineri ed Antonio Lelli, detto il Bravo, che si fece loro capo.  Tutti questi erano contumaci di giustizia che così si assicurarono la loro vita.

La fonte della Fegatella era bisognosa di ristoro e nell’aprile fu accomodata a spese della Comunità.

Il 25 giugno morì il Vicario Generale di Bologna mons. Domenico Ridolfi.

Era usanza che in chiesa, quando si univano in matrimonio due persone, uno dei parenti, oppure chi aveva trattato il matrimonio, metteva un nastro rosso sulla spalla degli sposi. Questo veniva annodato davanti e così restavano legati i coniugi fino a dopo la benedizione del parroco. Questo costume era praticato dai villani e dalla povera gente. In questo mese di giugno avvenne che, sposandosi Diamante figlia di Pier Paolo Toschi con Giovanni Dovesi di Dozza, questi vedendosi fare il nodo col nastro, se lo sciolse con disprezzo e lo gettò via prima che l’arciprete facesse la funzione. Ciò fece nascere non piccolo scompiglio nel parentado. Lo Scherlatini discese dall’altare e, con la benedizione agli sposi, fece tutto terminare. Da questo fatto nessuno usò più tale vanità che al dire de villani, rappresentava il giogo maritale.

Il primo luglio 1682 entrò Massaro Domenico Battisti, Podestà fu Cesare Giuseppe Marsigli.

Il 10 luglio, crescendo il sospetto di contagio che minacciava il goriziano, si posero le guardie alla città ed ai luoghi murati del contado. Furono perciò ordinate orazioni di penitenza che si eseguirono prontamente.

I Cappuccini si distinsero colla disciplina, i Minori Osservanti colle processioni a piedi nudi visitando le sette chiese del paese e poi per otto giorni alla sera la benedizione col Venerabile. Lo Scherlatini non si scostò dal suo ministero e fece per tre giorni continui l’esposizione del SS.mo all’altare del Rosario. Le compagnie ogni sera assistettero col clero alle funzioni. Gli agostiniani fecero essi pure un triduo al loro taumaturgo da Tolentino.

Dopo poco tempo che si era celebrato in Spagna il Capitolo generale dei M. O., il Rev.mo P. Francesco M. Nicoli da Castel S. Pietro, che si trovava nel regio Convento di S. Francesco a Madrid, terminò i suoi giorni nel mese di luglio e fu sepolto onorevolmente in quella chiesa.

È da notare a questo punto una discordanza sul giorno della sua morte. I frati di questo convento di S. Francesco la segnano il giorno 10.  Flaminio da Parma nelle sue Memorie Franciscane di Bologna lasciò scritta la sua morte al terminare di questo mese e così scrisse della sua carriera. Il P. Francesco Maria Nicoli da Castel S. Pietro, già dichiarato anco cittadino di Bologna e Cremona, fu pregiato da tutti per le scienze che possedeva, eletto Consultore de Riti, qualificatore della Suprema Inquisizione non solo in Roma, ma anco nella Spagna, celebrato ovunque per la probità e prudenza, governò con somma lode la Provincia di Bologna della quale fu eletto ministro generale nel 1668. regolò saggiamente tutti li ardui affari dell’Ordine del quale nel 1670, nel Capitolo Generale di Vaglidolid fu eletto Pro.re generale. (…) piaque a tutti li P.P. elettori di promuoverlo al grado di Comissario generale di tutta la cismontana familia. Per la somma prudenza, dottrina. moderazione reso chiarissimo non che in Italia ma egualmente nella Spagna, caro a quella Corte catolica presso cui li convenne rissiedere e da quella consultato ed impiegato in ardui affari, morì pieno di meriti in Madrid li 30 lulio del 1682, vivendo perenne nella memoria de posteri per le sue gesta e rade virtù.

Lo stesso Flaminio racconta che la sua morte fu accelerata dalla tensione d’animo provata per la malignità dei suoi avversari, che avevano sparsa la voce che si era millantata la porpora cardinalizia mediante la protezione del sovrano di Spagna. Sarebbe stata tanta la sua speranza che avrebbe preparato prima i suoi stemmi e il capello cardinalizio. Il Papa poi aveva cambiato la sua propensione e aveva defraudato le sue aspettative. Per questo fu preso da una tetra malinconia che lo portò alla morte. Noi non crediamo a questa storia poiché ci pare inverosimile.

Finalmente, appurate le differenze che vertevano fra lo Scherlatini e la Congregazione del Suffragio dei preti per la questione della chiesa della Annunziata, fu stabilita una convenzione, che fu stipulata 12 ottobre a rogito di ser Filippo Carlo Medici. Questa stabiliva che i preti rientrassero in detta chiesa, in qualità di Congregazione e non mai sotto altro titolo. Se volevano partire per trasferirsi altrove, lo potessero. Che se l’arciprete voleva di nuovo, per qualunque ragione, espellerli da detta chiesa lo potesse fare. Infine che detta concessione non potesse mai creare rinuncia ai diritti parrocchiali ma siano sempre salvi ed illesi. Quanto poi ai Capitoli della Congregazione, per cui nacquero tante questioni, furono concordemente riformati e stesi latinamente da Don Paolo Baldi, arciprete di Pizzocalvo e stampati l’anno 1692.

Composte queste vicende fu ordinata la visita pastorale per prossimo novembre dal card. arcivescovo di Bologna. Il 17 mattina arrivò il canonico Giovanni Ridolfo Caprara deputato Visitatore generale. Questo è l’elenco di tutti gli obblighi che hanno le chiese del paese verso la parrocchia che qui annotiamo per lume della posterità.

I P.P. Gesuiti di Bologna, come eredi Morelli, sono tenuti far celebrare tre messe all’altare di S. Lucia e celebrare la festa di S. Ignazio, S. Francesco Saverio e S. Lucia con 10 messe per ciascuna festa e più un Anniversario coll’intervento di tutti i Sacerdoti che sono e saranno in Castello.

La familia Comelli al suo altare, che è posto nella Cappella del Rosario alla destra dedicato a S. Andrea e Pietro, ove c’è il bellissimo Cristo dipinto a guazzo da Pietro Faccini, è tenuta alla celebrazione di una messa ogni venerdì come da rogito di Guido Zanetti not. di Bologna.

I confratelli di S. Caterina e del SS.mo SS.to sono tenuti a due messe la settimana ai loro altari ed a quello del Rosarioe una all’altare della Compagnia larga.

La d. Compagnia di S. Caterina è tenuta oltre le dette due messe a far celebrare un Anniversario con 10 messe per il fu Gaspare Gottardi come per rogito di Lorenzo Domenichi nel 1657 e in più a mantenere l’Ospitale dei Pellegrini.

Nell’oratorio della SS. Annunziata del Borgo detta del Suffragio c’è l’obbligo di una messa la settimana per rogito di Filippo Carlo Medici l’anno 16 (…).

Il Rettore del Beneficio Semplice di S. Pietro, fondato nell’Oratorio dedicato a d. Santo nel Borgo, 10 messe alla sua festa più una messa ebdomadaria.

All’Oratorio di S. Giacomo al ponte Sillaro 4 messe alla sua festa nel primo di maggio.

 Compiuta questa visita il 20 novembre partì per Bologna.

In quest’anno fu terminato il bello nonché singolare organo grande della chiesa di questi francescani, manifattura del Bersani essendo guardiano locale il P. Orazio Fabbri di questo paese.

Nel dì primo gennaio 1683 entrò Massaro Benedetto Fiegna, il Podestà non ci è noto.

Il Turco aveva fatto grandi preparativi d’armi con 140 mila combattenti ed era già passato negli stati dell’impero per poi invadere gli stati pontifici[124].  Il Papa, che ben giustamente temeva la sua potenza, ordinò che in ogni dove dei suoi stati si facessero orazioni e si evitassero i bagordi, perciò furono sospesi i divertimenti carnevaleschi e furono sostituiti dalle penitenze.

I primi che a Castel S. Pietro ne dettero il segno furono gli agostiniani di S. Bartolomeo che al terminar del carnevale, fecero nella loro chiesa la solenne esposizione del SS.mo in suffragio delle anime purganti onde intercedessero dal Signore l’aiuto contro i nemici della Cristianità.

Il 13 aprile, domenica di Passione, visti i progressi che facevano le armi ottomane nell’Ungheria, si fece una solenne processione di penitenza col Cristo della Compagnia del SS.mo.

Questa miracolosa immagine fu, secondo il costume, portata il sabato sera nella arcipretale ed esposta al pubblico culto. La domenica mattina vi si celebrarono davanti molte messe. Il dopo pranzo poi, venuto il tempo della processione, si presentarono alla parrocchiale le tre religioni del paese in forma, le ultime due cioè minorita e cappuccina erano coi piedi scalzi, capestro al collo e recitavano con voce dimessa e senza canto il Miserere. A tale esempio la Compagnia di S. Caterina con quella del SS.mo, si presentarono col capo coperto col cappuccio e la cappa disciolta dalla cintura fino ai piedi, il piede nudo e con la palma in una mano e la disciplina nell’altra.  Non portavano lo stendardo ma la sola croce incoronata di spine. Con voce lugubre, recitavano il Miserere al suono della settimana Santa e, alla fine di ogni versetto, replicavano Misere nostri Domine.

Si staccò poi la processione dalla parrocchiale col Cristo, proceduto dalle compagnie, poi tutte tre le fraterie, il corpo comunitativo e il clero secolare.  Andò al Borgo e si fermò a capo della strada a levante, cioè al Portone, L’arciprete Scherlatini benedì con quattro segni di croce la quattro parti del mondo.

Ciò fatto si andò all’altro capo del Borgo a ponente verso Bologna e si fece lo stesso. Ritornati in Castello ci si incamminò al portone dei francescani e qui si eseguì lo stesso. Poi si proseguì per il Castello verso la porta superiore detta Montanara. Quando si giunse al recinto dei P.P. agostiniani si trovò qui un altare innalzato con padiglione a lutto. La S. Immagine qui si fermò e fu ricevuta da questi religiosi con lumi e molti uomini che erano della recente Unione del Suffragio eretta nella loro chiesa. Fu intonato l’inno Veni illa, terminato il quale, la processione fu condotta alla porta grande del Castello ove l’arciprete dette la benedizione nel modo di prima.  Quindi si venne alla piazza pubblica ove, su un alto palco, l’arciprete fece un tenerissimo sermone che, commosse i cuori più duri. Non si sentiva in seguito gridare altro che: Misericordia Dio! Misericordia!  fra pianti.  Fu innalzata la S. Immagine e ribenedetto il popolo, poi la stessa fu tostamente portata alla sua residenza.

La sera dopo l’ora di notte, invitati i confratelli e chiunque altro avesse voluto intervenire, l’arciprete fece la Meditazione della Passione terminata la quale seguì la disciplina per tutto il di tempo che fu recitato il Miserere.

Il 18 aprile si ebbero notizie che il Turco veniva contro Vienna con grande perdita di Cristiani.

Il Papa per il grande timore ordinò un Indulgenza plenaria a tutti i fedeli perché, confessati e comunicati, visitassero nelle parrocchiali il SS.mo che doveva stare esposto per 40 ore al fine di preservare le provincie cristiane dall’armi ottomane e liberare l’Ungheria assalita. Perciò la domenica seguente, che fu il primo di maggio, si fece la esposizione del Venerabile nella parrocchiale di questo luogo per tre giorni che, essendo festivi, permisero un gran concorso inoltre ogni sera si dette la benedizione al popolo.

A questa adorazione tutte le sere vi intervennero le tre fraterie e le altre due compagnie cappate.

Lelio Lelli, che era ritornato a casa dalla guerra ferito, morì in casa propria di anni 80, fu detto volgarmente il Bravo, perché fu tale durante la sua vita, servì lungamente da sicario i Pepoli di Bologna, i Sagrati di Ferrara ed altre famiglie nobili, fu finissimo negli stratagemmi e nemico acerrimo degli sbirri.

Lunedì 20 maggio si fecero le solite rogazioni con la Immagine di Poggio.  Il giorno della Ascensione, che fu il 13 giugno, al momento della benedizione al popolo nella piazza nacque uno scompiglio con armi da fuoco a motivo di rancore fra i Gallanti di Fiagnano e i Peggi di Corvara. Questi gridando alla gente Abbasso! Abbasso! la obbligarono per terra per evitare le archibugiate.

Dovette perciò l’arciprete, il clero e le fraterie aspettare l’esito dello scontro. Giulio Alberici, uno della Compagnia di S. Caterina prese con coraggio lo stendardo di mano a quello che lo portava e finse di volere andare via. Quando fu vicino alla rissa infrappose lo stendardo contro la faccia dei Peggi in modo che essi, non potendo vedere i Gallanti, né questi gli altri, si fermarono. Si alzò poi tutto il popolo gridando: Ferma! ferma! Finì tutta la tragedia e nessuno restò leso dalle pistolettate. Quindi si portò la S. Immagine al Borgo ove si diede la benedizione destinata alla piazza.

Il primo luglio 1683 entrò Massaro Nicolò Gattia e Podestà il Conte Nicolò Ariosti.

Oltre le vicende bellicose tra il Turco e la Cristianità aumentò ancora l’epidemia nei bovini onde convenne alla Comunità porre le guardie ai confini.

Il Turco era avanzato fin sotto Vienna con un poderoso esercito. L’imperatore Leopoldo[125] fu costretto a fuggire con tutta la famiglia da quella capitale. Il Papa che poco poteva assisterlo colle forze umane ma solo colla forza spirituale intimò un Giubileo Universale per tutta la Cristianità con amplissime indulgenze plenarie per acquistare le quali ordinò che la sera, al segno dell’ora di notte e con i suoni delle campane, si dicessero cinque Pater e cinque Ave al Signore e Maria per la umiliazione del comune nemico.  Ciò fu eseguito ovunque. Oltre ciò ordinò ancora altre Processioni di Penitenza.

A Castel S. Pietro incominciarono il 2 agosto e in otto giorni continui le corporazioni e il popolo visitarono le sette chiese del paese.

 Finalmente, dopo tante preghiere e devozioni, il Signore ascoltò il suo popolo e il 18 settembre giunse la fausta notizia che il Turco era stato battuto, cacciato in fuga e liberata Vienna[126]. Aiutato da Dio il valoroso Principe Eugenio Duca di Lorena con una finta mostra di numerosi soldati e con una coraggiosa sortita da Vienna, dette battaglia al nemico e lo cacciò in fuga e lo disperse[127]. Si fecero perciò festeggiamenti in tutta la Cristianità.

 La Compagnia del SS.mo unita alla Comunità e clero secolare, dopo una esposizione del SS.mo nella parrocchiale, invece di cantare l’Inno ambrosiano, cantò il Laude Jerusalem e la sera si fecero fuochi di gioia.

 La gioia del paese si accrebbe poi il giorno 4 ottobre, in cui si fece per la prima volta la solenne esposizione della nuova immagine in rilievo del SS. Rosario che lo Scherlatini aveva fatto fare a Lucca.

Il priore di questa pia Unione o sia Compagnia Larga Ventura Ricardi e il depositario Giuseppe M. Mondini, fecero in questa occasione stampare un opuscolo di lodi, che fu dedicato al Marchese e Senatore Tomaso Campeggi col titolo: Assetti diversi nella solenne processione del SS. Rosario in Castel S. Pietro pubblicati per le stampe di Giuseppe Longhi.

La processione fu condotta per il Borgo e Castello dalle due compagnie cappate del SS.mo e di S. Caterina, che portarono alternativamente sulle spalle la nuova S. Immagine, poiché la Compagnia Larga del Rosario non aveva alcuna uniforme ed era composta di persone dell’uno e dell’altro gruppo. Terminata la processione si diede colla nuova S. immagine per la prima volta la benedizione nella piazza.

Per la vittoria ottenuta contro il Turco ogni diocesi, su invito pontificio, fece i dovuti ringraziamenti. L’arcivescovo di Bologna ordinò a tutti i luoghi pii della città e diocesi di cantare una messa ed officio di requie per le anime di tutti i Cristiani morti nella guerra contro il Turco. Così a Castel S. Pietro alla fine di ottobre si eseguì l’officio in tutte le chiese che furono apparate a lutto, facendo precedere la sera precedente il sono lugubre di tutti i sacri bronzi.

1684 – 1685. Vienna assediata dal Turco. Grandi festeggiamenti e processioni per la liberazione di Vienna. Castellani col generale Caprara in Ungheria contro il Turco. Marchione Fabbri pianta la bandiera sulle mura di Santa Maura. Fatto di sangue in Borgo, morte di un giovane imolese e due donne. Scontro con i Massari dell’Arte di Bologna da parte dei canapini di Carlo Rondoni.

Il primo gennaio 1684 intraprese il ministero di Massaro Domenico Menghini e Podestà estratto fu il cavaliere Giovanni Andrea Davia. Agli affari comunitativi entrò per Presidente il senatore Conte Giuseppe Malvasia.

Il 24 gennaio, con pianto di tutta la città e diocesi, finì la vita il card. Giacomo Boncompagni, principe di eterna memoria, di anni 63 e 20 di cardinalato. Il giorno seguente se ne diede in Castel S. Pietro il consueto segno colle campane di tutte le chiese. Fu creatura di Alessandro VII. Lasciò eredi gli Ospitali della Vita e della Morte.

Nel seguente febbraio, proseguendo il Turco a danneggiare la Cristianità, furono ordinate nuove orazioni e digiuni. Le Immagini più miracolose furono scoperte e poste alla pubblica venerazione.

Questo mese di gennaio fu copioso di nevi, di geli oltre misura e di freddi acutissimi che cagionarono infiniti mali.

Il 31 marzo, venerdì Santo, la Compagnia di S. Caterina era solita fare la sua funzione del Cristo deposto dalla croce sul cataletto. Poiché aveva terminata la sua cappella grande all’altar maggiore, mentre in passato officiava in cornu evangeli presso il campanile, aveva formato in questa un mausoleo come sepolcro di Cristo. La Compagnia poi fece la sua solita processione col Cristo deposto sul cataletto terminata la quale lo Scherlatini, con due sacerdoti vestiti di semplice camice, si incamminò alla detta cappella e qui fu deposta la figura nell’avello che fu poi chiuso. Si fece l’adorazione del clero poi dai confratelli. La funzione riuscì devota e di gran concorso. Quella cappella ora serve da sagrestia.

La domenica di Pasqua poi si vide nella stessa cappella sopra la pedana la figura grande al naturale del Salvatore con bandiera in mano, significante la resurrezione. A questa figura correvano le persone a baciarle i SS. piedi. Questa rappresentazione del Salvatore vestito di bianco è proseguita per lungo tempo fino ai giorni del governo dell’arciprete Bertuzzi.

È da notare che in questa cappella per le feste natalizia si faceva il presepio. Purtroppo per preparare la capanna e lo sfondo, la scempiaggine e l’ignoranza delle persone faceva si che talora si piantassero piccoli chiodi nel bel quadro lì appeso di Gaspare Fontana su cui si vedono ancora le cicatrici. Questa usanza di piantar chiodi in quadri dipinti è invalsa a tal segno che si rovinarono, purtroppo anche nella città, opere bellissime appendere corone d’argento, voti ed offerte alle figure rappresentanti quel santo a cui si prestava maggior fede.  

Il reggimento del generale Caprara[128], che avevano combattuto contro il Turco nella Strigonia[129] e in Germania mancava ora di militari. Il card. Legato ordinò di reclutare uomini. Da Castello furono assoldati i seguenti giovanotti, tutti di buona complessione e forza: Pietro Bonetti, Giulio Castellari, Mariano e Giacomuccio Sarti, Francesco Amaduzzi, Tomaso Lasi detto Masone, Annibale Feliciani detto Caletto, Girolamo Costa detto Moromone, Filippo Magnani detto Tripone, Pietro Martelli, Agostino Bernardi, Giuseppe Giacometti, Antonio e Marco Zogoli detti i Barboni.  Questi andarono a Bologna sotto il comando del capitano Fabbio Guidotti impiegato al servizio di Venezia e da qui poi passarono in Germania. Oltre questi soggetti andarono il capitano Valerio Fabbri e suo fratello Marchione, che già militava in qualità di ufficiale ai stipendi dei veneziani. Condussero con loro Filippo Nanini, Bartolomeo Bartoletti, Enea Tesei, Riniero Andrini, Antonio Morandi, Pietro Andrini, Carlo Lasi detto Paoluccio, Arcangelo Beltramelli detto di Orsoletta, Pippo Albruni detto Malapelle, Nicola Pirazzoli che mai più rimpatriarono.

Il 25 giugno Filippo Carlo Medici, notaio collegiato e giusdicente in Castel S. Pietro, morì e fu sepolto in S. Bartolomeo poi tutta la sua famiglia, che qui si era stabilita, se ne tornò alla città.

Perché il Pretorio di questo luogo, ove era anche la scuola pubblica e le abitazioni degli altri ministri che servono la giustizia, era in male stato, il senatore conte Giuseppe Malvasia, deputato alla soprintendenza degli affari di questa Comunità, fece fare i necessari ristori e ampliò la scuola pubblica nelle altre abitazioni.

Per evitare che la fonte Fegatella continuasse ad essere danneggiata dagli scapestrati che la frequentavano

 fu fatta riattare dalla Comunità e si cominciò a lasciare la chiave di quell’edificio in mano del presidente conte Malvasia.

Giunto il mese di luglio entrò Massaro Biagio Sgarzi e Podestà il senatore Mario Casali.

 Marchione Fabbri, che era passato con i suoi compatrioti nel reggimento dell’Ecc.mo Giuseppe Morosini[130], capitano veneto, che guerreggiava per la sua Serenissima Repubblica, andò all’assedio dell’isola di S. Maura col capitano Camillo Graffi. Qui fu posto l’assedio, ma non volendosi arrendere gli assediati, si cominciò a bombardare. Fatta una breccia si andò all’assalto. Marchione, che era stato assoldato come alfiere, riuscì a piantare sulle mura la bandiera. Avanzarono gli altri militari e si impadronirono di quella piazza.

Marchione Fabbri sperava di avere un riconoscimento per questa sua impresa con una promozione nel grado. Ma il Morosini deluse la sua aspettativa poiché solo gli offrì cento zecchini. Marchione non era uomo venale, né bisognoso di sostanze essendo di famiglia facoltosa, e quindi rifiutò l’offerta aggiungendo che militava per l’onore e non lo vendeva per denaro.

Dispiacque tanto a Marchione questo fatto che poco dopo disertò portando con sé la bandiera veneta. Con questa, legata di traverso alla persona, tornò nuotando sulla terra ferma e quindi tornò in Patria.

Questa bandiera è stata lungamente conservata nella casa dei Fabbri. Lo stesso Marchione in occasione delle pubbliche funzioni, la esponeva alle sue finestre come tappeto ornato d’oro.

Alla morte di Ginevra Fabbri la eredità passò in mano del dott. Annibale Bartolucci pronipote di Marchione.

Il 28 ottobre il card. Girolamo Guastaldi era stato chiamato a Roma. Fu accompagnato da molta nobiltà e nel partire gettò gran danaro alla plebaglia che gli gridava dietro. Prima di abbandonare la città graziò circa 300 persone. La stessa sera arrivò a Castel S. Pietro ove pernottò in casa Locatelli a motivo della pioggia.  Infatti si era avuta notizia che il fiume d’Imola era in piena e non si poteva transitare. Chi lo accompagnò fino a qui furono il Conte Giovanni Gaspare Grassi e il marchese Enea Magnani senatori.

Il 13 novembre venne il nuovo Legato card. Antonio Pignatelli, napoletano vescovo di Faenza.  Fu incontrato al nostro confine ove, in una baracca di assi apparata di damasco, fu ricevuto dai senatori Conte Francesco Caprara, Marchese Tomaso Campeggi, con essi erano il Conte Giuseppe Caldarini, Camillo Zambeccari, Matteo Malvezzi e Franciotto Tanara. Fu introdotto poi in Castello, fu trattato nel palazzo Locatelli, la sera partì per Bologna.

Il 12 dicembre Luca Romagnoli detto Bisacchino da Castel S. Pietro ma originario imolese fu giustiziato per bandito capitale per le archibugiate sparate a Giovan Battista Galli di Budrio il 19 settembre. Costui non si volle mai quietare fino alla morte dicendo spesso che per esso la giustizia era molto rigorosa a diversità di altri.

Il Massaro dell’anno seguente 1685 fu Domenico Minghini per il primo semestre, Podestà fu Gian Giacomo Gualandi.

Paolo Toschi, unico rampollo della sua antica famiglia, aveva una piccola casa posta in via dei Pistrini aderente al terrapieno del Castello presso la mura a ponente. Per liberarsi dei disturbi e del disordine che aveva dietro casa chiese alla Comunità la facoltà di chiudere questo angolo di terrapieno mediante una siepe e di congiungersi alla mura che avrebbe riparata. La Comunità partecipò al sopraintendente senatore Malvasia la istanza che fu riconosciuta ragionevole. Così restò chiuso il terraglio del Castello dalla parte di ponente nell’angolo inferiore. Questa casa poi passò, con altri edifici vicini, in proprietà della mia famiglia. 

Facendosi il carnevale a Bologna e passando da questo Borgo persone dirette alla città, il giorno 17 gennaio accadde che il nobil uomo Angiolo Pantalioni imolese si trovava alla locanda del Portone per andare ad Imola. Passò una carrozza dove erano donne che appunto andavano a questa città in compagnia di altro imolese.   Il Pantalioni avrebbe voluto entrare nella carrozza, ma si oppose l’altro con le donne. Ne nacque un diverbio che degenerò in alterco e rissa e furono sparate varie pistolettate. Fu ferito a morte il Pantalioni, giovine d’anni 28, e ferite a morte le due donne col loro compagno. Furono subito perciò trasportate ad Imola ove finirono la vita e il Pantalioni anch’esso in breve terminò i suoi giorni. Nel Borgo nacque non poco tumulto, poiché anche dei paesani restarono disgraziatamente offesi.

Il 23 gennaio Riniero Andrini di anni 42, uomo facinoroso, fu ammazzato da un’archibugiata in questa sua patria. La sua discendenza è quella che presentemente esercita l’arte di macellaio. La sua discendenza si chiama volgarmente, per distinguerla dalle altre di simile cognome, i Rinieri.

Perché il Turco continuava ad avanzare sotto Buda e Pest contrastato dagli imperiali, il Papa fece nuovamente pubblicare una Indulgenza plenaria in forma di Giubileo a chi, comunicato e confessato, visitasse per tre giorni le Basiliche della città e nella diocesi le chiese indicate dall’Ordinario.

Furono a Castel S. Pietro destinate, oltre la parrocchiale, le altre tre chiese di S. Bartolomeo, di S. Francesco e dei Cappuccini.

La chiesa degli Agostiniani locali era solamente coperta a mattoni all’uso delle fabbriche gote e appariva di brutto aspetto. Il Priore del convento Padre Alessandro Agostino Gualtieri premurò che l’altare maggiore fosse soffittato.

La prima domenica di Quaresima che fu l’11 marzo venne nel Sillaro una orribile piena che, trasportando ghiacci e nevi dal monte, allagò le fronteggianti campagne coprendole di lezza (fango) e i seminati furono tutti rovinati.

Venerdì 30 marzo, durante il carnevale, arrivò a Castel S. Pietro un nobile di Tolosa diretto a Roma dal Papa.  Questo incontrò il SS. Viatico che si stava portando a Bologna ad un infermo. Non si volle togliere la maschera dalla faccia come avevano fatto gli altri suoi compagni. Giunto alla propria abitazione credette di potersi levare la maschera dal volto ma non ci riuscì. Si era attaccata in guisa che nemmeno l’arte medica poté né levarla né tagliarla. Non poteva mangiare, ma solo bere onde continuamente piangeva la sua disgrazia. Presa una piccola bevanda quindi se ne partì subito per Roma.

La piena nel Sillaro aveva tanto battuto l’ala destra del ponte verso ponente che già era cominciata una breccia che minacciava la via corriera. Fu necessario un pronto riparo perciò la comunità ricorse al Governo di Bologna per avere le necessarie provvidenze.

Francesca Maserati del territorio di Dozza era da alquanti anni adagiato in un letto con piaghe sul dorso e l’arte medica non poteva più risanarla. Si fece portare il 31 maggio, che fu il giorno dell’Ascensione, in una carretta nella chiesa della SS. Annunziata in questo Borgo per impetrare da Dio, mediante la miracolosa Immagine di Poggio, la liberazione dal suo male. Quando la S. Immagine fu portata in questa chiesa per levarle gli ornamenti festivi delle Rogazioni per poi, vestita da campagna, trasportarla a Poggio, la povera inferma cominciò a raccomandarsi caldamente a quella S. Immagine. Sciogliendosi in tenerissime lacrime, confortata dai presenti ad avere fede, dette un sospiro ed esclamò: Dio! Dio qual foco è questo che mi consuma le reni! Maria! Maria aiutami! In un baleno balzò dalla caretta e senza alcun aiuto si inginocchiò davanti alla B. V. e si sentì tosto libera.

Sistemata la S. Immagine per il trasporto a Poggio, la risanata si fece dare un lume e con questo volle accompagnare senza alcun aiuto e con stupore di tutto il popolo la B. V. fino a capo del Borgo e ricevere la benedizione che fu preceduta da un devotissimo sermone dell’arciprete Scherlatini. Questo prodigio fu poi stampato in Imola ed in Bologna onde ancora di più crebbe la venerazione per la S. Immagine.

Il 5 giugno nevicò talmente al Monte delle Formiche, a Monte Calderaro, Vedriano ed altre montagnette superiori al nostro Castello, che fu piuttosto tempesta che neve. Nel nostro Castello e Borgo durò a cadere per cinque ore continue, d’onde ne derivò gran freddo ed in conseguenza si provocarono malattie e mortalità. Rovinò tutte le raccolte di quei terreni su cui cadde una tanta intemperia.

Il dì primo luglio 1685 vestì la carica di Massaro Nicola Rondoni e l’altra di Podestà Antonio Giuseppe Marescotti.

Nelle raccolte della famiglia Rondoni, comunicatici dal fu Gaetano Rondoni, abbiamo la seguente memoria che ci piace trascriverla come ce la ha partecipata.

 “Adì 13 Lulio ricordo che vennero in Castel S. Pietro li Collegi di Bologna colli loro Massari dell’Arti e dopo avere visitate le Botteghe di Mangiativa, passarono al Bottegone di Carlo Rondoni nostro cugino fornito di 17 lavoranti. Quivi li Massari colli Mazzieri intesero di catturare per la obedienza, che non avevano, e sopra il modo di lavorare le Canape. Si adirarono li lavoranti e fecesi capo Antonio Topi detto Toparino con Carlo Bogni e dopo avere altercato alquanto il Maziere diede un rovescio sulla faccia di Carlo Bogni. A tale fatto corsero li compagni alli bastoni e punte per vendicarsi ma il Maziere fu lesto e fuggì in chiesa a S. Bartolomeo e li Collegi parte a S. Francesco e parte in S. Bartolomeo per assicurarsi della via contro il popolo che poi si era ammutinato vedendosi vulnerare un privilegio tanto antico, onde essendo quelli inseguiti stettero chiusi tutta la notte seguente per la paura e la mattina andarono a Bologna.

Il Cardinale se ne adirò a tal segno che ne volle fare processo, ma Carlo Rondoni, altro cugino, per scansare ogni colpa, licenziò a vista tutti li lavoranti li quali vedendosi disperati presero le armi per fare resistenza alli sbirri se venivano. Avvisato anco di questo il Legato chiamò a Bologna Carlo Rondoni, il quale temendo di essere poi ivi carcerato non vi andò, ma andò a Imola. Infrattanto cresceva l’ammutinamento delli paesani.

Vennero perciò li sbirri al Castello per pochi giorni con un notaro, ma fattale un’imboscata alla Crocetta andarono alcune archibugiate e fu ferito il cavallo sotto il caporale Bellazzo. Impauriti li altri ritornarono a Bologna e riferirono tutto al cardinale il quale conoscendo che sarebbero seguiti molti altri omicidi, infrapose il Podestà novo Marescotti acciò li mutinati e sollevati chiedessero perdono che più di questo fatto non se ne saria parlato e tanto fu che li Collegi stettero molto tempo dopo a venire.”

Il cimitero pubblico della arcipretale di Castel S. Pietro aveva il muro di cinta in alcuni punti, per la sua antichità, aperto e mal difeso.  Non mancarono i nemici dello Scherlatini ad aizzare i malcontenti affinché lo attaccassero. Saputo ciò immediatamente cominciò a farlo riparare a proprie spese e così deluse i suoi avversari.

Intanto era sempre minacciato il ponte nella via corriera sopra il Sillaro poiché la corrente avevano rotto alcune difese laterali.  Fu fatto ricorso al Governo di Bologna onde prevedesse al disordine. Fu fatta fare la visita all’architetto pubblico e si mise in agosto mano al lavoro che fu terminato nel seguente settembre,

L’8 settembre Andrea Bartolucci vestì l’abito cappuccino e prese il nome di Frate Giuseppe da Castel S. Pietro. Condusse una vita ottima nella religione e morì santamente come abbiamo scritto a parte nel suo elogio.

Il Provinciale degli agostiniani Padre Gian Antonio Bonaveri bolognese venne a Castel S. Pietro in questo tempo assieme all’ex provinciale Padre Sigismondo M. Malvezzi nell’occasione di solennizzare, in questa loro chiesa di S. Bartolomeo, le glorie di S. Nicola da Tolentino. Il Padre Malvezzi, godendo poca salute, stabilì qui per un po’ la sua residenza e godette il beneficio dell’acqua della Fegatella. Fu riformata la famiglia e il priore locale del convento D. Alessandro Gualtieri della cospicua famiglia Gualtieri fu confermato nel suo priorato per il secondo anno con la seguente famiglia: P. Gian Cristomo Fanti, P. Giuseppe Filippo Soprani da Castel S. Pietro, P. Carlo Zoccoli da Castel Franco ed un laico.

1686 – 1689. Don Scherlatini accusato di iscrizione profana dalla Congregazione dei Preti. Storia di Andrea Marocchi. I Capi della Comunità cambiano nome, da Massari a Consoli. Interventi vittoriosi contro i malviventi.

L’anno veniente 1686 entrò Massaro per il primo semestre Domenico Bartolucci che fu l’ultimo che si chiamò col titolo di Massaro, fu Podestà Camillo di Taddeo Bolognini.

Lo Scherlatini dopo avere fatto riparare il cimitero e inalberata la croce di macigno in quello, fece incidere ai suoi piedi il seguente distico ovidiano. 

Tendimus huc omnes, metam properamus ad unam,

Omnia sub leges mors vocat atra suas[131]

Questa inscrizione fu presa in mala parte dai preti della congregazione e suoi nemici. Dissero che aveva fatto incidere ciò per fare loro intendere che essendo morti alcuni di loro, anche i superstiti dovevano subire la stessa sorte. Sollecitati dalla malignità dettero una petizione al Vicario generale di Bologna accusandolo di essere un uomo ostile, satirico e poeta, profano nelle cose cattoliche ed amante più dell’ateismo che delle scritture. Ebbe perciò forti rimproveri dal superiore. In seguito gli fu ingiunto di levare tale profana incisione e sostituire a quella un testo delle scritture. Dispiacque molto allo Scherlatini non già l’accusa ma la conseguenza di dovere sostituire la scritta incisa. Quindi tolse il distico ma non si prestò a sostituirlo con un’altra scritta. Così non essendo ciò di legge altro non si fece.

Il 28 aprile la Compagnia del SS.mo del Finale di Modena, portandosi alla S. Casa di Loreto col suo miracoloso crocefisso, fece qui la sua fermata. La sera fu incontrata dalla nostra Compagnia del SS.mo al confine del comune dove, all’oratorio della Pollicina, fu inalberata la sua S. Immagine. Fu portata processionalmente a Castello e portata in questa chiesa parrocchiale. La mattina seguente, data la benedizione al popolo dal nostro arciprete, si incamminò alla volta d’Imola accompagnata fino al ponte alla chiesa di S. Giacomo ove fu riposta in una cassa.

Raccontano le memorie di Giulio Alberici che Andrea Marocchi, uomo molto facinoroso, si portò il primo giorno di maggio con altri sicari da Castello a Bologna per là spalleggiare la fazione di strada Maggiore e per farsi consegnare il Maglio da introdurre in città.  Qui entrati, armati di archibugi e pistole, vagando per la città si portarono alla casa del nuovo Confaloniere senatore Francesco Rata. Qui c’era chi voleva fronteggiarli, andarono alquante archibugiate e rimasero alcune persone ferite. Gli sbirri non ebbero il coraggio di opporsi e convenne loro battere in ritirata anche perché la fazione di strada Maggiore si era unita al Marocchi e aveva occupato la porta.

Questa bravata temeraria di camminare per la città in gruppo non poteva non spingere la giustizia a cercare di metterlo in carcere. Questo successe dopo poco tempo, quando meno se lo aspettava. Dopo pochi mesi fu condannato e impiccato avendo avuto anche complicità in molti omicidi, segnatamente nelle persone di Antonio Conti e di Francesco Benacci a Bologna.

Dell’origine di piantare il Maglio se ne scrisse già e chi desidera saperne di più si riporti al libro 4 dei Fasti Romani di Ovidio.

Mentre che il Marocchi stette in carcere, dato che non era ignaro di lettere, compose un canto lugubre e vario sulla sua vita, scrivendolo col carbone nelle pareti del carcere ove mostrò che in fine l’uomo perverso termina male i suoi giorni. Fu poi pubblicato per le stampe dopo la sua morte col titolo di: Canto di Marocchio.

Pagato il fio delle sue bravate a Castello fu composto il seguente madrigale sotto il suo stemma che mostrava una colonna in mezzo al mare con un occhio umano sopra

Sopra saldo Obelisco

occhio che osserva in mar ogni periglio

se dalla ragion si chiude e serra

stolto non ha consiglio

poscia che ancor in terra

si incontra egual la sorte

né sa fuggir la Morte

Furono attribuiti questi versi ad Angiolo Quaderni che fu poi reggente agostiniano sotto altro nome. Dopo questa composizione ne fu fatta un’altra ed affissa alla porta della sua casa ed era di questo tenore:

Marochio, che col tuo Occhio vedevi tutto il Mare,

non hai saputo da vicino la Morte vedere ed iscansare.

Perché toccava al Capo della pubblica rappresentanza esercitare anche l’ufficio di accompagnare la squadra armata locale, eseguire i sequestri, inseguire i malviventi e fare tanti altri ministeri necessari al Governo questi incarichi erano poco convenienti ad uno che doveva essere il rappresentante primario della popolazione. La Comunità ricorse perciò al Governo di Bologna perché decretasse che le veci di Massaro[132] si facessero da una terza persona fuori del Consiglio per evitare tanti pericoli ed assurdità che potevano nascere. Il 30 maggio uscì il decreto che ordinava che da qui in avanti tutti i Capi della Comunità fossero chiamati non più Massari ma Consoli.

 Il 24 giugno si fece, dalla imborsazione dei pubblici rappresentanti, la estrazione del nuovo Capo comunitativo che fu Nicolò Gattia ed intraprese il primo luglio 1686 la carica col nome di Consolo. Per il secondo semestre Podestà fu il dott. Giovan Battista Pelligoni.

Avutasi la notizia della presa di Buda[133] si fecero in ogni luogo ringraziamenti a Dio e festeggiamenti. In questo nostro Castello si solennizzò nella chiesa dei francescani mediante solenne Te deum a richiesta dell’alfiere Valerio Fabbri che a proprie spese fece tutto. Chiamò inoltre tutta la sua milizia locale e terminata la funzione fece fare lo sparo ripetuto degli archibugi, fucili e mortaretti.

Per il primo semestre 1687 fu Consolo Carlo M. Comelli e Podestà il Conte Enrico Ercolani, sopraintendente agli affari comunitativi fu eletto in Conte Cornelio Malvasia a cui furono di nuovo depositate le chiavi della fonte della Fegatella onde proteggerla dai danni che vi facevano scapestrati ed oziosi.

La Compagnia di S. Caterina, solita fare la processione col suo Cristo deposto dalla croce e poi riposto nel sepolcro, per fare questa funzione più decorosa chiese allo Scherlatini la licenza di fare ciò all’uso di Bologna. Ossia un anno nella chiesa dell’Annunziata nel Borgo e l’altro nella chiesa di S. Pietro e finalmente il terzo anno nella propria chiesa. L’arciprete non acconsentì, perché la chiesa di S. Pietro non era sua, quella dell’Annunziata era concessa alla Congregazione dei preti, per cui conveniva usare le dovute cautele con tutti gli aventi diritti sopra queste chiese. Per non dimostrarsi però riluttante e nemico delle funzioni ecclesiastiche accordò alla compagnia di fare tale sepolcro nella sua chiesa tante volte quante ne chiedessero. Quindi il 26 marzo, venerdì Santo, fatta la processione del Cristo deposto dalla croce, incamminatasi dalla parrocchiale al Borgo e fatto il solito giro, fu questo portato nella chiesa di S. Caterina ove era stato preparato l’avello sull’altare ed apparata la chiesa a lutto. Fu qui deposto il Cristo e la mattina di Pasqua si vide ove era l’avello la figura del Redentore con la stola, camicia e bandiera nel modo che si faceva nella arcipretale.  La funzione riuscì assai devota e piacque molto.

 Il 20 aprile, venuto in visita il Padre Gian Antonio Bonaveri provinciale degli agostiniani a questo convento di S. Bartolomeo, cambiò la famiglia e fu questa: P. Giovan Battista Gherardini e P. Filippo Soprani.

Il ponte sopra il Sillaro dalla parte di ponente era stato accomodato. La spesa ascese alla somma di 3.404 lire. Il Senato ne ordinò il riparto sopra le undici Comunità solite a contribuire alle spese del ponte.

Le strade del Castello erano tanto rovinate che non si poteva per esse più camminare. Il Podestà locale a cui, in vigore dello Statuto, spettava l’ornato e pulizia dei fabbricati ordinò il ristoro mediante una sua notificazione e contemporaneamente proibì di tenere nelle pubbliche strade letami, immondizie e ruschi. La Comunità perciò procurò i materiali e i proprietari fronteggianti la via maggiore ed altre del Castello pagarono le maestranze.

Per i molti inconvenienti che nascevano a motivo del Maglio, il Papa con ordine sovrano proibì questo baccanale sotto rigorose pene. Ciò spiacque molto alla guardia svizzera di Bologna perché andavano gli svizzeri a S. Michele in Bosco a prendere il Maglio ed avevano ciambelle e colazioni.

Il primo luglio 1686 entrò Consolo Francesco Vanti e Podestà fu il senatore Ferdinando Marescalchi.

 Il 16 luglio il P. Giovanni da Budrio cappuccino ultimo della famiglia Fracassati, essendo qui guardiano al convento, finì i suoi giorni compianto per le sue rare virtù.

Nella sacrestia di questa arcipretale era nata una lite a motivo che l’arciprete aveva prestato fuori gli apparati della Compagnia del Rosario.  Crebbe a tal segno che poco mancò che tra i ministri dello stesso arciprete non si venisse alle mani. La causa divenne tanto seria che il tribunale vescovile dovette mettervi le mani e mons. Giuseppe Musetti Vicario Capitolare mandò un ordine all’arciprete di non mettere più le mani nelle robe del Rosario. Crebbero da questo fatto ancora di più le amarezze dello Scherlatini per vedersi contrariare anche dai suoi, per così dire, domestici.

Il 2 novembre fu ucciso nel Borgo Pier Maria Alberici di Castel S. Pietro.

La compagnia di S. Caterina, che fino a questi giorni aveva sempre nelle sue processioni usata la palliola colla santa dipinta senza dipendere dall’arciprete, inalberò uno stendardo, ossia un’asta con due traversi tutta dorata, che le costò 225 lire e lo portò processionalmente nella sua funzione il giorno di S. Caterina. L’arciprete informò il vescovato quindi anche da questa parte si accrebbe i nemici.

Il 26 novembre, il card. Antonio Pignatelli terminò la sua legazione procacciandosi tanto amore e sopra tutto la soddisfazione del contado.  Venne a Castel S. Pietro per andare al suo arcivescovato di Napoli. Fu preceduto dalla Guardia Svizzera fino alla porta della città, poi da cavalleggeri, indi con il vice Legato mons. Santa Croce, i senatori Marchese Giovanni Francesco Sangiorgi, Francesco Ghisilieri. Al nostro Castello, per ordine del Senato, fu banchettato nel palazzo Malvasia. Vennero con lui molte carrozze a sei cavalli con dame e cavalieri. La stessa sera alle ore 22 fu accompagnato sino ai nostri confini con la Romagna ed ivi ringraziato.

Il 9 dicembre la mattina giunse il card. Gianfrancesco Negroni e fu incontrato ai confini dai senatori Marchese Cesare Lambertini, Conte Pompeo Ercolani per conto del Senato, che lo introdussero nel Castello a palazzo Malvasia, ove fu trattato a pranzo. I cavalleggeri venuti fecero sempre la guardia al palazzo, partì alle ore 20 italiane per Bologna e nel partire fece molte elemosine a questa popolazione povera.

Il primo gennaio 1688 entrò Consolo per il primo semestre Paolo Giorgi e Podestà il senatore Marchese Antonio Gozzadini.

Il 3 marzo, giorno delle Ceneri, nevicò così fortemente che si temeva la rovina dei coperti nelle case deboli, ma la neve stette appena un giorno ed una notte perché si alzò un gagliardo scirocco e subito si dileguò.

L’11 aprile il terremoto si fece sentire con tre orribili scosse sull’ora 17 italiane. Patirono le case, gli edifici e le torri. Replicò il 17 e si fece sentire per tutta la Romagna. Fu così forte che le campane suonarono da sole. Si fecero da per tutto orazioni di penitenza e suppliche per la liberazione dal castigo.

Il Padre Baccelliere Nicola Turioli da Castel S. Pietro agostiniano, ospite in questo convento di S. Bartolomeo l’8 maggio fu spedito priore dagli agostiniani a Ravenna dal provinciale Pier Antonio Diotalevi di Rimini. Questo provinciale, terminato il suo ministero, chiese la affiliazione a questo convento di S. Bartolomeo e la ottenne.  Così l’egregio giovine Angiolo Michele Quaderna di Monte Calderaro ottenne l’ammissione alla regola di S. Agostino e si fece figliolo dello stesso convento, per essere della podesteria di Castel S. Pietro.

 In questo mese si ebbe la notizia come era stato dichiarato arcivescovo di Bologna il card. Angiolo Ranuzzi e perciò il 28 maggio si dettero i consueti segni di allegrezza con tutte le campane del paese.

Il primo luglio 1688 entrò Consolo Nicolò Gattìa e Podestà fu il Conte Alberto Caprara.

 Non ostante il castigo del terremoto Iddio, volendo beneficare i buoni, concesse un grandissimo raccolto. Racconta Don Francesco Fiegna che nel comune di Castel S. Pietro si raccolsero 18 mila corbe di grano e i marzadelli furono incalcolabili. Quindi si vendeva a vilissimo prezzo il grano a ragione di cinque o sei paoli la corba e lo spiano (?) era a ragione di dieci paoli la corba, così che se ne davano 52 once per ogni quattro bajocchi.

Valerio di Giovan Battista Fabbri di Castel S. Pietro sotto il Colonello Mario Carbonesi fu dichiarato il 12 luglio tenente del capitano Biagio Sgarzi.

Il 4 agosto morì Lorenzo Albruni e il 10 morì il su detto Sgarzi, erano entrambi del governo comunitativo. Furono per ciò accompagnati, secondo l’uso antico della Comunità, alla sepoltura con torce dagli altri pubblici rappresentanti pagando la Comunità la spesa. Morto il detto Sgarzi successe nella sua carica il ricordato tenente Fabbri che poi passò dopo poco alla guerra contro il Turco in corso nella Dalmazia[134].

Erano tante e tali le insolenze ed i crimini che qui e nelle vicinanze si commettevano da fuorusciti e contumaci di giustizia che, essendosi rese intollerabili, dovette la Comunità ricorrere al Legato. Questi tostamente ordinò che con sbirraglie e nostra soldatesca si desse a costoro la caccia.

Tanto seguì prontamente poiché il nuovo capitano Fabbri unito al fratello, il valoroso Marchione, fecero varie imboscate nelle vicine colline sopra i boschi di Frassineto, Liano e gli dettero la caccia fino a sopra le boscaglie opposte nel quartiere della Lama sotto il Castelletto.

Non contenti di ciò i nostri soldati, mentre gli sbirri guardavano di sopra perché i fuorusciti non andassero alle boscaglie di Maleto, li attaccarono verso il Castel d’Alboro distrutto e la Ghisiola. Da qui, avendo prese quelle alture, li spinsero verso Dozza. I frati di Monte del Re, sentito il rumore delle archibugiate, cominciarono a battere le campane. Sbigottiti da quel rumore i banditi presero la strada di Dozza fino presso quel castello.  I Dozzesi, al battere delle campane, uscirono e li dispersero verso la montagna di Monte Catone. In tal modo fu liberato il nostro territorio.

La nostra Comunità e il Consolo si sentì in dovere di ringraziare il Legato nell’avere data la facoltà alla nostra milizia di tanto operare. Il Legato gentilmente rispose il 5 settembre Mio Amabilissimo, sento la quiete la quale si gode costì senza perturbazione de fuorusciti e malviventi e perché vorrei che andassero bene anco le cose civili delle Amministrazioni pubbliche, mi sarà caro che mi avvisiate se occorre niente che ricerchi la mia assistenza essendo io prontissimo a cooperare a qualsiasi migliore Disposizione e regolamento di questa Comunità ed il Signore vi prosperi Bologna 5 7.bre 1688 Aff. G. F. Card. Negroni.

Allo scopo di ampliare la sua attività di tintore di panni e tele, Domenico Bartolucci comprò dalla Compagnia di S. Caterina una lingua di terreno presso il ponticello sopra il canale nella via che porta al Sillaro, in seguito edificò la tintoria, che ora si vede alla sinistra del canale ed è della eredità Vacchi.

L’impeto della fiumana e le correnti del Sillaro aveva dalla parte di levante devastato in tal maniera la sponda del ponte sopra la Emilia e l’altra via che si congiunge a questa, detta la via delle Fornaci, che fu in necessità il Senato di farvi pronto riparo. Questo fu fatto e si spesero 4.500 lire di Bologna, per pagare le quali fu ordinato un comparto alle dodici comunità soggette alla podesteria di Castel S. Pietro.

In quest’anno seguirono due matrimoni nel nostro Castello che crediamo importanti. Il primo fu di Giovanni Giacomo Bolia, che poi si fece chiamare Bolis, della parrocchia di S. Brizio di Novara che piantò qui la sua famiglia.  Da questa ne derivò poi il dott. Bolis, che a Roma si imparentò con Donna Bernardina attinente alla casa Albani, fu governatore di Castel Gandolfo ed ebbe altre cariche luminose. Questa famiglia poi, per le persecuzioni dell’arciprete Calistri, abbandonò il nostro Castello e si stabilì a Bologna nella parrocchia di S. Donato. L’altro matrimonio fu di Diamante Balduzzi, ultima del suo chiaro casato derivato dal capitano Conte Ugolino Balduzzi di cui ne parla la Storia di Bologna, con Marc’Antonio Carati di Castel S. Pietro. Fu senza successione e terminò qui la sua discendenza.

1690 – 1694. Problemi per il divieto di introdurre pane a Bologna. Visita pastorale del Card. Giacomo Boncompagni, descrizione delle chiese. Esibizione di componimenti in latino e toscano all’Accademia degli Immaturi. Incidente nella processione col Cristo deposto della Compagnia di S. Caterina. Baruffa con archibugiate tra sbirri e contrabbandieri di Casale e Castel Bolognese.

Il primo gennaio 1689 intraprese la carica di Console Paolo Giorgi ricco mercante di grano detto volgarmente per ciò dei Paoli. Fu Podestà il senatore Vincenzo M. Marescalchi.

Il 3 febbraio gli Assunti di Milizia, perché le cose del contado andassero con buon ordine, decretarono che un loro senatore dovesse fare la rassegna dei soldati di ogni compagnia. A Castel S. Pietro perciò venne il colonnello Conte Mario Carbonesi. Ciò fu decretato per potere avere dei soldati migliori al bisogno. Poi fu ordinato che i capitani di ogni compagnia dovessero esercitare ad ogni festa una o due squadre dei loro soldati, mentre quest’uso era stato tralasciato da qualche tempo. Il 20 febbraio si incominciò la rassegna e fu l’ultima domenica di carnevale. Fu in tale contingenza decisa l’uniforme militare ad ogni compagnia, a questa di Castel S. Pietro fu prescritta la marsina bianca e paramaniche, o siano mostre, di color giallo.

Domenica 2 marzo fu improvvisamente pubblicato un bando del card. Legato Pignatelli nel quale si proibiva ai fornai del contado di introdurre il loro pane nella città anche quello di Castel Bolognese. Per questo quei contrabbandieri lo portavano solo nel mercato di Castel S. Pietro e così facevano quelli di Casalfiumanese e Sassoleone i giorni di lunedì.

I fornai di Castel S. Pietro, vedendosi incagliare il loro pane perché non potevano più portarlo in città e poco lo vendevano in paese, fecero ricorso al Legato che ordinò ai Tribuni della Plebe che agissero contro gli introduttori di Casale e Castel Bolognese.

 Lunedì 17 marzo quelli vennero come sempre col pane ma quando furono avvisati della venuta dei Tribuni accompagnati dalla sbirraglia, si misero in guardia con le armi. Venne il magistrato e la Curia e vedendo il primo le armi dei contrabbandieri decise di non arrischiare. Un loro mazziere, volendo da coraggioso andare a guardare al pane, ebbe una sonora sberla in faccia. Il magistrato non si accostò neppure agli altri panettieri, che si erano subito allarmati.

Poi fu da altri contrabbandieri fatto sapere alla sbirraglia che non avessero il coraggio di entrare a Castel S. Pietro nei giorni di mercato con armi da fuoco altrimenti avrebbero provato le mani dei coalizzati di Castel Bolognese e di Casale. Infatti non ebbero l’ardire di avvicinarsi armati e lasciarono i loro archibugi all’osteria della Masone sul confine del comune di Castel S. Pietro e vennero disarmati. Così ubbidirono al Principe, servirono il magistrato e salvarono la vita loro.

Il 19 aprile venne da Bologna a Castel S. Pietro una compagnia di cattolici fiorentini partiti dalla città di Prato per andare alla S. Casa di Loreto con un loro antico Crocefisso. Erano tutti vestiti di sacco nero, furono incontrati da questa compagnia del SS.mo SS.to ai confini del comune e condotti col loro Crocefisso inalberato all’oratorio della Pollicina, poi a questa arcipretale dove pernottarono e la mattina seguente, data la benedizione al popolo, si incamminarono fino a S. Giacomo dove, posta la S. Immagine in una cassa, si avviarono verso Imola.

In questo tempo il Principe Francesco figlio del duca Alessandro Pichi della Mirandola[135] terminò la sua vita. Lasciò un bambino[136] nato dalla moglie, principessa Borghese. Il Principe aveva tre fratelli, Galeotto, Lodovico e Giovanni, che furono tutti e tre soggetti a diverse sventure. Più di tutti a Galeotto che, oltre i disturbi comuni con i fratelli era imperfetto in una mano. Visse privatamente nel contado di Bologna ora qua ora là ed in ultimo si ritirò a Castel S. Pietro dove finì i suoi giorni.

Il 22 maggio, sabato precedente le Rogazioni, si sentì nuovamente il terremoto. Cagionò ancora gravissimi danni a Napoli e Benevento. L’arcivescovo perciò ordinò nuove orazioni.

Il 9 giugno si replicò, essendo giorno del Corpus Domini, la rassegna di questa milizia di Castel S. Pietro ove Marchione Fabbri, succeduto da alfiere, cominciò, al partire della processione del SS.mo, a giocare di bandiera all’uso veneto, sventolandola con varie e piacevoli evoluzioni. Quando arrivò il SS.mo alla porta della chiesa,

 la stese sul terreno affinché vi passasse sopra il SS.mo portato dall’arciprete. Il che fu eseguito e la truppa accompagnò poi la solenne pompa. Il detto Marchione finché visse e stette in patria fece lo stesso in questa funzione. Terminata la funzione seguì lo sparo di 40 fucili, durante la cerimonia il capitano Valerio tenne sempre la spada sguainata ed era armato di panciera (corazza?) e manopole all’uso antico.

Nel giorno primo luglio 1689 entrò Consolo Domenico Bartolucci, Podestà il Conte Francesco Isolani.

 Il 12 agosto morì il pontefice Innocenzo XI in età di anni 78 e 13 di pontificato.

Il Turco faceva nuovi movimenti contro la Francia e la Cristianità. Fu questo un forte motivo perché i cardinali in pochi mesi facessero la elezione del nuovo pontefice. Su la fine di questo mese, per guardare la città di Bologna da dei possibili disordini, fu chiamata la nostra milizia di Castel S. Pietro a Bologna e vi rimase fino all’elezione del papa. In questo frattempo i cardinali, temendo i progressi del Turco nel veneziano, elessero generale delle armi pontificie Livio Odescalchi.[137]

 Nel mese di settembre morì a Fano, non potendo andare al Conclave il card. Ranuzzi già destinato arcivescovo di Bologna,

Il 6 ottobre fu assunto al sommo pontificato il card. Pietro Ottoboni veneziano d’anni 80, uomo di gran dottrina e prudenza, col nome di Alessandro VIII.

Marchione Fabbri, avendo dato personalmente buone prove, fu eletto tenente di cavalleria di Bologna dal Marchese Costanzo Zambeccari.

Il 19 novembre, dopo essere stati alquanti giorni a Bologna, i Principi Antonio e Marco Ottoboni, nipoti del nuovo Pontefice, vennero alla volta di Castel S. Pietro per andare a Roma. Furono accompagnati dai senatori Conte Giuseppe Malvasia e Marchese Cesare Tanara, senatori deputati dal Senato. Li seguirono la Marchesa Laura Carpegni Tanara e Giulia Malvezzi che accompagnarono la principessa moglie di Antonio, seguì anche mons. Santa Croce Vice Legato. Successivamente intervenne la Marchesa Laura Pepoli e la Marchesa Diana Campeggi.

Arrivati tutti a Castel S. Pietro si fermarono al palazzo Malvasia ove furono trattati con munificenza. Furono nel nostro Castello serviti dal cap. Valerio Fabbri con la sua compagnia militare a spese pubbliche.

Il Senato che non aveva approvato i consiglieri proposti dalla Comunità, poi legittimò il Consiglio composto dai seguenti individui: Benedetto Fiegna, Lorenzo Gordini, Domenico Battisti, Vincenzo Nicoli, Paolo Giorgi, Domenico Bartolucci, Carlo M. Comelli, Lorenzo Bertuzzi, Nicolò Gattia, Nicola Rondoni, Sabbatino Ronchi, Giovanni Domenico Giorgi, Lodovico Villa, Ventura Ricardi, Giovan Paolo Fabbri, Pier Andrea Vanti, Andrea Zopi, Giacomo Landi, Gioseffo Calanchi e Giacomo Pirini.

Il 10 dicembre si pubblicò l’Indulgenza pontificia in forma di Giubileo.

Lorenzo Gordini estratto Consolo per il primo semestre anno 1690 intraprese il suo officio, fece lo stesso di Podestà Battista di Scipione Graffi.

L’arciprete Scherlatini aveva fatto fare un bellissimo presepio nella cappella di S. Caterina nella parrocchiale con figure grandi di mano del chiaro Alessandro Mazza discepolo dell’insigne Algardi. Il giorno 6 gennaio fece spostare delle figure alcune delle quali si muovevano.

La sera dello stesso giorno fece fare una Accademia letteraria nella sua chiesa ad onore di Gesù visitato dai Magi. In questa adunanza gli accademici furono invitati sotto il titolo di Immaturi. Fece egli la Orazione e riuscì il tutto di gran gradimento al paese.

Nel seguente febbraio il cap. Valerio Fabbri sposò Orsola Villa. In marzo si pubblicò nomina dell’arcivescovo di Bologna nella persona di Mons. Giacomo Boncompagni nipote della fu card. Girolamo. Si fecero ovunque festeggiamenti nei quali in paese si distinse lo Scherlatini che, se avesse previsto le avversioni che avrebbe incontrare da questo prelato, avrebbe piuttosto fatto cantare al suo popolo il Miserere.

Il 2 aprile, festa di S. Francesco di Paola, accadde un tremendissimo temporale con vento e pioggia per tutto il territorio di Bologna che durò tutta la notte e in seguito fu sentita una scossa di terremoto.

Il 29 di questo aprile prese il possesso dell’arcivescovato di Bologna mons. Antonio Felice Marchesini a nome del nuovo arcivescovo Boncompagni.

 Il 15 maggio la Compagnia di S. Alberto di Firenze detta della Morte, ritornandosene da Loreto a casa per questa strada Emilia fu incontrata dalla Compagnia di S. Caterina al ponte del Sillaro. Avevano con sé un piccolo ed antico crocefisso che fu innalzato nell’oratorio di S. Giacomo e Filippo, avendo due bellissimi fanali d’argento con sé, e fu poi introdotto in Castello nella chiesa di S. Caterina. Qui stette tutta la notte ed il giorno seguente, 16 maggio, data la S. Benedizione, fu accompagnato fino alla chiesa della SS. Annunziata dove fu riposto nella sua cassa. quindi partì per Bologna.

Il 2 giugno arrivò la sera in incognito il nuovo arcivescovo Boncompagni e, salutato dallo Scherlatini, se ne andò direttamente a Bologna.

La mura di questo Castello dalla parte di ponente era rovinata nella sua sommità con molte creste per tutto il tratto dell’orto del cav.  Nicolò Calderini. Questi chiese la licenza alla Comunità di pareggiarla e farvi la sua copertura di pietra. La comunità aderì al desiderio del cavaliere e fu rimessa a posto la mura.

Il 20 giugno il clero di Castel S. Pietro con vive dimostrazioni dette prova del suo ossequio verso il nuovo arcivescovo Boncompagni nella arcipretale dove fu fatto cantare un solenne Te deum. Questo fu preparato dallo Scherlatini per le aderenze e servitù confidenziale che aveva col porporato, al quale in seguito dedicò un suo volume stampato col titolo di: Uomo Simbolico. Procurò anche una lode letteraria, mediante la locale Accademia degli Immaturi. Nello stesso modo fecero i medicinesi colla loro Accademia degli Illuminati il giorno 13, procurato dall’arciprete Don Francesco Toschi.

Nel seguente secondo semestre fu estratto Consolo Lorenzo Bertuzzi e Podestà il Conte Enea Caprara.

Frate Giuseppe M. Bartolucci figlio di Domenico, giovane di ottimi e santi costumi, di una purità angelica e carità infiammata verso Dio ed il suo prossimo, morì studente cappuccino in Ferrara ammirato da tutti.  Abbiamo già scritto a parte il suo elogio.

Nel novembre repentinamente partì e, come da alcuni si volle, fuggì da Bologna il Legato card. Negroni perché malvisto dalla città. Nella di sua carica di Legato subentrò il card. Benedetto Panfili, giovine di 35 anni ma compitissimo che, sentendosi avvicinare a nostri confini il card. arcivescovo Boncompagni, venne a complimentarlo in questo palazzo Locatelli. Lo stesso fece il Vice Legato mons. Leti, con i senatori Marchese Cesare Tanara e Francesco Ghisilieri ambasciatori del Senato. Il Boncompagni, dopo avere banchettato in questo castello a spese pubbliche, il dopo pranzo, con seguito di carrozze e cavalleggeri, andò a Bologna.

Finì i suoi giorni in questo anno Bonaventura Balduzzi.  Così terminò e si estinse il suo casato proveniente dal famoso capitano Ugolino Balduzzi ricordato nella Storia del Ghirardacci.

Il primo gennaio 1691 entrò Consolo Pier Andrea Vanti detto volgarmente Bestemione. Podestà fu il Conte Alessandro Bianchetti.

Il 13 gennaio si seppe dalla parte di Firenze che il contagio aveva attaccato anche il napoletano. Si fecero perciò orazioni pubbliche e tridui ovunque. Non mancò lo Scherlatini di esporre nella parrocchiale la S. Immagine del Rosario, i francescani quella di S. Antonio da Padova, gli agostiniani quella di S. Nicola e la Compagnia del SS.mo di trasportare nella arcipretale il suo crocefisso. A Bologna si chiusero le porte. A Castel S. Pietro si posero le guardie agli ingressi del Borgo e del Castello per i forestieri.

In mezzo a questo spavento il primo febbraio 1691 alle ore 22 italiane morì il Papa di anni 81. Il giorno 6 il cardinal Panfili partì per Roma ed in appresso lo seguì l’arcivescovo card. Boncompagni.

Gli ultimi tre giorni di carnevale 25, 26 e 27 febbraio questi agostiniani di S. Bartolomeo fecero il triduo della esposizione per 40 ore del SS.mo in suffragio dell’anime purganti fino al mercoledì seguente primo giorno di quaresima.

Il primo aprile, domenica di Passione, l’arciprete, dopo avere terminata le funzioni diurne e la processione del Cristo non velato, la sera nell’oratorio della Compagnia del SS.mo recitò l’orazione funerea a cui seguì l’Accademia degli Immaturi a recitare composizioni.

Il venerdì Santo instituì in questa Compagnia, ad esso ben cara, l’adorazione al crocefisso, prima dal suo clero poi dai suoi confratelli.  Questa funzione si è sempre praticata fino al 1796 in cui cominciò in Italia la persecuzione della chiesa colla invasione dei francesi.

La nostra milizia di Castel S. Pietro, che era andata alla guardia della città, ritornò alla fine di aprile.

Premurosa la Comunità che i privati non occupassero le strade, stradelli e sentieri pubblici, determinò di rinnovare il Campione delle Strade in questo territorio. Si cominciò subito a fare i riscontri col Campione vecchio mediante quattro assunti che furono Pier Andrea Vanti Consolo, Paolo Giorgi, Giacomo Landi, Vincenzo Nicoli e Domenico Battisti. Di questo Campione ce ne è una copia nell’archivio comunitativo.

Intanto si eccitarono amarezze fra la Francia e l’Impero onde il Papa, temendo di essere sopraffatto, pensò di armare gente e porla ai confini a difesa dei suoi stati. Si fecero perciò nel contado le rassegne dei miliziotti. Ciò si fece a Castel S. Pietro il 14 giugno, giorno del Corpus Domini. In questa occasione la truppa assistette alla solenne processione dopo la quale scaricò in alto i fucili.

Il giorno primo luglio 1691entrò Consolo il cap. Valerio Fabbri e Podestà per questo secondo semestre fu il Conte Fabrizio Malvezzi.

Il 12 luglio fu eletto Papa il card. Antonio Pignatelli già Legato di Bologna col nome di Innocenzo XII in età di anni 78. Il 30 agosto ritornò alla legazione il card. Panfili.

Il 25 settembre il card. Giacomo Boncompagni dopo essere tornato a Bologna venne a Castel S. Pietro a fare la sua prima visita pastorale come si rileva dal Libro Visitator. 1691 il cui tenore riportiamo nelle parti che crediamo più interessanti alla storia del paese. All’inizio si accenna al conferimento della cura al parroco Scherlatinisenza citare l’assenso della Comunità alla nomina. Questa invero aveva di già colla sua reticenza lasciato in carenza la nomina per le molte rinunce seguite da un parroco all’altro.

Segue avanti la descrizione della visita nella quale si descrive il rito di incontrare alla porta della chiesa il porporato dall’arciprete in pluviale col suo clero unito con il concorso del popolo.

Andò poi all’adorazione del SS.mo e il giorno seguente cominciò la cresima, che durò tre giorni. Successivamente si descrive la chiesa come era allora in questi termini: Eminet Ecclesia hec in medio Castri plano, tabulata Tectu, longitudinis ped. 80 et latitudinis ultro 30. Est composita altarium XIV. Ora è accresciuta in lunghezza mediante la costruzione del coro occupando parte della via di Saragozza con assenso della Comunità.

Continua ad enumerare le chiese sottoposte al suo plebato. Subsunt huic plebi eclesie quattuor parochiales, S. Mamantis scilicet de Liano, S. Marie de Capella, S. Micaelis de Casalechio Comi et S. Blasi de Podio. Omette S. Martino in Petriolo.

Passa quindi all’oratorio della Compagnia del SS.mo aderente alla chiesa. Oratorium Societatis SS. SS. quod est ad sinistrum latus eclesie d. Paroch. Situm supra quamdam scalam, lignorum contignatione confect et excitat de anno 1601 ad honorem S. Flori Martiris cuius dies fastus secunda dominica Octobris celebratur.

Qui c’è un errore poiché la dedica dell’oratorio fu fatta nel 1603 all’ apostolo S. Tomaso e non a S. Floro.  È vero che in questo oratorio si conserva il capo di S. Floro martire, la cui festa si celebra nella giornata accennata, ma è falso che la dedica dell’oratorio fosse fatta a S. Floro poiché la testa fu un dono fatto pochi anni fa dal Conte Ramazzotto. Aggiunge poi che la Confraternita del SS. Sacramento è la patrona di questo oratorio, ha la cappa bianca ed ha avute le sue regole approvate dal card. Colonna il 27 gennaio 1634.

 Passa poi alla chiesa di S. Caterina e così si esprime: Eclesia S. Catharine sucessive visitata fuit, que de anno 1533 excitata fuit (…) est fabbricata cum uno altari, in quo apposita est Icona cum effigie eiusdem S. Tutelaris in Ligno expressa cum Coronide auratam, simul Oratorium in quo conveniunt d. Confrat. pro recitatione divini Offici. dotatum est hoc Oratorium una petia Terre hortive que locatur pretio l.  Riferisce ancora che questa Compagnia ha l’Ospitale per i Viandanti con i suoi fondi: Hospitale quod spectat ad Societatem visitatum fuit, quod extat in Burgo Castri S. Petri prope Viam romana. Bona sunt.  

Passando poi nel Borgo visita la chiesa dell’Annunziata e così la descrive: Oratorium in honorem B. M. V ad Angelo Annuntiate postmodum visitatum fuit, quod est in Burgo Castri S. Petri et quod ad Eclesiam matricem spectat, et in quo erecta est Congregatio Sacerdotum vulgo noncupat del Suffragio, qui bis in anno celebrare tenentur in Suffragium Defunctor.

Si riporta quindi la Rinuncia fattale dalla popolazione del Borgo di questa chiesa per rogito di Filippo Carlo Medici, ad divina peraganda concessus fuit locus ista

Viene poi alla chiesa di S. Pietro e così la descrive: Oratorium Divo Petro Apostolo dicatum, fuit inde visitatum, quod est inter Castrum et Burgum. Beneficium simplex sub eodem titolo S. Petri fundatum, in hoc Oratorio, qui modo est comendat. E.mo Flavio Cardin. Ghisio cum Oblatione unius Misse in hebdomada, et diem fastum S. Tutelaris celebravat.

L’ultimo giorno della visita andò fuori dell’abitato all’oratorio di S. Maria Maddalena volgarmente detto della Riniera, indi al ponte Sillaro all’oratorio di S. Giacomo e Filippo e così descrisse: Oratorium S. Marie Magdalene loco dicto: La Riniera, spectat nobilibus de Malvasia. Quo ad Oratorium S.S. Philippi at Jacobi est eorum de Mondinis, mandatum fuit.

 Ritornato nell’abitato e proseguendo nel Borgo visitò la chiesuola di S. Carlo, sulla via che porta a Medicina, una volta chiamata, la Maestà di Virgilio Dalforte, ora del sig. Conte Gini, successore Riguzzi e così scrisse: A finis Burgo in fundo eorum de Rigutiis extat sub fornice Majestas S. Caroli prope pontem, presto est alia Majestas in qua cum omnia fiat confusa et delata, nomen ignoratur. Questa ultima Maestà è quella che forma angolo nella abitazione padronale del sig. Conte Gini verso Bologna ove appunto nulla si distingue, toltane l’effigie di una B.V. dipinta sul muro. Chi desidera riconoscere questa Maestà per luogo dedicato a Dio o suoi santi, si deve affacciare ad una finestrella rotonda che riceve il lume dalla Emilia

Il visitatore aveva dimenticato l’oratorio posto sopra la Emilia dalla parte di levante dedicato a M. V. Addolorata detta del Cozzo quindi tornò indietro fece la seguente annotazione: Item viam romanam incedendo Imolam versus, est in distantia unius miliaris ex hoc Castro exstat edicula armata noncupat: Il Cozzo, cum sculpta Imagine B. V. M.

Terminata questa visita partì il card. per Bologna il giorno di S. Michele 29 settembre.

 Giovedì 4 ottobre, giorno di S. Francesco, codesti Padri M.O. di S. Francesco cominciarono un solenne triduo a S. Pascale Bajlon e S. Giovanni da Capistrano con molte messe, musica solenne e vespro ogni giorno, panegirico con differenti oratori. Terminò la domenica seguente coll’Inno ambrosiano.

L’Accademia degli Immaturi, fondata in questa chiesa, dimostrò anch’essa il suo giubilo mediante poesie in ogni metro, latino e toscano, con prefazioni ed orazioni eloquentissime fatte da diversi soggetti. Ogni sera vi furono fuochi di gioia nella piazza davanti la chiesa.

La parrocchiale abbisognava di vistose riparazioni. L’arcivescovo aveva perciò tassata la Compagnia di S. Caterina di 125 lire da pagarsi in tante rate. Essa però si mostrava ritrosa, il 28 ottobre le fu intimato il puntuale pagamento della prima rata. Questa fu subito pagata da Lorenzo Ferlini, uno dei confratelli. La famiglia Ferlini che era antica del paese dopo poco emigrò e si stabilì a Bologna.

Alcuni malviventi si erano annidati nei dintorni del nostro castello nella via romana dalla parte di Bologna. Essi assassinavano la gente derubandole ciò che potevano. Fra i molti assassinati vi fu Francesco Bagnavola e Carlo Cochi da Budrio. Poco dopo furono arrestati i capi, che erano Giulio da S. Donato e Tomaso Bendini detto Marochio da Castel S. Pietro, gli altri furono sbaragliati dalla sbirraglia e dai paesani. Così la strada fu liberata.

Nel 1692, il primo gennaio intraprese il consolato Giovanni Paolo Fabbri, Podestà fu il senatore Angiolo Michele Guastavillani.

La Compagnia di S. Caterina che, ab antiguo, aveva l’uso di fare la solenne processione del crocefisso deposto dalla croce il venerdì santo, portandosi processionalmente per il Borgo e Castello, terminò di fare questa funzione a motivo di uno scandalo accaduto per colpa dei portantini.  Qui trascriviamo il racconto del fatto come ci è stato comunicato, con altri ricordi del paese, da Sante Alberici.

Adi 4 aprile 1692. Ricordo come portandosi dalla nostra Compagnia di S. Cattarina al X.to deposto dalla croce in processione per il castello oggi giorno di venerdì Santo, per farne poi secondo il consueto il Sepolcro, quando li portantini arrivarono al chiavicotto maestro, essendo fra di loro discordi per pigliare il posto ed altercando fra di essi nelcambio che si davano, si rovesciò in quel bisticcio il crocefisso nella immondizia presso il chiavicotto, ove era aqua ferma e lorda e così si imbrattò in maniera che convenne ai preti riporlo nella barra tutto sporcato. Li littiganti furono Giovanni Guartieri, Mattia Lasi li quali si diedero assieme delle spinte per subentrare nel posto e così ne venne doppo gran travaglio e la compagnia tutta ne sentì ramarico.

Fu subito informato il card. Boncompagni che in ordinò allo Scherlatini che non intervenisse più a tale funzione né che più permettesse alla compagnia di fare il sepolcro del Cristo deposto ed in questo modo cessò questa devozione.

Divenuto Provinciale il Padre Angiolo Fiachi da Castel S. Pietro della provincia di Bologna, all’occasione che si solennizzavano le Rogazioni di M. V. di Poggio, venne a questo suo convento ove, portata la B. V. alla sua chiesa, ne fece esso tutta la funzione.

I contrabbandieri di Castel Bolognese e Casalfiumanese continuavano a portare il pane al nostro mercato quantunque vi fosse il bando cardinalizio. Lunedì 19 maggio gli sbirri di Bologna ebbero il coraggio di venire nel nostro Borgo e Castello con animo di arrestarli. Vennero la sera precedente e si nascosero. Venuta l’ora del mercato, la sbirraglia all’improvviso saltò fuori dai nascondigli coll’armi spianate e facendo alt intese arrestare i panettieri forestieri. Accortosi di ciò gli altri contrabbandieri di grani e farine di Casalfiumanese e di Castel Bolognese, diedero mano agli archibugi per fare rilasciare i panettieri e farinotti fermati dalla Curia. Quindi cominciò una gran baruffa di archibugiate fra la sbirraglia e i contrabbandieri sparsi parte in Castello e parte in Borgo.  Quest’ultimi si davano coraggio fra di loro e si facevano animo gridando: Forti! forti! Casalfiumanese! forti! forti che non teme Castel Bolognese! Ammazza! ammazza! e continuavano a sparare. Convenne alla sbirraglia lasciare le armi, sdraiarsi tutti a terra per non rimanere morti e chiedere la grazia della vita in grazia.

La concessero i rivoltosi forestieri, ruppero le armi agli sbirri, bastonarono i loro capi e li fecero tutti marciare verso Bologna in un drappello, che fu accompagnato fino alla Crocetta fuori del Borgo. Ebbero i panettieri il loro pane e così i farinotti le loro farine.

La popolazione povera di Castel S. Pietro, trattandosi di un genere di prima necessità, si era anche essa ammutinata. I fornai chiusero le loro botteghe e si nascosero e così fecero tanti altri che temevano per la loro vita. Gli sbirri non si videro più nei mercati quando vi erano forestieri di questi due paesi.

 Al dì primo luglio entrò Consolo Vincenzo Nicoli fratello del Rev. Padre Lorenzo Nicoli e nipote del Rev.mo Francesco Maria. Podestà fu il Marchese Antonio Legnani.

Il 16 settembre il Vice Legato mons. Leti, prelato di gran prudenza, partì da Bologna per andare al suo governo di Jesi. Poiché era amato teneramente dal Legato, questi lo accompagnò con molta nobiltà per un lungo tratto di strada, poi fu seguito da molti nobili al palazzo del Marchese de’ Buoi nella Villa di Poggio dove fu festeggiato. Il dopo pranzo passò a Castel S. Pietro ad abbracciare il Padre Fiachi cappuccino e poi se ne partì per la Romagna.

Alla fine del mese venne per Vice Legato mons. Borromeo.

La notte del 3 ottobre si sentì sensibilmente per due volte il terremoto.

I tre Principi della Mirandola Galeotto, Giovanni e Lodovico si trovavano a Bologna. Vi si trattennero per alquanto tempo per i dissapori nati tra loro e la principessa Brigida[138], loro zia e tutrice del Duchino Francesco nipote del fu Duca Alessandro padre dei tre fratelli.

Le amarezze si avanzarono a tal segno che furono accusati ingiustamente all’Imperatore di avere macchinato per avvelenare il Duchino mediante Don Giuseppe Ambrosini di Mirandola. Questi si costituì poi in carcere a Roma il 3 ottobre 1691 da dove uscì innocente nel 1693 per Sentenza declaratoria di Calunnia. L’Imperatore a cui spettava la signoria di tal ducato affidò la discussione della causa al Papa. I tre principi a Bologna alloggiarono nel convento dei Servi, poi andarono a casa Legnani.

Il 19 novembre morì a Bologna Don Francesco Fabbri di Castel S. Pietro fratello del capitano Valerio e di Marchione. Fu parroco di S. Maria Labarum Celi la cui vita in breve è la seguente, scritta nel Libro di questa famiglia. Francesco fu figlio dell’egregio Capitano Giovan Battista Fabbri, da giovinetto fu militare sotto il padre, militò nella Grecia della Turchia per molti anni al soldo della repubblica veneta in qualità di sergente, poi passò come alfiere a Candia quando i veneziani presero la Canea e la città di Rettimo. Comandò poscia onorevolmente la guardia del Generalissimo Francesco da Molino, che fu poi principe. Ritornato in Italia andò nel Friuli per alfiere al servigio dello stesso. Infine venne a Bologna, a casa di suo cugino Fioravanti, in età di anni 32 e, abbandonata la milizia, si applicò allo studio della lingua latina.

L’anno 1655, essendo l’arcivescovo di Bologna al conclave a Roma, fu ordinato prete a Bertinoro, in età di anni 35. Ma la fortuna gli fu contraria e a Bologna fu ferito per errore con due archibugiate. Divenne poi padre spirituale della Chiesa del Baraccano per 3 anni indi passò parroco nella chiesa di S. Maria Labarum Celi, ove morì il 19 novembre 1692 e fu sepolto in quella chiesa rimpianto dal suo gregge.

Prima di morire testò, per rogito di Gian Battista Pedini, ed ordinò nel testamento l’erezione di un beneficio laicale all’altare della B. V. del Rosario di Castel S. Pietro sotto la invocazione di S. Almasio. Questo beneficio non fu eretto che nel 17 settembre 1741 da Ginevra Fabbri figlia del fu capitano Valerio, vedova senza successione di ser Giovan Battista Dalla Valle.

Appare da questo rogito come la stessa Ginevra, colle debite forme, eseguì la volontà del testatore mediante il canonico Carlo Antonio Villa di lei cugino. Quindi assegnò per fondo dotale a questo beneficio un fondo di terra arativa, arborata, vitata, boschiva con casa di coloni in loco detto il Poggio nel comune di S. Maria di Zena del Monte delle Formiche contado di Bologna, di semente Corbe 4, col peso al rettore pro tempore del beneficio di celebrare 30 messe ogni anno in perpetuo. La fondatrice si riservò lo Jus presentandi ed il primo beneficiato fu Don Giambattista Vanti di Castel S. Pietro. La predetta Ginevra dopo molti anni fece testamento, nel quale dopo varie beneficenze al Paese lasciò lo Jus nominandi al priore della Arciconfraternita del Rosario di questo paese.

Il primo gennaio 1693 entrò Consolo Domenico Bartolucci e Podestà il Marchese Girolamo Albergati.

 Il 14 gennaio Giulio da S. Donato detto Terabosco e Tomaso Bendini detto Marochio di Castel S. Pietro, dei quali si scrisse, furono in Bologna impiccati come banditi capitali di grassazioni nelle persone di Francesco Bagnarola e Carlo Cochi da Budrio, fatte in compagnia nella strada romana che porta da Castel S. Pietro a Bologna. Giulio era un giovane robusto di 20 anni, che in carcere negò sempre, nonostante le testimonianze, e non volle mai capire come mai fosse sentenziato a morte pur non avendo confessato e accusò di malevolenza quelli che si erano scagliati contro di lui.

Antonio figlio del Consolo Domenico Bartolucci aveva avuto alcuni dispiaceri per problemi amorosi ma poi passò ad altri contrasti per i quali, il 3 febbraio ultimo di carnevale, ebbe una fiera baruffa di archibugiate, restando egli il vincitore. Però i suoi nemici se lo tennero a mente.

Da questo fatto prese tal passione il suo povero padre che, alla metà del suo consolato il 24 marzo, ultimo giorno delle feste pasquali, terminò la vita.

Per essere egli Consolo il suo funerale fu fatto in modo diverso da quello degli altri pubblici rappresentanti morti fuori di questa carica, che, nel portarsi alla chiesa, si ricevevano entro la casa comunitativa e poi, recitato il De profundis, si abbandonavano al clero. Questi fu, dalla pubblica rappresentanza, levato dalla propria abitazione con torce ad accompagnato fino alla chiesa dei Cappuccini dove fu sepolto a spese pubbliche. A tale funzione intervenne anche il giusdicente civile Girolamo Giordani. Per questa morte si procedette subito alla estrazione del nuovo Consolo e fu Giacomo Landi.

Venne la visita del Provinciale degli agostiniani Padre Simeoni da Bologna a questo convento di S. Bartolomeo. Egli riformò tutta la famiglia e il 31 maggio fu fatto priore il Padre Giovan Battista Ghirardini da Castel S. Pietro.

Il 9 giugno il dopo pranzo cominciò un temporale da Bologna con pioggia e tempesta tale che fece infiniti danni, specialmente ai frati dell’Annunziata di Bologna. Poi a Castel S. Pietro aumentarono talmente tutti i corsi d’acqua che allagarono i terreni confinanti. Il rio della Scania, quello della Samachina, la via di Viaro, incorporandosi alla Viola del Lupo inferiormente, si alzarono all’altezza di sei piedi. Nel Castello le cantine si allagarono, la fossa del Castello si riempì, la chiesa dei cappuccini, la parrocchia e S. Francesco non andarono esenti e così i chiostri inferiori delle tre religioni locali agostiniana, francescana e cappuccina. Sembrò un diluvio.

Estratto Consolo per il venturo semestre Paolo Giorgi, occupò la carica il primo luglio 1693 e così fece il novo Podestà Giacomo Seccadenari, nobile bolognese.

Il 24 novembre il citato Antonio Bartolucci d’anni 30 per la rissa avuta nel carnevale scorso fu da suoi avversari ucciso con un’archibugiata. Fu sepolto ai cappuccini.

Il 26 novembre il card. Benedetto Panfili, Legato di Bologna, prelato di incomparabile carità, amore, prudenza e di ogni altra virtù che in pochi si può trovare, partì da Bologna con dispiacere di tutta la provincia. Nella partenza gettò per strada molto denaro e lungamente alla povertà, fece molte grazie. Fu accompagnato a Castel S. Pietro da molta nobiltà, che lo lasciò con pianti. Molta popolazione del nostro Castello lo seguì fino alla Toscanella, dove lasciò ai nostri poveri una copiosa elemosina oltre altro danaro lasciato allo Scherlatini in sussidio dei poveri infermi della parrocchia.

Il 2 dicembre fu incontrato il nuovo Legato card. Marcello Durazzo a questi nostri confini dai senatori Marco Piriteo Malvezzi ed Agesilao Bonfilioli che lo ricevettero. Introdotto in Castello, fu pasteggiato nel palazzo Locatelli ove era arrivato il giorno precedente l’E.mo arcivescovo Boncompagni. La solita funzione di giuramento si fece nello stesso palazzo. La sera partirono tutti assieme per Bologna essendo ambi i cardinali nella stessa carrozza.

Dopo pochi giorni il nuovo Legato pubblicò un rigoroso bando sopra la denuncia delle granaglie.

La neve che sopravenne il 18 dicembre stette in terra fino al 28 febbraio del prossimo 1694, all’entrare del quale coprì la carica di Consolo messer Domenico Battisti e quella di Podestà il Marchese Tomaso de’ Buoi.

Il 10 febbraio morì Sebastiano Cheli e colla sua morte si estinse il suo antico casato, che contava più di quattro secoli, sempre chiaro, radicato e mantenuto non ostante le fazioni e vicende del mondo. Questa famiglia, come abbiamo scritto, fu molto dedita alla pietà e fra le cose più singolari che fece fu di prestare il fondo ove erigere il convento e chiesa di questi Padri M.M. O.O.

La Compagnia di S. Caterina, sempre sfarzosa nelle sue cose della chiesa, su la fine di aprile, sotto il priorato di Lorenzo Gordini, fece fare un bellissimo e buon organo grande al famoso organaro Francesco Trajers tedesco che le costò 560 lire. Fu messo in azione verso la metà di maggio e si sentì suonare il giorno 18, seconda festa delle Rogazioni di M. V. di Poggio quando, secondo il turno, la S. Immagine fu ricevuta nella chiesa della compagnia. Lo stesso organo, quando fu soppressa la compagnia, passò alle Monache di S. Mattia di Bologna.

La Commenda di S. Giovanni Battista di Castel S. Pietro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, detta comunemente della Masone, la cui chiesa titolare è situata nel comune di Liano di sotto, nella via romana alla sinistra andando a Bologna, dista dal nostro Castello poco più di un miglio. Questa Commenda era soggetta, se non si vuol dire incorporata, alla Commenda di S. Maria del Tempio di Bologna denominata pure della Magione, da cui venne il nome volgare alla nostra che fino dalla sua origine fu detta di Giambattista di Castel S. Pietro. Fu smembrata e conferita circa tra il 1760 e il 1761 al Cavalier Commendatore Conte Balio Lodovico Caprara con i suoi beni. Egli, per affetto, la beneficò molto coll’acquistarle terreni, farvi nuove fabbriche, che hanno preso dal suo nome l’indicazione della Caprara.

Acquistò pure nel nostro Castello, per residenza del Commendatore pro tempore, la casa grande dei Fabbri che guarda di facciata la piazza, contigua al forno di pane bianco, che per le rivoluzioni dei francesi fu requisito alla nazione e poi venduto a Francesco Conti.

La Compagnia di S. Caterina, oltre tenere una campana per la comodità di convocare i confratelli, ottenne la licenza dal Vicario G. del vescovo di Bologna mons. Ventura Martinelli di poterla usare non solo a quello scopo. Il che fece non poca impressione all’arciprete non essendo stato interpellato. Nacquero in seguito dissapori che degenerarono in odio.

Il primo luglio 1694 entrò Consolo Antonio Maria Ronchi e Podestà il Conte Giovanni Zambeccari.

Il 25 luglio Pietro Poggipollini di Castel S. Pietro uomo animoso, essendo venuto a parole con la Curia di Dozza, ebbe uno scontro con essi al quale seguirono archibugiate. Egli valorosamente con due compagni paesani si avanzò tanto che, ferito uno sbirro di quella terra, prese la porta del Castello. Visto ciò gli sbirri si dettero ad una vergognosa fuga. I compagni del Poggipollini altro non fecero che guardargli le spalle. Sabbatino Bertuzzi racconta il fatto nei suoi ricordi senza però indicarci la ragione della baruffa.

I francesi in guerra coll’Imperatore erano avanzati nel Piemonte[139].  L’Imperatore aveva spedito il Maresciallo Enea Caprara contro quelli ma, poiché si temeva che invadessero gli stati pontifici per la parte di Ferrara, si arruolarono in ottobre anche truppe nel bolognese che furono mandate a guardare i confini del ferrarese.

 In tale contingenza nacque un disordine a Bologna pretendendosi dai nostri soldati che venisse posto in libertà un loro compagno arrestato, detto Frassino da Castel S. Pietro, che aveva ucciso uno a motivo di un pugno. Fu tale la scena che convenne al tribunale porlo in libertà.

 Il 13 dicembre, giorno di S. Lucia, Don Francesco Bartolucci di Castel S. Pietro, Dottore di Legge, già curato di S. Matteo delle Pescherie a Bologna, in età d’anni 40 circa, fu fatto arciprete della Pieve di Budrio.

Fu questo arciprete uomo illustre e chiaro per le sue virtù, del quale così scrive il Fantuzzi nella sua opera Scrittori bolognesi: Francesco Bartolucci originario di Castel S. Pietro, ma poi fatto cittadino di Bologna, indi dell’anno 1694 passò ad essere arciprete della chiesa collegiata, arcipretale di S. Gervasio e Protasio di Budrio, che resse con somma lode fino all’anno 1726 in cui cessò di vivere li 16 marzo, compianto da tutti per le sue doti di sapere e per l’attenta cura del suo ministero. Si dilettò moltissimo della storia naturale ed amicissimo del Conte Generale Luigi Ferdinando Malpighi, lo aiutò nelle sue ricerche erudite sopra li funghi.

1695 – 1697. Scoppiano scontri tra i Villa e i Pagani con spari e morti. Marchione Fabbri ricercato riesce a fuggire. Riunione dell’Accademia degli Immaturi. Avo di Cavazza istituisce la festa ai SS. Crispino e Crispiniano, protettori dei calzolai.

Giunto l’anno 1695 il primo gennaio prese la carica di Consolo Nicolò Gattia e quella di Podestà il Conte Carlo Ridolfo Fantuzzi, fu suo giusdicente Carlo Antonio Benacci.

Il 5 gennaio cominciò una neve grossissima che in molti luoghi arrivò alta due piedi. Caddero tetti e case. A Bologna cadde per tale motivo il coperto del Palazzo del Re Enzo. Nel nostro Castello nella via Framella e Saragozza di sotto caddero i coperti alle piccole case dei Rondoni, dei Locatelli e dei Fabbri che ora sono di Giuseppe Dal Monte.

La Compagnia di S. Caterina, che in passato spendeva liberamente qualsiasi somma senza licenza, ebbe un ricorso al card. Boncompagni. Questi le limitò la facoltà ad una scarsa somma e, perché non fosse imputato di parzialità e non nascessero odi e rumori, estese tale legge anche alle altre confraternite del paese.

Il 16 febbraio, alle ore 8 della notte, come pure alle 12, si sentirono due scosse di terremoto, che spaventarono ancora di più le persone per essere i tetti carichi di neve. Per tale motivo il primo marzo fu pubblicato un editto che entro 10 giorni si levassero tutte le nevi e dai coperti e dalle strade, ove erano state gettate. Questo per permettere il libero passaggio di carri ed altri legni.

In questo tempo nacque grande rancore fra la famiglia Villa e quella dei Pagani a motivo del Dazio Vino locale. Vennero conseguenze funeste. Il 25 febbraio Domenico Pagani, mal soffrendo la faccenda, fece la posta al sig. Lodovico Villa appiattandosi nello stradello fra le mura del Castello ed il palazzo Malvezzi a sinistra della porta maggiore. Gli dette una archibugiata che lo lasciò morto. Commesso questo delitto il Pagani se ne fuggì. Pervenuta la notizia del fatto, i fratelli Fabbri cioè Marchione, Valerio ed Ottavio parenti del Villa, uniti con bravi e soldati del paese, inseguirono il Pagani verso la via di Medicina per ucciderlo. Entrarono perfino in quella Terra ma inutilmente. Il Pagani, che aveva deviato da quella strada verso la Romagna, si nascose in un fosso nelle larghe di Granara dove stette fino all’alta notte senza potere essere scoperto. Da lì poi se ne fuggì a Dozza. Per un tal fatto, vedendosi poco sicuri in paese, gli altri uomini della famiglia Pagani fuggirono da Castello e si rifugiarono anch’essi a Dozza accompagnati e spalleggiati da altri sicari di Castel S. Pietro.

 Ma non passò molto tempo che i Fabbri si vollero vendicare. Il 17 maggio, giorno dell’Ascensione, al momento di dare la benedizione di M. V. di Poggio, si sparse la voce che i Pagani, con una truppa di armati, erano venuti in paese per assalire i Fabbri. Marchione Fabbri, avvisato di ciò, raccolse uomini che mandarono via tutte le persone di Dozza che trovarono, dopo averle ben perquisite. Quindi la benedizione con la S. Immagine non si dette in piazza ma entro la chiesa arcipretale a scanso di qualunque accidente e pericolo al quale poteva essere esposto il popolo.

Il primo luglio 1695 investì la carica di Consolo Antonio Maria Ronchi e Podestà fu il Conte Carlo Bentivoglio.

Il 2 luglio il Conte Filippo Ercolani, cavaliere molto potente, si era fatto protettore dei Fabbri e intendeva fare ammazzare tutti i Pagani. Il tentativo fu fatto ma andò a vuoto. Tuttavia non cessò il cavaliere nell’impegno di riuscire nell’intento. Domenica 17 luglio a buon’ora del mattino furono assaliti a Dozza, mentre andavano alla S. Messa, i fratelli Francesco e Stefano Pagani e con essi Lorenzo Andrini di Castel S. Pietro, detto Stragualzone, e Sabadone Morara. Furono assaliti davanti alla chiesa da Marchione Fabbri con 25 armati di Castel S. Pietro che si erano prima nascosti a Dozza senza essere scoperti.  Andarono in questo conflitto trenta archibugiate. Nel furore delle archibugiate si salvò solo Domenico Pagani nel campanile della chiesa. Degli uccisi nessuno riuscì a sparare alcuna archibugiata se non Sabbatino Morara senza colpire però nessuno. Fu troppa la moltitudine degli aggressori e la sorpresa. Dopo questo fatto Marchione torno in patria con i suoi seguaci.

Il 20 luglio nel nostro Borgo furono bastonati due gesuiti che compravano ed a poco a poco incettavano grani. Il fatto accadde la sera mentre ritornavano al loro ospizio e si dice che vi furono anche dei pugni. Per un tal fatto il giorno 25 luglio si videro affissi alla porta dei gesuiti i seguenti versi:

Voi che garontolaste bene le Gesuita

o Sante Mani o benedette dita

mercè ancor degna fur lo bastonate

 che il trafficar non è mestier da frate.

Questi versi furono attribuiti a Don Bartolomeo Righi che poi che fu fatto arciprete del Martignone.

Per l’avvenuto misfatto dei Fabbri contro i Pagani, il primo dicembre giunse a Dozza un Commissario da Ravenna con numerosa sbirraglia a fare l’indagine. Furono immediatamente imprigionate dodici persone fra le quali il prevosto Don Antonio Morara, il fattore dei Campeggi ed il capitano di Dozza che furono condotti a Ravenna. In questa contingenza molti espatriarono da quella piccola terra. Così pure dal nostro Castello emigrò, per avere qualche lontana attinenza con i Fabbri, Carlo Luigi Bombasari. Per assicurarsi dalle presenti turbolenze si stabilì a Bologna. La sua famiglia si estinse nel 1775 in Filippo, famoso suonatore di cembalo ricordato dagli scrittori contemporanei.

Nel 1696 entrò Consolo Domenico Battisti e Podestà fu il Marchese Antonio Riari.

Terminata l’indagine a Dozza sul fatto dei Fabbri e Pagani il 10 gennaio venne a Castel S. Pietro il Commissario. Cercarono ovunque Marchione Fabbri. Fu riferito che si fosse rifugiato in parrocchia. La sbirraglia andò a cercarlo, anche nei più reconditi angoli della chiesa, ma non lo trovò. Si era, scaltramente, infilato nella voluta in alto dell’ornato dell’altare della Madonna del Rosario. Vi era salito con una scala che poi il campanaro della chiesa aveva levato. Il Bargello della sbirraglia volle aprire perfino la nicchia della S. Immagine per vedere se c’era il contumace. Furono scompigliati tutti gli altari, le pedane, aperte le sepolture, il tabernacolo del battistero, ma invano.

Andarono poi al palazzo Malvasia dove pensavano che quello si fosse nascosto. Trovarono le porte chiuse, con le mannaie le aprirono e fecero molti danni. Andarono in altre case sospette ma tutto senza successo. Intanto Marchione fu travestito dal campanaro e la notte del 17 gennaio se ne fuggì alla volta del ferrarese e poi nel veneziano col fratello Valerio.

Il Commissario dimorò fino al 31 gennaio a Castel S. Pietro, da dove, partendo per la Romagna, condusse con sé a Ravenna 20 prigionieri.

La Commenda di S. Giovanni Battista di Castel S. Pietro aveva come Commendatore l’E.mo card. Flavio Ghigi. Questi rivendicò vari stabili che le erano stati sottratti. In seguito la commenda fu conferita al cav. Giovanni Pietro Bonacorsi. In questa occasione fu riparata la sua chiesa e fornita delle occorrenti suppellettili mentre prima era disadorna e sospesa. Poi si cominciò, ma con lentezza, ad officiare per quei vicini abitanti. Il cavaliere Bonacorsi poi ne trattò e convenne la permuta con la Commenda che teneva il Conte F. Lodovico Balio Caprara in Ascoli, con la partecipazione del Gran Maestro di Malta. L’impegno era il preciso obbligo di recuperare e rivendicare tutti gli stabili pertinenti a questa di S. Giovanni Battista già smembrati ed uniti ad altri della Commenda di S. Maria del Tempio di Bologna.

Il 7 febbraio, giorno delle Ceneri, terminata la predica in questa arcipretale e appena uscita la gente di chiesa, cadde presso l’altar maggiore un pezzo di coperto a causa di avere trascurato la presenza di infiltrazioni. Fu tosto riparata a spese della Comunità quantunque fosse stata spogliata del Jus presentationis.

 L’8 aprile, domenica di Passione, la Accademia locale degli Immaturi fece la sua adunanza nell’oratorio della Compagnia del SS.mo e qui, secondo l’uso introdotto dallo Scherlatini, diedero saggio del loro talento ad onore della Passione di N. S.  Si proseguì questa adunanza e recita di composizioni ad onore del Cristo miracoloso finché visse lo Scherlatini, defunto il quale, non la troviamo più fatta in questo oratorio.

Nel dì primo luglio 1696 entrò Consolo Lorenzo Gordini e Podestà il Conte Claudio Boschetti.

Pier Antonio fu Ottaviano fu Francesco fu Ottaviano fu un altro Cavazza, mio avo, detto comunemente Cavazzino per essere provenuto dall’ascendenza di Cavazzino Cavazza nel 1500, partigiano della fazione bentivolesca, faceva andare in questo Castello due negozi uno di calzoleria e l’altro di granelle. Era devoto dei SS. Crispino e Crispiniano, quindi chiese ai Padri locali M. O. di S. Francesco la facoltà di fare scolpire e mettere sopra la porta laterale della loro chiesa, in una nicchia grande, la statua di S. M. Lauretana e poi porre ai piedi di quella un piccolo quadretto rappresentante i due detti santi per fare poi con esso la festa nel loro giorno come protettori dell’Arte dei Calzolai.

Furono i frati compiacenti e, coll’approvazione del loro Provinciale, fecero la concessione a Pier Antonio Cavazza come priore pro tempore nel paese dell’Arte accennata. Tutti i capi di botteghe calzolaresche si obbligarono a solennizzare qui ogni anno la gloria di detti santi a loro spese e, in ringraziamento della grazia avuta dai frati, si impegnarono di somministrare in tal giorno in elemosina a quei poveri religiosi due gallinacci indiani, detti volgarmente tacchini. La festa, il giorno dedicato alla loro gloria, continuò nell’anno presente, in cui questi calzolai tennero chiuse le loro botteghe.

Non arrossisco scrivere che l’avo mio faceva andare una Arte meccanica e vile come la calzoleria, anzi ambisco che si sappia la verità, quando questa non disonora né macchia la famiglia.

Leggiamo dalle storie antiche che da famiglie mediocri sono derivati soggetti che alle loro patrie hanno fatto decoro e vantaggi. Isocrate nella Grecia fu figlio di un ciabattino e qual disonore ebbe? Tolomeo fu figlio di uno scudiero. Mario nato in Argino, figlio di un artigiano fu sette volte, Consolo in Roma. Probo fu figlio di un giardiniere. Sisto V di povera famiglia. Clemente XIV figlio di un chirurgo e barbiere di S. Arcangelo. I Belluzzi di Bologna ebbero l’origine da un calzolaio ed ora è famiglia chiara e nobilitata. Chi volesse su ciò discriminare le persone per l’origine non farebbe altro che disamorare le genti dalla virtù perché non sono le ricchezze che fanno gli uomini chiari al mondo ma le loro azioni e le loro opere.

I gesuiti, scontenti del fatto seguito contro i loro conversi incettatori di grani e forse per vendicarsi, al terminare di questo anno cessarono di fare le elemosine al paese ordinate dal Morelli. Dalle elemosine passarono all’inadempimento dei suffragi ordinati ed ogni altro bene spirituale. La popolazione di Castel S. Pietro iniziò forti proteste contro di loro. Quindi la povera Compagnia del SS.mo SS.to, come commissaria rimasta nel testamento Morelli, fu obbligata a intraprendere un giudizio civile.

Operò, per gli atti Monari, nel vescovato di Bologna senza speranza di essere gratificata non che rimborsata.  Abbandonò poi il giudizio e i gesuiti evitarono gli obblighi inerenti alla pingue eredità, alla quale, se non si sentivano in grado di sopportarne gli impegni, avrebbero dovuto rinunciare.

Giunto poi l’anno 1697 il giorno primo gennaio investì la carica di Consolo Pier Andrea Vanti e quella di Podestà il Conte Luigi Bentivoglio, il suo not. giusdicente fu Girolamo Giordani.

Calmata finalmente la discordia fra i preti della Congregazione del Suffragio con lo Scherlatini, furono stampati i suoi Capitoli.

Il 20 febbraio, primo giorno di Quaresima, si fece sentire il predicatore Frate Giuseppe Eustachio Maria Pozzi, Lettore e maestro di teologia domenicano nel convento di S. Giacomo di Forlì. Questi è il primo predicatore che si trova nominato a questo pulpito fuori del turno delle tre religioni locali di Castel S. Pietro. Si rileva da questo momento la abolizione parziale della concessione fatta dell’alternanza tra i regolari del paese. Questo predicatore albergò nella residenza pubblica del paese. Lasciò, al termine delle sue fatiche, una memoria del suo quaresimale, pesi, onori ed utili sulla predicazione a Castel S. Pietro stesa di suo pugno nell’archivio della Comunità.

Reso vacante il Beneficio Gottardi, di nomina della Comunità, fu presentato per Rettore D. Nicola Battisti. Quest’anno entrarono nella religione Cappuccina di Castel S. Pietro, Ottaviano di Domenico Gallanti e di Domenica dalla Valle e Giovanni Battista Ronchi, il primo col nome di Frate Giuseppe chierico e l’altro di Frate Antonio laico, ambi di ottima vita dei quali ne abbiamo scritto il loro elogio a parte.

Nell’anno scorso era nata in Bologna una forte ostilità fra il Conte Cornelio Pepoli e il Marchese Graffi.  Questi si batterono con le spade. Nell’anno presente l’ostilità si era rinnovata con seguito da una parte e l’altra. Mancò poco che tutta la città andasse all’arme mentre la nobiltà era divisa in due fazioni e girava sempre con gente armata. Le famiglie principali erano queste, per i Pepoli, Conte Ercole, Marchesi Antonio e Taddeo Pepoli, Marchese Giovanni Paolo e fratelli Pepoli e senat. Conte Filippo Aldrovandi. Per l’altro partito di Graffi erano il Conte Emilio e fratelli Zambeccari, Conte Andrea Segni, Conte Massimo Caprara, Marchese Antonio Albergati e Conte Francesco Albergati.

Il Legato card. Marcello Durazzo, per comporre le parti senza strepito e pubblicità, il giovedì 23 maggio venne a Castel S. Pietro a sue spese nel palazzo Locatelli, dove dimorò fino al sabato sera, allo scopo di comporre almeno le differenze fra i Pepoli e gli Zambeccari ma non ci fu modo. Se ne andò la domenica mattina a Faenza per incamminarsi verso Roma. Così abbandonò la città e le due fazioni, che erano venute a Castel S. Pietro. Proseguendo suo viaggio il cardinale incontrò fra Pesaro e Fano il nuovo Legato di Bologna card. Giovan Battista Spinola. Ebbero tra loro un lungo colloquio sopra questo fatto.

Giunto ad Imola il 29 maggio il card. Spinola fu alloggiato dal card. Dal Verme vescovo di quella città ed il giorno seguente venne a Castel S. Pietro. Fu incontrato a nostri confini dai senatori Conte Pompeo Ercolani e Giovanni Paolo Ranuzzi che immediatamente lo introdussero in Castello ove, giunto alla chiesa parrocchiale, fu ricevuto onorevolmente dall’arciprete. Dopo l’adorazione al SS.mo passò a piedi al palazzo Malvasia ove fu splendidamente pasteggiato a spese del Senato. La spesa ascese a 2.000 lire, spesa ridotta in quando in passato se ne spendevano 5, 6, 7 mila. Dimorò qui fino al dopo pranzo e partì sulle ore 19 per Bologna ove, dopo due giorni, fulminò un rigoroso bando per le armi da taglio e da fuoco.

Don Giovanni Gherlini di Castel S. Pietro era morto e aveva lasciato 900 lire alla Compagnia del SS.mo nel suo testamento, rogato il 4 dicembre 1694, col peso di celebrare tre messe perpetue il giorno di S. Giovanni evangelista nell’oratorio della compagnia. Il testamento ebbe solo in quest’anno il suo effetto poiché aveva una sorella monaca per nome suor Antonia in S. Agostino di Bologna che morì ella pure in quest’anno e così terminò il suo casato.

Il primo luglio 1697 entrò Consolo Giacomo Landi e Podestà il Conte Antonio M. Campeggi.

Per il fatto Pagani era stato condannato Marchione Fabbri al supplizio della morte. Furono fatte le difese legali nelle quali si elencarono i suoi meriti nella lotta contro il Turco e in difesa della Cristianità e i meriti della sua antica famiglia. In seguito di ciò si pose in oblio il tutto e fu commutata la pena. Non andò poi molto che il Marchione finì i suoi giorni, come ci lasciarono scritto i suoi antenati in questa forma:

 1698, Melchiorre Fabbri detto: Marchione, morì in Venezia idropico, fu sepolto in S. Geminiano. Questi fu alfiere in guerra per la Repubblica sotto il comando del Morosini. Fu egli il primo che piantò il vessillo della Croce nella fortezza di S. Maura presa per assalto. Del suo regimento morirono li ufficiali maggiori per lo che egli prendendo coraggioso la bandiera si mostrò nell’assalto con tutta prodezza uomo bravo di sua vita. Credeva per tale impresa divenir Capitano, ma deluso dal Morosini, che voleva pagarlo in contanti per investire altri in carica maggiore, rifiutò il danaro dicendo che non vendeva l’onore a prezzo. Sdegnato quindi fra non molto disertò colla bandiera nuotando per un tratto di alquante miglia per acqua e così sortì dal campo.

 Non si comprende come potesse Marchione rifugiarsi a Venezia dove forse era stato condannato a morte per la diserzione con la bandiera. Egli è ben vero che militava da volontario ma non gli era però lecito appropriarsi di una insegna che spetta sempre al sovrano.

Il 30 novembre finì i suoi giorni in questo castello nel suo palazzo il Marchese Gian Girolamo Locatelli, fu con solenne pompa portato prima alla chiesa di S. Bartolomeo, ove la famiglia Locatelli tiene non solo l’altare dedicato a S. Tomaso di Villanova ma anche l’avello sepolcrale,  da qui, ricevute le esequie il primo dicembre secondo la sua volontà, fu portato solennemente alla chiesa di questi padri cappuccini ove, ricevute il dì seguente nuove esequie, fu sepolto nella cappella della sua famiglia dedicata alla morte di Cristo, ove c’era un quadro della scuola del Tiarini ora trasportato nel coro dei frati.

1698 – 1700. Riunione nel convento di S. Bartolomeo del Capitolo Provinciale degli Agostiniani. Posata la prima pietra della cappella maggiore dell’arcipretale. Licenza del Senato di occupare parte della strada posteriore. Tragico suicidio dell’arciprete Scherlatini. La Comunità intraprende lite a Roma sullo Jus nominandi senza successo.

 L’anno successivo 1698 entrò Consolo il capitano Valerio Fabbri ed entrò Podestà il Conte Filippo Maria Ariosti.

Accadde a Bologna un grande incendio nella piazzetta in faccia la chiesa di S. Giovan Battista causato da polvere da sparo in casa del fabbricatore di polvere Tomaso Mazzanti.  Per tale disgrazia il Legato ordinò che da qui in avanti tutti i fabbricanti di polvere da sparo tenessero fuori di città le loro manifatture. Così fu intimato a Bartolomeo Ponti ed a Giovanni Astorri, fabbricatori di polveri in questo Castello, che dovessero fabbricarle fuori dell’abitato. Ubbidirono prontamente, il primo si fabbricò l’edificio che tuttora si vede in un pezzo di terra vicino all’oratorio di M. V. detta della Scania, l’altro si fece edificare un posto dal Conte Calderini, poco distante dalla porta superiore del Castello, all’inizio della lunga cavedagna che porta alla possessione detta Casa Torre. Questo edificio ora è distrutto ed è ridotto a casa di inquilino.

Domenica 13 aprile 1698, si celebrò il Capitolo provinciale degli Agostiniani in questo convento di Castel S. Pietro come aveva ordinato R. P. Angiolo Feliciani di Cesena, il quale era già stato predicatore quaresimale in questo Castello. Così egli ordinò perché il convento è in mezzo alla Provincia e poi perché così minore riesce la spesa. Si radunarono dunque a poco a poco i Padri convocati e, poiché il convento era piccolo, i religiosi furono distribuiti nei palazzi dei nobili bolognesi e nelle case dei paesani.

L’esordio del Capitolo cominciò con intervento di musici, il primo giorno si cantò la messa la mattina e poi il panegirico a S. Nicola da Tolentino, il secondo a S. Tomaso di Villanova, il terzo al Beato Antonio dalla Mendola, il quarto alla B. V.  della Cintura. Furono tutti egregiamente recitati dal P. baccelliere Agostino Caracci bolognese.  Ogni dopo pranzo vi fu un vespro solenne in musica. La sera del mercoledì giunsero da Bologna i Padri titolati per il giovedì seguente nel qual giorno si cominciò a votare ed in questo stesso giorno vi fu pure messa solenne e panegirico al Cuore di S. Agostino.

Il venerdì seguente tutti li Padri professi celebrarono le messe da morto colle esequie a tutti li Padri defunti nei sei anni precedenti. In seguito vi fu l’orazione funebre per i provinciali passati e i conventuali di Castel S. Pietro. Il dopo pranzo il Provinciale, terminante il suo ministero, salì sopra una sedia all’altar maggiore ove, fatta una breve orazione, chiese a tutti i congregati, che avessero lettere del generale o chirografi papali, li presentassero. Nessuno alle due chiamate d’invito si presentò. Finalmente alla terza chiamata, in virtù di S. Obbedienza sotto pena della censura, si presentò il P. baccelliere Turioli, figlio di questo convento, presentò una lettera che annunciava che era eletto presidente a questo Capitolo il Padre Mario Mani di Bologna.  A questa fu data immediata esecuzione. Assunta la carica Padre Mani propose tre soggetti, coram vocalibus, per Rettori i quali furono votati pubblicamente e passarono a pieni voti.

Il sabato seguente si cantò la messa solenne terminata la quale, fatta una orazione accademica latina, super electione Provincialis, e cantato il Veni creator, si procedette alla votazione nella quale si raccolsero i voti in due calici che furono rovesciati sopra un tavolo alla vista di tutti. Quindi, avendo serviti da scrutatori il R. P. Maestro Malvezzi priore del convento di Bologna col priore di Cesena, si alzò il Padre Malvezzi e ad alta voce pronunciò: In nomine D.ni N. J. Christi elegimus in Provincialem R. P. Magistrum Antonium de Sandris a Ravenna. In realtà era originario di Castel Guelfo ma fu detto di Ravenna per essere figlio di quel convento. Ciò fatto fu intonato l’Inno ambrosiano e proseguito musicalmente da cantori. Le schede furono tutte bruciate a vista del popolo. Pronunciato poi il nome del nuovo provinciale, si alzò la croce e si fece la processione di tutti i religiosi agostiniani fino alla parrocchia cantando l’inno: Magno Pater Augustine e così terminò la funzione. Furono poi creati i priori dei conventi della provincia. Al convento nostro di Castel S. Pietro fu eletto per un anno il Padre Filippo Soprani figlio del convento medesimo.

Il Generale dell’Ordine era in questo tempo il R.mo Padre Maestro Antonio Pacini ravennate. Lo stesso giorno di domenica furono eletti i Definitori per andare a Roma alla elezione di un nuovo Generale. Fra questi ci fu il provinciale nuovo, il Padre Maestro Mingarelli, il Padre Pazzino da Ravenna ed il Padre Domenico Vachi reggente di Cesena. Il dopo pranzo, dopo le laudi di M. V. della Cintura vi fu una conclusione di punti teologici di un giovine agostiniano bolognese, l’assistente fu il nuovo provinciale. Le Tesi furono dedicate al Consolo della Comunità che intervenne alla difesa con gli altri colleghi e così l’arciprete Scherlatini. Un foglio stampato di tale dedica si trova nell’archivio della Comunità.

Giovanni Raffaele Bertuzzi originario di Castel S. Pietro nato il 17 agosto 1628 ma poi domiciliato a Bologna a motivo degli studi, che fu nipote ex fratre di monsig. Girolamo Bertuzzi di cui si parlò, dopo avere presa la laurea dottorale in ambo le leggi in Bologna, divenne canonico ed arciprete della collegiata Basilica di S. Petronio, fu Lettor pubblico benemerito, protonotario di autorità apostolica.  Il 15 aprile di quest’anno finì i suoi giorni a Bologna in età d’anni 70. Fu sepolto nella sua parrocchia di S. Michele dei Leprosetti.

Il 3 maggio, giorno di sabato antecedente la domenica notte, cadde nelle nostre montagne verso Piancaldoli e nel monte Canda molta neve che portò un gran freddo, che non danneggiò i raccolti ma fece patire solo gli alberi e le viti per cui fu scarsa la vendemmia.

Il primo luglio 1698 entrò Consolo Nicolò Gattia e Podestà il Conte Francesco Segni.

Il 6 agosto morì il dott. Pier Giuseppe Asta nel tempo che prendeva questa acqua della Fegatella in casa del dott. Giuseppe Arighi di questo paese e fu sepolto in parrocchia.

Il Padre Antonio Terebilia di Bologna, attuale guardiano di questo convento di S. Francesco, chiese alla famiglia Ricardi, a cui era stato concesso l’altare dedicato a S. Antonio da Padova, di formare una nicchia, dietro al quadro, ove tenere la statua di S. Antonio. La famiglia si prestò alla domanda il 19 settembre di quest’anno.

Il 21 settembre Lorenzo Albinelli di Castel S. Pietro fu ucciso in patria.

Il 23 settembre l’arcivescovo di Bologna Giacomo Boncompagni venne per la seconda volta a fare la sua visita pastorale a Castel S. Pietro. Appena giunto fu ricevuto dallo Scherlatini coll’acqua benedetta alla porta della chiesa arcipretale. Subito si portò all’adorazione del SS.mo all’altare maggiore e, dopo averlo turificato tre volte, benedì il popolo qui concorso.  Fece poi l’assoluzione di requie ai morti, celebrò la messa e comunicò chi volle. Successivamente, addobbato pontificalmente, fece la cresima.

La descrizione della sua visita fu fatta nei termini seguenti: Questa chiesa fa anime in tutto 2651, atte alla comunione 1772. Segue una descrizione, in latino, dei Benefici ecclesiastici eretti in questo paese ed agli altari nelle rispettive chiese.

Perché il clero del paese era assai rilasciato nella condotta, quello regolare fu ammoniti dal loro superiore e il clero secolare fu ammonito dallo stesso arcivescovo. Queste ammonizioni dispiacquero moltissimo ai cleri che le supposero derivate dallo Scherlatini., al quale non mancarono rampogne ed ostilità. L’ostilità verso questo povero uomo crebbe a tal punto che in seguito fu accusato di avarizia, di poca affezione al tempio, non che alle suppellettili delle quali bisognava la sua chiesa.

L’arcivescovo ordinò che si fabbricasse la cappella maggiore. L’arciprete per convincere i malevoli e togliere la cattiva impressione all’arcivescovo si tassò di cento scudi in due rate.  Fu chiamata anche la Comunità a contribuire e questa si tassò di duecento scudi in cinque anni. La Compagnia di S. Caterina, del SS.mo e del Rosario si obbligarono ad una tassa fra loro. Furono fatti due Depositari che furono Giuseppe Villa e Giovanni Giorgi.

In questo tempo fu dichiarato dal Papa Cardinal Camerlengo il Legato Giovan Battista Spinola. Partì egli dopo poco e il 15 dicembre venne il nuovo Legato card. Ferdinando d’Adda incontrato a questo nostro confine dai senatori Conte Pompeo Ercolani e Conte Filippo Aldrovandi.

Il primo gennaio 1699 prese il possesso di Consolo Giovanni Paolo Fabbri e di Podestà il Conte Giuseppe Filippo Calderini.

Il 26 gennaio 1699 fu stipulata la pace fra il Turco e la Cristianità[140].

Il 10 marzo la Regina di Polonia Maria Casimira[141] unitamente al padre cardinale d’Arquien, passarono al nostro Castello accompagnati da molta nobiltà bolognese, il Vice Legato mons. Andrea S. Croce e i cavalleggeri. Qui furono ossequiati e gli fu augurato un buon viaggio a Roma.

Avuta la notizia della apparizione di M. V. ad una villanella nel comune di Castenaso, in un luogo detto del Pillaro e degli incessanti miracoli che avvenivano, si fece nel nostro Castello una unione di uomini e donne, al numero di 38, e si portarono a visitarla sotto l’insegna di una croce. Maria Madalena Mazzoli fu la favorita da M. V. in quel comune con una dolce chiamata e un celeste colloquio. Era una giovinetta di 19 anni devota di quella S. Immagine.

In questo mese si osservarono per alcuni giorni tre soli nel cielo due dei quali si videro andare per l’atmosfera producendo grandissimo calore e spavento a tutti. Furono preludio di funeste vicende.

L’11 maggio cadde una grossissima tempesta, che danneggiò tutto il contado, replicò il giorno 26, seconda festa delle rogazioni di M. V. fra venti e turbini. Non finì qui il danno poiché il 7 giugno nevicò in più luoghi e nel nostro comune e sopra la vicina collina cadde una gran tempesta che rovinò tutta l’alberatura. Replicò questo temporale il giorno 14 con un vento fortissimo che levò da terra i bovini che muggivano per l’aria con grande spavento. Nelle larghe e praterie del quartiere di Granara, sotto Castel S. Pietro, oltre le bestie furono levati in aria fanciulli e convenne alle donne sdraiarsi a terra per non essere sollevate.

Il card. arcivescovo aveva ordinato di mettere prontamente mano alla costruzione della cappella maggiore dell’arcipretale. Fu perciò stipulato, il 2 giugno, lo strumento di convenzione fra il priore della compagnia del SS.mo e l’architetto Giovan Battista Torri, col pagamento di 1.700 lire di Bologna in tre rate con il patto che fosse terminata la fabbrica nel giugno dell’anno prossimo.

Ciò stabilito si incominciò la fabbrica e il 18 giugno, festa del Corpus Domini, l’arciprete Scherlatini pose la prima pietra di fondazione, la seconda il Consolo della Comunità Giovanni Paolo Fabbri e le altre tre i priori delle compagnie del Rosario, di S. Caterina e del SS.mo.

La Comunità accordò, con licenza del Senato, che si occupasse parte della strada posteriore alla chiesa detta di Saragozza per formarvi il coro.

Il giorno primo luglio 1699 fu rinnovata la imborsazione dei consoli e fu estratto di nuovo Giovanni Paolo Fabbri che proseguì nella carica. Podestà fu il Conte Paolo Emilio Fantuzzi.

Questo mese terminò nel nostro Castello in modo funesto. Il giorno 31 luglio 1699 alle ore 18 si trovò l’infelice arciprete Ottavio Scherlatini impiccato con una fune ad una trave. Aveva 76 anni. Bartolomeo Galassi nella sua cronaca di Bologna così scrive: L’arciprete Scherlatini fu uomo virtuosissimo che, trasportato da un malinconico prodotto in lui da giusti rimproveri e male soddisfazioni avute dal card. arcivescovo, che lo vessava rigorosamente per la fabbrica della chiesa e per altre cose che lo fecero dementare, doppo avere fatto celebrare molte messe e fatta una orazione al popolo, andò sul granaro della sua canonica, nel fregio della quale fra diversi motti legevasi uno che diceva: Il fin dell’uomo avaro è il capestro, quasi che volesse un tal detto si verificasse in lui, che fu l’ultimo di sua nobile casa. Fu sepolto il primo agosto nella chiesa presso l’altare della SS. Trinità dedicato a S. Vincenzo.

 Appena si seppe l’arcivescovo deputò per economo della chiesa Don Sante Alberici di Castel S. Pietro. Nessuno fece le esequie e tanto meno il suo clero che tanto l’aveva amareggiato.

Nel primo campione degli atti della Congregazione dei Preti si legge seguente memoria scritta da Don Sabbatino Poggipollini segretario: Addì 31 lulio morì l’ill.mo sig. Don Ottavio Scherlatini arciprete di Castel S. Pietro, per certi motivi e consilio del molto Rev.sig. Penitenziere non si fecero le esequie.

Il Conte Giovanni Fantuzzi nei suoi Scrittori Bolognesi da conto di questo eccellente soggetto e dei suoi prodotti letterari. Riferisce che nacque a Bologna nel 1623, al battesimo fu chiamato Alessandro, nome che cambiò in quello di Ottavio quando nel 1639 prese l’abito religioso nei canonici regolari lateranensi di Bologna. Divenne arciprete di Villa Fontana presso Medicina. Ottavio era il nome di suo padre, la madre era di nome Margarita Locatelli, entrambi nobili di Bologna. Dopo la morte di Don Alessandro Comelli arciprete di Castel S. Pietro venne a questa chiesa l’anno 1667, Chiesa che fin qui era stata sempre di Jus patronato della Comunità. L’arcivescovo Boncompagni, strozzando le ragioni della Comunità, introdusse il 5 agosto lo Scherlatini. Per questo egli ebbe per lungo tempo delle ostilità che furono superate dalle sue buone maniere e dalle sue virtù.

Il Fantuzzi accusa poi, e taccia di inesatto, uno scrittore sulla morte dello Scherlatini, come pure il cronista Galassi, e fa propria la relazione dell’arciprete Don Sante Bartolomeo Calistri che scrisse un resoconto inventato. Nell’archivio parrocchiale intorno a questo arciprete nulla si ritrova scritto.

Quanto poi alle sue opere il Fantuzzi ne fornisce l’elenco. Noi sappiamo che le più importanti le compose a Castel S. Pietro e furono: L’uomo Simbolico, la Lettera della Chiesa ed il Virgilio, altri opuscoli ci sono capitati nelle mani ma di poca importanza e ne abbiamo fatto poco caso. Appena morto l’arciprete, la Comunità riassunse la sua giusta pretesa (allo Jus patronato) strozzata coll’istruire giudizio in Roma. Ma cosa si può fare contro potenti persone potenti, massime se sono quelle che sono al Governo?

L’arcivescovo in seguito fece pubblicare il concorso al termine del quale il 25 settembre fu fatta l’assegnazione della chiesa al Dott. Giovan Battista Nobili di Bologna cum derogatione Juris patronatus. In seguito di ciò il nuovo arciprete prese subito il possesso.

L’anno seguente 1700 il primo gennaio entrò Consolo il cap. Valerio Fabbri e Podestà fu il Conte Ercole Maria Bentivoglio.

Secondo l’uso di Santa Romana Chiesa fu pubblicato il Giubileo universale.

Allo scopo di proseguire la fabbrica della cappella maggiore, la Compagnia larga del Rosario concorse alla spesa, conforme la promessa fatta. Perciò, con gli avanzi degli anni 1698 e 1699, il depositario Giangiacomo Bolia pagò al depositario fabbriciere Giuseppe Maria Villa, 209 lire e soldi 10, moneta di Bologna.

Il nuovo arciprete dott. Giovan Battista Nobili, prete veramente cattolico e degno di una cura d’anime benché di scarsa ricchezza e beni di fortuna, aggiunse del proprio lire cento lire.  Così con maggior entusiasmo si proseguì la costruzione. Ma perché si accresceva il lavoro affidato all’architetto e capomastro Torri, con la costruzione di un mezzo circolo ovale ad uso di coro, fu necessario accrescere il pagamento. Fu questo convenuto in lire 480 e nel marzo seguente fu stipulato il contratto.

La Comunità aveva intrapreso, come si disse, la lite a Roma con la Mensa di Bologna sopra lo Jus nominandi.  Però l’erario comunitativo non aveva alcun fondo per affrontare le spese. Fu perciò fatta una congregazione fra gli stessi pubblici rappresentanti allo scopo di affrontare questo frangente. Il 21 gennaio fu deciso di fare la lite a spese dei componenti la stessa pubblica rappresentanza. A questo scopo fecero fra di loro una tassa mensile che, perché avesse il suo effetto, fu stabilita per pubblico rogito. I tassati furono i seguenti capitano Valerio Fabbri Consolo l. 5 per ogni mese, tenente Pier Andrea Vanti, Giovanni Paolo Fabbri, Nicolò Gattia, Giacomo Landi, Lorenzo Gordini si obbligarono con altri per il pagamento di l. 2 soldi 10 mensili a testa. A questi pubblici rappresentanti si aggiunsero altri individui del paese e furono Giuseppe Ronchi, Giovanni Giorgi, Vincenzo Benetti, Ottaviano Baroncini, Gian Giacomo Bolia, Pietro Andrini i quali si tassarono per mezzo scudo al mese.

Durò questa lite fino al 1727. In questa causa aveva interesse anche il Capitolo di S. Pietro di Bologna. Infatti il procedimento era che, all’occasione della vacanza della chiesa, la Comunità presentava tre soggetti al Capitolo che, di questi tre, ne propone uno all’Ordinario. Così fu anche promosso un dubbio legale sopra tale nomina ed elezione. Fu quindi interpellato il Capitolo a fare la nomina di uno dei tra presentati dalla Comunità. Il Capitolo, per non essere leso nei suoi diritti, ricorse al card. arcivescovo che lo convinse ad unirsi nella lite contro la Comunità.

In questo stato di cose come poteva una povera Comunità resistere a tanta forza?  Era stata abbandonata anche dalla sponda del Capitolo che, se la Comunità perdeva il suo diritto, lo avrebbe perso anche lui.  Sono opportuni in questo caso i versi di Petronio Arbitro.

Quid faciant Leges ubi sola pecunia regnat

aut ubi paupertas vincere nulla potest?[142]

Angiola Fabbri benestante di Castel S. Pietro riconoscente delle grazie ottenute da M. V. del Rosario, lasciò alla pia unione locale, il 16 marzo, una sua piccola casa nella via di Saragozza di questo Castello.

L’11 aprile, giorno di Pasqua, sul mezzogiorno, si sentì il terremoto, ma nessuno si fece male.

Il 13 aprile, stante la pace seguita nello scorso anno fra il Turco e la Cristianità, quei Tartari se ne andarono da tutti gli stati cattolici.  Non vi fu paese che non dimostrasse il suo giubilo con ringraziamenti a Dio. Codesti Padri M. O. di S. Francesco, che avevano dei loro religiosi nella Turchia che erano stati preservati dalle stragi dei turchi, fecero nella loro chiesa un solenne ringraziamento mediante l’esposizione del SS.mo e Te deum e la sera si fecero fuochi di gioia.

Il 3 giugno Vincenzo Casarenghi, ultimo della sua chiara famiglia originaria di Castel S. Pietro morì a Bologna, in età di anni 74. Lasciò per erede la Congregazione de’ Vergognosi di Bologna della sua pingue eredità con molti pii legati. Fra questi ordinò di dovere ogni anno dare una medaglia agli accademici Clementini della Specola, che se la fossero meritata nel concorso del Disegno e del Nudo. Fu sepolto in S. Giovanni in Monte nell’Arca Vizani.

La Congregazione dei Preti fece un anniversario solenne nella chiesa della SS. Annunziata in questo Borgo per le anime di tutti i suoi preti defunti. Assistette a tutti i riti il nuovo arciprete Nobili ed il giorno stesso, che fu il 7 giugno, si fece inscrivere in quella.

All’entrare di luglio intraprese il suo officio di Consolo Lorenzo Gordini e così fece il Podestà Marchese Leopoldo Pepoli.

In settembre morì Papa Innocenzo XII Pignatelli d’anni 85. Il 27 novembre i cardinali, in numero di 23, elessero a pieni voti per Pontefice il card. Gianfranco Albani col nome di Clemente XI.

Il primo novembre 1700 era morto il Re cattolico sovrano della Spagna Carlo II d’Asburgo[143]. Nel suo ultimo testamento designò suo erede nella monarchia di Spagna il Duca d’Angiò Filippo di Borbone[144], secondogenito del Delfino di Francia (e nipote di Luigi XIV).  

l’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo[145], ciò saputo, pretendendo diritti di successione, decise di non ammettere tale testamento[146]. Questo fece anche perché c’erano stati accordi di esclusione perpetua della Francia nella monarchia della Spagna. Quindi spedì subito tredici reggimenti in Italia a quali furono poi aggiunti altre milizie alleate fino al numero di 30 mila combattenti.

La Francia, che voleva il rispetto del testamento, diresse le sue truppe nel torinese ed assoldò anche italiani. In queste truppe vi andarono vari del nostro Castello, capo dei quali si fece Giovan Battista Pirazzoli d’onde per questo fatto fu chiamato Capitano.

Non ostante questi armamenti l’arciduca Carlo fece sapere a suo padre l’Imperatore che amava la pace in Europa. Fu proposto per ciò il matrimonio di una Arciduchessa d’Austria col nuovo Re di Spagna.  Mentre si trattava questa pace fu spedito in Italia per Commissario generale delle truppe imperiali il Conte Brajner per cui poi successero vari movimenti di truppe anche negli stati pontifici.

Il 16 dicembre fu estratto Podestà di Castel S. Pietro il Marchese Bartolomeo Marsigli e il 27 per Consolo fu estratto Pier Andrea Vanti.  Entrambi investirono la rispettiva carica il primo gennaio 1701.

I Padri Gesuiti avevano istituito in Roma la funzione di cantare l’ultimo giorno dell’anno il Te deum in ringraziamento a Dio dei passati benefici. Il nostro arcivescovo di Bologna ordinò pure lui una tale funzione a tutte le parrocchie e fraterie della sua diocesi.  Così il giorno 31 dicembre tanto fu eseguito nel nostro Castello. In questo fatto spiccò più di ogni altra chiesa la religione dei nostri cappuccini locali sia per la devozione sia per la orazione.  Così terminò l’anno 1700.


[1] Astorre e il fratello in realtà furono portati a Roma, rinchiusi in Castel Sant’Angelo e assassinati l’anno seguente. I loro cadaveri furono ritrovati nel Tevere il 4 giugno 1502.

[2] Vitellozzo Vitelli (Città di Castello 1458 – Senigallia 31 dicembre 1502) Condottiero e politico. Ucciso dal Duca Valentino.

[3] Eleonora Bentivoglio ( ? – 1540) Figlia di Giovanni II Bentivoglio e vedova di Giberto Pio ( ? – 1500)

[4] Armaciotto de’ Ramazzotti, detto Ramazzotto (1464 – 1539). Noto capitano di ventura

[5] Paolo Orsini (1450 – 1503) Condottiero e politico. Ucciso dal Duca Valentino

[6] Francesco Orsini (1455 – 1503) Duca di Gravina. Ucciso dal Duca Valentino

[7] Pandolfo Petrucci (Siena, 1452 –  1512) Importante politico senese.

[8] Gianpaolo Baglioni (Perugia 1470 – 1520) Condottiero e Signore di Perugia

[9] Annibale (1467 – 1540), Ermes (1475 – 1513) sono figli di Giovanni II Bentivoglio.

[10] Dopo la riconciliazione con i ribelli, tra i quali vi era anche Oliverotto da Fermo, il Valentino attuò la sua vendetta che fu raccontata dal Macchiavelli nella sua opera: Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo (Paolo Orsini) e il Duca di Gravina Orsini.

[11] Charles de Chaumont (Carlo II d’Amboise) (1473 –  1511) Politico e militare francese.

[12] Georges I d’Amboise (1460 – 1510) è stato un cardinalepolitico e arcivescovo  francese.

[13] In realtà si tratta di Luigi XII di Valois-Orleans (1462 – 1515) Re di Francia dal 1498 al 1515.

[14] Francesco II Gonzaga (1466 – 1519) Marchese di Mantova dal 1484 al 1519.

[15] Massimiliano I d’Asburgo ( 1459 –  1519) Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 alla morte.

[16] Per partecipare personalmente all’assedio ed alla conquista di Mirandola (19 dicembre 1510 – 20 gennaio 1511)

[17] Gian Giacomo Trivulzio (1440 –  1518) Militare e politico milanese al servizio dei Re francesi.

[18] Maggio 1511, restaurazione dei Bentivoglio a Bologna col sostegno dei francesi.

[19] Marcantonio I Colonna (1478 – 1522), Giovanpaolo Baglioni (1470 – 1520), Giovanni Sassatelli (1480 – 1539) Sono tutti condottieri al servizio del papa.

[20] Fabrizio I Colonna (1460 –  1520) Condottiero e capitano di ventura italiano.

[21] Gaston de Foix-Nemours ( 1489 – Ravenna11 aprile 1512). Giovanissimo comandante generale dell’esercito di Luigi XII in Italia. Per le sue vittorie fu soprannominato “Folgore d’Italia”. Morì nella vittoriosa battaglia di Ravenna a soli 22 anni.

[22] Francesco Maria I Della Rovere (1490 –  1538) Nipote di Giulio II, duca di Urbino e Sora.

[23] Francesco I di Francia ( 1494 –  1547) Re di Francia dal 1515 fino alla morte.

[24] Il riferimento è alla battaglia di Agnadello 14 maggio 1509, tra Luigi XII di Francia e Venezia.

[25] Battaglia di Marignano, 13 settembre 1515 tra Francesco I con i veneziani contro gli Sforza, gli svizzeri e il Marchese di Mantova.

[26] Era credenza popolare che il tocco di un Re, soprattutto se di Francia, guarisse la scrofoliosi.

[27] Lorenzo di Piero de’ Medici (1492 –  1519), fu signore di Firenze  ed unico duca di Urbino della dinastia MediciNiccolò Machiavelli gli dedicò Il Principe 

[28] Odet de Foix, conte di Lautrec (1485 – 1528). Alessandro Trivulzio, Conte di Musocco ( ? – 1521). Teodoro Trivulzio (1458 – 1532). Conte Ugo Pepoli (1484 – 1528). Sono tutti comandanti militari.

[29] Assedio del Castello di Mondolfo, 4 aprile 1517. È un episodio della guerra di Urbino.

[30] Carlo V d’Asburgo. (1500 – 1558), Re di Spagna, Due Sicilie, Sardegna e Paesi Bassi dal 1516. Gran Duca d’Austria e Imperatore del S.R.I. (Germania e Nord Italia) dal 1519.

[31] Martin Lutero ( 1483 –  1546) riformatore religioso e iniziatore nel 1517 del protestantesimo.

[32] Solimano I, detto il Magnifico ( 1494 –  1566), Sultano dell’Impero ottomano dal 1520 alla sua morte.

[33] Federico II Gonzaga ( 1500 – 1540), Duca di Mantova dal 1530. 

[34] Francesco II Sforza ( 1495 –  1535) Ultimo Duca di Milano indipendente dal 1521 al 1535

[35] Carlo III di Borbone, conosciuto anche come Conestabile di Borbone ( 1490 – Roma6 maggio 1527), guidò l’esercito spagnolo al Sacco di Roma ove morì.

[36] Guillaume Guoffier de Bonnivet (1488 circa – Pavia24 febbraio 1525) Comandante militare francese.

[37] Prospero Colonna ( 1452 –  1523) Condottiero italiano.

[38] Fernando Francesco d’Avalos Marchese di Pescara (1490 – 1525). Condottiero italiano.

[39] Hugo de Moncada (1476 – 1528) Nobile e militare spagnolo.

[40] Carlo di Lannoy (1487 – 1527) Militare e statista dei Paesi Bassi in servizio presso gli imperatori Massimiliano I e Carlo V.

[41] Pace di Cambrai, 5 agosto 1529 tra Francesco I, Re di Francia, e Carlo V, Re di Spagna. Medici tornano a Firenze. Il Ducato di Milano dato a Francesco II Sforza, finché vive.

[42] Antonio de Leyva,  (1480 –  1536), condottiero e nobile spagnolo, governatore del ducato di Milano.

[43] Pier Luigi Farnese (1503 –  1547) Primo duca di Castro e di Parma  figlio del prossimo  papa Paolo III.

[44] Francesco Guicciardini (1483 –  1540) Scrittorestorico e politico. Governatore a Bologna dal giugno 1531 all’ottobre 1534.

[45] Khayr al-Dīn Barbarossa, (1478 – 1546), Famoso corsaro e ammiraglio ottomano

[46] Fu chiamata Lega Santa (una delle tante) Comprendeva oltre al papato e la Spagna, le repubbliche di Genova e Venezia e i Cavalieri di Malta

[47] Questa flotta al comando del genovese Andrea Doria fu sconfitta il 28 settembre 1538 a Prevesa dal comandante turco Barbarossa.

[48] Si dovrebbe trattare dei così detti Colloqui di Ratisbona dal 27 aprile al 22 maggio 1541 per evitare la definitiva rottura tra cattolici e protestanti.

[49] Conciatore di pelli.

[50] L’incontro avvenne nel giugno 1543 a Busseto.

[51] È Il Concilio della Controriforma contro Lutero, convocato da Paolo III nel 1545. Fu trasferito a Bologna dall’aprile al settembre 1547.

[52] È il secondo assedio alla fortezza della Mirandola, Difesa da Duca di Parma Ottavio Farnese appoggiato dal Re di Francia e attaccata dalle truppe dello Stato Pontificio appoggiate da Carlo V. L’assedio, durato dal luglio 1551 al marzo 1552, non ebbe successo.

[53] Giovanni Bernardi (1494 – 1553) incisoremedaglista e orafo italiano

[54] Paolo Giovio (1483 circa – 1552)  Vescovostoricomedicobiografo e diplomatico italiano.

[55] È la così detta guerra Asburgo-Valois tra Carlo V, alleato con il regno d’Inghilterra, i Medici, i genovesi e i Savoja contro Il Re di Francia, Enrico II di Valois e la Repubblica di Siena. Durò dal 1551 al 1559. In Italia portò alla fine della repubblica senese

[56] Alessandro Rangoni (1532 – 1572) Condottiero e Signore di Castelvetro.

[57] Filippo II (1527 – 1598) Figlio di Carlo V, gli succede dopo la sua abdicazione nel 1556.

[58] Francesco I di Guisa (1519 – 1565) Condottiero francese.

[59] Ex voto in forma di piccola tavola dipinta, con la rappresentazione del miracolo o della grazia ricevuta.

[60] Si tratta di una specie di budino fatto con farina e mosto dell’uva. Tipico del periodo della vendemmia.

[61] Sito nel Comune di Casola Valsenio

[62] Ferdinando I d’Asburgo ( 1503 – 1564), fratello di Carlo V, gli succede come imperatore dopo la sua abdicazione.   

[63] Massimiliano II d’Asburgo (1527 –  1576) Imperatore dal 1564 al 1576.

[64] Selim II, (1524 – 1574) figlio di Solimano il Magnifico. Sultano dell’impero Ottomano dal 1566.

[65] Marcantonio II Colonna (1535 –  1584) nobilecondottieroammiraglio e mecenate italiano

[66] Giorno della vittoria navale di Lepanto.

[67] Lega formata dall’Impero Spagnolo, Repubblica di Venezia, Cavalieri di Malta, Stato Pontificio, Repubblica di Genova e ducati di Savoja, Firenze, Urbino e altri minori signori italiani.

[68] Alfonso Piccolomini (1558 – 1591) Duca di Montemarciano, capitano di ventura e bandito.

[69] Rodolfo II d’Asburgo (1552 –  1612) Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1576 al 1612.

[70] Fontana del Nettuno (1563/66) costruita durante la legazione del Cardinale Pier Donato Cesi

[71] Erano le regole che ogni Arte o Corporazione imponeva a chi volesse esercitare la relativa Arte.

[72]E’ la riforma del calendario che prende il nome dal papa Gregorio XIII, che la introdusse il 4 ottobre 1582 con la bolla papale Inter gravissimas

[73] Erano così indicati i venditori, sopra tutto di granaglie, farine e pane, provenienti da fuori legazione, Imola, Castel Bolognese, comuni montani della valle del Santerno.

[74] Enrico III di Valois (1551 – 1589)  Re di Francia dal 1574 al 1589.

[75] Enrico III di Navarra, Poi Enrico IV di Borbone (1553 – 1610) Re di Francia dal 1589 al 1510.

[76] Il titolo doveva essere del tutto onorifico perché il castello di S. Polo forse non esisteva più.

[77] Rodolfo II d’Asburgo (1552 –  1612) è stato Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1576 al 1612.

[78] Ferdinando I de’ Medici ( 1549 –  1609), Granduca di Toscana dal 1587 al 1609. 

[79] Gian Francesco Aldobrandini, I principe di Meldola e Sarsina ( 1545 –  1601), Generale e diplomatico italiano. Condusse tre spedizioni contro gli Ottomani con l’esercito pontificio

[80] Cherubino Ghirardacci (1519 –  1598) Frate agostiniano e storico, scrisse una Historia di Bologna dalle origini al 1508.

[81] Il documento della donazione è ora conservato nell’Archivio Storico Comunale.

[82] Alfonso II d’Este ( 1533 –  1597) Duca di Ferrara dal 1559 alla morte. 

[83] Cesare d’Este ( 1562 – 1628) Duca di Modena e Reggio dal 1598 fino alla morte.

[84] Sono stati imperatori romani dell’inizio del V secolo d.C.

[85] Era così chiamato un colore azzurro-cenere.

[86] Si tratta della guerra per la successione nel Ducato del Monferrato, zona di importanza strategica per l’impero spagnolo per collegare Milano al porto di Genova.

[87] Ferdinando Gonzaga (1587 – 1626) Duca di Mantova dal 1612 al 1626.

[88] Carlo Emanuele I (1562 – 1630) Duca di Savoia dal 1580 al 1630

[89] In realtà gli schieramenti erano: la Francia col Duca di Savoia e la Spagna col Duca di Mantova.

[90] Era una schiacciatina di farina, di solito di castagne, cotta sulla lastra.

[91] Soldato scelto che prestava servizio come guardia personale del comandante in capo.

[92] Seconda guerra di successione del Monferrato (1628 – 1631) tra due rami dei Gonzaga, uno appoggiato da Francia e Venezia e l’altro da Spagna e Ducato di Savoia.

[93] Il riferimento dovrebbe essere alla cosiddetta “Guerra dei 30 anni” (1618 – 1648) Tra una coalizione guidata dagli Asburgo ed una antiasburgica guidata da Francia, Inghilterra, Paesi bassi, Danimarca. L’episodio italiano fu la guerra di successione di Mantova e del Monferrato.

[94] Forse questo è l’inizio della festa castellana del Crocefisso.

[95] I membri di quest’ordine furono comunemente chiamati “Scolopi”.

[96]  O bisciabura. Così fino a poco tempo fa si chiamavano qui le trombe d’aria, forse per la loro forma.

[97] Attuale via A. Volta

[98] Questa lapide si trova tutt’ora nella parete sud della torre, sopra la porta.

[99] Questa lapide si trova ora sotto il passaggio della porta, a destra appena dopo l’entrata

[100] Ferdinando III d’Asburgo (1608 – 1657) Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1637 alla morte.

[101] Taddeo Barberini, principe di Palestrina  ( 1603 – 1647), è stato un militare e nobile italiano.

[102] Odoardo Farnese (1612 – 1646) Duca di Parma e di Castro dal 1622 alla morte.

[103] Il Feudo era stato creato da papa Paolo III a favore del figlio Pier Luigi farnese.

[104] In realtà Francia, Ducati di Toscana e di Modena e Venezia appoggiarono il Farnese.

[105] Settembre 1641

[106] Frazione di Castelfranco

[107] Venditore al minuto di cose mangerecce. (Dizionario Zingarelli)

[108] 31 marzo 1644. Riconciliazione con la S. Sede e restituzione a Edoardo Farnese del Ducato di Castro.

[109] Incaricati a munire di cibo la città, cioè ai rifornimenti.

[110] Ranuccio II Farnese ( 1630 – 1694) duca di Parma e Piacenza, dal1646 alla morte e ultimo duca di Castro, dal 1646 al 1649.

[111] È la seconda guerra di Castro (1646 – 1649).

[112] Battaglia di San Pietro in Casale, 11-13 agosto 1649

[113] E’ la cometa non periodica C/1652 Y1,  scoperta da Jan van Riebeeck il 17 dicembre 1652.

[114] L’epidemia di peste colpì soprattutto il Regno di Napoli, provocando oltre 200.000 morti.

[115] Da gnomonica: l’arte di costruire orologi solari

[116]  Sistema ottico costituito esclusivamente da superfici riflettenti come specchi.

[117] Si tratta del prestigioso Collegio Comelli per giovani bolognesi meritevoli negli studi. È stato attivo fino al 1833. Poi ha continuato erogando sussidi poi borse di studio e premi di Laurea.

[118] Attuale via P. Inviti.

[119] Attuale inizio di via Decumana.

[120] Candia era la capitale dell’isola di Creta, persa dai veneziani l’anno precedente 1669

[121] Alfonso II Gonzaga ( 1616 –  1678) Conte di Novellara e Bagnolo dal 1650 al 1678.

[122] Trasportatore di brente = bigonci per il mosto. 

[123] Il riferimento dovrebbe essere alla “Guerra d’Olanda” (1672 – 1678) tra la Francia di Luigi XIV e l’Olanda e gli Asburgo di Spagna e Impero. Termino con il trattato di Nimega del febbraio 1679.

[124] Si tratta quinta guerra austro –turca (1683 – 1699) che l’Impero Ottomano inizia assediando Vienna.

[125] Leopoldo d’Asburgo (1640 –  1705) Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1658Re di Ungheria dal 1655, di Boemia dal 1656 e di Croazia  dal 1658.

[126] Battaglia di Vienna (11- 12 settembre 1683)  che pose fine a due mesi di assedio.  

[127] In realtà fu vinta dall’esercito soccorritore guidato dal re polacco Giovanni Sobieski (1643 – 1690). Eugenio di Lorena sembra un incrocio tra il Principe Eugenio di Savoia e il Duca Carlo di Lorena che entrambi parteciparono alla battaglia.

[128] Enea Silvio Caprara (Bologna 1631 – Vienna 1701) Militare, arrivò al grado di feldmaresciallo nell’esercito austriaco.

[129] Zona dell’Ungheria che fa riferimento alla città di Esztergom.

[130] Forse si tratta di Francesco Morosini (1619 – 1694) Ammiraglio veneziano poi Doge, che tra le altre cose conquistò l’isola greca di Santa Maura (Leucade).

[131] Tutti tendiamo a questo fine, tutti ci affrettiamo ad un’unica mèta; la tenebrosa morte chiama tutte le cose sotto le sue leggi

[132] Massaro forse derivava da “Capo della Massa” intesa come squadra armata.

[133] La fortezza fu conquistata dopo due mesi di assedio il 2 settembre 1686       

[134] Si tratta della guerra di Morea (Peloponneso) (1684 – 1699) della Repubblica di Venezia contro l’Impero Ottomano.

[135] Francesco Maria Pico (1661 – 1689), erede designato di Alessandro II Pico (1631 – 1691) duca di Mirandola.

[136] Francesco Maria II Pico (1668 – 1747), duca di Mirandola dal 1691 al 1708.

[137] Livio Odescalchi 1652 – 1713) nipote di papa Innocenzo XI, militare e grande mecenate e collezionista d’arte.

[138] Brigida Pico (1633 –  1720) reggente di Mirandola dal 1691 al 1706, per conto del pronipote Francesco Maria II Pico

[139] È la guerra tra la Francia e la Lega di Augusta (1688 – 1697) che coinvolge anche il Ducato di Savoia.

[140] La pace di Carlowitz  mise fine alla guerra tra la Lega Santa e l’Impero ottomano (1683 – 1697)

[141] Maria Casimira Luisa de la Grange d’Arquien (1641 – 1716) Regina consorte di Polonia dal 1674 al 1696.

[142] Che possono le leggi, là dove solo il denaro ha potere, o dove la povertà non ha mezzi per vincere?

[143] Carlo II d’Asburgo (1661 – 1700) Re di Spagna dal 1665.

[144] Filippo duca d’Angiò (1683 – 1771) figlio secondogenito del Delfino di Francia e nipote di Luigi XIV e della figlia del precedente re di Spagna Filippo IV.

[145] Leopoldo I d’Asburgo (1640 – 1705) Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1658.

[146] Il successore avrebbe dovuto essere il figlio Carlo. Entrambi i contendenti avevano, come nonne o zie, sorelle e figlie dei re di Spagna. Inizia la cosiddetta “Guerra di Successione spagnola” (1701 – 1714)