ERCOLE OTTAVIO VALERIO CAVAZZA

RACCOLTO DI MEMORIE ISTORICHE di CASTEL SAN PIETRO Volume 1°

Trascrizione a cura di Eolo Zuppiroli

Prefazione

Riprendiamo la pubblicazione della trascrizione della Storia di Castel S. Pietro col primo volume che va dalla decisione di fondare il Castello nel 1198 all’inizio del 1500. il Cavazza ha diviso il volume in tre capitoli che chiama Centurie, una per ogni secolo.
All’inizio premette l’elenco delle sue fonti, di cui diverse da archivi privati, che sono trascritte in appendice ( Appendice 1)
La prima Centuria, il 1200, inizia con l’interpretazione del Cavazza dei criteri usati dai bolognesi per la costruzione del Castello, della sua struttura e dell’origine del nome delle strade. Quindi , per giustificare anche la nobiltà e la storia del sito scelto, illustra alcuni ritrovamenti di età romana.
Dall’inizio del secolo Il comune bolognese sta imponendo e rafforzando la propria egemonia sul territorio e cercando di espanderla. Dalla parte est è contrastata dai romagnoli. Bologna, come i maggiori comuni dell’Italia settentrionale, ha acquistata la propria autonomia appoggiando il papato nella sua contesa con l’Imperatore. Imola, che è la mira più immediata delle pretese territoriali bolognesi, quindi parteggia e chiede l’aiuto all’imperatore.
Quando l’Imperatore viene in Italia e porta con se truppe, gli imolesi si fanno forti. Il Papa è un’autorità spirituale e poco può aiutare i bolognesi militarmente. Ma poi non sempre le truppe imperiali sono presenti oppure ci sono problemi di successione nell’Impero e allora Bologna riprende potere.
Per la prima metà del XIII secolo Castello si trova in prima linea nel fronte orientale. Del resto è stato costruito appunto per questa funzione. Quindi si susseguono assedi, distruzione delle difese, successive riprese di possesso e ricostruzione delle difese, che per la verità non erano molto forti trattandosi di fossati e palizzate che potevano facilmente essere riempiti ed abbattute, ma anche poi riscavati e ricostruite.
In questa lotta tra imperiali e papisti, guelfi e ghibellini, Bologna raggiunge il suo maggior successo con la battaglia di Fossalta del 1249 nella quale fa prigioniero Enzo figlio dell’imperatore Federico II. Imperatore che morirà l’anno successivo e così scompare uno dei più forti nemici della causa guelfa.
A questo punto il confine est dovrebbe essere tranquillo. Purtroppo i nostri antenati avevano caratteri piuttosto puntigliosi e rissosi. Nel nostro caso i bolognesi si spartiscono in due fazioni. La cosa non è strana. Famoso è il caso di Firenze con la divisione tra Bianchi e Neri e l’esilio di Dante. I bolognesi si dividono in Geremei e Lambertazzi dal nome delle due famiglie leader.
Tutta Bologna è guelfa ma, poiché soccombenti sono i Lambertazzi e vengono espulsi dalla città, questi cercheranno aiuto nei ghibellini romagnoli. Di nuovo Castello viene assediato, occupato, saccheggiato, distrutte le difese, liberato, ricostruite le difese. Nel frattempo tutto il territorio è soggetto a depredazioni, saccheggi, ruberie sia dalle truppe nemiche che da quelle amiche, le prime per ostilità le seconde per sostenersi e alimentarsi.
Il secolo termina con la pace di Monte del Re del 1299 coi comuni romagnoli (Faenza, Cesena e Forlì). Imola è richiesta dai Bolognesi ma non viene concessa.
Il secolo successivo, narrato nella Centuria seconda, si apre nel nome di Romeo Pepoli potente banchiere e possidente. la sua fazione chiamata delli Scacchesi dal simbolo araldico rappresentante una scacchiera, lo strumento per fare di conto. Nel 1321 viene sconfitta dalla fazione opposta dei Maltraversi e Romeo viene cacciato da Bologna e i suoi beni requisiti. Da Castello tenta il ritorno ma invano, l’anno successivo muore ad Avignone. Questi disordini rendono necessario al Comune di Bologna il rafforzamento delle difese. A Castello si costruisce la Rocca grande ove ora c’è l’edificio del Comune. I Pepoli comunque, dopo vari tentativi, facendo base a Castello, preso e riperso varie volte, rientrano a Bologna e con Taddeo Pepoli ne diventano i Signori.
In questi anni viene costruita, 1338, la chiesa dell’Annunziata e 1345 la chiesa di S. Bartolomeo col convento degli Agostiniani. La chiesa dell’Annunziata sarebbe stata costruita per gli studenti dell’università di Bologna trasferiti a Castello perché il Papa, in lite con Taddeo Pepoli, aveva interdetto la città e lo studio non poteva starci.
E’ questo uno dei tanti interventi della S. Sede per affermare il proprio dominio su Bologna, che spesso era stato solo virtuale. Nella seconda metà del 1300 gli interventi diventeranno sempre più aggressivi, anche per la debolezza del Comune che doveva chiedere il suo aiuto.
Il 1400 è l’ultimo secolo in cui si può ancora parlare di qualche autonomia del Comune bolognese. Il tentativo dei Bentivoglio di creare una Signoria a Bologna non riesce e nei primi anni del 1500 Bologna cade definitivamente sotto il potere pontificio.
I primi anni del 1400 si aprono con parecchia confusione nell’ambiente ecclesiastico, nel 1410 ci sono contemporaneamente 3 papi. Uno di questi, Giovanni XXIII, a causa di una pestilenza a Bologna, portò per un paio di mesi la Santa Sede a Castello con un seguito di 21 cardinali.
Il resto del 1400 è un susseguirsi di passaggio di truppe di ventura al soldo del Papa, al soldo di Milano, al soldo di Venezia, tutti i più famosi capitani di ventura passano da queste parti, occupano, saccheggiano. assediano. E adesso sono in uso le armi da fuoco, bombarde, spingarde quindi nuovi problemi per le difese. Non bastano più i fossati e le palizzate, le mura non servono alte ma grosse.
A Bologna finalmente Giovanni II Bentivoglio riesce a non farsi ammazzare come i suoi avi e riesce a diventare per una quarantina d’anni signore di Bologna, ma sarà l’ultimo bolognese a capo della città.
Nel corso di questi secoli agitati come protagonisti sempre presenti ci sono i fuorusciti che possono essere di due tipi, i comuni violatori delle numerose leggi e i veri e propri delinquenti. Per tutti questi c’erano solo due tipi di pene: quella pecuniaria, poco applicata, e quella capitale. Poi c’erano, molto più numerosi, i fuorusciti politici. Questi erano i più pericolosi perché dotati di potere economico, amicizie, alleanze, mettevano continuamente in pericolo ogni possibile forma di stabilità.
Alla fine del secolo a vivacizzare ulteriormente l’ambiente, il Papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, per amore del figlioletto Cesare cerca di fargli conquistare la Romagna. Così da quella parte arriva presto al confine bolognese. Per fermarlo Bologna dovrà cedere al Duca Valentino Castel S. Pietro. Ma questo avviene nel 1501 quindi se ne parlerà prossimamente.
Eolo Zuppiroli

P.S. La fedeltà della trascrizione al manoscritto ritengo essere abbastanza buona per quanto riguarda la parte scritta in toscano, come dice il Cavazza, diverso è il discorso per le tante parti scritte in latino. Per queste occorrerebbe la revisione di un esperto con la copia originale del manoscritto. Per il futuro si vedrà, al momento questo è lo stato dell’arte con una trascrizione del latino da chi lo ha studiato fino a 60 anni fa e lo ha subito dimenticato. Quindi si tenga conto che la fedeltà della trascrizione delle parti in latino è piuttosto incerta. Eolo Zuppiroli 2019

RACCOLTO di MEMORIE ISTORICHE di CASTEL SAN PIETRO
nella Giurisdizione di Bologna sotto l’appoggio di M. Tullio, che
Non ex sermone Hominum recenti, sed ex
Annalium Vetustate eruenda est Memoria Cic. Pro. Mur.
Alle quali si uniscono altre Notizie di diversi Luoghi, persone
e fatti per la influenza che hanno nella Storia compilate da
ERCOLE VALERIO CAVAZZA e divise in cinque centurie

L’Autore a suoi concittadini
L’amore alla Patria fu sempre giudicato un atto piuttosto di beatitudine, che effetto di volontà. Empio chi non l’ama. Traditore chi la offende e sconoscente chi non le contesta il suo amore.
Ciò in mia mente rivolgendo, ne avendo da sei secoli, che è fondata questa nostra di Castel S. Pietro, umanissimi concittadini, ritrovato alcuno che siasi messo a cuore le memorie particolari di essa, raccore non che produrre, come hanno fatto li buoni cittadini di tanti altri luoghi di minor lustro, non ho potuto a meno di condolermi fra me stesso, tanto piu’ che ha materia degna al mio pensare di essere rinovata alla mente delli amanti delle patrie notizie e di altre cose che hanno con essa conessione.
Egli è vero che il P. Gian Lorenzo Vanti, Minor Osservante, nazionale di questo luogo, ne ha lasciato alquante manuscritte, ma sono così poche in proporzione che ne ha fatto crescere il desiderio di averne più copiosa la messe.
Quindi acceso da tal brama, per iscemare il dispiacere e contestare a miei concittadini l’affetto patrio, mi posi a questa impresa e nel modo che Calistene, scrittore greco conforme M. Tullio scrive a Lucejo, separò dalle altre sue storie le cose trojane, Timeo li fatti di Pirro e Polibio la guerra numantina, in egual guisa, seguendo il loro esempio, ho separato li fatti di questo nostro luogo dalli antichi annali, dalla storia di tutti quei scrittori e da quei codici che ho potuto avere dalla gentilezza di cordiali cittadini che, alle contingenze, indicherannosi.
Non si può però così dire di alcuni archivisti che invece di corrispondere, anco con loro indennizzazione, alle premure, hanno piuttosto usata avversione alla compiacenza che alla condiscendenza, onde in alcuni passi resterà il racconto arido e sterile.
Il peso fin da principio lo riconobbi arduo e per ogni canto inneguale alle forze. Non ostante (non) mi sono arreso ed ho accozzate tutte quelle memorie e racconti che ho potuto avere e come ho potuto e saputo senza energia, approfittandomi in questo proposito dell’insegnamento di Plinio che la storia in qualunque modo scritta diletta e piace a diversità dell’oratoria e poetica che, se non è accompagnata da somma eloquenza, l’autore ne trae poco o nulla di grazia ed incontro. Historia quoquo modo scripta delectat, orationi et carmini, parva aut nulla gratia nisi eloquentia sit plurima.
Poscia nel modo che li antichi delle loro primizie facevano tributo a chi si amavano, similmente ancor io ardisco tributtare questa mia qualunque siasi fatica a voi concittadini. In essa voi troverete molti fatti de nostri maggiori che vi serviranno di specchio ad imitarli nel bene ed a vituperarli nel male.
Gradite adunque il poco pro quel molto che avrebbe volsuto presentarvi il mio cuore se lo avesse potuto e non riuscendolo ascriverollo alla urbanità vostra alla quale protesto tutto il rispetto e Dio Signore vi feliciti.
Castel S. Pietro li 30 novembre 1798
Ercole Ottavio Valerio Cavazza

Al Leggitore
Mi sento mormorare da talluno all’orecchio che a questo racconto istorico dovrebbesi un indice copioso delle cose contenute in esso, ma avendo osservato nelle produzioni moderne di accreditati scrittori che, ommessi li così detti indici, vi hanno sostituito li argomenti della materia in fronte, donde in breve colpo d’occhio rillevasi quanto si brama, così seguendo il loro esempio mi sono appigliato alla condotta loro.
Sono quindi persuaso che un discreto leggitore sarà contento di questo metodo non solo ma anco della Leggenda, in verificazione della quale havvi aggiunto un elenco delli primari autori da cui ho estratto le memorie ed havvi in alcuni luoghi, creduti piu’ importanti, marginato il loro nome.
Che se si volesse da qualcuno trasportato da livore riprendermi di questo metodo, piuttosto da legale che da storico, sappia che ho seguito la dottrina di Plinio che insegna: esse benignum atque ingenui pudoris fateri per ques par feceris. Siale pure di avviso che se aurò in altro mancato mi sarà il massimo piacere averne la emenda ed avere un ottimo supplente alla mancanza. Quindi con tali sentimenti armato congederò questa mia qualunque siasi fatica e la affiderò alla gentilezza di chi sapralla compatire.
Elenco delli autori, codici, croniche ed archivii di doveil raccoglitore delle presenti memorie ne ha fatto l’estratto. (Vedi : Appendice 1)

Raccolto di Memorie istoriche di Castel S. Pietro,
Giurisdizione di Bologna
Libro primo, Centuria prima

Argumento
Narrasi le origini di Castel S. Pietro, sua ubicazione, da chi fu fondato ed il perché. Fatto colonia delli Alboresi, Nomi e Cognomi delle prime familie che lo popularono. Dichiarate cittadine di Bologna. Fatte esenti da Dazi e Gabelle.Suo primo territorio, prerogative del medesimo. S. Francesco di Assisi si ferma nel Borgo. Vi predica e cosa le avvenne. B. Giovanni Schiò domenicano si trattiene nello stesso Borgo, vi predica e che accadde. Giovanni Re di Gerosolima si ferma nel Castello. Quivi viene presentato dalli oratori faentini. Dalli imolesi ricusato per il passaggio, poscia ricevuto colli dovuti onori. La fazione ghibellina occupa Castel S. Pietro e lo incendia. Viene ristorato. Battagliato dal Conte di Romagna. Diffeso valorosamente da castellani e loro vittoria. Ivi si tratta la pace fra li potentati di Romagna e bolognesi, sua conclusione. Si assegnano le confine fra il Castello colle Terre e Comuni vicini.


Godevano le città della bella Italia una somma tranquillità e pace l’anno, dopo il Reddentore nato, 1198 e si compromettevano una serie lunga di anni felici sotto il governo di amorevole regnante, quando un impensato accidente, conducendolo sul margine di un funesto periglio, poco mancovvi che fra se stesse non si desolassero. Imperciocchè defunto Enrico VI, Imperatore centesimo secondo avvelenato dalla moglie in Sicilia, si unisero insieme li elettori per la scielta del novo Imperatore. Divisi fra loro li sufragi, altri li diedero a Filippo fratello di Enrico ed altri ad Ottone, duca di Sassonia, sprezzando Federico giovinetto. Pose ciò in non piccolo tumulto tutta la Germania.
Con questa occasione molte città di Lombardia e Romagna vedendosi senza capo, seminando discordia, cominciarono a tentare ciascuna la dilattazione delle respettive confina, impadronendosi di quelle dell’adjacente.
Sì perché Marqualdo Annanivilario, tedesco fatto Duca di Ravenna da Enrico, intesa la morte
di questo, si era spinto verso la Puglia per farsi tutore del Re di Napoli, sì perché Filippo, rivolto ancor esso nei tumulti di Germania, non poteva perciò attendere alla Italia.
Con questa occasione Innocenzo II di Annagni, pontefice centoottantaduesimo, spogliò tosto Marqualdo del Marchesato di Ancona, Ducato di Ravenna e de suoi Stati, di cui Enrico lo aveva adorno collo spoglio della Chiesa.
Vedendo li bolognesi che ognuno perciò si sollevava contro l’Impero, parve loro questa la opportunità di allargarsi nel dominio coll’unirvi a se alcuni luoghi circonvicini come a proposito per il loro impero.
Usciti pertanto col Carroccio, Tribunale supremo della Milizia, Stendardo generalissimo dell’esercito, occuparono alquante terre sull’imolese delle quali, fattisi giurare fedeltà, vi posero li governatori.
Dubitando poscia della instabilità delli imolesi, che di quando in quando degradavano sul bolognese, Uberto Visconti, Pretore di Bologna, pensò porre riparo al disordine. Convocò per tanto il Consiglio generale e propose che, per diffesa dello stato fronteggiante la Romagna e per tenere a freno li malfattori che infestavano li passeggeri in queste parti, era duopo si edificasse una ben munita frontiera sopra la via consolare al Silaro.
Uditosi la proposta fu dal consilio plaudita ed approvata. Si statuì perciò in esso che tosto si desse mano alla fabbrica di un forte Castello. Così concordemente ce lo manifestano li atti pubblici della Città non che tutti li nostri scrittori bolognesi.
Suspecta inde Imolensium cepit fides, itaque ad coercendos lorum impetus, Consilio placuit Castrum medio inter Bononiam atque Imolam itinere edificare. Idque hoc anno ceptum post S. Petri nomine insignitum.
Per lo che corrono ancor oggi per bocca di questi popoli li tanto vulgati versi di Giulio Cesare Croci nel suo Compendio de casi più notabili di Bologna, stanza 83, che alcuni indebitamente li attribuiscono al Tassoni
E per tener li suoi nemici indietro
Bologna fa fondar Castel S. Pietro
Poiché così coraggiosi eransi fatti li imolesi che doppo aver ricavato la fossa della loro città, che pienamente era stata interrita da bolognesi, si era quelli talmente innoltrati colle scorrerie e, doppo avere occupati alcuni luoghi, si erano avvanzati fino ad Alborio nella vicina colina sopra il Silero. Li bolognesi, che avevano in clientela il Conte Guido signore di quel castelluccio, per non lasciarlo bersaglio al furore imolese, sollecitarono la fabbrica del nostro Castello ed anco perché non restasse indiffeso da questa parte il contado da malfattori. A tale effetto adunque il Parlamento elesse prontamente tre soggetti bene affetti alla Repubblica bolognese cioè: Pietro di Lovello Carbonesi, Egidio Pritoni e Tiberio Garisendi, Consoli a quali, data facoltà di sciegliere il sito opportuno, vennero immediatamente in faccia al luogo proposto per la nova mole.
Vista la eminente pianura sulla costa del Silaro al ponente di sopra la antica contrada di S. Pietro, ove erano per anco le orme di un vecchio accampamento, la adottarono per la ubicazione del novo Castello a proposito.
Nel regolamento del Governo bolognese in questi tempi noi ravvisiamo quello stesso che usavano li antichi romani nella costruzione di conformi castelli. A lode dunque del nostro Governo bolognese, siaci permesso farne quivi il paragone sulla edificazione del nostro Castello, anco per lume del leggitore dei nostri scritti che vorrà affaciarsi al luogo.
Non devesi poi alcuno tenere a noja se in questa leggenda di tratto in tratto incontrerà qualche digressione, imperciocchè se ciò si è fatto si è eseguito l’esempio di Quintiliano, maestro dell’arte istorica, che amette la disgressione, non come dominatrice del racconto ma come famulative e somministratrice dei lumi di un passaggio all’altro nella orditura e tessitura dell’opera, che se si tralasciano resta oscura ed arida come avvertì ancora il poeta venosino
…………………..dum brevis esse laboro,
obscuras fia………………………………….
Inerendo adunque a questa disciplina, fa duopo sapere che allor quando la repubblica romana, secondo scrive Livio, doveva o voleva piantare castelli per diffesa dell’Impero, ove introdurvi poscia Colonie di Cittadini, dal Senato si eleggevano tre assennati soggetti bene affetti al governo. Davasi ad essi ampia bailìa di sciegliere quel sito, che loro fosse più espediente sembrato alla costruzione sì per la sicurezza della nova colonia da introdurvi, quanto che servisse di salda frontiera alla Repubblica.
Triumviri a Senato Romano creabantur qui locis primum consideratis in quibus expediret Reipublice propugnaculum construi ut novam Colonia deduci vellent.
In guisa tale si portò il parlamento bolognese. Li indicati tre Consoli in esecuzione del loro impegno, avuta in mira come si è detto la elevata pianura superiormente alla Emilia appresso la contrada di S. Pietro al meridio, ove eranvi le menzionate orme dell’accampamento diffensivo fattovi già dai bolognesi l’anno 974, come accennano le cronache.
Dessignarono quivi e stabilirono la ubicazione del nuovo Castello, ove avesse voluto il cielo che prima di quella epoca vi fosse stato costrutto, li bolognesi in allora forse non avrebbero corsa la peggio colli imolesi come accenna un antico scrittore delle cose d’Imola:
Bononienses cupientes agrum iterum extendere, infestabant sogetis villeque imolenses, unde Nordilius in eosdem erumpens noctu et occupatis juxta viam in planitie superiori Silaris aggeribus cum copiis Bulgarelli, hic ceperunt bellum. Aliqui imolensis temere pugnantis extra Vexilla interficiuntur. Quo factu bononienses trans Silarim in castra constructo exercitu se recipiunt. Nordilius eadem Die praeposuit Vexillum in signo, ut omnes ad illum concurrerent , et nocte sequenti instructa acie per montana accedens, hostem a tergo invodit et praelii committendi signum Bulgarelo dedit, qui ad tubae sonitum accurrit; sed superiori nocte imbribus adeo crevit Silarus ut nemo vadare potens, ad proprios redivo Bulgarus videns suos nec posse consistere. Trabas imposuit flumini et traductis copiis, bononienses oppugnavit.
Si deduce da questa cronaca che per anco del 974 non vi fosse sopra il nostro Silaro il bellissimo ponte di tre archi di macigno che ora si vede congiungere amendue le sponde sopra la via Emilia corriera, essendo in allora stato necessitato Bulgarello capitano per la escrescenza delle acque farne uno di legno provisionale per il passaggio delle sue genti. In quale epoca poi precisa siasi poi edificato di macigni e pietre codesto ponte non si è riuscito precisamente rissaperlo. Si sa però che un ponte vi esisteva nel 1199 dopo Cristo nato.
Un documento riportato dal chiarissimo P. Sarti nella di lui opera: De claris Archigemnasi Bononien. Professoris, al T. 2 nella appendice ci reca la notizia di un ponte sopra il Silaro mediante un legato fatto da Giacomo da Bertinoro, medico, così cantante: In nomine SS. ex individue Trinitatis ….. Anno D.N.J.C. millesimo centesimo nonagesimo nono Romani Imperj, fine Imperatore existente, Pridie Kal. Novembris,indictioni secunda. Diem huius labantis vitae pro imbecillitatis meis viribus extremum ——— Quapropter Ego quondam Magister Jacobus a Bertinoro, parvenire cupiendo meas scilicet Res omnes ac Possessiones pro anima mea, scilicet per noncupationem meam disponere volendo. ——- Primo quidem volo dari ac distribui ——– Relinquo Cruciferis XX solidos, Misellis XX. ——— Ponti Silari IV solidos. Ponti Claternae IV solidos
Indubitata prova ella è adunque che avvanti la fondazione del nostro Castello esisteva questo ponte sopra il Silaro sulla via romana. Se di legno, se di mattoni cotti, se di altra materia o se di macigni sul modello della etrusca architettura come ora si osserva fabbricato, le carte antiche né la storia ce lo raccontano onde resta sepolta la memoria nella caligine de tempi vetusti.
Ritornando pertanto il nostro discorso alle operazioni delli nostri triumviri, come quelli che erano stati eletti giusta la pratica della repubblica romana, non declinarono punto dalle regole della medesima nella costruzione delle castella. Delinearono pertanto il nostro sulla semetria di quelle. Vogliene il vero sul paragone oculare al quale invitiamo qualunque a disingannarsi.
Li romani secondo Livio, al riferire del Niecogort: de Ritibus Romanorum, formavano li loro castelli in figura quadrata, li circondavano di steccato e fossa, ove vi introducevano genti disciplinate nell’armi. Disciplinae militaris fedes fuerunt castra ea apud romanos fuerunt quadrata, vallis circumjecta.
Cosi operarono li nostri triumviri nella pianta del nostro Castel S. Pietro. Lo dessignarono in figura quadrata, come si osserva nella sua pianta, circonvallazione e distribuzione delle abitazioni per li castellani, non ostante che nel 1399 al levante, nel reidificarle il nuovo muro circondario, siasi da questo canto ristretto come si riscontra dalli testimoni delle primarie mura nelle fiancate visibili dei baloardi angulari.
Li steccati romani erano distanti dalle abitazioni duecento piedi per ogni interno, undique ducentos pedes a tentoriis distabant. Li nostri steccati poco meno dissimili furono piantati in distanza. La circonvallazione romana era un argine su cui era confitto lo steccato di travicelli acuminati ad uso di sciepe, colla fossa larga dodici piedi e nove profonda, constabat vallum ex agere et sudibus quae super erant acutae. Vallo protendebatur fossa novem pedes alta et duodecem lata. Così fu attorniato il novo castello nel principio invece di mura.
Separavano li romani li loro quartieri con otto strade, delle quali cinque erano le rette e tre le trasversali. Si chiamavano trasversali perché attraversavano le rette. Viae erant tres transversae et quinque rectae. Diasi di grazia una occhiata a tutto il nostro Castello e si riscontri se ci opponiamo al vero.
La prima adunque delle trasversali romane andava da uno steccato all’altro rettamente e chiamavasi via Praetoria per essere situata al dissopra della ressidenza del Pretore, Harum prima erat supra Pretorium. In tal modo fu dessignata e stabilita la prima delle trasversali superiormente al nostro pretorio, superiormente nella via la quale spiccandosi dallo steccato orientale Framella, ove sono palazzi nobili, e procedendosi rettamente all’opposto vallo occidentale passa al dissopra la isoletta ove fu situato il nostro Pretorio, ora Casa Municipale.
Questa via poi col tempo riportò poi dal volgo il nome di Via Ramazzotta perché dai Conti Ramazzotti paesani fu assettata e perché nel 1500 vi incominciarono in faccia la fabbrica del loro palazzo, chiudendo uno stradello ove è la porta maggiore, come riscontriamo dalli atti comunitativi, su cui poscia nel 1600 li loro sucessori Marchesi Locatelli di Bologna vi ampliarono magnificamente il loro abitato per villegiarvi. Ma in questi giorni in cui scriviamo le presenti memorie viene distrutto ed abbolito dal possessore Bertocchi di Budrio, come sta notato nel nostro diario del paese.
Prosseguendo il camino su di questa strada rettamente verso ponente si insinua nella piazzetta avvanti la chiesa del supresso convento agostiniano antichissimo detto di S. Barlomeo. Viene questa piazzetta nomata Piazza Liana perché guarda le parti del vicino comune di Liano e così termina nel vallo all’occaso, onde, per essere al di sopra dell’isoletta del Pretorio, la si puole senza alcuna scrupolo, nominare via Pretoria come li romani, in superiori parte castrorum, primo erat Pretorium, circa illud area laxa et quadrata. In questa guisa li nostri triumviri dessignarono e costruirono il Pretorio locale del paese sopra la larga e quadrata Piazza maggiore a cui congiuntamente vi unirono la Ressidenza comunale per le autorità governative ove tuttora vi si mantengono.
La seconda delle vie romane trasversali fu da essi chiamata Principia ed anco Media vale a dire principale e via di mezo per essere appunto nel mezo del Castello loro. In conformità di questa operò il triumvirato nel nostro Castello.
Dissegnò egli e stabilì la strada di mezzo, quella cioè che si spicca dal circondario orientale presso la Chiesa del supresso convento de M.M. Osservanti di S. Francesco edificato nel 1525, e prosseguendo quella rettamente alla piazza maggiore si insinua in essa e vi mette capo ove di prospetto fu stabilito il sito e posto della Roca grande, che poggia sulla mura e circondario occidentale del paese.
Codesta strada nomata media da romani o principia riportò da questi tal nome perché fu destinata a tutte le cose buone. Ivi si tenevano li loro altari, li simulacri dei Numi e le imagini delli Principi, vi si prendevano li giuramenti, vi si gastigavano li cattivi, vi si tenevano le bandiere, vi si operava tutto il bene e come luogo santo si rispettava, media vero via principia dicebatur. Ibi arae, numina et imagines principum, praecipua legionum signum stabant. Jus dicebatur. Ibi jura cetera, ibique ergo tamquam locus sanctus habebatur.
Che se li romani sopra la loro via media vel Principia vi tenevano li altari, le loro divinità, le statue de loro primati, vi si giurava e si facevano tutte le altre buone opere e come luogo santo rispettavasi, non altrimenti fecero li lodati triumviri imperciocchè in codesta nostra seconda strada, che da essi fu pure come in oggi vocitata Via di Mezo, in essa vi stabilirono, come li romani, il sito per le cose sagre et a Dio destinate per il culto catolico.
Così pure, congiuntamente alla medesima, vi stabilirono il sito della Chiesa matrice plebana ed in questa si eressero gli altari, il fonte battesimale per li nascenti, vi posero le immagini poi delli S.S. tutelari, li novi abitatori fecero tutte le altre cose buone di instituto catolico e spirituale.
Quanto poi al Governo civico fu compatibilmente presa la providenza dal triumvirato sudd. di collocarvi tutte le altre cose in vicinanza di questa strada nel fronteggiante Pretorio sulla piazza maggiore in cui, come si è detto questa Via di Mezo si insinua, per tenervi le insegne principali delle Legioni, esporre li giuramenti populari, pubblicare li Proclami, le L. L. e tutte le altre Providenze del governo.
Davanti ancora la locuzione alla giustizia punitiva ove, fino all’ingresso de francesi nel 1796, si sono conservate le antiche carceri, li supplicj della tortura ove è la piccola torre dell’orologio pubblico, li ferri per la berlina nella colonna angolare del pretorio municipale.
Che se li romani apponevano a suoi Primati su d. strada le statue per le loro ottime gesta, così li nostri castellani non furono neppure essi immemori delle discipline avute dalli triumviri da equipararsi alli romani atteisti col sostituire, in vece delle statue, le memorie ed inscrizioni de Governatori che apposero incise colli stemi gentilizi nelle pareti pretoriali, doppo che avevano lodevolmente servito il paese col loro governo.
Tali inscrizioni si leggevano nella esterna parete del pretorio, che in parte divenne della Municipalità per servirsene nei comizi aristocratici allorchè cessò nel bolognese la democrazia, che nei catasti delli atti comunitativi la ritroviamo cessata alla metà circa del 1590. Le dette inscrizioni furono poi tutte levate per opera de francesi nel 1797, che aurebbero potuto illustrare la storia nazionale non che le familie civiche e nobili di Bologna. Non siamo però stati negligenti a farne copia delle rimaste, le quali alle sue epoche nel nostro presente Raccolto si potranno leggere.
La terza strada poi dalli romani fu da essi chiamata decumana, a decem cohortibus perché abitata da dieci coorti. Per la imitazione di questa noi ravisiamo la terza strada trasversale delle nostre, la quale spiccandosi, come si osserva, dalla mura orientale sopra il vallo in cui fino dal 1650 furono quivi costrutte fornaci da olle ed altri vasi in creta dalla famiglia Lelli imolese estinta nel 1700. Durarono questi edifici a tal uso fino al 1776 in confina dell’orto de francescani, li quali edifici, aquistati da certo Galavotti, sono stati dal cittadino Ercole Bergami aquirente convertiti in comodo quartiere per sua famiglia, prevalendosi della mura circondaria del Castello, onde in conseguenza è rimasto privo il paese di questa manifattura.
Dalle così dette fornaci prese in allora la nostra terza via trasversale il nome di Via delli Ollesarj. Questa adunque prosseguendo il suo andamento per rettifilo dall’orientale vallo ed al punto che si chiude la via Framella inferiormente progredendo in mezzo le fabbriche Vanti, Fabbri e Graffi, attraversa la via di Saragozza, la via Maggiore del Castello poi li abitati della estinta famiglia Serpa, Calderini suoi eredi, Nicoli, Graffi sorpassando in via delli Pistrini, termina nel circondario muro del paese a ponente presso l’orto già Calderini che si estende sopra la supressa via dietro le Mura, detta Quintana e quivi termina.
Detta via Quintana poi è coperta fino all’angolo del Castello dalli orti già della Compagnia del S.S. ora Marani, Bergami e Cavazza. Nella prescritta via Decumana fu dessignato il quartiere per li officiali, come più comodo alla piazza grande. In vista di tutte queste annotazioni, rilevatte dalle antiche carte e monumenti, paragoniamo la positura di questa strada a quella de romani portante tal nome per essere ella presso la piazza Maggiore ed alla Roca grande del Castello.
Passando alla descrizione delle altre cinque vie rette de romani che ricevettero il nome dalli oggetti a cui furono da essi destinate, così noi chiamiamo la prima come li romani col nome di Frameola, quartiere destinato alli Frameati, li quali erano soldati armati alla leggera e chiamavansi anco Veliti ed Antessignani dalle armi che usavano.
Queste armi erano una asta alla punta acuta di ferro in cima, si ponevano li framiati di fronte al nemico ed in quel sito ove temevasi la agressione ostile. Cornelio Tacito parlando di questa arma ed intorno alli costumi di tali milizie e loro esercizio scrive che si usavano nella Germania e li soldati frameati erano sempre li primi ad azzuffarsi perché coll’arma framea combattevano si d’appresso che da lontano conforme il uopo. Milites et hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt, angusto et brevi ferro, sed ita acri et at usum habili ut eodem telo, pront ratio poscit, cominus vel eminus pugnant,. Di questa sorte di truppa ne parla Eliano essere di tre fatta. Livio ne parla dove scrisse de Bello Punico 19, ibidem Lib. 19. 153. Cicerone dove tratta de Clari oratoribus 147. e li chiama Velites amentate Hastae. Idem Cicerone de Repubblica mores veterum. Ovidio in ibin. ed altri scrittori.
Ad imitazione pertanto de romani così operarono li nostri triumviri ed assegnarono ancor essi ad una truppa detta li Frameati, la contrada presente al levante entro il nostro Castello per essere di fronte alla nemica Romagna da cui temevano le aggressioni. Ne venne perciò che questa contrada abitata da frameati riportò il vocabulo di ora frameola diminutivo di framea, onde figuratamente per sincope si chiama via Framella ed anco via de Palazzi per esservi in essa grandi edifici fabbricati da nobili bolognesi per villeggiarvi, accorre e banchettare in quelli l’Em.Legati Pontifici, allorchè venivano spediti dalla Corte romana al governo di Bologna, essendo prima stati incontrati dalli ambasciatori pomposamente alla confina, ove devasi ad essi il giuramento di osservare le convenzioni fra Bologna e S. Chiesa. Questo solenne ingresso si mantenne fino al principio del 1700 come abbiamo notato alle respettive epoche della loro venuta quivi.
La nostra via Framella adunque è la piu’ spaziosa di tutte le altre, fu così delineata per estendervi il maggior numero militare. Comincia ella dal circondario superiore del paese dall’angolo di levante ove si estolle il bellissimo torreggiotto rotondo di macigno sopra il baloardo che congiunge le mura di circuito, fabbricatovi da Marchesi Locatelli nel 1658 in lulio come riscontrasi nella parete esterna sopra il cordone di pietra che lo circonda.
Discendendo poscia questa strada, in mezzo di cui avvi un pozzo di sorgente costrutto all’uso di questi tempi per comodo pubblico, pone capo contro un fabbricato sopra i terraglio di Giacomo Graffi. E’ ben giusto che fosse così formata per dar comodo all’armi frameate.
Della seconda strada retta de castelli romani, non ci viene narrato dalla storia il suo nome, alla nostra bensì formato sulla semetria e regola romana, le fu dato quel nome dalle familie emigrate di Bologna che abitavano nella loro via di Saragozza e quivi nel nostro Castello piantarono il loro domicilio per godere della immunità al med. Castello attribuito.
Il P. Vanti ci lasciò scritto nelle sue memorie che furono di questi cognomi: Alberti, Bigurelli, Misandri, Micoli, Bellini, Cacciari ed Oliverj. Non è da porsi in dubbio che tali nominalie riportasse. Mentre ci viene questa notizia comunicata dal P. D. Giambattista Meloni, chiaro scrittore de nostri tempi delle cose di Bologna, mentre dubbioso che nel nostro Castello non fossevi una strada e piazza denominata Saragozza, avendo letto in uno instrumento nella mensione del loco ove fu stipulato da Biagio Olivarj not. nel 1297, si enunziava in tale rogito l’actum in platea Saragotie Castri S. Petri, il qual rogito era esistente nell’archivio delle suppresse monache di S.S. Vitale et Agricola di Bologna.
Fu perciò da noi assicurato di quanto chiese aggiungendole che tale piazza la quale divide la strada fu poi nomata Piazza S. Francesco, allorchè fu terminato il convento e la chiesa dei Minori Osservanti dedicata a S. Francesco, col nominarla Piazza di S. Francesco per essere avvanti la chiesa di esso. Comincia detta strada superiormente dall’orto Locatelli sopra il terrapieno circondario del paese e rettamente discendendo come quella de romani mette capo nella mura inferiore.
La terza strada de castelli romani si indicava da essi col nome di via Maggiore e via Principia che cominciando superiormente dal circondario delle loro castella terminava per rettifilo nel vallo inferiore ove avevano una porta. Così fu ancora dessignata la nostra, su cui non avvi bisogno di alcuna glossa mentre dal meridio superiore, ove esiste la porta Montanara, discende rettamente sotto la torre maggiore e passa al Borgo collo stesso nome di via Maggiore.
Quanto alla quarta strada delle rette romane neppure la storia ci somministra il nome, solo ci fa noto che quella incominciava dal vallo superiore e rettamente discendendo metteva capo nell’opposto vallo inferiore. Nella parte superiore al di sopra del pretorio vi abitavano li tribuni e centurioni, inferiormente si tenevano le vettovaglie, li foraggi ed altro bisognoso alla sussistenza della gente. Noi pertanto paragoniamo questa nostra quarta via Liana alla menzionata quarta de romani, la quale spiccandosi dal circondario superiore al meridio e discendendo alla piazza Maggiore in essa si insinua. Fu così chiamata dai nuovi abitatori provenienti dall’aderente comune di Liano. Li cognomi delle quali famiglie ci notizia il P. Vanti che fossero questi: Trapondani, Alberici, Scarpella, Garotti e Zambonelli. Il rimanente poi di detta strada al di sotto la piazza Maggiore, che rettamente terminava nel circondario del castello ed ora pone capo al foro bovario mediante apertura fatta di recente nelle mura di circuito, prese il nome di via delli Pistrini a motivo che in questa parte vi furono costrutti edifici per le macine di granaglie e simili.
Finalmente passando alla descrizione della quinta ed ultima strada delle rette, che da romani chiamavasi quintana, nel nostro Castello fu imitata in quello che noi chiamiamo delle Caserme e dal basso volgo: le Casulle e fu assegnata alle veglie per ajuto alla vicina Roca grande edificata nel divisato suolo di prospetto alla piazza Maggiore della quale altro testimonio non abbiamo che il baloardo rotondo esteriore sopra la fossa nel’ocidente presso cui davasi l’ingresso mediante cassaro di pietra e calce in oggi coperto da terreno lavorativo.
La cosi detta via delle Caserme, paragonata alla quintana de romani continente le milizia de veterani essendo vicina alla Roca maggiore, nella parte inferiore fino all’angolo del Castello è occupata dalle corti della estinta famiglia Serpa e suoi sucessori Calderini nobili, Ghisilieri e Pasi, delli già Pirazoli, ora Marani, Bergami e Cavazza sucessori delli Toschi ora nobili imolesi.
Li castelli romani avevano quattro aperture come porte, l’una contro l’altra ai lati, due ordinarie e due estraordinarie: A lateribus dues portes principales erant dicte, altera Praetoria et altera principia, que etiam decumana, altere erant extraordinarie. Tale regola fu osservata nel nostro Castello. Una fu dessignata a borea, ove è la torre maggiore per l’ingresso principale nel Castello e l’altra superiormente di rimpetto, che poi fu chiusa nel 1399 allorchè si fece dalli paesani, assieme colli comuni della Podestaria, un novo muro circondario, che stette intero fino al 1510 in cui fu decretato dal Legato e dal Senato la introduzione del Mercato Solenne dal Borgo entro il Castello, come alla sua epoca riportarono li decreti. Questa porta fu nomata Porta Montanara perché dal Castello si passa alla collina e montagna vicina.
Quanto poi alle altre due, chiamate da romani extraordinarie furono nel nostro Castello imitate l’una contro l’altra. La prima all’oriente contro la via Media ed essa fu pure così chiamata nel 1399 per la nova citata mura e fra non molto ripristinata come oggi giorno si riconosce in esercizio presso la chiesa di S. Francesco ove erano le abitazioni della famiglia Cheli, fondatrice del convento supresso de Francescani delli M.M. O.O., la quale porta oggi chiamasi: li Portoni di S. Francesco, muniti di due serraglie. L’altra estraordinaria apertura, fu da triumviri lasciata al ponente collo sbocco nella piazza Maggiore finché fosse edificata la Roca grande, la quale fu in seguito costrutta in lunghezza di piedi 160 ed in larghezza piedi 63 bolognesi affinché il paese non restasse bersaglio de nemici non che per tenere in freno li fazionari in questi tempi fecondissimi di fazioni.
Ciò dessignato si diede tosto mano alla fortissima torre che guarda il Borgo, che fu innalzata sopra la così detta apertura respiciente il Borgo in altezza di piedi cento bolognesi. Ella è grossa piedi 15 nel suo esterno, nel seno larga piedi otto, che è l’unico testimonio intatto del primo edificio del nostro Castello. Sucessivamente furono spediti ingenieri per la edificazione della Rocca nel divisato sito dalli tre consoli, che vi si mantenne fino al tempo di Paolo Papa V in cui cessate le intestine fazioni bolognesi fu destrutta fino ai fondamenti come a suo loco si narra ed il suolo fu concesso in emfiteusi alla doviziosa famiglia Morelli originaria del nostro castello sotto diversi patti.
Terminata la detta torre vi fu fatta a fianco una picola rochetta difensiva. L’ingresso del Castello sottoposto alla med., la quale fu destrutta allor quando furono conquassate le prime mura di circuito alla Terra. In tale contingenza rifattovi di pietra cotta il novo circondario, vi fu edificato avvanti la d. torre un Chiostro, che inalzandosi fino alla metà di questa come si osserva, teneva un corridore per comodo dei militari al quale vi si andava mediante una apertura fattavi nella torre respiciente il Borgo.
Cessate le guerre fu ridotto il d. Chiostro ad abitazione. Questa torre coll’abitazione e suo chiostro fu da Clemente VII donato al chierico di camera Giovanni Rota del nostro Castello, detto pria Dalle Rode. Cade, non regge altrimenti, la frottola che fosse stata donataria di questo locale certa Zia Rizza per sopranome, essendo nelle carte antiche cognominata Garetti per dotare la di lei filia, mentre abbiamo in potere copia del chirografo pontificio, graziatoci dal sempre compiacente Senatore Giuseppe Malvasia di Bologna proprietario del locale e torre che, a giorni nostri, lo diede in emfiteusi alla municipalità del paese per farlo decoroso nel retilineo della sudd. strada Maggiore primitiva, così dessignata ed eseguita fino dalla sua fondazione. Costrutta d. Torre alla altezza di piedi cento, vi fu nella sommità fatto un fornice reale sopra del quale vi fu inalzata altra picola torretta quadrata di pietra cotta alta 14 piedi conformi e coperta a piramide per comodo di una campana e di una sentinella onde scoprire da lungi il nemico e chiamare col suono all’armi li diffensori ed abitanti della Terra. Attorno alla detta torre vi furono fabbricati tanti piccoli archi sopra scaglioni che, sporgendo in fuori congiunti assieme, davano comodo di osservare li assalitori e d’ivi, anco colla proiezione di materie offensive, allontanarli dall’ingresso a piedi della torre. Sopra tali archi vi costruirono tanti merli che le formavano corona e servivano anco di parapetto a chi si affacciava ad osservare li inferiori ambulanti.
Alla Torre su ascendeva mediante scala apposita che in una fenestrella quadrata sopra fornice reale ametteva li ascendenti sopra all’ingresso nel Castello. Vi furono poscia apposte lateralmente le serrature di forte legno, ben guarnite di serramenti e chiodarie all’uso di questi tempi. Si aprivano e chiudevano queste ferraglie poggiate sopra polsi di metallo e lucerne compagne che facevano le veci di cardini e piane come si può vedere da chiunque. La scala con cui si ascendeva si tirava con funi superiormente al primo fornice e con altre scale sempre di legno e facili a levarsi ascendevasi fino all’apertura dell’ultimo fornice superiore. A poco meno che alla metà della torre vi si vede una stretta porticella che dava l’adito al corridore interno dell’enunziato Chiostro per comodo dei militari.
Congiunti questi lavori con la Rocha sucessivamente grande e piccola in modo che il novo Castello era sufficientemente capace contenere discreta popolazione a diffenderlo da nemici. Il Parlamento generale di Bologna che prosperamente governavasi, emulo mai sempre della R. Repubblica, impose ad Umberto Visconti che per sua Grida proclamasse: che chiunque colla robba e persona venisse ad abitare il novo Castello fosse stato esente per anni XXV da ogni Dazio e Gabella e sarìa sempre stato considerato qual cittadino di Bologna, che li novi abitanti potessero creare li Consoli come le altre castella del territorio e sarebbero stati ammessi alle cariche civiche.
In vista di ciò li abitanti del vicino Alborro castello furono da questo picolo castelletto dedotti colonia al novo Castel S. Pietro, a cui se ne aggiunsero altre familie della città e comuni vicini per godere di quella imunità.
Erano le colonie romane luoghi propagati da cittadini li quali si mandavano fuori di Roma per sette cagioni fra le quali eravi il motivo di sgravare la città da poveri, Urbs pauperibus exonerabatur et ad novas quibus indigerent divitias cum familia accedebant. Un altro motivo eravi ancora ed era quello di far fronte alli inimici, come riferisce M. Tullio nella seconda agraria a cui dirigiamo il curioso leggitore.
Questi furono li principali motivi che li alboresi abbandonarono il loro castello, perché di sovente era travagliato dalli imolesi. E perché li romani a tali colonie vi compartivano poscia li terreni più o meno secondo il bisogno: accipiebant enim duo, quattuor, sex aut septem jugera et quandoque plura, così il nostro Senato bolognese, non avendo terreni, onde compensare li novi abitatori di Castel S. Pietro li compensò colle immunità e privilegi indicati.
Molti abitanti del vicino Borgo entrarono in Castello come accennano le cronache, toltone del Conte Guido signore di quel castello di cui non se ne fa memoria onde è supponibile che il di lui domicilio fosse altrove stabilito. Entrati non pochi abitanti del Borgo nel novo Castello, questi ebbe maggior incremento e sussustenza che così ancora ci conferma il chiarissimo Savioli ne suoi Annali di Bologna.
In esecuzione quindi di tutte queste cose, Uberto podestà di Bologna proclamò con sua grida il decreto del Parlamento generale acciochè li novi abitatori del novo Castel S. Pietro fossero riconosciuti come cittadini di Bologna e mantenuti esenti da Dazi e Gabelle. Ce lo conferma Carlo Sigonio nella sua Storia di Bologna in precisi termini: Quia etiam Alborum coloniam deduxere et colonos omnes immunitate donavere, at Castro S. Petri novis incolis assignato, Ubertus Praetor jussu Consilij generalis statuit ut cives bononien. esset et Consules perinde ac alia Castra bononiensium ditioni subjecta crearent. Furono perciò in seguito investiti li Alboresi del novo Castello, del quale ne accettarono l’investimento, Accarisio et Oddone Consoli dell’abbandonato Alborro in presenza di Oradino Federici, Ugozione Ginibaldi, Orlando Dalforte, Araldino Lenzi, Lamberto Petrucci, Albertino Pellegrini, Viviano Costa, Gerardino Zogoli, Vitale Peroni, Gerardino Delzano come già latamente viene manifestato nel seguente decreto:
Anno D. millesimo centesimo nonagesimo nono. Indictione secunda. Die Martis XVI Kal. Decemb.
In Bononia in domo quondam D. Bulgari coram Rodaldo et Rainerio de Guarino Procuratoribus comunis, Alberto Guidoti de Moio, Alberto D. Rolandi,Gerardino D. Alberici, Buonalello Guidonis de Bualello officialibus Curiae et in praesentia Oradini Federici, Ugucionis de Sinibaldo, Ramberto de Masina Manzi, Oraldini da Forte, Araldini Dominici Lenzi, Lamberti Petrucci, Ugolini de Giberto, Lambertini de Aquavia,Novellini Alberici, Pellegrini Viviani Dalla Costa, Gerardini de Zogolo, Vitalis de Perona, Gerardini de Rudolfino, Gerardini de Zanis de Alborro et coram Arginello Henrighetto de Rolando Vecto, Hajmerico de Ropa Castello, Ramberto de Bualello, Macagnano Rimesino, Juliano Azonis de Majo, Aspectato Petri Cavalli,
Testibus D. Ubertus Vicarius Bononiensis potestatis, accepta parabola a Consilio Generali et parabola supradictorum de Curia. Statuit ut omnes homines de Alboro et caeteri qui voluntate comunis Bononiae in Castro S. Petri super Silarum consederint et habitaverint, sint liberi et absoluti omnino a qualibet factione sicut cives bonon. usque ad viginti quinque annos, at occaxione hujus adventushabitationis in castro praedicto facti nullus debeat vel possit suum feudum vel possessionem perdere perpetuo et comune Bononiae hoc teneatur quemlibet perpetuo deffendere et authovare et in bravi potestatis futurae comunis ponere et statuere quod ipse potestats tenneatur hic omnia eo modo ut supra legitur jurare ipse et seguentis potestatis vel rectores qui pro tempore fuerint usque ad viginti quinque annos similiter et observare. Consularum in eodem Castro habitaturos eiusdem eligant sicuti et alia castra bononien.. Confirmatur tamen a comini bonon. sicuti et aliae fiunt, et hoc (…) ut supra legitur D. Ubertus Vicecomes Bononiae Potestas ex parte Comunis Bononiae, investivit Accarium et Oddonem Consules de Alborro ricipientes se et nomine omnium qui voluntate Comunis Bononiae ipsum Castrum inabitaverint:
Ego Joannes Piletti notarius Comunis Bononiae et memoranti D. Potestattis intersui et eodem D. Potestate jubente hanc cartulam indi scripsi.
Essendo poscia riconosciuti li detti Alboresi divenuti Sampierani per cittadini bolognesi furono anco in appresso ammessi alli uffici e cariche della città come in appresso si riscontrerà in questa nostra leggenda.
Divenuto il novo nostro Castello colonia delli Alborresi, venne tantosto privo di abitatori Alborro e presso che desolato in modo che divenne un picolo casale, il quale conserva anco il suo nome natìo pronunciato lungo con due RR, nella colina sopra il Silaro, torrente poco distante al confine imolese.
E sebbene dal Ghirardacci, istorico delle cose di Bologna, siasi figurato essere stata la ubicazione d’Alborro dove di presente esiste un amplo casamento detto il Castelletto, che ha servito lungamente di villeggiatura alla nobile famiglia fino alli 21 maggio 1604, nella cui vicinanza avendo Giovanni Poggi ucciso Cristoforo suo fratello col segarli la gola, più non vileggiarono quivi li suoi possessori.
Non si può da noi passare poi sotto silenzio l’errore in cui è inciampato quello storico. Riferisce egli adunque che distrutto Alborro, castello già del Conte Lotario, vi rimase dappoi il solo che nome di Castelletto, non riflettendo punto alla nominalia del vicino casale, pronunciato Alborro lungo dal dialetto popolare bolognese e nel latino Alborium od Alborum, casale composto di familie diverse e diverse abitazioni di padronanze distinte e che il locale del Castelletto era fabbrica non molto lontana da Alborro ed a suoi giorni costrutta dal Cardinale Dal Poggio per di lui piacevole ritiro, grandioso come piccolo castello ove attendeva alli studii legali, al quale effetto teneva ivi una libreria di giuristi distinti ed altri autori e che a giorni nostri si è distrutta e venduti li codici dai ministri della impresa rurale .
E molto meno riflette che contemporaneamente esisteva pure, appresso a questo grandioso edificio, l’avvanzo del distrutto Alborro colla stessa nominalia. Conciosiacchè se avesse a mente chiara tenuto dietro a questa materialità, non che alla pronunzia delli abitanti tanto di un locale che disse altro, ed avesse a fondo esaminati li antichi catasti e le carte de Campioni rurali non che li scrittori delle cose d’Imola come descrivono Alborro e sua ubicazione, ci diamo a credere che avesse scritto diversamente.
Tanto più lo doveva fare perché alli suoi giorni, che scriveva le storia di Bologna, era Alborro distrutto visibile nelli suoi avvanzi e la sua ubicazione, retinente la sua originale pronunzia senza la minima alterazione, sia nello scrivere, che nel pronunciarlo, si diceva come oggi Alborro, pronunciato lungo.
Sussistevano pure a suoi tempi li fabbricati antichi ruinati di macigni tagliati a scalpello sulla semetria gotica e toscana. Si dovevano pure allora osservare qui mucchi di rottami trascurati in loco, la direzione e la delineazione di un abbandonato e vetusto muncipio.
Si rende poi anco incompatibile il Ghirardaccio per essere egli originario di Castel S. Pietro, come di suo pugno il confessa in una sua lettera diretta alli confratelli della supressa Compagnia di S. Cattarina del paese, il di cui archivio trovasi nell’Ospitale delli Infermi parochiali onde, essendo egli anco filio di ser Andrea Ghirardaccio Not., perito in lettere, fornito di documenti patrii, di una progenie che contava il suo patriotismo e domicilio nel nostro Castel S. Pietro fino dalla fondazione come narrano le sue storie, doveva egli essere a giorno delle notizie più prossime all’epoca in cui fu abbandonato quel muncipio d’Alborro piu’ di noi.
Poteva egli se non altro ripetere dalli suoi maggiori e dalli più attempati paesani le più certe notizie dell’ubicazione dell’indicato Alborro. Ci persuadiamo che se ciò si fosse messo a cuore, avrebbe riscosso che non fu mai piantato Alborro ove è il casamento del Castelletto, che nemeno ha figura di castello bensì auria riferito che il castello Alborro esisteva nel sito in cui anco oggi giorno conserva la nominalia primiera quale si riscontra pure nell’antichi codici comunitativi dell’estimo de terreni. La sua vetusta costruzione, li materiali, la delineazione poco men diforme a suoi vicini castelli nella collina di Fiagnano, Bello, Corbara abbandonati e dal tempo ruinati, lo insegnano.
Il locale del Castelletto è incapace di contenere almeno la metà di quelle familie indicate nel su riportato decreto di esenzioni ed investimento della colonia loro nel novo Castel S. Pietro.
Il libro de giuramenti prestati al parlamento di Bologna nel 1178, epoca lontana dalla emigrazione delli alboresi e tradotti in Castel S. Pietro, ne somministra ancor esso conformi memorie. Se alcuno poi de nostri presenti scritti non volesse appagarsi delli nostri riflessi, si affacci al locale tanto del Castelletto quanto alla località del distrutto Alborro e rileverà se ci opponiamo al vero. Nella situazione di Alborro osserverà, avvanti quel rimasuglio di fabricato, la piazza che serve ora di ara alli abitanti delli rimasti edifici antichi. riscontrerà la posizione dell’ingresso della Terra. La cisterna comune per le aque fluviali. Lo strada per cui si accedeva all’abitato che viene incrociata da altra strada detta via di Varignana per la comunicazione di comercio che intercedeva tra questi due castelli.
Queste nostre osservazioni non accrescono le nostre ragioni ? Tali contingenze non si possono predicare sulla situazione della fabbrica e locale del Castelletto.
Una piccola eminenza contigua al Alborro, portante il nome di Ghisiola o siano Chiesola ove a giorni nostri sonosi trovati fragmenti di vasi antichi inservienti al culto, campanelli di metallo, pezzi di candelabri di chiesa, ossa umane, fanno tenere per fermo che Alborro castello fosse dove noi indichiamo, mentre sappiamo che li primitivi catolici si fabbricavano le chiese in picolo per rendere al vero Dio il dovuto culto fuori delle città e muncipi per timore delli attriti. Ciò non si ritrova in vicinanza del Castelletto.
La denominazione stessa di Alborro conservatasi su del citato casale e tramandaci dalli antichi, tuttora conservasi in bocca delle persone piu’ rozze ed incolte non che nel dialetto bolognese, toscano e latino venendoci canonizata ne pubblici rogiti e ne contratti comunali.
Li latini contestuali al tempo della esistenza di questo muncipio, ed anco prima, lo chiamarono sempre Alborium, li toscani Alborio ed Alborro e non Arbore. Dal sagace Manzoni nella sua Storia de Vescovi imolesi fino dal 1051 in una bolla di Eugenio III nella quale, annoverandosi le chiese sottoposte alla Mensa d’Imola a quel tempo, annovera la conferma al vescovo imolese della chiesa del Castello d’Alborro in precisa parola della Bolla: Ecclesiam S. Pauli de Castro Alborii, ma non Arboris, confirmamus.
Nel 1178 al fol. 14 del Registro grosso, Archivio pubbl. di Bologna, ove sono descritte tutte le famiglie di quel castelluccio, che giurarono fedeltà al Senato di Bologna, trovasi Alborio scritto in latino colli due sostantivi della seconda declinazione cioè Castrum Alborii e non Arboris della terza. Il decreto pure di Uberto Visconti podestà di Bologna nel 1199, epoca in cui fabbricavasi Castel S. Pietro e contemporaneamente surregeva Alborro, non declina punto dal vocabolo della seconda declinazione Homines de Alboro e non di Arbore.
Vengasi pure anco ai tempi a noi piu’ prossimi del 1491 e del 1530 in cui, con tutta diligenza furono riscontrati e misurati li terreni componenti il territorio di Castel S. Pietro, che troverassi nei catasti pubblici e nei campioni esistenti nell’archivio della Comunità scritto Alborro ed in nessun luogo, dell’Arbore. Carlo Sigonio, chiaro istorico e purgato scrittore latino del bon secolo come quegli che era prossimo egualmente che il Ghirardaccio al tempo in cui fu abbandonato Alborro dagli abitatori, scrisse nella sua storia Alborium e non Arbor oppure Arboris colli due r. r.
Ma a che riportare esempi quando che gramaticalmente si può convincere il Ghirardaccio e chi l’ha seguito. Diasi di grazia una scarsa riflessione alla parola Alborium oppure Alborum, come si vede è egli nome sostantivo di genere neutro della seconda declinazione? Se si fosse nominato Arbore, come piace allo scrittore, si sarebbe scritto Arbor oppure Castrum Arboris colla seconda R oppure colla L? Sarebbesi pronunciato breve oppure lunga la parola? Ammesso tutte queste frivole osservazioni ma sicure con regola grammaticale e con tante altre da stancare li fanciulli, appoggiamo il nostro parere che debbasi attendere alla parola latina Alborium oppure Alborum col pronunziare la parola lunga in toscano traddotta cioè Alborro e non dall’Arbore.
Concludasi adunque che il fondo e suolo sopra indicato col nome di Alborro egli è quello che forma un casale ed una linea di case congiunte fabbricate sulli antichi modelli del gotico, denominato Alborro, castello di giurisdizione del Conte Lotario e Conte Guido e non già che fosse impiantato questo castelluccio sulla ubicazione dell’amplo casamento detto il Castelletto di spettanza del Cardinale Poggio e suoi sucessori con una impresa di terreni lavorativi e boschivi in elevata pianura sopra il Silaro al levante.
Le familie che poi da Alborro vennero al novo Castel S. Pietro si rillevano descritte nel sudd. Decreto di Uberto Visconti, alle quali se ne unirono altre di luoghi diversi e del Borgo, colle altre molte descritte nella seconda classe del giuramento preso venti anni prima la edificazione del nostro Castello, allorchè il Conte Lotario giurò fedeltà a Bologna, come si può chiunque soddisfare nelli annali Savioli al Tomo dei diplomi, ove si porta l’elenco.
A quello ed a questo noi ne aggiungiamo altro ritrovato in autentiche carte ed in cronache cioè: Peggi, Prudenziani, Preti, Toschi, Pepoli, Rinieri, Giraldi, Vitali, Burioli, Paganelli, Ungarelli, Rustighelli, Mattei, Ubaldini, Gilioli, Zopi, Feliciani, Schifati, Pucci, Dalzano, Belloli, Zenzani, Tani, Brochi, Zanesi, Ghirardacci, Laxi ed altri che vennero di Bologna cioè: Schiffati, Fichi, Bonori, Brochii, Fabbri di Ferro, Leali, Ricardi, Nobili, Rondoni, Ciarli e Zangolini.
Non dubitasi punto che, avendo noi così avidamente incominciato a compilare il raccolto presente di Memorie antiche del nostro Castel S. Pietro, non sia per esservi chi ci voglia accusare di spensierato per non esserci messo a cuore d’accozzare vetuste memorie del medesimo più addietro assai del MCC dopo la nascita di N.S.G.C. cosichè aurebbesi maggiore la storia di quello, sia per essere come è stile delli scrittori (….) sopra le cose della patria loro che, per rennerle luminose, si sforzano originarle (per così dire) sino dalla edificazione del mondo onde, essendo spesso poi discordi con altri autografi, incontrano poco o nulla di grazia e di credenza. Quindi è che, sebbene da noi si abbia certa la relazione di gravi autori, siano nazionali che esteri, sull’epoca ed origine del nostro castello limitrofo alla Romagna con prove irrefragabili, non di meno supponiamo che vi saranno scrupolosi che vorranno sia la di lui edificazione assai più vetusta di quello che abbiamo accennato portando l’autorità di Gaudenzio Merula, diligente scrittore delle antichità cisalpine.
Porta egli nel suo libro De Gallorum Cisalpinorum Antiquitatibus la seguente memoria: Claterna vetus opidum, vi Gallorum et Longobardorum deletum. Vicus S. Petri Silare aluitur. Che perciò nella parola Vicus debbasi intendere il nostro Castel S. Pietro piantato fino ai tempi della destrutta Claterna, muncipio vetusto da alcuni detta scioccamente Quaderna, la quale fu fino ai fondamenti abbolita ed annichilata dalla soverchiaria di Galli e Longobardi e sucessivamente devastato anche il di lei territorio estensivo fino al Silaro.
Se si esamina ben bene la parola Vicus usata dal Merula la sua sostanza non importa altramente che uno scarso abitato di poca popolazione ed una contrada. Se fosse stato per ciò ivi ubicato il nostro novo Castello certamente il diligente e sincero Merula l’avrebbe con altro termine descritto. Con tali ragioni crediamo tolti tutti li scupoli in proposito.
Quanto poi all’indicata contrada nominata Vicus cioè vicolo, noi la riputiamo un avvanzo di tutti quei mali che fece nel bolognese Astolfo XXII Re de Longobardi nel 749 doppo la venuta di G. Cristo, che danneggiò colle sue genti tutte quante queste parti assai più di quello che fecero tutti li popoli barbari nel passato tempo. Conciosiaché furono di tale tempra li longobardi, che avuta in breve tutta l’Italia in di loro potere si sforzarono di guastarle il più bello che l’adornava. Mutarono di balzo le provincie, li nomi delle città, terre e castelli, aterrarono li edificii e monumenti della romana grandezza, guastarono la locuzione toscana, li dialetti buoni, d’onde si mutarono per fino le pronuncie e le parole, spesso formarono nove leggi e costumi, tentarono oscurare la purgata latinità romana in modo che fu quasi tutta deformata. Furono così nominati li longobardi dalle lunghe barbe e capelli lunghi sciolti che portavano, vestiario lungo, scarpe aperte fino ai taloni, le quali allaciavano con coreggie. Vennero essi dai confini della Germania sotto la condotta di Alboino, loro duce che li diede in guardia ad Alone e Taone, come li riferisce Vincenzo De Solis nel di lui Discorso delle Città e Luoghi d’Italia, edizione di Erasmo Vietti in Parma 1667, il che ci viene contestato da Carlo Stefani nel suo Dizionario istorico, edizione di Giacomo Stoer MDCIX in questi termini: Longobardi popoli Germaniae quos a longis barbis cognominatos ferunt, et de oceano Germaniaeque oris ultimis venisse novas fedes quaerentes. Ibi Albino duce Italiam instruere brevioque omnes pene citerioris Italiae urbes vecepere. Ibidem 20 annis regnantis a Carlo magno superati fuerunt. —– Lingones populi et Bardi Galliorum populi, facta unione, gentem una et nomen unum admiserunt. Cacciati costoro da Carlo magno, fu tranquillizata tutta la Italia, li di cui popoli si diedero poscia al ristoro dei loro muncipi maltrattati.
Il governo bolognese che, attesa la distruzione della Claterna, si era il territorio di questa unito al bolognese, non fu tardo il Senato soccorrere al uopo ove abbisognava. La contrada suddetta di S. Pietro ne senti benigni effetti per essere di fronte immediata alla Romagna d’onde poi col tratto del tempo divenne un Borgo, come quanto ci scrisse il Vanti sulla tradizione populare, che in seguito fu sottoposto al nostro Castello, dove che era prima la capitale di Poggio, come riscontrasi da documenti autentici ed ultimamente dalli annali del lodato Savioli.
Supponiamo ancora che vi saranno ancora altri scrupolosi che vorranno confondare la edificazione del nostro con altre edificazioni di castelli portanti lo stesso nome del nostro cioè Castel S. Pietro sulla confina di Modena, Castel S. Pietro nella Toscana indicato vulgarmente Ridocofani, Castel S. Pietro nel ravegnano, che fu poi distrutto da Pietro Traversari, Castel S. Pietro sulla Cosina fabbricato da faentini, Castel S. Pietro nel perugino, feudo di casa Baglioni, Castel S. Pietro nella Palestrina ed altri forse che non ci saranno noti, onde è che per togliere anco su di ciò ogni equivoco si invitano li dubbiosi a disingannarsi sulla fattura di una contemporanea lapide in caratteri gotici in marmo, che nella torre maggiore del nostro Castello anticamente esisteva sopra l’ingresso interno di quella, la quale per assicurarla dalle vicende dei tempi passati ce la salvò nel 1635 il Conte Antonio Malvasia nel giardino di questo suo palazzo, di dove pochi anni sono la magnificenza del comendevole Senatore GiuseppeMalvasia, seguendo la traccia de suoi maggiori che ebbero sempre in delicie questo paese, donollo alla pubblica rappresentanza che tosto locolla entro l’ingresso maggiore alla destra.
Leggesi in essa in esametri che al tempo di Rolando de Rossi di Parma, nomati di S. Secondo, reggendo egli saviamente Bologna, nel 1200 fu edificato il nostro Castel S. Pietro in questo luogo acciò in quei tempi fazionari servisse di antemurale alla città, fossero securi li passeggeri e li malfattori si allontanassero per timore della pena il di cui tenore è il seguente:
Annis millenis currentibus atque ducentis
quando Parmensis rolandus nomine dictus
Justitiae Cutor et Pacis verus amator
Bononiam rexit Legalia jura requirens
yunc etiam jussit pacem cupiendo tenere
hoc Castrum fieri Comitatu Bononoensi
transitus ut fieret securus eutibus inde
et malefactores fugerent formidine paena
Dal fin qui esposto crediamo avere in qualche modo narrato quanto basti sopra la origine ed epoca del nostro Castello, che piu’ oltre del 1200 non si riconosce. In ciò sono concordi Judoco Hondio: Descritio Italiae, Flavio Biondo: Lib. III Italia Illustrata, Andrea Scoto: Itineraria, Tonduzzi: Istoria di Faenza, Rossi: Istoria di Ravenna, Chiaromonti: Istoria di Cesena, Bonoli e Marchesi: Storia di Forli, Leandro Alberti, Carlo Sigonio, Pompeo Vizani, Cherubino Ghirardacci, Bartolomeo Dolcini, Negri, Bianchetti storici Bolognesi e tanti altri che lungo sarebbe il novero. La ubicazione poi è incontestabile con chi volesse opinare se sopra la vigente via regale della Emilia sia quella del nostro Castello oppure sia l’altra via antica regale, che valicava le nostre eminenze poco distanti che fu per le sue incomodità dispersa, come ci racconta il Biondo ed il Figonio con altri tutti concordi: Anno U. C. 563 fit via Aemilia a Faventia ad Claternam, che furono avvanti Cristo nato 186 anni allorchè Marco Emilio Lepido era consolo la XV volta. Li tratti dell’antica saliciata sopra la medesima, non a molto scoperti, ne assicurano la costruzione, la rettitudine si vede.
Li termini miliari nobilissimi, ritrovati nel 1768 nell’appianare le eminenze fatte dai villani colle annue inghiarazioni, canonizano il nostro asserto, poichè fra li altri se ne ritrovò uno di pietra serena come una colonnetta distante dal nostro Castello mezo miglio, all’incirca in loco detto Marazzo, alla sinistra procedendo verso Bologna, che meritando essere posto fra li monumenti della antichità romana nel Istituto delle Scienze, fu diligentemente ivi portato dietro le nostre notizie li 17 genaro 1769 ove nell’atrio della scuola de pittori figuristi fu inalberato. Egli è alto poco più di quattro piedi nostrali, mozzato al di sopra e contiene le seguenti cisle romane a caratteri majuscoli
M. AEMIL.
LEPID
C
Ne vi vole molto a chi ha la storia romana in possesso riconoscere che questa colonetta non sia uno di quei termini milliari fatti piantare da Cesare Augusto quando si prese cura di riddurre a miglior stato le cose dell’impero romano. Attese egli particolarmente alle strade portanti a diverse parti di quello, che però fece piantare in Roma il termine aureo milliare (colonna di marmo dorata) da cui spicavansi tutte le strade imperiali. Da questa colonna si computavano le milia di quelle, come anco fece porre in diversi luoghi inscrizioni e lapidi indicanti li autori che le costruirono ed in specie della Emilia, che ne conserva pur anco la denominazione del suo autore come si legge nella inscrizione riportata così glossata:

(17d) MARCO
AEMILIO
LEPIDO
C
Curante oppure Consule.
Ma è sciagura che questa colonna abbia soferto le strane vicende della misera Italia ne secoli passati più volte desolata, massime da Longobardi, poichè essendo mozzata è da supporre che vi potesse essere stata altra sopra rimarchevole inscrizione analoga alla costruzione di questa via regale e di qualche altra cosa notabile. Che se le avversità de tempi ciò ne hanno tolto, non ci ha però del tutto privati, mentre un più bello monumento si conserva alla vista di tutti in codesto Borgo nella medesima strada alla fiancata del pilastro della casa de fratelli Andrini che anticamente apparteneva alla famiglia dello scrivente le presenti memorie, come appare dai publici rogiti e documenti del 1560 fino al 1704 appresso il contubernio delli giudei detto il Ghetto presentemente.
In questa colonna di durissimo selce detto volgarmente, verdone, vi si legge a lettere majuscole romane le seguente inscrizione:
M. AEMILI
LEPID
CCLXII
e posteriormente , essendo corrosa nel d’avvanti
M. F. M. N.
COS
XV
D’onde rillevasi che Marco Emilio filio di Marco e nipote similmente di Marco Lepido la decima quinta volta che egli fu consolo fece costruire questa strada. Le lettere numeriche CCLXII dimostrano la distanza da roma di 262 miglia.
Lasciata per tanto a parte ogni altra questione diciamo sicuramente che il nostro Castel S. Pietro giace sopra la via consolare detta comunemente Emilia, alla regione meridionale al grado 44 di latitudine secondo Tolomeo ritoccato dal Langlat nel bolognese, poco più di un miglio distante dalla provincia di Ravenna, alla sinistra discesa del Silaro, torrente che nasce dall’Apenino e mette capo nella Padusa intersecando la detta via, sopra cui si incurva un bellissimo ponte di tre archi che congiunge amendue le rive. Sorge con buone fortificazioni in elevata pianura sopra la riviera di quello a piedi di ameni colli vestiti di viti e piante di ottimi frutti. Abbonda il suo territorio di formenti, biade e di ciò che può occorrere al vitto umano.
L’aria è così salubre che fu chiamato dalli antichi nei tempi pestilenziali: locus perfectissimi aeris. Il suo territorio per essere di suolo ameno e piacevole nelle pianure sull’esempio di Marco Porzio Catone che nelle convulsioni di Roma, si scielse un aperto monte per suo ritiro in queste vicinanze sopra il castello di Doccia, d’onde quel monte ne riportò poi il nome che tuttora, come narrano le Cron. d’Imola cioè di Monte Catone, ritiene.
Così operò nel nostro territorio (conforme ci lasciò scritto il P. Vanti nelle sue selve istoriche del paese) quel Cajo Rusticello, oratore bolognese menzionato nelle storie della città, familiare di M. Tullio e ritirossi nei tempi romani sconvolti in queste parti nella aperta pianura e formosssi un ritiro lontano dai rumori della città, così che quel luogo ne riportò il nome, che tutt’ora conserva col dialetto alterato di Rusticale. Di fatti se ripassiamo le carte antiche non è del tutto da rigettarsi la opinione del Vanti poichè nel 1171 nel giuramento che presero li alboresi di fedeltà al governo di Bologna trovasi un Rusticello menzionato. Il Savioli, annalista bolognese, ne porta il documento stampato.
Da scrittori più antichi di esso si ha che la familia di d. Rusticello propagatasi si estese in diverse parti del territorio bolognese, come anche ultimamente lo indica il Fantuzzi nelli suoi Scrittori Bolognesi, che perciò è sostenibile che il Rusticello segnato nel giuramento indicato sia un rampollo di questo eccellente oratore a cui per retaggio discensivo ne suoi posteri passasse la d. possidenza dl Rusticale, che pure trovasi menzionata nelle antiche carte che ci sono passate sotto l’ochio di instrumenti e nelli catasti pubblici del territorio di Castel S. Pietro nel 1390,1492 ed 1542.
Non essendo però l’impegno nostro di ciò sostenere ne di farne la geneologia di questo chiaro lignaggio passato nel nostro Castello ritorniamo al nostro racconto del medesimo al quale non l’arte già ma la natura le aveva preparato il posto opportuno per l’efetto di servire di antemurale alla città di Bologna contro li vicini nemici.
Un mediocre edificio posto nella contrada del Borgo era l’asilo di quelli antichi abitanti ad orare, l’epoca in cui fosse edificato e sua dedica non abbiamo scrittori che ce lo dicano. Altro non abbiamo di questo edificio se non che era assai prima de secoli catolici edificato e che ne primissimi tempi del cristianesimo fu dedicato al capo delli apostoli S. Pietro doppo il di lui martirio, dal quale si tiene che ricavasse poi il nome il nostro Castello. Qual nome si avesse in prima non ci è riuscito iscoprirlo. Solamente ci rifferisce in questo proposito il citato P. Vanti, nelle sue selve delle patrie memorie del paese, che nei secoli romani in cui sussisteva la città della Claterna, del pari sussisteva ancora l’indicata contrada faciente parte della giurisdizione claternate e che in allora nomavasi Silarena, parola composta di due voci latine congiunte cioè Silaris Arena, dato gli formassero poi una sola parola cioè Silarena, per essere situata presso le sponde arenarie del Silaro, che tale era il costume delli antichi fabbricatori di mancipi.
D’onde poscia occupati questi stati da Galli e Longobardi e distrutta Claterna da essi, sebbene ai tempi catolici vuote e qui stesse in poi il nome di S. Pietro dall’edificio sudd. dedicato a questo santo, tanto più che era l’oggetto primario di questi popoli barbari di abolire li nemici col ferro e li muncipi edificati dalla grandezza romana, come si legge nelle storie, e quelli che non distruggevano adulterarli per lo meno il nome e tagliarli lo splendore naturale che avevano. D’onde il Vanti abbia dedotto le sud. notizie non ce lo annunzia, ma lo appoggia ad una imemorabile tradizione della gente.
Noi però non addottiamo per vero il rifferto quantunque verissimile e si approssimi alla verità, così non abbiamo nemeno il coraggio di ripudiarlo, mentre sapiamo dalla storia quanti furono li mali che fecero quei barbari per offuscare la grandezza romana ed oprimere l’Italia di cui ce ne lasciò scritto un sentore Vincenzo de Solis come si è narrato.
Aggiunge poscia il sud. Vanti che, distrutta l’idolatria in queste parti, fu anco distrutto il sudd. edificio, che era il delubro di quelli abitanti in cui veneravasi da loro quella stessa divinità e nume che adorava la loro città capitale pagana. Che possa opinare chiunque sopra il fin qui riportato da noi, non avendo carte nè memorie opportune, sparite nelle luttuose circostanze del nascente catolichismo, lasciamo la discussione a chi a più di noi valente e comodo di sviscerare le biblioteche, codici ed archivi di quello che noi abbiamo per venire in chiaro della verità.
L’Ughelli nella sua Italia Sacra ,T. 2, pag. 321, ci fa noto che da S. Pietro, capo della chiesa cattolica e romana, primo pontefice nell’anno 44 di Cristo, fu creato S. Apollinare, uno de molti discepoli del Redentore, in vescovo di Ravenna ed ad esso fu imposto seminare le verità evangelica nelli vicini luoghi dell’Emilia. In ciò concordano tutti li scrittori delle cose ravennate ed ultimamente Girolamo Fabbri canonico nelle sue : Memorie Sacre de Vescovi ce lo conferma, fol. 397 Tav. 2 .
Ciò stante non ci potiamo allontanare di credere che essendo il d. nostro Borgo sulle sponde della Romagna Dizione di Ravenna, gustassero li abitanti di esso colla sua populazione, ai primi tempi catolici, il seme evangelico prima di Bologna, donde poi abandonata la idolatria li nostri antichi paesani convertissero il suddetto delubro al culto del vero Iddio. Essendo poi stato martirizzato S. Pietro l’anno XXIV del suo pontificato sotto l’imperatore Nerone il crudele, teniamo per sicuro che S. Apollinare fosse quegli che dedicasse il delabro sudd. a S. Pietro.
Propagatasi poi in seguito la catolica fede per tutto il bolognese ed edificati tempi e chiese all’onore di N. S. e suoi Santi, furono indi dai sommi Pontefici eletti pastori di S. Vita nelle città, onde nella loro giurisdizione assoddassero vieppiù’ li popoli nella Santa fede coll’opere, miracoli ed orazioni. Nella serie di essi abbiamo che nell’anno 356 di Cristo Redentore, essendo vescovo di Bologna S. Basilio e crescendo la religione cattolica egli, per dar pascolo maggiore della medesima ed infervorare la greggia commessa, accrebbe li ovili, li pastori e fondò le chiese curate ove ne era il uopo.
Ciò seguì più di cento anni avanti la venuta di S. Petronio a Bologna, che seguì nell’anno di C. 429. Quando poi alla materialità del su menzionato edificio si pensa da assai prima esistesse, attesi li monumenti ritrovati presso al medesimo fra materiali che lo circondano sepolti imemorabilmente e doppoi che furono profligati li vani idoli e convertito al culto del vero Iddio ed ancor prima che da S. Basilio fosse eretto in beneficio curato delle anime vicine. Ci confirmiamo vieppiù in questa opinione attaccati alle Cronache del Petricelli fol. 53 ed a quella del Polieni fol. 70, che entrambi ci assicurano che la d. nostra chiesa di S. Pietro essendo beneficio della Mensa arcivescovile di Bologna, fu da S. Petronio nel numero delle 70 chiese curate donata alli abbati celestini detti volgarmente di S. Stefano di Bologna.
Oltre l’asserto di questi due scrittori, la canonizano anco sucessivamente fino ai tempi a noi più prossimi li pubblici instrumenti delli notari attuari della abbazia colli rogiti delle concessioni emfiteutiche fatte dalli abbati pro tempore della medesima delli terreni uniti alla sudd. chiesa che la contrassegnano per Chiesa curata in precise parole: olim cura. Fra questi ultimamente Giulio Negrini Not. bolognese in instrumento delli 23 novembre 1617 e Cesare Zanetti in instrumento delli 28 lulio 1769.
Molto più poi ci impostiamo in questa massima sul fondamento che l’emfitente delli terreni sottoposti alla d. chiesa e caricato, oltre un annuo livello pecuniario, alla celebrazione di 52 messe all’anno ripartite una per ogni settimana ed ulteriormente altre dieci il giorno della festa della comemorazione de S.S. Pietro e Paolo in d. chiesa, si inferisce per tanto che tali celebrazioni fossero instituite settimanalmente per il disimpegno della cura delle anime, onde li catolici locali soddisfecessero così al precetto della chiesa catolica.
Chi bramasse assicurarsi del fin qui narrato, si riporti al pubblico instrumento della concessione emfiteotica fatta dal Cardinale Calicola nell’anno 1729 di giugno al canonico Carlo Antonio Villa nazionale di Castel S. Pietro per li atti del Not. Petronio Giacobbi bolognese, del che se ne fa anco menzione apposita in lapide sopra la porta maggiore di detta chiesa, che all’epoca della sua apposizione nelle nostre carte abbiamo trascritta.
Giovanni Morelli di Castel S. Pietro, non ignobile poeta latino che fiorì nel mille e cinquecento di se ne fa menzione nelli suoi scrittori bolognesi il Fantuzzi, parlando quegli della solennità di S. Pietro che costumavasi festeggiare in d. chiesa, così ci lasciò scritto in una sua egloga che incomincia:
Puniceis invecta rotis aurora capillos
pandebat roseos venientis previa (….)
Poi siegue avvanti la sua descrizione, doppo alquanti versi all’ intercalare adduce osservarsi presso il nostro Castello l’effigie di S. Pietro, che forse ai suoi giorni doveva essere scolpita, ed averne il medesimo santo partecipato il suo nome al nostro Castello, d’onde in conseguenza esultando il vicino Silaro, dice aver fermato il suo corso nel sentirlo encomiare il giorno della di lui festa.
Conspicitur castrum propter tua forma propinquam
sculpta decus Petrum, nomen cui protulit ipsa
nomen quod sonat omne nemus, circumque remittunt
percussa valles at celsa ad sidera tellunt
solvite solemnes mes carmina, solvite voce
ipse Siler propior montano flumine torrens
undivalusque fluens nunc tua Numina sentit,
sistit et inde suos luctantes undique cursus.
Solvite solamnes mea carmina, solvite voces
Il Tonduzzi storico faentino pesatamente racconta che il nostro Castello fu insignito del nome di S. Pietro da bolognesi perché al tempo ed anco prima di sua edificazione era il protettore principale della città e territorio di Bologna. Imperciocché essendo ciò certissimo li Anziani e Consoli di Bologna riconoscendolo per tale portavano la di lui effigie incisa nelle marche e sigilli pubblici ove, vestito alla pontificale, sedendo in atto di benedire colla destra, teneva colla sinistra le chiavi ed all’interno leggevasi il seguente esametro
Petrus ubique pater, legumque Bononia mater.
Gianfrancesco Negri ne suoi annali M.M. S.S. di Bologna T.2 all’anno 1196 ad 1198, che per grazia singulare ci è stato concesso estrarne questa sola notizia venendoci contesa la ulteriore lettura della storia a motivo delle vertenze giudiciali fra la pubblica Rappresentanza del paese col Senato di Bologna, scrive che la prima pietra fondamentale del nostro Castello fu gettata li 29 giugno dedicato giorno alla storia di S. Pietro, onde per questa ragione riportò il nome di Castel S. Pietro.
Da una mappa antica demostrativa del Nelli 1593, presso li eredi del sacerdote D. Giambattista Vanti concittadino nostro, conservata con molte notizie patrie del di lui zio P. Gianlorenzo Vanti M.M. O.O. scrittore di memorie patrie, rillevassimo e leggemmo il sudd. esametro accompagnato col pentametro così:
Petrus ubique pater, legumque Bononia mater.
Illius hoc Castri nomine signat opus
Questo distico nella rinovazione della pianta del Castello e suborgo unita fatta dal egregio ingeniere Vittorio Conti filio del chiaro dott. Giacomo Conti anatomista e lettore pubblico di Bologna, entrambi concittadini di Castel S. Pietro, fu trascritto come si legge nella sala municipale del paese. d’onde si deduce da quello quanto il Magri ed il Tonducci ci hanno lasciato scritto.
Nell’anno 1763 di marzo per le continue pioggie, essendosi slamato presso l’accennata chiesa il fosso che dal meridio divide il suo conterno, inserviente ai tempi vetusti di cemeterio, dal terreno ortivo della familia Landi ed Inviti, avendo le aque scavato terreno, ove benespesso si scoprono fra materiali e sfacimenti ossa umane che poi si trasportano nel cemeterio interno del Castello, fu da Antonio Gardi ritrovata una inscrizione romana. Ne procurammo l’aquisto per tutti quegli oggetti che potessero occorrere ed eccone il tenore della medesima, che presso noi conserviamo

D.
OPI
CL. SP. CL.
SAL. TUT.
AVR. CON.
ET IVLIA. F.
V. B. …..
……………
Manca l’ultima lettera che si suppone una S. perduta nel tempo, essendo corrosa la lapide inferiomente. Communicata questa ad intelligenti di antichità colla descrizione del loco ove fu ritrovata, congetturarono per ciò che quivi fossevi nelli tempi dell’atteismo un delubro profano dedicato alla dea Ope, da quelli tenuta per madre della terra e pressidente alle selve a cui ogni anno li 19 di decembre celebravano le loro feste chiamate Opalia.
Conciosiacché nei d. secoli del gentilesimo la boscaglia essendosi sempre tenuta relligiosamente, così è credibile che dalli romani, allorchè erano padroni di queste parti, da essi e dalli abitanti della vicina Claterna alla quale aggregati erano questi contorni, fosse costrutto un tempio dedicato a quella divinità a piedi di queste nostre boscaglie e selve, le quali si vogliono da buoni scrittori che facessero parte della famosa selva Litana de romani. Egli è certo che essi tenevano quelle per soprassante e le veneravano come veneravasi in Roma il Guerculano di dove si estraevano le aste delli Centumvirali. Da tale sentimento non possiamo allontanarci, tantopiù che
l’erudito Ovidio Montalbani nel suo libro Antiquitas antiquitatum Bonon., sotto il nome di Giovanni Bumaldo, asserisce che in queste parti, coperte di folte boscaglie al di sopra della distrutta Claterna, vi erano tempi consegnati alle false divinità cioè a Stifonte quello di Diana nemorense ove in di lei onore ogni tre anni vi si facevano le caccie. A Monte Cerere, chiamato scioccamente Monte Celere, vi era il tempio della dea Cerere sopra l’apice di un altissimo monte, ove di presente ancora esiste, nel quale da primi cattolici fu sanzionata una Pieve ed eretto ivi il fonte battesimale per li infanti la cui giurisdizione si estendeva fino nel Medesano. Così pure nel monte Pasto poco lungi eravi il tempio dedicato al dio Pastino, nella parete del quale si vede il simulacro di questa deità guastata dalli fanciulli nelle scoperte pudende e quivi pure fu impiantata un altra Pieve dedicata al vero Dio, la quale tuttora conserva il titolo di Pieve di Pasto.
Avevano per costume li antichi romani atteisti di amare con particolare distinzione le selve e luoghi inospiti, perché nella loro ritiratezza si credevano che, all’ombra delle piante e colla quiete, rappresentassero meglio l’abitacolo innacessibile a dio e perciò usavano quivi fare olocausti, sagrifici ed oravano più frequentemente in esse di quello che in altro luogo.
Codesto luoghi tenendo per sacratissimi contemplavano come cosa divina la selagine nata in essi a motivo che serba la sua naturale verdezza detta volgarmente: Scrovino, della quale pianta sono abbondanti le nostre selve al segno che da essa si fanno ancora scoppe per li concimi.
Il dott. Francesco Bartolucci originario di Castel S. Pietro, sagace investigatore ed interprete delli monumenti di antichità, commendato dal Coronelli nella sua Biblioteca Universale, riferisce in alcuni di lui fogli manoscritti comunicatoci dal cittad. budriese Mariano Gollinelli, possessore dei medesimi scritti parlando quegli dello stema di Budrio, dice essere stato donato a budriesi lo stema delli claternati a cui erano soggetti.
Riferisce ancora dippiù il nomato Bartolucci avere egli veduto alcune medaglie trovate fra li sfacimenti della abolita Claterna, detta comunemente Quaderna, rappresentanti la dea Ope sopra di un carro tirato da due leoni da un canto e dall’altro esservi impresso due lettere romane iniziali cioè P. C. le quali si devono interpretare PRAESIDIUM CLATERNATE oppure Praeres Claternae.
Inerendo ancor noi a tali sentimenti si può congetturare che dove è l’anzidetta chiesa di S. Pietro, fosse ivi costrutto da claternati un delubro alla stessa divinità come loro tutelare, atteso quant’anco abbiamo di sopra esposto, che la frontiera nel confine del loro territorio era questo nostro soborgo sulle coste del Silaro indicato con altro nome, che a noi non è pervenuto securo a fronte di laboriose indagini.
Supposto adunque che un tale delubro o sia tempio profano dedicato alla dea OPE, supponiamo ancora che la riportata inscrizione sia un monumento votivo e perciò debbasi così leggere:
DIVAE
OPI
CLAVDI SPORVLI
oppure
CLODI SPURILI
oppure
CLELI SPURI CA. LIBERTI CLATERNATIS
SALUTE TUTATA
AVRELIA CONIVX ET
IULIA FILIA
VOTI BENEMERENTES
………………………………
Mancano quivi altre lettere perdute. Che, che ne sia della interpretazione, poco a noi monta, basti sapersi ad un discreto leggitore che la situazione di Castel S. Pietro era dalli antichi contemplata. E’ una infelicità a nostri tempi che non sussistano quei Mancipi e fabbricati distrutti da Galli, Longobardi e da altre barbare nazioni, mentre in poca distanza del nostro Castello si scoprono fondamenti, direzioni di non picoli fabbricati ed altri avvanzi, dissegni di osservanza. Se la esistenza di questi non fosse stata abollita ed estirpata si sarebbero osservate tante belle memorie della magnificenza romana e greca.
Nel fondo Colombarina Vachi sopra la via Emilia al levante si trovano e vedono di sovente diverse materie che dai lavoratori scoperte col roversore fra asprissimi fondamenti danno a credere che ivi fosse qualche fabbricato di considerazione, mentre in alcuni luoghi li lavoratori sono balzati fori dai solchi, tanto è l’asprezza dei lavori sepolti, onde non possono travagliare la terra. Si trovano picciole petricciole rubiconde al pari di corallo, di figura quadrilatera, sessagona, esagona ed ottagona con frequentissimi pezzetti di marmo tagliati come dadi, li quali tersi dalla pioggia risplendono nel campo e fanno credere che quivi fossero manifatture a mosajco.
Giovanni Bedetti, cultore di quel terreno, vedendo un giorno che dall’abbate Serafino Calindri autore del Dizionario Corografico bolognese si facevano indagini ed osservazioni su quel terreno, lo introdusse nella di lui abitazione ove le fece osservare la pietra incastrata nelle parete del focolare, ove erano cisle romane presso che consunte dal foco.
Ne fece egli la copia, poi chiese al proprietario del fondo la levata della pietra, onde poi inserirla in luogo vistoso. Difficultò egli, anzi negolle per non rompere il muro e forse per altri suoi riflessi. Fu indi interposta la nostra mediazione la quale fu vana. Che perciò ancor noi ne facessimo la copia per unirla alle altre memorie del paese ed è la seguente
………………….. NAE
CON …………… MPT
………………………….
C Q V………… X S Q
Ad ispiegare questa inscrizione per colpirne od almeno approssimarsi alla sostanza del fatto, egli è moralmente impossibili, onde perciò non si prosseguirono li impegni. Non è però da porsi in dubbio, che non sia lapide sepulcrale fatta da un marito alla sua sposa. Ce lo fa credere la desinenza della parola NAE, nella prima linea conforme alli nomi di Corina, Lucina, Arcina e simile, che legonsi nelle romane carte, tanto più confermiamo in questa opinione perché nella seconda linea si affervano a carateri chiari le seguenti lettere CON, vale a dire Conjugi o Conjux, ed in fine della stessa linea la seguente MPT che si possono supporre COMPTATE, alla quale interpretazione corrisponderebbero le lettre della stessa linea cioè CQV, solita abbreviatura significante CVM QVA VIXIT e nella intermedia mancante linea di lettere, supponibile è che vi fosse il nome del marito colli anni, mentre la X da se formerebbe il numero dieci e la S col Q si spiegherebbe Sine Querela, conforme si spiega in conformi inscrizioni che tale era lo stile lapidario de romani. Ma a chi ha maggiori cognizioni di noi lasciamo l’impegno di visitare ed osservare la inscrizione se più vi esiste et a dirne il suo parere sulla medesima, essendo per noi ardua la briga.
Poco lungi però da questo fondo, non andò guari che in altro terreno della stessa proprietà denominato: la Ca’ Alta, ritrovossi altra inscrizione mutilata in marmo bianco, che ha natura di alabastro, contenente la seguente nota a carateri romani il di cui originale ritrovato nel 1765 da Antonio e fratelli Trochi lavoratori di quel fondo abbiamo in nostro potere in cui ne apponiamo quivi la stampa.
Esiste questo fondo: Ca’ Alta, come il suddetto Colombarina nel quartiere della Lama, sopra la via Emilia al meridio di rimpetto alla celletta di S. Maria Adolorata detta la Madonna del Cozzo ed anticamente Croce pellegrina. Porge pertanto il motivo questo monumento di riconoscere in codesta situazione, Ca Alta, ove fu scoperto eservi stato un edificio sepulcrale mentre costumavano li antichi romani nelli loro stati alzare depositi ed ossarj alli loro defunti presso le vie maestre, massime quando erano persone di una qualche chiarezza di lignaggio o virtù o carattere.
Ce lo contesta Properzio scrivendo alla sua Amasia pel viaggio che da Roma faceva a Tivoli, augurandosi in caso di morte di essere sepolto in luogo non battuto, anzi in un bosco acciò li passeggeri non mormorassero de suoi amori:
Dii faciant mea, ne terra locat ossa frequenti
qua facit assiduo tramite vulget iter.
post mortem tumuli sic infamantur amantum.
Me tegat arborea devia terra coma.
Aut tumit ignote cumulus valletus arene
non juvat in media nomen habere via
(Lib III Eleg. XIII)
Per quante diligenze si siano poscia fatte per rinvenire il resto di questo monumento è riuscito vano a fronte anco di essersi fatta rincavare tutta la fossa del deposito fino ai fondamenti di figura rotonda, larga piedi otto di diametro e profonda cinque di Bologna, coll’esaminare tutti li rotami e materiali estratti da quello che erano cornici di marmo bianco venato, mischiato a tegole rotte, bittumi neri a guisa di schiuma di ferro bollito, onde è credibile che sia stato quel resto di inscrizione trasportato altrove e pur troppo impastato con altre materie dalla sciempiagine delli ignoranti operarj nelli anni precedenti, che si prevalsero li fabbri murarj di quella materia nell’accomodare una parete della casa rurale, come raccontarono li agricoltori di quel fondo.
Consultati però antiquarj sulla interpretazione dell’indicato fragmento, non abbiamo riscosso altro che quivi realmente fossevi un ossario distrutto da Longobardi, che tale era la loro passione e trastullo contro l’Italia. Di un chiaro individuo di quelli tribuni romani denominati Seviri augustali, dalla di cui moglie Tiberia Mentonia fossevi in questo sito costrutto il deposito alle di lui ossa, mentre in fronte della iscrizione si scorge la prima lettera ancorchè guastata era una O da chi non conobbe il monumento onde così dovrebbe leggersi
OSSIBUS
SEVIRI…………………..
TIBERIA CLAUDIA MENTONIA
CONIV…………………..
Ciò presuposto non è fuori di proposito che questa Tiberia o Tiberina Claudia oppure Clodia o Clelia Mentonia, così interpretata non potesse essere una matrona romana del cospicuo lignaggio de Mentoni romani moglie di un tribuno, mentre abbiamo dalla storia romana che, distrutto Alba fino al tempo di Tulo Ostilio, fra quelle casate albane che furono condotte a Roma vi furono le familie de Servilii, Cluenzi,Cecilj, Julj de quali alcuni di loro ebbero il cognome di Labiane o Labone e Mentone dal Mento bello o difforme che fosse, li quali ebbero cariche di consoli, di tribuni, di seviri, di decemviri onde si raccoglie che un Cajo Julio Mentone nel CCCXXIIII di Roma ebbe il consolato, altro Sesto Julio Mentone fu tribuno militare nel CCCXXX e così altri della stessa familia, che furono tribuni militari fino al CCCL della edificazione di Roma, come annotò Stefano Schioppaloria nel suo Lib. delle Osservazioni politiche sopra la vita di Cajo Giulio Cesare, edizione di Verona nel MDC al fol. 3 e fol. 7.
Così accadde della famiglia delli Nasoni dal naso, ai Lentuli dai segni di lenticchie nel volto, ai Frontoni dalla spaziosa fronte ed a molte altre famiglie illustri, che lunga ne saria la serie, le quali si imparentarono con altre loro pari, onde in conseguenza supponiamo che il su indicato Seviro dovesse essere di chiara stirpe e consecutivamente ancora le fosse costruito l’accennato deposito dopo la di lui morte in queste nostre parti accaduta.
Ma allo spiegare con sicurezza la su riportata inscrizion è moralmente impossibile non che approssimarsi al vero della medesima per la deficienza del nome e cognome. E’ però da tenere per fermo che egli fosse persona di autorità e carattere. Abbiamo delli scrittori delle cose romane che li Prefetti di un bando di uomini d’arme si chiamavano da romani Seviri cioè capi di sei individui. Il Laurrenti nella sua Amaltea onomastica fol. 885 così ce li descrive: Sevir equitus decuriae Praefectus seu Rector turmarum et vexillatiomun dictus. Che se questo pregevole monumento è guastato in guisa che non si può riconoscere il diritto non lo à un altro ritrovato alquanti anni prima in loco poco distante dal nostro Castello superiormente in un campo faciente parte di una possessione detta Fosso lovara, nel quartiere del Dozzo, che abbiamo veduto in potere delli P.P. Gesuiti di Bologna nel loro ospizio entro questo Castello, abitato dall’agente de medesimi.
Ce lo fece vedere il P. Domenico Leardi nobile veronese, allorchè era procuratore della Compagnia. Avessimo il coraggio di chiederglielo per essere monumento attinente alle memorie del paese, ma ci fu sul momento data la negazione per essere un capo di preziosa affezione e Dio sa che ne avvenne poscia, poichè abbolita la Relligione da Clemente XIV e mutati li ministri, furono disperse tante belle cose in quel funesto conflitto che erano l’ornamento della città ed il decoro della relligione, che non è si facile raccontarle.
Fortunata però fu la circostanza dell’amicizia che secolui tenevamo per l’arte notarile, della quale alle opportunità si serviva del nostro ministero. Concedette egli però il comodo di farne copia della inscrizione e sucessivamente ci communicò ancora altre notizie e beneficenze fatte al nostro Castello e populazione dalla chiara familia Morelli paesana di cui ne fu erede la relligione gesuitica. La inscrizione è la seguente a lettere romane
APVLIA OLINIA
M. APV. FV.
F. C. V. S. S.
Colla scorta avuta del sito ove fu ritrovata avendo prese le più minute riflessioni, indagini e congetture, ci facessimo tosto, colle indicazioni e nominalie del terreno ove fu scoperta, col rivolgere indi le pagine del catasto delle possidenze del paese, il più antico nell’archivio municipale dell’anno 1490, in esso trovammo la nomeclatura di un campo faciente parte alla possessione Fossalovara indicato PULIA.
Supponendo pertanto che essendo la detta possidenza contigua alla possidenza della familia Graffi paesana nel comune di Liano Superiore che tiene la stessa nominalia di Poglia, ne avesse il predetto campo riportata la stessa nominalia e che anticamente fosse parte della possidenza Graffi.
Con tale prevenzione supponessimo in seguito che la nominalia di PULIA fosse stato mutilato nel dialetto per la lunghezza del tempo e che dovesse dirsi Apulia, tanto più che nel 1786 Tomaso Giordani tagliapietre, uomo di cognizione nel suo mestiere, lavoratore ancora di terreno, abitante in un fondo denominato il Dozzo poco distante dal d. campo, nel rivolgere le glebe della di lui lavoraggione, aveva alquanto tempo scoperte le vestigia di un vetusto fabbricato.
Donde allettato dalla speranza comune a tutti li agricoltori di ritrovare cose preziose ed anco per agevolare la speditezza dell’aratro, ricorse alle punte ed alli scalpelli de quali si serviva nel di lui primo mestiere di tagliapietre in una caviera detta la Gozadina, nel comune di Varignana.
Quindi seguendo la traccia delli fondamenti coperti incappò in un retilineo di asprissime materie, dietro alle quali scoperse due separati fornelli sotterranei abitabili, l’uno in vicinanza dell’altro e dietro due lunghissime linee figuranti un coridore, che veniva chiuso da altra linea superiore. Li due fornelli presso l’uno all’altro a guisa di due sepolcri, lunghi piedi otto bolognesi, ma stretti, avevano nella sommità dl fornice una fenestrella larga, per quanto potesse capire, una persona ed avevano l’incastro o sia gargame, così chiamato da muratori, per comodo di sua chiusura. Scoperse altresì alcuni gradini interni nel fondo per la discesa nel loro pavimento bislungo col seliciato. Erano profondi sei piedi incirca e larghi poco più di tre.
Doppo questa scoperta prosseguendo dietro la figura del supposto corridore, circa la metà del medesimo discoperse un pavimento a musaico lungo trenta passi equivalenti a piedi decento bolognesi e largo 15 passi conformi tanto superiormente che inferiormente, nel cui mezo eravi un segnale figurante quattro fiammelle che pulite e terse coll’aqua, doppo averle levate dal loro incastro, se le portò nella sua abitazione.
Superiormente poi al descritto pavimento fatto con battuto di diverse materie, scoperse e ritrovò una rotonda base intonacata di grossi matoni di terra cotta, che levolli per servirsene di essi come fece un sentiere dalla di lui abitazione sino alla vicina strada detta dalli antichi Via Viarum e dai moderni Via di Viaro, finalmente però lungi da questa base ritrovò un piccolo battuto conforme lungo poco più di otto piedi, distante circa N. dieci. Scoperse un quadrilatero di sassi a foggia di mensa di egual lavoro alli sudescritti, che poscia ricoperse.
Fattaci questa descrizione, non avendo ritrovato che della fatica inutile, ne riportassimo in seguito il dissegno dimostrativo, il quale ci fece a penna, essendo uomo pratico di lettere e dissegno per il tralasciato mestiero di scalpellino.
In vista di tutto ciò ci portassimo alla descritta ubicazione coll’abbate Serafino Calindri unito al P. Maestro Gio. Francesco Conti bolognese dell’ordine de Servi, chiaro nella Relligione e bibliotecario del Senato nell’Instituto delle Scienze, fondato nella erudizione ed antiquaria, ove, il tutto esaminato, si argomentò che in questo distrutto fabbricato vi fosse ai secoli idolatri un recinto di vestali costrutto da certa Apulia vestale in questa remota parte, onde meglio orare.
Facendolo ciò supporre il massiccio rotondo di sopra al pavimento indicato per il fondamento al piedistallo e base del simulacro idolatrato e che il sottoposto pavimento fosse il battuto del tempio. Il d. Giordani dippiù ci fece osservare un novo fondamento quadrilatero a piedi del battuto che fu riputato per il vestibolo del tempio suposto. Quanto poi alle due fornelli che di novo ci scoperse e nella carta del dissegno sono dipinti con semicircolo, furono questi reputati per quelli avelli sotterranei al sepolcro destinati per quelle vestali che si fossero scoperte mancanti nel loro instituto per ivi sepelirle vive, che tale era la legge. Se volessimo quivi descriverne il rito e la storia lungo sarebbe l’impegno, uniamo per tanto la stampa demostrativa per soddisfazione del Leggitore,
che se sopra il fin qui esposto intorno a la scoperta del Giordani fossevi qualche malevole ad opporsi, non contentendosi della descrizione, possa colla unita demostrativa alla mano portarsi in loco e colli instrumenti opportuni discoprire li andamenti del corridore colli vicini fornelli ed altri fondamenti che siamo certi ritroverà in fatti quanto abbiamo descritto.


Rapporto poi alla inscrizione di cui se ne fece copia il Calindri per unirla alle altre memorie del nostro paese, nel di lui Dizionario bolognese, fu così glossata:
APVLIA OLINIA
MANCI APVLI FILIA VESTA
FUNDO COMPARATO VIVENS SIBI STATVIT
oppure
VOTUM SVSCEPTVM SOLVIT
imperciocchè abbiamo nella vita di Crasso scritta da Plutarco che alle vestali non era interdetta la compra, nè la fazione del testamento.
A questo monumento si potrebbero da noi aggiungere altri fragmenti di antichità romana e segnatamente una porzione di una olla cibaria colla inscrizione nell’orlo superiore R. PULCRI, che presso noi esiste, ritrovato nel vicino fondo rurale della Maranina, ma considerando che saressimo troppo prolissi e ci allontanassimo assai dal nostro oggetto, perciò ripigliando il discorso nostro diciamo che era ben degno fosse il nostro Castello quivi ubicato perché doveva conferire alla salvezza delli abitanti e di frontiera alla città e contado per la posizione sua atta ad una piazza militare.
Essendo in iscompilio l’impero romano come narrano le storie, l’anno 711 di Roma ed avvanti la nascita del Redentore anni 82, trovandosi nella vicina Claterna Irzio alla testa delle truppe contro Marc’Antonio che stava in Modena assediata, è supponibile che tenesse Irzio un corpo di gente sulle sponde del Silaro per ogni uopo, dibbenchè avesse Cajo Ottaviano ad Imola, conforme M. Tullio ci narra nello suo familiare Lib. 12: Epist. V. con forte esercito.
Racconta il citato P. Vanti nella sua Selve delle memorie patrie che Filippo Statilio (biblioteca de Francescani del paese), valoroso capitano de bolognesi per ostare ad Asligio conduttore dell’armi di Graziano Imperatore, volendo renderle difficoltoso l’accesso alla Claterna li anni di Cristo 387, accampossi colle sue truppe sopra la Emilia appresso il Silaro. Non potendo affrontare l’inimico se non con isvantaggio, fu costretto Asligio nell’attacco imboscarsi nella collina superiore per salvarsi. Così pure Dagistico capitano dell’invitto Narsete avendo espulsi da Imola li Goti, li incalzò talmente che furono ancor essi costretti ritirarsi di qua dal Silaro sopra la Emilia nella aderente pianura.
Ma senza più darle tempo il conduttore dell’armi di Narsete replicò quivi l’attacco con tanto ardore che li Goti abbandonarono a forza la pianura del Silaro e declinando nella strada Emilia si riffugiarono nella Claterna.
E giacchè cade ora in acconcio come ci sembra parlare quivi del Silaro nostro, torrente divisorio il bolognese dalla Romagna, permettaci il Lettore di queste nostre memorie sentire quanto su di esso abbiamo ritrovato facendo parte ancor esso del presente Raccolto.
Vogliono alcuni che codesto nostro Silaro nel bolognese sia così nomato dalla attività de suoi umori ad impietrire ciò che vi resta immerso. In prova di ciò Lorenzo Legati già medico condotto nel 1600 in Castel S. Pietro, uomo chiaro nella sua professione ed erudito nella antiquaria, parlando delle cappe striate nel suo Museo Cuspiano stampato in questo modo:
La cappa striata è composta non d’altro che di minutissima arena impastata col suco pietrificante, la quale se fosse testaceo impietrito non riddurrebbesi struffinandola come fa in minutissima arena, ma in terra semplice e simile alla polvere di pietre calcinate, né posso crederla così formata in alcuna matrice di mare, perché la legge marina di questa specie, per quante io ne abbia vedute, quantunque striate nel convesso, non lo sono nel concavo e questa ha il dorso striato fino nel sito de spondili. Me ne fece dono il virtuosissimo sig. Ottavio Scherlatini arciprete di Castel S. Pietro nel bolognese in tempo che io servivo di medico questa comunità ed affermava averla ritrovata nel vicino fiume Silaro. Non figurava questa di materia di ghiaccio od arena, (quae gelida in gelidum dirigeant lapidem) come pensarono li antichi e molti moderni ma bensì di umore analogo a quello di cui rissultano.
e più oltre:
anzi si impietriscono talvolta li arbori intieri e non ha molto che fu la ripa destra del Silaro vicino a Castel S. Pietro nel territorio di Bologna, cavandosi non lungi dalla via Emilia nella radice del colle per fabbricarvi una fornace, vi fu trovata una grandissima quercia pietrificata ma fu sciagura che ella non giungesse in potere di un uomo di senno avvegnachè chi la scoperse e ne ebbe il possesso, non più che il gallo di Esopo, non conosciuta lasciò che fra li materiali della fornace, messa in pezzi scioccamente, si consumasse,(il fondo ove seguì l’invenzione della quercia chiamasi Fornacetta Santini nel quartiere del Dozzo).
E così si può dire con Silio Italico, poeta del bon secolo
Nunc Silarsus quos nutrit aquis, quo gurgite tradunt
Duritiam lapidum mersis inolescere ramis
Altri pensano che il nostro Silero, scritto però in latino con la S e due L L avesse da claternati il nome dalle due parole Sillae e Rivus allorchè quando fu fabbricata Imola da Lucio Cornelio Silla, alla medesima fu assegnato questo torente per confine del loro territorio, qual essendo un picciol rivo d’aque a quei tempi, lo chiamassero Sillae Rivus e coll’andar del tempo divenisse una parola sola composta cioè Sillerus.
Che il Silaro nostro sia stato a tempi addietro la confina dell’imolese col bolognese è innegabile, mentre si ha che l’anno di Cristo 776, bramando li bolognesi dilattarsi nel dominio, attendarono le loro truppe di là dal Silaro, onde di ciò accortosi li imolesi, fu da questi spedito Alvarico, che pressedeva all’armi, di notte tempo addosso con truppa alli bolognesi. Toltine in mezo alquanti ne prese parte, e parte ne cacciò alla confina del Silaro, onde in appresso ne seguì l’instrumento di pace come accenna elegantemente un cronista imolese: Hac nobili Alvarici victoria sonatus imolensis redeuntibus obviam venit, foedus postremo initum, politisque agrorum finibus ut quodquam a montium gugis in planitiem a filari in paludes usque continetur, nostrae esset ditionis nec possent ulterius de finibus certare. Idque scriptorum testimonio comprobatur est, in Senatu nostro praescriptem est et bononiensium Legatio admissa, cum perorasset, omnibus accalamantibus stabilitum est foedus in scriptis et termini finibus impositi. Multa Alvarico a civibus concessa et habito senatu agri apud Silarim viritim divisi sunt.
Il Manzoni pure nella sua Storia de Vescovi d’Imola ce lo assicura colla Rifferma di tal confine fatta da Carlo Magno, espulsi che ebbe li Longobardi: Anno Christi DCCCI. Dum (…) Carolus Magnus fugatis Longobardis Pugiam, in quam urbem Desiderius Rex se receparat, locatis Castris obsiderat, Romam progressus, civitates at loca anteactis temporibus romanae Ecclesiae subiecta, quaeque Longobardi occupaverant Romano Pontifici restituit et confirmavit, atque urbs Imola cuis agri fines statuit, nempe Senium et Sellerum omnes alterum ab oriente, alterum ex opposito.
Con tali testimonianze provandosi il nostro Silero confina suddetto con parola di sostantivo cioè amnem cioè piccolo ruscello conferma vieppiù nella sua opinione lo scrittore P. Gian Lorenzo Vanti che il nome del Silaro sia nato dalle due parole congiunte assieme di Sillae e Rivus.
L’avvocato Alessandro Macchiavelli, bolognese scrittore, fantasticò diversamente. Interrogato su questo punto addusse che la etimologia del Silaro era un composto latino delle due parole Sil e Rus poichè Sil, silis è una specie di pigmento che trovasi nei minerali, essendo queste montagne superiori al nostro Castello atte non solo a produrre pietre di materia più nobile del macigno ma anco ambra, marchesite ed ingranate e di fatti, ultimamente dopo pochi anni sono, il P. Ermenegildo da Campeggio, cappuccino degente nel convento di questo castello dal 1789 al 1796, uomo di cognizioni ed osservativo, ritrovò oltre l’ingranato anco l’onciante, il carbon fossile ed altre cape che ne arricchì il Pubblico Instituto di Bologna.
Per la qual cosa trovandosi aderente al nostro fiume nel comune di Frasineto un villaggio montano detto Il Silero, possidenza della familia Nanni, ove si incomincia ad ascendere il monte per Sassoleone all’Aqua buona, produce quella villa Nanni quantità di marchesite sulla costa del Silaro, ove si può dire che quivi incomincia a formarsi fiume per li corsi d’aque che in questo loco si uniscono ed incorrono colle altre superiori, ne inferiva perciò che di quivi ne avesse riportato il nome.
Non fu lontano da questa opinione del Macchiavelli il nostro regente agostiniano P. Nicola Aquaderni, che molti anni prima del Machiavelli abitante in questa comunità di S. Bartolomeo, di cui ne era figlio essendo originario del contorno, così cantò in una sua composizione, essendo bravo poeta a suoi giorni ed emulo del chiaro Alessandro Fabbri di cui avendo in potere noi li manoscritti originali di questo ultimo contro dell’altro per una trica di Governo.
Non lunge l’aqua buona sorge un colle
povero d’erbe e di terreno adusto
in cui natura altro proddur non volle
che dura stirpe di silvestre arbusto
ma d’infocate adamantine zolle
porta lo steril grembo sempre onusto
d’onde saper ci fe l’etade avita
aver sua sede qui la marchesita
Diffatti corre quivi la tradizione popolare che il nostro fiume Silaro fosse dai vechi chiamato antonomasticamente: il fiume della marchesita. Se dovessi però esporre il mio sentimento direi che abbia piuttosto sortito il suo nome dalla quantità dell’erba che produce l’aqua dove ristagna la quale nella gamba e foglia assomiglia il Selaro ortense, imperciochè quella nascendo naturalmente nelle vallette che forma la corrente e vi lascia l’aqua stagnante come ognuno può vedere, vi sorgono ancora ginestre selvatiche, cresce a proporzione dell’aqua e vi galleggia il crescione e beccabonda come descrisse Virgilio nella seconda della sua Geogica:
Namque aliae nonnullis hominum cogentibus ipsae
sponte sua veniunt, amposque et flumina laetae
curva tenent, at molle filar, sentaeque genistae
Ruellio medesimamente scrive che : Siler nonumquam arborescens ut bacolos rustici ex eo faciant, aquosis locis crescit quasi pumila salix. Plinio finalmente scrivendo di tal erba al Lib. 26 Cap. 8 e 40 dipinge più chiaramente la qualità del Silaro che nasce nel nostro fiume: Silarus nascitur glareosus et perennis rivis agj similitudine. onde Barbaro nella sua Castijazione pliniana sopra la parola Silarus, dice essere questa adulterina e perciò doversi dire Laner, che altro non è che erba da noi detta: Crescione e Silero selvatico, colle radici del quale costumavano li antichi condire il vino e prenderlo avvanti il meridio e lo chiamavano Silatum. Da tali erbe adunque si crede che verissimilmente abbia riportato il nome il nostro Silaro, essendo copioso di essa.
Stabilitisi dunque li Alboresi nel novo Castel S. Pietro colla robba e familie e con esse altri vicini abitanti, considerando che per ascoltare li divini officii li giorni festivi, non avendo chiesa in Castello, conveniva per ciò loro portarsi alla chiesa suburbana dedicata a S. Pietro per lo che era occasione di lasciare tutto in balia de malfattori. Con partecipazione per ciò di Gerardo III Ariosti, a cui era addossata la carica episcopale, fabbricarono entro il Castello la chiesa nel 1204 per la cura e culto eclesiastico giacchè, fino dalla delineazione per li fabbricati, li triumviri vi avevano fissato il sito. Questa terminata la dedicarono a M. SS.ma.
Non furono per tale dedica li novi abitanti immemori delle beneficenze avute preventivamente, che tuttavia avevano una chiesa la quale era la sud. di S. Pietro pertinente all’Abbazia di S. Stefano, poichè alla dedica alla M. SS.ma vi unirono li SS. Pietro e Paolo con S. Stefano protomartire. Il primo per essere insignito del di lui nome il novo castello, il secondo per essere già stato il loro antico protettore e titolare della chiesa dell’abbandonato Albore come si ha dalla Storia de Vescovi d’Imola del Manzoni sotto l’anno 1151 fol (..): Aclesia S. Pauli de Alborro. Il terzo finalmente, cioè S. Stefano, perché la sudd. chiesa di S. Pietro era di pertinenza alla Abbazia di S. Stefano di Bologna.
Una tale dimostranza oltre il vedersi nella med. chiesa dipinta, fu anco replicata nei tempi posteriori alla edificazione del nostro Castello sulla tavola dell’altar maggiore della arcipretale nel 1500, dipinta da Gaspare Sacchi in asse e ben conservata, la quale ora vedesi nelle sagrestia maggiore che fu creduta della scuola di Innocenzo da Imola, ed anco di Lavinia Fontana.
Del nostro asserto invitiamo chiunque volessi opporsi a questa nostra notizia a leggere la memoria fattavi dallo stesso autore nel sasso dipinto a piedi di S. Girolamo che con altri santi vi si vedono dipinti, di questo tenore: Gaspar Sacchius, MD . XVII No.bris. Nella stessa tavola vedesi specialmente dipinto il patriarca S. Francesco d’Assisi per il quarto protettore del paese per le sue predicazioni fruttuose quivi fatte come diremo nel nel 1232.
Reso ancor per questa parte sicuro il nostro novo Castello ed atto alla diffesa dalli nemici e malfattori, non mancò essendo ancora bambino soffrire quelle sinistre avversità che funestavano tutta l’Italia.
Avendo dunque l’anno 1206 Vincenzo III costituito Legato d’Italia Volfango patriarca d’Aquila per pacificare la Christianità fra se stessa micidiale, onde racconciliasse li principi elettori per eleggere il novo imperatore, il med. patriarca, giusta le comissioni pontificie, andò a Milano. Quindi spedì legati in Alemagna al Re Filippo onde aderisse a prendere in Italia la corona dell’Impero. Ciò inteso Lontegrano conte palatino, tosto fraudolentemente uccise Filippo in letto dormiente. Il Papa adirato mandò a vista gli elettori in Alemagna onde eleggessero Otto, duca di Sassonia, Imperatore da quali, giusta la brama pontificia, l’anno 1209 fu eletto tale.
Costui giunto alla somma de suoi dissegni venne in Italia per compierli col farsi coronare Imperatore secondo l’uso antico. Mandò pertanto avvanti di se il d. patriarca a disporre li animi de popoli ad accettarlo e riconoscerlo per vero Re d’Italia e ricevere il giuramento di fedeltà.
Ciò eseguì il patriarca e fra non molto per Lombardia e Romagna lo seguì Ottone fino a Roma. Passando per queste parti fermossi al novo nostro castello ad attendere li ossequi delli imolesi. Li Nordili, Bonassisi, Bulgareti, come scrisse il citato P. Vanti, capi d’Imola lo presentarono onorevolmente di danaro ed equipaggio e con essi loro passò alla città.
Prosseguendo il suo viaggio, giunto alli undici ottobre a Roma ove fu coronato dal Papa in S. Pietro, giurò ivi fedeltà alla Chiesa militante, promise diffenderla, conservare il patrimonio di S. Pietro, di avere pace con Federico Re di Sicilia e lasciar riconoscere quel reame di S. M. C.
Ma partito, ritornando a casa per queste parti cisalpine obbliò il giuramento, la religione e si mostrò crudele con tutti. Saccheggiò tutta la Romagna, non la perdonò né ad età né a sesso, poi giunto nel bolognese si scagliò toto con impeto da ogni canto sopra il nostro Castello, svelse li palancati, rovesciò le fabbriche ed espianò le fortificazioni, mise a sacco il soborgo e fece altri danni prosseguendo così nel resto del contado per tutto il 1210.
Partito Ottone, fattosi prima giurare fedeltà da ogni luogo ove scorreva contro la chiesa, poco durarono li popoli ammareggiati a conservarvegliela. Rifatte per tanto le fortificazioni al nostro Castello ed assicurato a sufficienza li bolognesi si sollevarono. Molte città di Romagna li imitarono. Solo li imolesi stavano alla divozione all’Impero, ma li bolognesi e li faentini, favoriti dalla chiesa, cominciarono le ostilità contro Imola. Tentarono perciò la presa della med. Riuscì vano l’attentato. Fu incaricato per ciò Pepolo da Castel S. Pietro a procurare trattato con Pepulardo, capitano imolese, per avere una porta di quella città. Mandarono a questo effetto truppa al nostro Castello col pretesto di guarnigione.
Li imolesi insospettiti spedirono a vista Boccadoluccio pretore con Pelegrino Picolo e Palmirolo Morettani oratori ad Ottone per il soccorso. Non fu sordo, le mandò truppa ed immediatamente intimò mediante un trombetta a bolognesi, che erano venuti al nostro Castello colla massa delle genti, la partenza. Inoltre fece ampla conferma della protezione imperiale alli imolesi, come leggesi nella Cro. Savini MM. SS. nell’arch. d’Imola che così incomincia: Imperialis Benignitatis Circumspectio, per lo che furono costretti li bolognesi e faentini abbandonare l’impresa.
Sdegnado il Pontefice della ribellione d’Ottone, lo scomunicò co suoi fautori, privollo della dignità imperiale, procurò indi che Federico Rugerio fosse eletto imperatore, seguì la elezione. Li bolognesi che avevano a petto li danni patiti da Ottone, divertirono essi pure il giuramento, ordinarono indi al Conte Guido di Castel D’Alborro, che colli suoi Alboresi già divenuti Sampierani infestasse l’imolese col pretesto che il vescovato e contado d’Imola spettasse a Bologna.
Cominciò il Conte le ostilità sopra Doccia, Monte Catone e luoghi limitrofi. Gli imolesi si armarono a farle fronte, soccorse il Parlamento di Bologna l’anno seguente 1212 e spedì molti armati d’ogni sorte in assedio a Imola. li imolesi novamente ne diedero parte all’Imperatore delle molestie che soffrivano implorando ajuto e la conferma del decreto di Federico prima sopra il loro vescovado e per la rimozione dell’armi bolognesi. Ascoltò Federico il ricorso ed impose ai bolognesi richiamare l’assedio da Imola. Rilevasi ciò da suo diploma, riportato pure nella Cro. del Savini, che incomincia: Decret Regalis Celsitudinis Dignitatem.
Dichiarò indi l’anno 1213 non doversi spettare a bolognesi non solo il Vescovato ma neppure il contado d’Imola. Ma non per questo si aquietarono li bolognesi, anzichè pertinaci atterrarono le mura a quella città e costrinsero li imolesi ad una pace servile.
La generosità la quale accompagnava gli altri belli ornamenti dell’animo di Gerardo vescovo di Bologna, si distingue in quest’anno verso il suo Capitolo di S. Pietro. Gli donò egli non solo il jus di esiggere le decime di questo nostro comune di Castel S. Pietro, ma eziandio il diritto su la chiesa medesima del Castello. Eccone il testimonio tratto dal Libro dell’Asse presso il Cap.lo: Gherardus Bononiae Episcopus. Dilectis in X.to fratribus Henrico archidiacono at Julio archi presbitero at universis fratribus. Damus et concedimus vobis jus percipiendi decimas pleno jure Eclesia S. Marie de Castro S. Petri, quae est juxta Silarum. Dat. Bonon. An. D.ni 1213 die 4 No.bris.
In seguito di che fu messo un sacerdote a questa chiesa per beneficio spirituale delli castellani. Chi si fosse resta per anco il di lui nome e cognome posto nelle tenebre, non avendone la nostra comunità alcuna memoria.
Infirmatosi in Perugia, Innocenzo Papa l’anno 1215 finì li suoi giorni. Successe ad esso l’anno seguente 1216 Amerigo Savelli nobile romano nomato Onorio III. Questi, stanti li disturbi che l’Imperatore inseriva alla R. C., fu costretto scomunicarlo.
In mezo a queste calamità racconta il P. Girolamo Benelli nella sua storia di Lugo che, guerreggiandosi nelli Stati della chiesa, governava l’anno 1208 la città di Faenza, col titolo di Pretore, Talamanzio chiamato il gran cremonese, uomo di doppio cuore. Questi tramò la distruzione di Lugo stabilita da senatori faentini col maneggio del Conte Riniero, cioè Conte di Cunio.
Trovandosi egli in Castel S. Pietro, che fabbricavasi da bolognesi e cioè le mura, costituì quivi nel febraro una compagnia d’uomini d’arme il di cui carico doveva essere di azardarsi ad ogni imprese per la città di Faenza. Aguerrita questa compagnia di gente allo scader di febraro partì da Castel S. Pietro e portossi all’essedio di Lugo.
Fu anco in questo tempo edificato Castel S. Polo dalli prisoni poco distante dal nostro Castello alla confina del comune.
Repplicata infrattanto le scomuniche ad Ottone, che seguiva a travagliare la Chiesa, e li 17 maggio morì miseramente fori dal grembo catolico. Fu perciò confirmato Federico per Re dei romani.
Gli imolesi non potendo tollerare la lunga servitù postale dei bolognesi, sollecitati da Gottifredo Biandrado Conte di Romagna, di novo spedirono a Federico onde, come fedelissimi all’Impero, li diffendesse a fronte de maneggi di Marqualdo che operava in pro de bolognesi. Ciò penetrato Marqualdo scrisse ancor esso all’Imperatore ed amantò la sua codardia contro Bologna. L’Imperatore, avuta la nova che Imola era stata sottomessa a patti servili da bolognesi, adirossi contro essi e non accettò la scusa inviata che Marqualdo ne fosse stato l’autore principale. Li privò perciò dello studio ed impose al Conte infestare il bolognese. Costui, inorpellando la sua malignità, unito alli imolesi venne sotto Castel S. Pietro e, richiestolo a patti ai castellani, gli fu negato sul momento chiedendole tempo.
Marqualdo, attendendo la risposta per nulla ed acciò non soccorressero li bolognesi, tosto diede il segno colle trombe all’attacco al Castello. Seguì una gagliarda difesa da terrazzani ma non potendo ressistere all’impeto de uomini d’arme, ne seguì l’arresa salva robba e persona. Non furono per ciò esenti la fortificazioni e la incominciata fabrica della rocca.
Tenne il nostro Castello, secondo le cronache d’Imola, occupato fino al marzo del 1219 d’onde, partito carico di prede fatte nel vicinato, andò al modenese. Li bolognesi che erano stati timidi escire coll’armi contro l’Imperatore, collegati con altre città e luoghi maltrattati, ricorsero al Papa contro Federico. Di ciò avvisato poco se ne colse e vieppiù’ prese a petto la protezione d’Imola.
In questo frattempo essendo in forte questione intorno alla giurisdizione sopra le chiese parochiali di Castel S. Pietro, di Medicina ed altre nella diocesi fra l’archidiacono e Capitolo di Canonici di Bologna, fatto ricorso al Pontefice Onorio 3°, il medesimo dichiarò a favore dell’archidiacono come rilevasi da diploma riportato dall’Abbate Sarti al T. 2 pag 126. Let. O. de Claris archigem.si Profess. si professa così: Honorius III Magistro Gratiae Capellano nostro archidiacono et catulo Bononiae. Ex parte vestra Nobis extitit suplicatum et cum Capellis Pleto.. natus Bononiae et plebatus Medicinae ac S. M.riae de Montevolo ac S. Mariae Castro S. Petri ac ————- Eclesies Diecesis Bononiae jus instituendi habet nos cameni et corrigendi et destinandi facultatem nec non jurisdictinem plenam dignaremus votis, vestrisque sucessoribus concedere in iisdem. nos igitur vestris suplicationibus inclinati benigne votis concedimus postulata auctoritate graerentiom. Statuentes ut Archidiaconus qui pro tempore fuerit, quam post Episcopum constat esse caput Capituli, cum ibidem ressidentiam fecerit, paedicta exerceat, ipsius Vicecaoituli sicut quique seco cognoverit indigere officio. Contadictores si qui fuerint vel ribattis per censuras et eclsiasticas, submota appellatione compescendo. Nulli ergo omnino hominum liceat. Datus Romae apud S. Petrum X Kal. Maji Pontificatus nostri anno tertio.
Canoniza per ciò questo documento che la nostra chiesa maggiore dedicata a S. Maria era caraterizata del titolo di Pieve, mentre tale la nomina questo pontefice la quale, per essere tale, aveva sottomesse altre chiese e fruiva di molte prerogative come l’altre pievi, delle quali l’industre P. Gianbattista Meloni, nostro storiografo bolognese che scrisse al T. 2 delli Atti a Memoria delli Uomini illustri in santità fol. 356, ne riporta la seguente indicazione: godeano poi le Pievi (così compie il Muratori la citata disertazione 74) più di un privilegio olere a quello del Battistero cioè nelle sepolture, nel dare le penitenze, nell’esiggere che li parochi o siano capellani subordinati concorressero alla pieve, Battesimo solenne della vigilia di Pasqua e di Pentecoste con altre prerogative che io tralascio ma che si legono in una Bolla di Celestino III Papa dell’anno 1194, data ai canonici di S. Reparata nella città di Lucca. Si può anco vedere il Tommassini che ne tratta diffusamente nella parte prima Lib. 2, Cap. 3, 4, 5, 6.
Infrattanto fu ristorato il nostro Castello e ripristinate le fortificazioni. Dissimulando Federico Imperatore ogni suo dissegno, pensò, per sortirvi meglio, farsi coronare dal Papa per Imperatore. Partito di Germania alla volta d’Italia, mandò avvanti a sè Corrado vescovo di Spira col titolo di gran Cancelliere per ricevere da tutte le città e popoli il giuramento di fedeltà e disporli alli ossequi convenevoli per non ritrovare al di lui arrivo alcun disturbo.
Nel settembre giunse a Bologna. Non si partì finché non sentì giunti alla confina del territorio li ambasciatori delle città romagnole. In fine di ottobre sentendo a Castel S. Pietro gli ambasciatori d’Imola, Faenza ed altri, partì col grosso esercito ( li 22 novembre venne a C. S. P., Cron. Imol. fol. 144 Tondiz., Ist. Faen. Toresani) che seco avea. Gli oratori faentini vi presentarono mille e cinquecento marche d’argento a nome del loro pubblico. Ricevuti tali onori nel nostro Castello Federico se ne partì alla volta di Roma.
In quest’anno S. Domenico instituì la devozione del Rosario per apparizione avuta da Maria V. che tanto bramava.
Giunto in Roma Federico prese la corona dell’Impero il giorno di S. Cecilia poi in appresso si incaminò in Sicilia. Giuntovi l’anno 1221 scacciovvi li suoi nemici.
In questo tempo Azone abate di S. Stefano di Bologna, non ostante la donazione della Decima fatta da Gerardo terzo al Capitolo di Bologna, pretendeva che la Decima di alcune chiese spettavano al di lui monastero, fra queste S. Maria di Castel S. Pietro. Ricorse il Capitolo per ciò al Papa, avvocò egli a se la questione e dichiarò spettargli le decime al Capitolo. Rilevasi ciò da un Chirografo apostolico riportato dal P. Sarti nel suo Lib.: de Claris Archig. Profess. T.2 l. H et I, in apendic. p. 128 e medes.; dalli annali Savioli T. 3 Par. 2 pag. 9 : Honorius Papa III seruns servorum Dei. De Luchis filis, Archidiacono et Archipresbitero et Capit. Bononiae salutem. Eoque provide per ecclesiarum praelatos apuntur, ne aliquorum malitia tamen impugnentur, expedit apostolica Munimine roborari. Ea propter dilecti in D.ne si vesstris supplicationibus inclinati Donationem de decimis S. Mariae de Castro S. Petri —— a bonae memoriae Gerardo bononien. Episcopo votis factis ut in insrumento pubblico inde confect, planius continetur. Votis ap.lica auctoritate confirmamus et paesenti scripti patrociecio comunicamus. Nulli ergo niuno hominum liceat. Datum Laterani XVI Kal. Maij pontificat. nostri annis (…). Questo chirografo spedito li 16 aprile bastò a chiudere la bocca ad Azone.
Nello stesso tempo Coradino filio di Sanfadino signore di Damasco co suoi tartari ruppe li christiani. Il Papa per ovviare a maggiori perdite chiamò a se l’Imperatore e cardinali. Fatto un concilio si concluse che si chiamassero alla S. Sede Pio e Re di Gerosolima ed il Maestro del Tempio per trattare la presa di Gerosolima.
Quando che fioriva Bologna col suo contado in potenza, altrettanto declinava ne costumi. Sdegnato Iddio si fece sentire col flagello del terremoto, onde ruinarono molti edifici, Alborro abbandonato dalli abitatori, ruinò in gran parte. Racconta il Diola ne suoi Annali francescani che mosso a pietà S. Francesco partì dalla Marca e se ne venne nella Emilia e, fermatosi alla chiesa di S. Pietro presso la via, appunto questa nostra vicina al Sillero, con fra Egidio di lui compagno, dopo breve riposo esortò il popolo a ben vivere. Entrò in chiesa ed appena cominciato ad orare cominciarono tosto a distrarlo li nemici infernali, replicatossi il segno di S. Croce, escì fuori della chiesa gridando ad alta voce così ai demoni con stupore di tutti: Dio onnipotente, vi scongiuro spiriti infernali che voi faciate in questo mio corpo quanto vi è dal Signor mio permesso, che io sono apparecchiato sofferire tutto per suo amore e non avendo maggior nemico che il mio corpo voi mi verrete a vendicare di lui.
Sbigottita la vicina contrada a così forti esclamazioni, scorse al Santo per rilevarne cosa. Egli ritornato all’orazione, doppo santi suggerimenti e predicato a tutti l’abbandono al male se ne partì per Bologna.
Quadripartita la città in quattro Tribù o sia Quartieri per il miglior regolamento fu anco, al cader di novembre l’anno presente, quadripartito il contado e ciascuna terra riconobbe il suo quartiere della città per appresentarsi al vessillo e seguirlo alle cavalcate.
Ascendevano le Terre del bolognese a trecento quarantacinque. Al quartiere di Porta Ravegnana furono sottoposte: Borgonovo che è questa nostra contrada sulla via Emilia e Castel S. Pietro che fanno un solo corpo, a questo si aggiunsero Castel S. Polo, Pizzano, Ciagnano detto Clagnanum, Stifonti, ora Sette Fonti, Varignana, Casalecchio, Sassuni, Cassano, Liliani ora Liano, Vidriano, Galegato, Oggiano ora Ozano, Frassineto, Sassonero, Monte Armato e Bisano come più amplamente lo manifestarono li Annali Savioli T. III, Agenotce de monumenti N. 545 fol 53. estratto dall’archivio pubblico Aegis. presso 1223, 30 novembre.
Li imolesi vedendo impegnati li bologensi colli modenesi, immemori della pace si volsero di novo ad infestare li contorni di Castel S. Pietro ove erano men diffesi.
All’entrare del 1224 dopo avere predato fin sotto l’abitato tentarono la presa del Borgo ma respinti dalla bravura de borghesani diretti dalli Ghirardacci scorsero la campagna e si ritirarono nelle vicine boscaglie ove nella loro fuga incendiarono capanne e casali rustici.
Dopo un governo di anni dieci mancò di vita Onorio III Papa e nel seguente 1227 ad esso successe Gregorio IX di Anagni.
Posta in calma la guerra co’ modenesi, li bolognesi si volsero alli imolesi come mancatori di fede onde spedironvi a danni loro Aldigrando Faba pretore, poscia diedero licenza a Carnevario Ozeno, pretore di Faenza, assalire il territorio imolese dal canto faentino. Gli imolesi perché non erano destituti di forze e perché erano protetti dall’impero, decisi schermivano dalli uni ora dalli altri, finalmente venuti a giornata colli bolognesi furono questi cacciati fino al Silaro.
Scoraggiti perciò li bolognesi, come raccontano le Cronache, tentarono li imolesi la presa del Borgo, ma sortiti li castellani comandati dalli Catani li respinsero valorosamente.
Vieppiù’ adirati li bolognesi l’anno seguente 1228 sortirono con poderoso esercito ed andati a Imola la ebbero in loro potere, ma per poco poiché adiuvati li imolesi dall’armi imperiali si riscossero dalla sommessione di Bologna.
Intanto nel settembre giunse a Bologna Giovanni Re di Gerosolima con Berengaria sua moglie ove ricevette li ambasciatori del Papa e le fu dato il possesso di tutta la Romagna ed esarcato. Questi però, prima di incaminarsi a Roma per la Romagna via, mandò avvanti il Conte di Bordò alli imolesi per disporli a doverosi ossequi ma questi, sollecitati da Leonello Bonsisa di stirpe nobile imolese bravo soldato avvezzo nelle guerre il quale aveva altre mire per le differenze del primato nella città, tentarono opporsi al passaggio del Re per non perdere la protezione imperiale. Il Re ne fece poco caso, onde tosto innoltrò a Castel S. Pietro lo stesso Conte convogliato di uno staccamento di quei Galli che aveva nel suo seguito reale. Quivi giunto il Conte fermossi e, per quanto ci riferiscono le Memorie del nostro su lodato Dott. Francesco Bartolucci, dispose le sue genti per sicurarsi dalli insulti imolesi in quattro compagnie affidandone ciascuna di esse ad un capo ufficiale che la distribuì da quattro villaggi, detti ora quartieri, al d’intorno all’abitato del Borgo e Castello.
Alla prima assegnò per quartiere tutta quella parte di collina al levante, che era sottoposta all’abbandonata Alborro castello nella quale, sorgendovi aquastrini, formano lammecci e pozzanghere da cui, quelle genti impostole il nome francese di Quartiere de Lamè, ne prese la nomenclatura di Lama la qual voce nel idioma toscano tradotta è lo stesso che dire pozzangara ed aquatrino e così da allora in poi ha sempre ritenuto il nome vulgato di Quartiere della Lama.
Alla seconda compagnia assegnò il Conte per quartiere tutta la pianura sotto la via Emilia di rimpetto al sudescritto Quartiere. Questa pianura al levante guarda la Romagna fino al comune di Castel Guelfo la qual pianura, essendo in gran parte di terreni scoperti ma fertili per le granalie, fu indicata da quei Galli col nome di Quartier de Granier, che traddotta tale parola nel nostro linguaggio fu poi spiegata: Terra di Grane e così in seguito fu anco segnato nei Campioni di estimo, come si legge nell’archivio municipale del paese: Quartiere di Granara.
Alla terza compagnia de Galli suddetti fu assegnato dal Conte per quartiere tutta quella riviera superiore alla via Emilia ed al nostro Castello che costeggia a mattina il Silaro, a mezzogiorno e sera confina il comune di Liano la quale, per essere di terreno pendivo e sassoso, investita di arboratura e di frutti ed una volta di vigneti ed uva di esquisito sapore e dolcezza, riportò questa parte di terreni la nominalia da quei francesi di Quartier de Doux che, tradotta nel nostro idioma, tale parola fu spiegata Dolce. Onde in seguito da nostri terrazzani fu sempre indicata questa parte del comune di Castel S. Pietro il Quartiere del Dozzo o Doccio e così indicato nelli catasti d’estimo. Egli è certo che le uve di questa collina pareggiano quelle del territorio di Doccia, d’ondesi vole che il piccolo castelletto di Doccia a noi vicino riportasse dai primi Galli occupatori di questi stati il nome di Doccia.
In proposito di che il dott. D. Paolo Dalmonte, nostro cittadino coetaneo, uomo erudito in ogni scienza, primo bibliotecario in Roma a nostri giorni della celebre Biblioteca Imperiale, scrivendo un poemetto latino in lode de Signori Malvezzi suoi mecenati feudatari di quel castelluccio, si lasciò cadere di penna il seguente pentametro: Dulcis a vinis Ducia nomen habet.
Al rimanente poi del suo convoglio assegnò il Conte per quartiere tutta quella pianura inferiore alla d. Emilia che al ponente guarda il bolognese dirimpetto all’indicato quartiere del Dozzo, la quale pianura confinando il comune di Liano di Sotto e Villa di S. Biagio di Poggio, non avendo alcuna prerogativa speciale per la nominalia, riportò, al riferire del lodato Bartolucci, il nome dell’ufficiale della compagnia nomato Monsu’ de Gages e fu detto perciò nel nostro idioma Quartier del Gaggio.
Il P. Vanti nelle sue patrie memorie poi appoggiato ad una tradizione avuta dalli più attempati lavoratori di questa parte del commune nostro, vuole abbia riportato il nome di Quartiere del Gaggio da un piccolo casale demolito doppo la cacciata dei Goti da queste parti, il qual casale in pria si chiamava Gozio, poscia Gazio ed infine Gaggio indicandoci ancora per una prova la ubicazione di un fortilizio in seno di questa quarta parte.
La figura di questo fortilizio è quadrato di mediocre grandezza. Si osservano in essa terrapieni colla fossa di contorno, il cassare ruinato di calce e pietre per l’ingresso dalla mattina. Vi si vedono le vestigia e fondamenti di un forte muro circondario che nelli quattro angoli congiungevasi nella fiancata di quattro rotonde torri a guisa di baloardi distrutte, che tenevano incatenata tutta la grossa mura, d’onde fu poi anco chiamato questo locale la Torre del Gaggio, come si ha dai campioni di estimo comunali. L’interno è tutto prativo nè si può ridurre a coltura per la asprezza de fondamenti del distrutto fabbricato, fin qui non vi è da ostare.
Per avvalorare vieppiù’ questa sua opinione aggiunge che aderentemente al casale distrutto eravi anco il suo Campo Marzio, che serviva d’arena militare a quel popolo barbaro onde addestrarsi nell’armi secondo il loro costume tanto nelle città che in altri luoghi, portandone l’esempio di Roma e nella nostra città di Bologna nella contrada detta col dialetto corrotto: Galta Garcia invece di Campo Marzio.
Che in vicinanza del sudescritto casale siavi un terreno lavorativo detto Campo marcio presso la confina del commune di Castel Guelfo è innegabile, mentre nell’archivio municipale si legge che li uomini del comune di Castel S. Pietro in un elenco di antichi documenti 1400 fecero lo sproprio di questo terreno vendendolo all’Abbate D. Mattia del Gesso che lo incorporò poscia ad una di lui possessione detta La Gessa come si riscontra anco nelli cattasti d’estimo del 1492, il qual contratto ci viene assicurato in pubblico Rogito del 1400 Lib 70 Archiv. pubbl. di Bologna.
Dietro queste nostre indagini ritroviamo pure nelli catasti pubblici comunali che dal 1531 ad 1541 la possidenza del sudescritto fabbricato distrutto spettava a Madonna Giacoma Bentivoglio col titolo delle Torri del Gaggio. D’onde si opina che fosse piuttosto il sudescritto luogo un fortilicio bentivogliesco edificato dalla familia nei tempi che signoreggiava Bologna per far fronte al poco distante Castel S. Polo, edificato dalla potente famiglia bolognese dei Griffoni della fazione guelfa in cui furono infeudati li signori Malvezzi.
Mentre abbiamo dalle cronache che, doppo la cacciata de Bentivogli dalla città co’ loro partitanti, le furono tolte ed atterrate le loro più belle fabbriche anco nel contado bolognese ed in conseguenza si suppone che così accadesse di questo fortilicio.
Ella è pure infelice condizione di un povero scrittore allorchè incontra anacronismi e dubbietà e nodi inestricabili nelli fatti storici che, essendo involuti nelle più caliginose ombre del tempo, non si può discernere il vero e le conviene cedere alla sorte, addattarsi alla opinione e soccombere alli argomenti che lo arenano in un pelago di fallacia. Comunque ciò siasi nel nostro caso è forza addattarsi alle crisi dei tempi, quindi ciò lasciato alla opinione di chi più di noi intende.
Prosseguiamo a narrare che essendo il nostro comune così diviso in quattro quartieri a figura di croce intersecata dal torrente Sillaro e dalla via Emilia in modo che li abitanti di un quartiere possono alle opportunità l’uno soccorre l’altro al bisogno.
Il Conte fece di novo intendere alli imolesi per parte del suo re che voleva egli assolutamente passare col suo seguito per la loro città e territorio. Li imolesi sentito l’animo deliberato del Re, vi spedirono tosto oratori ad offerirle l’addomandata passo, pronti anco a riconoscerlo, per quale egli era, colli dovuti ossequi e che, se erano stati pria ritrosi, era ciò accaduto sul riflesso della differenza di stato che avevano co’ li bolognesi, co’ quali non volevano arrischiarsi, quindi lo pregarono di interporsi per la concordia.
Ascoltò il Re con piacevolezza, accetto la scusa, si interpose per la quiete e così furono sopite le amarezze.
Successivamente nel seguente ottobre passò il Re con tutto il suo seguito ad Imola, ove ricevuta la debita riconoscenza ed onori prima di partire lasciò nella città il Conte di Bordò per suo vicario, che per tale fu universalmente accolto donde poi ne discese quella nobilissima familia che, col corrotto dialetto del volgo, fu detto Conte della Bordella invece di Bordò. Essa si estinse non fra molto nella persona del Conte Ambrogio ed in una sua sola filia per nome Contessa Fiora allocata in Pesaro nella nobile familia Bonamini.
Nel seguente 1228 Ottaviano Ubaldini vescovo di Bologna, quanto chè nobile di progenie altrettanto generoso per di lui natura, impetrò dall’arcivescovo di Ravenna facoltà di donare al Capitolo Metropolitano di Bologna, come di fatti donò, la chiesa plebana di Castel S. Pietro colli diritti di instituzione, correzione e riformazione.
Questo monumento si ripete dal Libro dell’Asse fol. 431 dell’Archivio Capitolare in questi termini: Octavianus Episcopus. Licentia Archiep. ravennatiusis donat Capitulo Eclesiam S. M.rae de Castro S. Petri, nec non Jus institutionis, convectionis et refformationis in eodem ecclesia.
Li dissidii fazionari calmati, ma non estinti in Bologna, di novo si svegliarono e si propagarono per fino nelle familie delle castella. Tanto si riscontra dal novero de familie partitanti la fazione geremea registrato al T. III fol. 60 delli Annali Savioli. Si legge in esso menzionata la famiglia Zenzani del nostro nascente Castel S. Pietro, che sucessivamente addottò il cognome della patria e fu detta di Castel S. Pietro e finalmente Sampieri quale in diversi rami si propagò nella città, come ci lasciò scritto il celebre P. Sarti nella sua opera: De Claris Archigemnasi Bononiae Profess.
A questa familia si aggiunse quella di Zogoli primi abitatori traslocati da Alboro, che divisa in due colonelli in patria a giorni nostri, uno è terminato in Domenico e l’altro, stabilito in Argenta, va a finire. Erano le dette familie Zenzani e Zogoli potenti e forti per la estesa parentela a cui si univano anco le familie dei Zopi, gente facinorosa che, ad imitazione de Zenzani, si stabilirono ancor essi in Bologna, ove cambiato il cognome di Zoppi si cognomenarono dal Castello ed in seguito Castelli, che divennero essi pure nobili e potentissimi signori.
E sebbene si era risvegliata la discordia nella città e territorio non per questo però era abbandonata la industria nella agricoltura territoriale. Si pretende pertanto dalla tradizione delli nostri oppidani di Castel S. Pietro che sia da questo tempo, in cui soggiornò co’ suoi Galli il Conte di Bordò nel nostro Castello, fosse introdotta la piantagione del Guado, detto anco Isate, quale oltre essere servibile alla tintura di un forte colore azzurro nelle manifatture, era anco utile al medicamento delle emorogie, ulcere, morbo gallico ed altri malori di cui per lo più sono attaccati li militari, su di che Castor Durante ne epilogò le virtù nel suo rinomato erbario ne seguenti esametri.
Sanguinis excursus sistit, constringit Isatis
Corda, igniva sacrum, prodestqueLieni
Haec, et dessicat humentiaque valuera sanat
Haec vulnusque recens conglutinat, arque tumores
Discutit, atque juvat tristas mala gallica tollans.
Siamo per altro di parere che a tempi più lontani di questi fosse introdotta nel bolognese la piantagione del Guado e che ciò accadesse per opera più de Brittoni che dei Galli allorchè occuparono queste parti che tennero lungamente mentre si ha, non solo da nostri scrittori bolognesi ma anco dalli autori del secolo d’oro, essere costume dei Brittoni che quando andavano alla guerra si tingevano la faccia e tutto il corpo col suco del guado per incutere spavento a chi volevano sottomettere.
Cosa che usavano anco le donne in certe contingenze come ci viene esposto da Roberto Stefani nel suo Tesoro della Locuzione Latina sotto la let. G. Edizione privilegiata di Parigi 1536 (..) Maggio, la di cui storia ci piace qui trascrivere a gusto del lettore: Glastum G.N. herba qua persones pannos inficiunt quae at Isatis a Dioscoride appelatur Plin. Lib. 22 Cap.I simile plantagini glastum in Gallia vocatur qua Britannorum conjuges, nurusque toto corpore oblitae quibusdum in sacris incedebant Aetiopum colores imitantes. Caesar etiam author est britannes hac se inficere (…) horridiori sint aspectu in pugna. Lib V, Belli Gal. 56. Guisola, Gualde, fol 569.
Per la qual cosa li nostri cronisti aggiungono che, in tempo della occupazione del territorio bolognese dal levante della città, sopra la via Emilia, presso al torrente Idice edificarono una città a cui diedero il nome di Brintia o Brinta dal nome della loro nazione della quale il solo nome ci resta di un castelluccio chiamata dai toscani Castel de’ Britti e dai latini Castrum Brittanum.
In onde questa situazione, non essendo molto distante da Castel S. Pietro, deduciamo essere probabile che fino d’allora si introducesse la sementazione del Guado nelle nostre campagne come già confacente alla natura di quella pianta e perciò si tiene piuttosto che, allor quando il Conte di Bordò trovavasi di quartiere a Castel S. Pietro nel mese di settembre (mese appunto in cui si fa il raccolto del guado come insegna Agostino Gallo nella sua Agricoltura, edizione di Venezia nel 1569 fol. 165 e 167), si desse in tale circostanza da suoi francesi la instruzione più facile per la coltura alli nostri paesani per averne ubertosa la raccolta del prodotto ed insegnassero il modo della fabbricazione e manipolazione del medesimo onde averne maggiore l’utile.
Leandro Alberti nella sua Italia, edizione di Venezia 1536 per il Bonelli fol. 553, assicura che in Castel S. Pietro, edificato da bolognesi nel 1200, si ricavava a suoi giorni gran danaro che era la richezza del paese e l’impiego delle persone. Andrea Scoto nel suo Itinerario, edizione di Padova 1629 per il Bolzetta fol. 85, usando le stesse parole dell’Alberti conferma il medesimo.
Potrebbesi da qualcuno in questo proposito eccepire che detti scrittori hanno scritto dell’emporio di Castel S. Pietro, per la sua ottima ubicazione a proposito per li mercati ma non già perché quivi fosse la fabbrica del Guado, che però ci diamo l’onore rispondere che si raccoglieva le piante e da essa benissimo si fabbricava in questo loco il guado mentre Francesco Scoto altro scrittore nel suo Itinerario d’Italia, edizione di Roma fol. 551, dice senza equivoco che in Castel S. Pietro, edificato da bolognesi: si fa il Guado, vale a dire si fabbrica il Guado.
Questa assertiva alla tradizione che abbiamo dalli più attempati del paese non solo ma anco alle memorie avute da un rampollo Fabbri traslocato a Medicina ad esercitare l’arte di tingere panni, nonché alle carte antiche della suppressa compagnia di S. Cattarina, che esisteva fin dal 1404, dal Card. Malvezzi arcivescovo di Bologna nel 1772 per opera dell’arciprete Bartolomeo Calistri colla applicazione delli di lei fondi all’Ospitale de miserabili infermi di questa parocchiale, ce lo confermano.
Più poi siamo assicurati della fabbrica dalle moli che usavansi, delle quali una si vede nel suolo dello scaldatorio comune del supresso convento de capuccini locali e l’altra simile della grandezza della macina da grano sopra la via Emilia che porta a Bologna la quale , quantunque esposta all’ingiuria del tempo non di meno per essere di materia asprissima, si rileva la sua manifattura dal di cui centro da un canto si spiccano tanti canaletti a figura di solchi che vanno a terminare nel labbro della circonferenza dell’orbita. Altre prove si potrebbero addurre che si omettono per non stancare il lettore.
Del modo come si faceva l’estratto non ci impegniamo darne alcuna instruzione avendone date il lodato Agostino Gallo. La fabbrica del Guado in Castel S. Pietro fu totalmente abolita per la privativa introdotta dall’indaco forestiere.
Sdegnato il Signore delle stragi e molti altri mali che si commettevano ne fece sentire li effetti dell’ira fin nel 1232 mediante il terremoto per cui ruinarono molte fabbriche. Nel nostro vicinato il Castello di Fiagnano e più Corvara furono conquassati. Castel Alborro non andò esente. La vicina chiesola ad esso, dedicata a S. Paolo, come accenna il Manzoni ne suoi Vescovi Imolesi soggette a quella mensa, edificata sopra l’apice di un vicino monticello da primi cattolici, che a giorni presenti conserva il suo vetusto nome di Ghisiole, non essendo permesso dall’atteismo edificarle nelli abitati, ruinarono, di che si vedono qualche vestigia ma solo li sfacimenti e solo restavi d’antico la nominalia suddetta.
Non ostanti queste calamità le fazioni si propagavano ed accadevano rumori massime nei popoli di confina. Il Parlamento di Bologna bene accorto si fece giurare fedeltà dai popoli e castella limitrofe.
Li nostri novi abitatori di Castel S. Pietro, che prosseguivano anco ad appellarsi Alboresi, furono pronti e nel 1233 replicarono il loro giuramento in questo modulo: Nos Alborenses juremus bona fide sine omni fraude in perpetuum fidem servare Populo et Comuni Bononiae et defendere Homines, honores et bona in tota nostra Guardia, ubicumque guerram et cavalcatus facere contra hostes.
Sucessivamente spiegarono le bandiere ed insegne del comune giusto li statuti della città del 1001. Quale fosse l’emblema delli Alboresi e del novo Castel S. Pietro, a fronte di laboriose indagini, non ci è riescito saperlo, solo sapiamo che li Consoli di ogni luogo erano obbligati tenerle e portarle quando ivano alle rasegne ed alla guerra per essere distinta la populazione nelli premi ed onori.
Crescendo li castighi d’Iddio nella Italia scrive il Tonduzzi, nella sua Storia faentina, che il B. Giovanni Schiò da Vicenza dell’ordine dei Predicatori, vedendo il bolognese periclare, mosso da zelo, nel mese di aprile si portò prima di ogni altro luogo a Castel S. Pietro per riddurre a penitenza il popolo colle di lui predicazioni ed orazioni.
Giunto quivi al Borgo incominciò le sue apostoliche fatiche e si sparse perciò la fama di questo S. Uomo nelle vicine contrade, terre e castelli per li continui miracoli che per suo mezo Dio operava col solo nominare Gesù, donde dal volgo fu perciò nomato: Frate Gesù. Vi concorsero ad ascoltarlo infinite genti. Predicava egli la mattina alla chiesa di S. Pietro nel Borgo e fuori nella sua contrada e la sera entro il Castello.
Una grossa compagnia di faentini venne quivi ad ascoltarlo. Il Tolesano, scrittore delle cose faentine in questi tempi ce lo conferma così: Post gloriosum Virgonis partum 1233, die 7 exeunto mense aprili iverun faventini omnes cum pueris et puellis semes cum junioribus et mulieribus apud Castrum S. Petri in Bononia tam de civitate, quam de distriche, cum vexillis omnibus crucis defuger
portantibus ad praedicationem Frat. Joannis, qui erat de ordine Praedicator, qui et J. C. per ipsum multa mirabilia operatus est.
Predicò egli molti giorni pure nella piazza avvanti questa chiesa di Castel S. Pietro con gran profitto. Non è molto lontano da credersi, secondo quello che molti paesani riferiscono per tradizione, che questo Beato potesse avere dato origine nel nostro Castello ad una devota compagnia di fedeli sotto l’avocazione del Buon Gesù, il cui officio era di assistere alle funzioni parochiali, la quale durò fino al 1597 in cui fu incorporata in quella del SS.mo SS.to come dalli atti di questa ultima al Campione secondo, Let. 23.
Si riscontra essendo comuni egualmente fra entrambe li offici di pietà che vengono da sommi pontefici con indulgenze ad esse concesse, specialmente da Paolo V nel 1612 e nel 1615 con chirografi diretti a Domenicani, come quelli che tali compagnie fondavano ed avevano nelle loro chiese.
In membranza della quale incorporazione la compagnia del SS.mo ogni seconda domenica del mese faceva la processione del Nome di Gesù il doppo pranzo dopo il vespro per il solo Castello cantando l’inno di S. Chiesa: Gesù dolcis memoria. Di ciò ne lasciò anco scritto il P. Gian Lorenzo Vanti MM. OO. una laconica indicazione e noi più diffusamente ne scriveremo alla sua epoca di incorporazione.
Durò poco però tale profitto. Ruppero li bolognesi la pace co’ forlivesi per avere questi invaso il territorio faentino. Dichiarata la nimistà si aprì l’adito alla guerra. Per sostenerla il Senato fece fare gli estimi a tutti li terreni del contado acciò pagassero una porzione di rendita per tornatura. Questa è la prima volta che fu imposta ai terreni bolognesi l’estimo.
Erano pure nel 1235 in armi li modenesi co’ bolognesi, e quindi non potendo li primi resistere ricorsero a Federico perché li favorisse. Né fu sordo alla loro preghiera. Lasciata per tanto i bolognesi l’impresa de modenesi nel 1235 si rivolsero contro li forlivesi. Venuti a giornata nel 1236 furono soccombenti li forlivesi con perdita di genti e di comandanti, fra questi vi furono Guido Guerra Conte di Modigliana e Guido Malvicini conte di Bagnacavallo con altri nobili che furono rilegati nel nostro Castello e consegnati alli Cattani. Gloriosi li Bolognesi per questa vittoria ritornarono impensatamente ai modenesi l’anno 1239. Travaglianossi per ogni parte.
Li Cattani del nostro Castello, che si distinguevano in tutto, avendo nella Religione domenicana, secondo scrive Gio. Lorenzo Vanti M. Oss. nella sua memoria MM. SS. di questa sua patria, il Piò T.3 fol. 114 e (….), un semplice frate col nome di F. Riniero da Castel S. Pietro, per le sud. ottime qualità e virtudi fu chiamato a Roma da Gregorio IX. Di semplice frate ma dotto nelle lettere fu assunto alla carica di vice Cancelliere pontificio. Tenne questa carica anni due e mesi cinque e morì con dispiacere universale perché molto di se comprometteva. La di lui carica ora è cardinalizia. Gregorio IX lo amò ardentemente in guisa che era della Corte l’oggetto di tutti li buoni funzionari.
La torbulenza nella Romagna cresceva di giorno in giorno. Credette perciò il Senato di Bologna guarnire oltre il solito Castel S. Pietro. Il Savioli ce lo conferma ne suoi Annali T. 3 pag, 69, in questi termini. (?)
Le carte de nostri archivi fan fede della vigilanza che usò il Comune per il rinforzo delle castella di suo dominio a confini della Romagna. A preferenza fu munito Castel S. Pietro della diffesa, fu raccomandata ad Enrico di Andalò nel mese di aprile del 1241. Ci tace però quali fossero le munizioni e guarnigioni.
L’anno seguente che fu il 1242 Gregorio IX, dopo aver retta lodevolmente la chiesa quattordici anni e mesi nove, se ne morì. Successe nella cattedra apostolica Zonofredo Castilioni cardinale sabinese col nome di Celestino IV di nazione milanese che, dopo avere retto la chiesa brevissimo tempo, finì e fu eletto Sinibaldo Flisco genovese col nome di Innocenzo IV, uomo d’animo grande e dottissimo. Appena coronato scomunicò novamente Federico. Fu costretto ritirarsi nella Puglia. Poscia, intendendo che il Papa voleva celebrare un concilio contro esso, si pose in mare con la flotta per ovviarvi facendo scorrerie, prese Giacopo Prenestino, Legato di Francia ed Ottone, Legato di Inghilterra con molti vescovi.
In questo frattempo morì Pietro Traversari signore di Ravenna. Federico intesa tal nova spinse la flotta a questa città, l’assediò, la prese a patti. Fattosi signore di Ravenna, passò in assedio a Faenza dove erano li bolognesi in ajuto. La tenne in abblocco per nove mesi. Ridotti li faentini alle strette, né sperando altrove soccorsi in aprile si diedero a Federico. Nel seguente maggio passò ad Imola. Di qui mandò Enrico di lui filio nel bolognese.
Giunto a Castel S. Pietro , ove si erano ritirati li bolognesi ed imolesi condotti da Antonio Loffio e Sulpizio Brocco imolesi, ne diede l’assalto, ma diffeso bravamente da questi dalla parte dell’ingresso maggiore, non potè far frutto.
Replicò in breve l’assalto dalla parte montana simultatamente, furono con gagliardia ributtati li imperiali, ma di novo con impeto maggiore attacato l’ingresso maggiore presso la torre, non potendo ressistere alla furia ed alla quantità nemica, li due capitani le apersero la porta maggiore ed essi poi dalla porta di ponente, detta di soccorso, apersero l’altra porta e sortirono.
Avuto il Castello Enrico vi diede il sacco. Cinque giornate lo strinse di assedio, nel qual tempo scorreva la campagna e tutto predava. Ristorata la truppa volse l’armi ad inseguire li bolognesi. Alla Quaderna giunto ove si era fermato il campo di Sulpicio Broco, lo attaccò di petto, ma Antonio Loffio, che erasi imboscato nelle colline superiori, sentito il rumore calò alla strada e lo attaccò alla coda.
Mentre si combatteva valorosamente, Federico che era in Imola, avuto l’avviso, di volo corse alla battaglia che sosteneva il figlio in mezzo al nemico ma con poco di vantaggio poiché calati li pressidi di Varignana, di Ozano e li vilani di quei quartieri, fecero ressistenza tale di fianco a Federico che , appena messo in sicuro il figlio, si ritirò a Castel S. Pietro.
Quivi però vedendosi poco sicuro, temendo di essere assalito, abbandonò il Castello e ritornossi a Imola incendiando ciò che poteva e lasciavasi addietro nella fuga. Li terrazzani, veduta la barbarie di Federico ed il danno che ne sentivano quella parte, che non attendeva ad opprimere il foco, le diede dietro alla schiena e le prendeva parte del bagaglio che si conduceva seco. Ricuperarono delle munizioni toltole nel sacco dal figlio, tanto che non fu la perdita così amara.
Sdegnato vieppiù il Papa di tante violenze replicò la scomunica e sloggiata la truppa imperiale ne naque in appresso una pestifera parzialità che avrà lunghissimo tempo.
Impercioché le vertenze che erano fra il Papa e Federico furono motivo ai popoli di seguire chi un partito chi l’altro. Il primo aderente alla Chiesa fu nomato Guelfo l’altro aderente all’Imperatore fu nomato Ghibellino, così che in poco tempo quasi tutta l’Italia converse in se il ferro micidiale e si rese più funesta da se stessa di quello che l’avessero mai resa tale qualunque barbara nazione.
A motivo di queste (….) prima in Germania sotto Corrado III si divisero le città, li parentadi e perfino le famiglie fra di loro, d’onde naquero infinite stragi.
Il Senato di Bologna ciò non ostante amorevolmente riguardando li danni e rovine patiti dal nostro Castello e terrazzani vi pose riparo e, per evitare una emigrazione, condonò agli abitanti tutti li debiti che avevano colla Camera. Quindi l’anno che seguì 1244 fece rimettere li palancati, rincavare la fossa, fortificare le porte e ristorarlo ove abbisognava. La cura fu addossata a Mattiolo Paluzzi deputato capitano alla diffesa.
Il Papa intanto, procurando raconciliare l’Imperatore alla Chiesa, sempre le riesce vano anziché, reso più baldanzoso, fece carcerare moltissimi ecclesiastici, assediò lo stesso Innocenzo in Sutri dove li genovesi, mossi a pietà, lo liberarono. Questi passato in Lione, ivi convocò il Sinodo.
Citò Federico, venne fino a Torrino e, sprezzando il precetto papale, fu scomunicato anco per molte altre accuse enunziate nel testo del decretale. Fatto questo, il Papa mandò l’anno veniente 1245 oratori a principi dell’Alemagna onde elegessero un novo Imperatore. Dessignarono essi Altigrano Principe di Turingia Re de Romani e Germania.
Per tal cosa Federico divenne peggiore ed il Papa l’anno che seguì 1246 depose Corrado figlio di Federico dal Reame di Alemagna. Ordinò quindi che Lontegrano Conte di Palazio fosse promosso alla dignità imperiale. Costuì cacciò di Alemagna Corrado. Nel mese di agosto 1247 commise un fatto d’arme che il ruppe.
Li bolognesi che vedevano da ogni parte battuto Federico, si volsero ai modenesi per vendicarsi dei torti avuti. Spedironle Antonio Lambertazzi, uomo di gran valore e senno per Generale dell’Armi. Soccorse al uopo li modenesi Enzio filio di Federico. Nell’ardore della guerra restò prigioniero.
Erano già li anni del Signore 1248 che, respirando li bolognesi aria propizia, furono persuasi dal cardinale Ottaviano Ubaldini sollevarsi nelle rovine dell’Impero. Ascoltarono le persuasive, mossero le armi sotto la condotta dello stesso Lambertazzi inverso la Romagna, pose la massa delle genti al nostro Castello. Di qui, scorrendo le vicine campagne dell’imolese, prese Doccia, Toscanella, Monte Catone e le altre castella di là dal Silaro e si avvanzò fino sotto Imola.
Impavoriti que’ cittadini mandarono tosto oratori a Castel S. Pietro ad Antonio Lambertazzi a perorare la causa. Li accolse umanamente ed in seguito le presentarono le chiavi della loro città. Presero poscia il giuramento di essere fedeli al pontefice ed obbedienti a Bologna. Ciò ottenuto il Lambertaccio decampò da Castel S. Pietro.
Fatto inteso di tutte di tutte queste novità Federico si adirò, minacciò Bologna e, per rissentimento, dichiarolla priva dello Studio. Ma la di costui perfidia durò poco mentre nell’anno successivo 1250, per tradimento di Manfedo suo filio, nato di concubina nobile, fu soffocato in letto, morte degna di uno scomunicato.

Deffunto Federico il di lui filio Corrado con quanta forza potette entrò in Italia l’anno 1251, passò in Puglia e si impadronì del reame di Sicilia.
Li podestà che governavano il contado di Bologna nelle castella, abusandosi della loro facoltà colli arbitrii nelle condanne, furono coartati e fu posto riparo alle estorsioni. Decretò perciò il Parlamento che ogni sei mesi fosse mandato altresì alle castella un Prefetto ed un Pretore in guisa delli altri magistrati eletto. Fu ad essi imposta la ressidenza personale nelle respettive castella e luoghi. Quali fossero li pretori e prefettti che venissero al nostro Castel S. Pietro non ci è riuscito averne l’elenco a fronte delle maggiori indagini e premure.
L’origine delli podestà nella città cominciò fino da che Bologna si sciolse dal giogo imperiale. Fu altresì statuito che il governo di tali podestarie durasse un semestre, rendendo ragione a chi ne addomandava.
Nell’ottobre seguente il pontefice Innocenzo IV venne in Bologna dalla Lombardia di dove, dopo la dimora di quattro giorni, secondo quanto scrive Alessandro Sassatelli nella sua Cronaca d’Imola, passando a Roma per la via di Romagna, fu incontrato in Castel S. Pietro dalli oratori imolesi. Nel di lui passaggio da questo nostro Castello, accompagnato da Pelagio vescovo d’Albano, da Manuele patriarca di Costantinopoli, Guglielmo Ajcius di Parigi, Ricardo diacono di S. Angiolo e altri vescovi e cardinali, diede la papale benedizione.
Corrado infrattanto, essendo coll’armi in Puglia, avvanzandosi sempre coll’armi, spogliò anco la Chiesa de alcuni stati, per la qual cosa il Papa convocare fece un parlamento di amici in Brescia sopra queste vicende.
Seguì ciò nel 1252. Vi intervenne anco Bologna. Si stabilì perciò nel parlamento che si assoldassero dalla Chiesa e collegati in porzioni eguali 600 cavalieri di tutto punto armati. Che li comuni di Bologna, Brescia e Milano ed altri fornissero divisamente a misura del poter loro lire settantamilla imperiali ed altrettanti dalla Chiesa in sussidio della guerra. Li bolognesi furono tassati a lire quattromilla e cinquecento bolognini.
Era in questo tempo diviso il contado di Bologna in diverse podestarie al N. di trenta, le quali riportavano nome dal castello o mincipio ove erano stabilite. Erano esse governate dalli podestà. Il provento delle med. in queste contingenze fu destinato allo stipendio delli accenati cavalieri. Nel numero delle primarie eravi Castel S. Pietro al riferire del lodato Savioli, T. 3, P. 1, fol. 262.
Questi podestà erano li capitani delle fortezze del paese li quali venivano eletti dal governo e rendevano ragione come si rileva dalla definizione. Chi fosse destinato a Castel S. Pietro ne siamo all’oscuro è però certo che questo lo ebbe per governatore, come le altre podestarie, un nobile.
Li cadaveri de catolici che fino ad ora si sepelivano presso la chiesa di S. Pietro nel Borgo si cominciò a sepelirli in Castello.
Troviamo poi nelle Memorie di questi tempi che nel nostro Castello figurava più dell’altre familie quella di Cino di Guidinello di Ugulino di Zambone Zenzani o Zovenzani, da cui ne è derivata la nobile e chiara familia Sampieri che fino al 1378 si mantenne domiciliata nel med. Castello. Oltre al Dolfi ed altri scrittori che trattano delle familie nobili di Bologna, ce lo conferma recentemente l’eruditissimo P. Sarti nella sua opera: De Claris Archigemnasi Bonon. Professoribus. T. 1, fol. 165, in questi termini parlando del famoso Floriano di Castel S. Pietro: Idem cognomentum alia illustris familia passit ea qua insignes Jurisconsulti prodierunt quae adhuc inter primaeras civitatis nostrae in pluras divisa celebratur. Ea ex S Petro cognomen sumsit, quia ex S. Petri Castro agri bononien. notissimo in civitate se recepit.
Questo Cino fu quegli che diede lo stema alla familia col rappresentare un cane livriero tolto dalla parola greca Cinos che è lo stesso della parola Canis in latino. Nella stessa guisa l’erudito Guido Zanetti scrittore della Monete d’Italia, al T. 2, nella lettera dedicatoria riferisce che la familia Boncompagni porta nel suo stema gentilizio un drago alato uscente in campo vermiglio a motivo che questo gerolifico le fu lasciato nell’insegna l’anno 1295 da un signore della sua familia, chiaro ed illustre per le imprese, quale era detto per sopranome Dragone. Di questi esempi se ne potrebbero riferire infiniti ma non essendo nostro scopo, ritorniamo alla nostra narrazione istorica.
Avuto dunque Corado in potere il regno di Sicilia nel 1254 in maggio fra breve finì la vita coll’avere in pria instituito suo sucessore Corradino di lui filio Re di Gerusalemme e Puglia. Innocenzo Papa avuta tale nova da Perugia ove era, si trasferì nella Puglia tostamente. Costrinse indi Manfredo Principe di Taranto, tutore di Coradino, a giurar fede alla Chiesa. Ciò fatto passò a Napoli e se ne morì.
Ad esso sucesse Alessandro IV di nazione campana, uomo di gran consilio. Vacando intanto l’Impero l’anno 1255 procurò il novo Pontefice la elezione dell’Imperatore. Doppo molte discordie fra gli elettori fu scelto Riccardo Conte di Curanbia fratello del Re d’Inghilterra.
Essendosi divisi gli imolesi in due partiti, vennero fra loro alle mani. Nella mischia furono cacciati gli ottimati dai popolari e perché questa città era sogetta a Bologna il Senato mandò a Castel S. Pietro Antonio Lambertaccio ad esplorare il fatto, indi vi seguì la truppa ad oggetto, per si improvviso tumulto, di ovviare alle scorrerie de sollevati. Accampò il Lambertaccio le genti d’arme di là dal ponte presso l’Ospitale di S. Giacomo sopra il Silaro.
Gli imolesi in vista di ciò mandarono oratori a Bologna onde richiamassero i bolognesi la truppa a casa e furono consolati. Lo riferisce l’accenato cronista imolese in questi termini: Bononien. ad Silarim in planitie, audito tumulto Guephorum et Ghibellinorum imolen. posuerunt castra ad obviandes incursus, atque eadem auditis legatis imolensibus, bononienses revocant.”
Governavasi in questo tempo Bologna con molta gloria e stima per aver sogetta la maggior parte della Romagna ed Antonio Lambertaccio e Lodovico Geremei, familie potentissime della città, annellavano l’uno a fronte dell’altro procacciarsi seguito e stima.
Sorse l’anno seguente 1256 una discordia a motivo di eleggersi un novo magistrato che chi l’otteneva chiamavasi Capitano del Popolo. Presciedeva questi alla somma del Governo quando il Podestà attendeva ai maneggi di guerra. Quando si era in pace serviva di giudice inferiore. Antonio per avvantaggiarsi di potenza fece si che Bonacosso da Soresina fu eletto capitano.
L’anno seguente 1257 lo fece salire al grado di Podestà. Costui, comessi molti mali, fu necessitato per opera del Governo pagar bona condanna. Il Lambertaccio ne sentì ramarico onde risorte calunnie vennero ad altercazione, indi a baruffa, che fu disgiunta da Lambertino Rangoni.
Con tale occasione li Manfredi di Faenza si solevarono l’anno seguente 1258 contro li bolognesi e si misero in libertà. Sdegnati questi ordinarono tosto alli uomini di Castel S. Pietro prendere l’armi per la diffesa del Castello e Borgo. Poscia, assoldate truppe, l’anno 1259 fu spedita la massa dell’esercito a questo loco in primavera per indi passare alla presa di Faenza. La cura e guardia del castello fu comessa a Zambone di Ugolini Zenzani, alli Fucci ed altre familie del paese. Ciò preparato e messo in bon sistema il paese atto a difendersi, andò l’esercito a Faenza ove comesso un fatto d’armi, furono cacciati li Manfredi co’ forlvesi ivi introdotti.
Morto Papa Alessandro in Viterbo l’anno 1260, successe ad esso nel solio pontificio Urbano IV di gallica nazione che quanto nato di umili parenti, altrettanto era di sublime ed elevato ingegno.
Le calamità a cui soggiaceva Bologna a motivo delle fazioni costrinsero molte familie a ritirarsi dalla città ed andare alle castella, parte volontariamente e parte forzatamente. Le familie Pellegrini, Verondi, Salti con altre a se congiunte, emigrate da Bologna, si stabilirono nel nostro Castello e Borgo, come ci annunziano le carte e li rogiti in casa de Fabbri.
Stabilita la Relligione de Cavalieri Gaudenti, dopo il trigesimo anno della fondazione, le fu decretata la Regola ed il vestiario da Papa Urbano. Nel numero di questi cavalieri fuvi F. Albizio Cattaneo da Castel S. Pietro che per le sue rare prerogative si distinse alle opportunità nelli impegni addossati.
Li Canonici di S. Pietro di Bologna, che vivevano alla perfetta comune col vescovo, si divisero totalmente dal medesimo le possidenze e diritti. Chi ama vederne l’atto si riporti alli annali Savioli N. 3 Monumenti, appendice fol. 362.
Le familie Bonacatti e Cacciali, spatriati da Bologna, stabilirono nel nostro Castello il loro domicilio in via Saragozza. L’anno 1262, su tale esempio, ne vennero anco di Romagna per le fazzioni che giornalmente crescevano in modo che si spopolavano le città, che rari furono quei municipi che non ne provassero gli effetti funesti.
L’anno seguente 1263 Imola si divise in due partiti, uno era dei Mendoli e l’altro dei Brizi. Riccorsero le parti al Parlamento di Bologna, furono ascoltate le instanze e, nel mese di lulio, uscì Giacomo Tavernieri Pretore di Bologna con alcuni Consoli e vennero a Castel S. Pietro ove imantinenti prescrisse alle due fazioni che presentandosi al Campo si dovessero uniformare a quei precetti che imporebbe ad essi il Comune di Bologna, come ci raccontano li annali Savioli.
Comparvero tosto li 12 agosto li sindici imolesi, cioè Panfilio Notaro per la parte de Mendoli e Gajo Notaro per la parte de Brizi e quivi furono stabiliti li patti di concordia. Abitò il Podestà di Bologna colli Consoli in casa di Guidoberto Cattani nel Borgo. Nella di lui corte fu stipulato l’instrumento per mano di Paolo Guardasogni (annali Savioli T. 3 Monum. 738, fol 390 ad 93).
Urbano IV, avendo instituita la festa del Corpus Domini, l’anno 1264 fu universalmente pubblicata per sua bolla. Finì li suoi giorni nel mese di ottobre anno medesimo. Successe ad esso li 25 febraro 1265 Clemente IV di patria norbonese, prima nomato Guido Folgaido.
Intesa tale elezione Coradino, filio di Federico secondo, nell’ottobre del 1266 invase la Lombardia con estere nazioni per socorrere li ghibellini di Milano. Inoltratosi poi Coradino nelli Stati pontifici, il Papa, che era in Viterbo, avvisato di ciò mandolli oratori perché si astenesse di molestare il Regno di Sicilia che era di S. Chiesa, del quale ne erano stati privi il di lui padre ed avolo.
Sprezzato il precetto papale l’anno 1268 fu scomunicato. Carlo Re di Sicilia, inteso che si approssimava Coradino, le andò coraggioso coll’armi incontro dalla parte di Roma. Venero a giornata in quelle parti li 15 agosto. Soccombette Coradino, giovinetto di anni 18, fu fatto prigione col Duca d’Austria con molti baroni che furono poi decapitati nella Palestrina. Al terminar dell’anno infirmossi il Papa e cessò di vita.
Paolo Zoppi qd. Riviero, familia trasferita al nostro Castello dal vicino Castel d’Alboro, in cui furono derivati li Castelli nobili di Bologna, fu di professione Notaio facinoroso secondo portava la infelicità di questi tempi al segno di levar di vita un monaco benedettino in Bologna e prenderla per fino col monastero di S. Procolo, amò la poesia toscana e si distinse fra suoi coetanei. Pochi però sono li parti del suo talento, di esso ne parlano l’Alacci, il Crescimbeni ed ultimamente il comendabile Conte Giovanni Fantuzzi nelle sue Notizie stampate di Scrittori bolognesi, edizione di Bologna.
La famiglia Zoppi radicata nel nostro Castel S. Pietro come si accennò a principio si è sempre mantenuta ancora quivi. Ne fanno fede le memorie di Nicolò Mamellini in un atto fatto sotto il giorno17 agosto 1447 di un Bartolomeo quondam ser Ghino Zoppi Not. di Castel S. Pietro Sindico della Comunità. Li atti consulti sucessivi della nostra Comunità e li suoi comizi lo contestano fino al termine del 1600.
In una Recluta di militari e volontari presso li eredi del fu capitano Valerio Fabbri, trovasi Francesco Zoppi che, con altri compatriotti di questo Castello, si arrolarono nel famoso regimento Caprara ed andarono contro il fuoco nella Strigonia, come alla sua epoca nei nostri MM. SS. segnato abbiamo.
Nel seguente 1269 in Bologna si eccitarono le discordie fra le due fazioni Geremei guelfi e Lambertazzi ghibellini a segno che, per migliorare ognuno il suo partito, pretesero li secondi, mediante li Ordelaffi, di gravare Forlì a condizioni non convenevoli.
L’anno che seguì 1270, sotto pretesto di rotta fede, si sollevarono contro Bologna. Li Geremei, che sostenevano il Senato, in maggior numero fecero si che per tale insurezione fosse intimata la guerra a forlivesi.
L’anno perciò che seguì 1271 il Senato spedì soldatesca a Castel S. Pietro. Quivi si fece lo scarto delle genti e l’amasso dell’armi sotto la condotta del generale Lodovico Geremei. Si avvanzò l’esercito sotto Forlì diffeso dalli Ordelaffi.
In questo tempo Teobaldo Visconte piacentino nel mese di settembre fu creato Papa col nome di Gregorio X. Li bolognesi che erano al blocco di Forlì, travagliati dal freddo e pioggia nel novembre furono costretti ritirarsi dall’impresa.
L’anno appresso 1272, attese le scorrerie de saraceni contro li cristiani, il Papa ordinò un concilio per l’ajuto di Terra Santa che poi seguì in Lione le calende di maggio 1274, doppo essere stato eletto Imperatore il Conte Roberto di Ausburgo.
Il Senato di Bologna che aveva a patto la sollevazione di Forlì, deliberò mandarvi di novo l’esercito. Condotto il Caroccio in piazza per inviarsi a Forlì, Giuliano Pusterola milanese Pretore entrò in Senato a chiedere licenza di sua partenza. Antonio Lambertazzi molto si affaticò perché non seguisse l’impresa, calpestando l’onore de Geremei che si opponevano. Infine esciti Geremeo Geremei ed Antonio Lambertazzi vennero alle mani. Testa Gozadini e Giovanni Angeletti, ciò inteso, corsero con molti soldati, divisero la zuffa.
Il frutto fu poco poiché rado era il giorno che non si venisse alle mani. Le vie pubbliche innondavano di armati sempre. Divulgatasi le fazioni nelle vicine città, li guelfi di Modena da un canto e li ghibellini di Forlì dall’altro armarono a favore delle due fazioni.
Provido il Senato in questa contingenza perché non andasse in aria tutto il Comune, vietò alli abitanti delle castella entrare in questione, senza essere richiesti, per le differenze nate fra le due fazioni.
Non per questo però si astennero molte castella. Riferisce il lodato Savioli che in S. Giovanni, Castel S. Pietro ed in Budrio vi fanno partiti e mischie. Manghinardo da Panigo, che a favore di Antonio si era armato in Bologna, se ne fuggì. Molti miliziotti bolognesi, intendendo che da una parte e dall’altra si avvicinavano soccorsi alle due parti, pigliarono le armi e postisi col popolo alli passi della città altri la guardarono ed altri verso Modena si incaminarono. Incontrati li modenesi si ruppero.
Da quest’altra parte li forlivesi soldano il generale Guido di Montefeltro e di superbo orgoglio si avvanzavano con molta gente. Oltre li cronisti li annunzia un lepido poeta.
Giungea la compagnia de modenesi
a fomentar la guelfa fazione,
fioccavano a migliaia i forlivesi
a diffender d’Antonio la raggione.
Giunti sul faentino li 18 aprile piantarono il campo senza recarsi danno, sopragiunta la notte, avvanzati alla città gli Accarisi di questa, corotti li guardiani di una porta, introdussero in Faenza il Montefeltro coll’esercito.
Subito entrato diede la caccia a Manfredi che si teneva per la parte dei Geremei. Li Mainardi ghibellini, per non lasciare il corso imperfetto della vittoria, passarono ad Imola quale presero con poco contrasto. La mattina delli 21 d. vennero coll’esercito al nostro Borgo inseguendo li Manfredi, ove si erano fatti forti ma, non potendo ressistere alla forza del Montefeltro, si ritirarono entro il Castello per più sicurezza.
Furono assediati fino alli 25 tentando la presa a l’assalto ora da levante, ora da ponente ma, diffeso valorosamente il Castello non solo dal Geremeo ma anco da terrazzani, de quali erano capi li Catanei, e dalli Manfredi, non potette il Montefeltro far frutto, tanto più che li villani ammutinati travagliavano li militari con disordini.
Vedendo per ciò il Montefeltro difficile l’impresa e sentendo avvicinarsi una truppa di bolognesi, decampò il Borgo e nel ritorno che faceva a imola dava di guasto a tutto. Guarnimen… vero partis Lambertatiorum venientia de Romandiola ceperunt Imolam, Faventiam et venerunt usque ad Castra S. Petri faciendo ibi maxima damna.
Fattasi più consistente questa sedizione tutta la Romagna si ribellò. Li Lambertazzi perciò furono banditi con quindicimila cittadini del loro partito. Antonio si salvò in Faenza ove accolto dalli Accarisi e Majnardi sollevò il resto di quella.
Fattosi ribelle alla patria Antonio ed unito ai forlivesi venne sotto Castel S. Pietro alla pianura di qua dal Silaro ove, mezo miglio circa distante, fattosi alzare una eminenza di terra in un luogo vicino al fiume denominato Panicale, presso il ruinato Castelletto del Gaggio, ne prese questo il nome di Montirone. Quivi si accampò e di quando in quando scorreva il vicinato fino sotto il nostro Castello.
Li Manfredi provocati, e che tuttora stavano forti nel Castello, uscirono con alquanti castellani. Appiccata una rabbiosa baruffa nella via maggiore corriera, furono costretti li nemici ritirarsi alli suoi Montironi, li quali a nostri giorni dalla corrente del Silaro sono stati corrosi e slamati per la poca curanza di Domenico Conti proprietario e solo restavi il nome. Vedendosi perciò la fazione Lambertazza poco sicura in questo sito, decampò e si ridusse nella vicina Romagna.
L’anno poi che seguì 1275 nella primavera il Lambertazzo colli fuori usciti bolognesi ritornò alla vicinanza del nostro Castello con maggiori forze. Molti cittadini di Ravenna espulsi da quella città ed aderenti a forlivesi, intesa questa nova impresa passarono in socorso di Antonio. Il Rossi così lo accenna. Pulsi ravennates ab adversa factione et inde ad oppidum S. Petri progressum est.
Amassato l’esercito, fu condotto novamente al sito di Montironi. Vi intervennero a questa truppa Guido Novello e Manfredo padre e filio Malatesta, li Conti Bandini, Rugero e Tigrino fratelli e figli di Guido Guerra Conte di Modigliana. Cominciarono poscia scorrere il vicinato fino al Borgo che guardavasi dalli Ghirardacci, Brochi e Catanei. Il Castello era guardato dalli Geremei e castellani che, per essere di forza dispari al nemico, non potevano che stare su la diffesa, che bravamente si sosteneva.
Conoscendo perciò Antonio ed il Montefeltro difficile la presa del Castello senza grave sua perdita ed essendole questa troppo importantissima per la sua situazione ricorse all’arte. Levò l’assedio ed il campo da quivi, entrambi ascesero li due capitani la vicina collina verso Liano per tirarne fuori i governi, così avvenne.
Sortì il Geremeo dal Castello e diede alla coda del nemico che travagliava Liano, le parti di Frassineto e Vedriano ove que’ terrazzani si diffendevano valorosamente. Ma discendendo li altri dalla parte del torrente Gaiana sotto Casalecchio de Conti, in modo da simulare la fuga, le riescì prendere in mezzo la truppa Geremea in modo che, fortunatamente avvisata, ritirossi alla pianura per non essere imprigionata.
Ne ebbe tempo per rimettersi nel Borgo non che nel Castello, secondo ci lasciò scritto il P. Gio. Lorenzo Vanti, e il Castello e Borgo fu tostamente preso da Malatesti facendovi prigionieri Nicolò della Sarga, Bettino del Borgo, Musitello, Tono de Zopi, Marchino Dalforno con altri.
Per tale conquista il Lambertazzi, avendo la frontiera del contado in sue mani, si fece più animoso. Il Geremeo ritiratosi alla città, vieppiù sdegnato ammassò nove genti. Non andò molto che sortito di città venne novamente col campo al nostro Castello e Borgo. Cominciò a contrastare l’una e l’altra terra.
Non potendo resistere il Lambertazzo abbandonò tosto la frontiera ma per poco poiché, soccorso il Lambertazzi da un poderoso esercito di romagnoli alleati, vi diede un assalto improviso che cacciò precipitosamente li Geremei inseguendoli lungo tratto di strada e scorse l’esercito nemico pel contado.
Ritornandosene, dopo avere in proprie mani il nostro Castello, vi pose il foco mettendo tutto a guasto. Il Chiaramonti nella sua storia di Cesena così alla sfuggita tanto accenna: Victores autem in agro bononiensem incurrerunt omnia vastando. In reditu Castrum D. Petri incenderunt. Ed il il Rossinella sua storia di Ravenna più diffusamente. Consestia.. autem victor exercitus in Bononiensem agrum prosectus, vineas, arborque incidit. Domus ac segetes combussit. Phenis omnis festa revulsit, et rediens Oppidum S. Petri igne cremavit.
Sebbene questo nostro nascente Castello fu soggetto a tali funeste vicende, non di meno risplendeva ne suoi castellani nelle sette arti. In questo tempo si distingueva con singulare incontro Gerardo di Boncivenne Gerardi nell’arte medica, come pure nella stessa, Gulielmo Prudenzani ambo di Castel S. Pietro, che abitava in Bologna nella strada di Castilione.
Partiti poscia fra non molto li frazionari Lambertazzi dal nostro Castello tutto smantellato, non per questo lasciarono di perturbare questi contorni ora in un luogo ora nell’altro. Li bolognesi temendo maggiori li danni procurarono soccorso da Carlo Re di Napoli. Aderì esso alle suppliche, vi spedì gente ed assicurò da questo canto il territorio bolognese. Si accomodò infrattanto il nostro Castello.
Vacata la S. Sede per la morte di Gregorio X nel genaro del 1276, dopo il governo di anni quattro, fu assunto al pontificato Pietro Tarantasio dell’ordine domenicano col nome di Innocenzo V il quale, doppo pochi mesi, morì ancor esso a Viterbo. Per tali morti, non avendo le fazioni tema de pontefici, si accrebbero ed accesero maggiormente.
Fu poscia nel lulio creato Papa il cardinale Ottobono Fieschi genovese col nome di Adriano V che nel seguente agosto ancor esso finì la vita. Alli 13 di settembre fu fatto papa il Card. Giovan Pietro di Lisbona col nome di Giovanni XX. Tutte queste morti di pontefici sembravano propinate dalli avidi al pontificato.
Allo spirar dell’anno li Lambertazzi con trecento militari sotto la condotta di superbo orgoglio tornarono novamente al nostro Castello che, non essendo per anco totalmente fortificato e men guarnito, senza ressistenza si arrese.
Intesa la perdita di Castel S. Pietro li Geremei tostamente ammassarono genti e nel febraro 1277 vennero al Borgo, assediarono da ogni parte il Castello, cominciarono a batterlo dalla parte della via corriera nei palancati. Alla fine del mese le diedero assalti ma con poco frutto. Finalmente comessa baruffa ardente se ne impadronirono, cacciarono li Lambertazzi e fatti molti prigioni restò il castello in potere dei Geremei.
Trovandosi Papa Giovanni XX in Viterbo morì li 20 maggio e li 28 dello stesso fu eletto papa il Cardinale Giovanni Orsino col nome di Nicola III.
Volevasi in questo tempo da Ottaviano Ubaldini, vescovo di Bologna, sottomettere al pagamento delle decime li uomini di Castel S. Pietro onde, facendosi fronte alli esattori, ne accadevano disordini, per la qual cosa, ad effetto di liberarsi di questa molesta questione, il vescovo deputò Egidio Foscarati e Domenico Poeti per arbitri a comporre ogni differenza. Ci viene ciò annunziato dal libro de memoriali di questi anni. L’esito dovette essere favorevole alli uomini poiché nelle gravezze della nazione non se ne trova più memoria.
Non ostante la cacciata de Lambertazzi dal nostro Castello continuavano ad infestare questi nostri contorni colle rubberie, aggressioni, incendi ed altri malefici per modo che, dubitandosi di una qualche rivolta nella città e nel resto del contado, deliberarono sottoporsi alla protezione della Chiesa li bolognesi. Mandarono perciò al Papa Antonio Manzoli e Lazaro Lazari, quale, inerendo alle instanze, spedì nella vicina provincia di Romagna per legato F. Latino Malabranca domenicano di lui nipote acciò pacificasse le due fazioni.
L’anno seguente 1278 a tal fine mandò anco in appresso Bertoldo Orsino altro di lui nipote in d. provincia facendolo Conte e governatore di essa. Scrisse poi a F. Latino che concludesse la pace, imponendole che per ostaggio si facesse consegnare in propria mano dai bolognesi Castel S. Pietro e Castel Franco come frontiere le più importanti dello stato ed altro ancora caso occorresse. Dopo il preambolo della lettera con altre cose eccone l’ordine papale: …ceterum Castrum S. Petri et Castrum Francum et alia prout expedire videvitis castra, in manibus nostris et aliorum de mandato nostro in comunibus expensis Bononiensium fabis per Nos, vel alium cui hoc duxerimus comittendam custodienda et restituenda impostarum eisdem bononiensibus proat et quando viderimus expedire mandavimus assignari. Super quo presentioum vobis tenere comittimus, ut eisdem Castro S. Petri et Castro Franco nomine nostro receput predicitus circa eorum custodiam et aliorum recaptis si expedieri ac taxatione hujusmode ad hac contingentia facciatis quod melius faciendam crederit.
Bertoldo Orsino, che aveva le truppe nella vicina Romagna, le spinse tosto a codesto Castello e se lo fece consegnare da Geremei assieme colli ostaggi. Vedendosi il Papa che la concordia era in sue mani ordinò per sua Costituzione che fosse indi consegnato Castel S. Pietro a Latino e Bertoldo. Ad majorem premissorum omnium firmitatem volumus et arbitrando precipimus quod Castrum S. Petri ac alia de quibus expedire viderimus castra in manibus nostris vel aliorum de mandato in comunibus expensit ipsorum Bononien. taxandis per nos vel alium cui duxerimus comittendum custodienda. Traddentur infra predichem festum S. Petri proximo futurum restituenda imposterum bononiensibus prout et quando expedire viderimus.
Consegnato Castel S. Pietro a Bertoldo vi era però chi tumultuava su ciò onde Felice Orsino, temendo del padre, le venne in ajuto e si attendò fuori del Castello e Borgo cioè a S. Giacomo sopra il Silaro poi si adoprò, per maggior quiete, che li fossero consegnati ancora li Lambertazzi che erano in Bologna prigioni delle guerre passate. Se li fece condurre a questo Castello indi passò col padre a Cesena. Ciò fatto e visitata tutta la Romagna, l’anno seguente 1279 stabilì in Imola la pace fra li Geremei e Lambertazzi nel dì 29 giugno.
Poi li 2 agosto Bertoldo coll’arcivescovo di Ravenna vennero a Castel S. Pietro dove furono messi in libertà li ostaggi della gente dei Geremei. Fu indi restituito Castel S. Pietro a bolognesi. Il Cantinelli riferisce dippiù che ciò fatto li Lambertazzi che erano in Faenza tornarono in Bologna: D. Comas Bertuldus fecit exire omnes de parte Lambertationorum qui erant in civitate Faventie die 27 septembris tam nobiles quam populares et hospitati sunt de nocte in civitate Imole et ad castrum S. Petri et demum die jovis im mane iverunt Bononiam.
Al nostro Castello volgendo poi l’occhio il Senato, per li danni sofferti ne la guerra passata, ordinò che nell’anno seguente fosse aperta la porta e ristorata la torre del Castello presso che ruinata, mentre appena si poteva entrare in Castello, essendo stata bastionata con terra e pietrizzi fin da quando fu battuta da Geremei.
Appena ristorato il Cassare di novo li frazionari Lambertazzi, che poco stimavano la pace fatta, uniti alli Gallucci presero le armi e vennero a fatti co’ Geremei l’anno seguente 1280 ma con poco frutto poiché, ajutati da Lambertini ed Ariosti, furono con loro seguaci cacciati di città. Passarono immediatamente li Gallucci a Castel S. Pietro e vi stettero una giornata sotto per averlo nelle mani ma, facendo ressistenza li castellani e conoscendo difficile perciò l’impresa di esso, marciarono sotto Liano scorrendo quel contorno con tutta sicurezza.
Bertoldo che era in Ravenna intesa la cacciata de Lambertazzi sediziosi e, che fattisi forti in codeste colline sopra Castel S. Pietro ove depredavano li villaggi e temerariamente provocavano li oppidiani, citò l’una e l’altra parte a diffendersi per la frazione della pace a condizione che, per bon riguardo e per ostaggio, si fosse li 2 marzo consegnato Castel S. Pietro e Castel Franco e fossero ritenuti sotto la custodia del Cardinale Latino e da esso Conte per due mesi prossimi seguenti, con cinquanta sergenti e più, caso occoresse da pagarsi da Geremei ed in secondo loco che facessero provisione di palancati, fossati ed altre cose necessarie per diffesa e salvezza di detti due castelli, il tutto sempre a nome della Chiesa.
Tanto si fece e sul terminare del mese di febbraro 1281 fu consegnato il nostro Castello al cardinale Latino. Poi nel mese di maggio Bertoldo Conte di Romagna ebbe li ostaggi, quali per maggior sicurezza furono guardati in Castel S. Pietro, come ci racconta il Cantinello senza indicarci chi fossero: Item eudem anno de mense madj P. Bertoldus Comes Romandiole habuit obsides ab ubaque parte Bononie et ipsos misit ad Castrum S. Petri ad hoc, ut ibi essent melius securi.
Il Cardinale, avuto Castel S. Pietro nelle mani, nel mentre che trattavasi la causa accadde la morte del pontefice, onde fu sospesa la decisione. Vacò la S. Sede da cinque mesi e doppo molte discussioni fu assunto al pontificato il cardinale Monpicie de Brie francese col nome di Martino III detto IV.
Il Senato che fino dal 1256 con suo decreto aveva ordinato che tutti li servi e serve o siano schiavi, de quali ne era pieno il contado, fossero manumessi col pagare ai loro respettivi padroni lire 10 a testa, quando erano di anni 14, e quando erano di età minore lire otto, a condizione poi che in avvenire d. servi manumessi pagassero un tanto l’anno per capo alli Pretori delle castella a cui soggiacevano.
Ed in conseguenza, li med. servi manumessi, potessero farsi familia libera, far fumo ed aprire casa, donde poi furono detti fumanti. Perché venissero ben regolati tutti questi schiavi manumessi furono descritti in un libro titolato: Paradisum voluptatis.
Ordinò il Senato in seguito che per li loro affari civili dipendessero dai loro Pretori, al qual effetto nel successivo 1283 tutto il contado fu diviso in tante podestarie da assegnarsi annualmente ai cittadini di Bologna che ne venissero estratti. In questa contingenza Castel S. Pietro fu preso in considerazione.
Teneva in questo tempo il titolo di Conte della Romagna e Rettore di Bologna per Papa Martino IV Giovanni d’Appia francese senza più esercitare sopra la città alcuna giurisdizione. Li ghibellini, li quali avevano violata la pace seguita in Bologna, molestavano ora un territorio ora un altro ed avendo sofferto Giovanni d’Appia una batutta, premurò di rimettere l’esercito che teneva nella Romagna contro Guido di Montefeltro capitano delle genti di Forlì e bolognesi banditi di fazione Lambertazza. Ciò eseguito Appia, conoscendo li forlivesi non potere ressistere alle di lui forze, si diedero alla Chiesa e così fecero li cesenati ed altri popoli.
La dedizione però fu di poca durata imperciòchè, narra il Carara con Cipriano Manenti cronistaT. 2 fol. 195 ne suoi Comentari de Malatesti che, doppo essersi dati al Papa Faenza e Forlì nel 1284, naquero nove discordie con intelligenza de bolognesi che per quietarle Malatesta cavalcò a Forlì ed impartitosi si condusse a Castel S. Pietro e si fermò al ponte del Silaro ove era lo spedale di S. Giacomo, ove fino a giorni nostri evvi una piccola chiesa, ove quivi l’attendeva Tadeo del già Tadeo Novello Conte di Montefeltro di Urbino per unirsi assieme come seguì.
Si trattenne poi alquanti giorni il Malatesta col Conte per le paghe de soldati. Uniti assieme li due capitani tentarono la presa del nostro Castello ma, sortiti li castellani colli presidi bolognesi, furono respinti. Replicarono l’assalto doppo breve tempo verso la parte montana attaccando il Castello Malatesta e dalla parte inferiore il Montefeltro e di novo furono bravamente respinti dalli oppidani, cosichè convenne ai due capitani abbandonare l’impresa.
Giunto l’anno 1285 li 29 marzo morì Papa Martino IV, dopo il governo di anni quattro. Sucesse ad esso il Cardinale Giacomo Savelli romano il giorno 2 aprile col nome di Onorio IV. Nell’anno seguente 1286 e 1287 furono fortificate le castella del territorio. Castel S. Pietro, che ne abbisognava più delle altre per li danni patiti dalli indicati capitani Malatesta e Montefeltri, fu ristorato da ogni canto alle torri delle Roche e Cassari.
Papa Onorio IV finì li suoi giorni li 5 aprile. Vacò la sede fino alli 22 marzo 1288 in cui fu eletto pontefice il Cardinale Gerolamo d’Ascoli col nome di Nicolò IV.
Questa chiesa maggiore di Castel S. Pietro, che fino a questa parte era stata fatta semplice beneficio clericale, fu dal Capitolo Metropolitano di Bologna, a petizione delli uomini di Castel S. Pietro, elevata al grado di Rettorato nel dì 14 settembre. Ciò si ha dal libro dell’Asse nel capitolo metropolitano fol. 431 così annotato: Institutio Rectori Ecclesie S. Maria de Castro S. Petri facto per D. Bononia Capitulu. anno 1288, 14 septembris. poi siegue l’atto così. Accedens Presbiter Jo. quond. D. Jacobini ad presentia D.D. Arginelli Archipresbiteri et Capituli Bononie Ecclesi,. petiit electionem de se factam in presbiterum ex administratorem eclesie S Maria de Castro S. Petri humiliter confirmaris. Quam idem D. Archipresbiter de voluntate et consensu Bononie capitulivisa d. electione, eundem acceptavit et confirmavit et ipsum eclesie in spiritualibus et temporalibus prefate eclesie S. Maria cum uno libro, quem tenebat in manibus investivit. Ego Jacobus Benvenuti imperiali authoritate not. supradiotis omnibus interfui et in pubblice scripsi.
Rillevasi da questo autentico la presentazione che ne facevano li oppidani di Castel S. Pietro di D. Gio. Giacobini per il loro primo rettore spirituale. Nel dì successivo 15 settembre fu messa in possesso da D. Bartolomeo mansionario. Ma perché altra simile instituzione troviamo nelli atti medesimi fatta nella persona di D. Rainerio Pellegrini del medesimo Castello nello stesso giorno, mese ed anno in cui fu fatta la descritta instituzione del Giacobini, la quale viene descritta nel medesimo libro al folio 432 colle medesime parole e forma stessa in presenza delli medesimi testimoni che sono notati nella prima, messo e possesso dallo stesso mansionario, quindi perciò si omette la replica dell’atto.
Che due persone differenti di nome e cognome nel medesimo giorno, mese ed anno possino essere elette in Paroco di una stessa chiesa ed impossessate in essa in presenza delli stessissimi testimoni, egli è un mistero che non è si facile iscoprirne il vero, non chè approssimarsi alla realità.
La più infelice condizione di chi scrive le cose andate, massime nei tempi vetusti e l’incontrare intoppi confacenti al loco, al tempo ed alle persone che non lasciano discernere il più sincero. Poverà sincerità! Poco sarebbe se solo dal tempo fosse angustiata.
A disciorre però in qualche modo questo enigma et ad interpretarlo, noi non siamo bastevoli col nostro scarso talento. Non per questo possiamo esimerci di darne il parere ed opinione. Si congettura pertanto che ciò sia accaduto per uno sbalio dell’estensore ed amanuense che accortosi doppo dell’errore nell’allibrare l’atto e per non rendersi sospetto di infedele e mendace, lasciato così scritto il primo atto e colle righe del medesimo, emendato l’errore della persona nominata, emendasse lo sbaglio colla replica del vero nominato Sacerdote D. Pellegrini tanto più che essendo trascritto posteriormente l’atto secondo questi derogasse il primo. Chè che sia a riconoscerne il vero chi ha più talento di noi abbia si grande briga. Dietro la sud. nomina ed investimento, fu eretto nella d. nova chiesa il fonte battesimale per li nascenti alla destra dell’ingresso in essa a fianco della porta maggiore, che si è sempre ivi mantenuto fino alla nova fabbrica della sudd. chiesa.
Attesi poi li sofferti danni dalli paesani di Castel S. Pietro per le truppe passate e per la raccolta scarsa dei viveri, ricorse la università di Castel S. Pietro al Senato per avere un ristoro. Il Senato compiacente esentò quelli dalle Colette e Dazi eccetuato però il pane e vino.
Indi per assicurare questa popolazione nella salubrità personale, serpeggiando una pestifera scabbia, ordinò che niun lebbroso o contaminato di altro malore non entrasse in alcun luogo abitato e molto più nella città, ma dovessero albergare li contaminati nelli ospitali e, specialmente in queste parti, nell’ospitale dei SS. Giacomo e Filippo presso Castel S. Pietro di là dal Silaro appo il ponte, onde per tale contingenza fu nel seguente 1289 ristorato sia il ponte nelle ale che l’ospitale ove abbisognavano.
L’anno successivo 1290 il Conte Alberto da Gesso avendo commesso prepotentemente un omicidio in un di lui castellano, il Podestà di Bologna, avendo avuta la relazione, ordinò la demolizione di quel castelluccio sopra il Silaro nella podestaria di Casalfiumanese. Fu commessa la impresa a Bartolino da Castel S. Pietro capitano d’arme, il quale con alquanti soldati e guastadori portossi a quella montagna e con altri armiggeri fu spianato.
Giunto il 1291 si cominciarono a sentire titubamenti di fazioni nella vicina Romagna. Accaduta perciò la morte di Nicolò IV nello scorso dì 4 aprile, cominciarono anco le discordie fra cardinali per la elezione del Papa. Fu questa una maggiore opportunità ai fazionari per prendere l’armi di novo.
In Imola pertanto venuti alle mani li Nordili colli Alidosi fu cacciato dalla città Alidosio e Litta delli Alidosi che furono inseguiti fino a Castel S. Pietro ferocemente. Vedendosi li castellani e borghesani la mala parte delli Alidosi, temendo di una strage, sortirono dalli abitati e, fatto argine al nemico, posero al sicuro li fuggitivi, poi fatto un guarnimento contro li Nordili e loro seguaci furono respinti fino alla Toscanella. Tanto ci viene annotato da un anonimo cronista imolese manoscritto, citato dal P. Vanti nella quale si indicano di Castel S. Pietro e Borgo li Zopi, Ghirardacci borghesani e li Catani con Civilino di Puzuolo castellani.
Udita questa insurrezione Aldobrandini vescovo di Reggio e Conte di Romagna portossi a Imola per sedarvi li tumultuanti. Compose le parti e rimise nella città Litta ed Alidosio Alidosi.
Li Nordili, che di mal grado si erano pacificati, facevano declamare contro il vescovo dai loro partitanti. Questi non fu sordo all’avviso, fece carcerare li partitanti poi li spedì a Riniero di Mattia Cattani a Castel S. Pietro, il quale era castellano, quivi relegati fu imposta al Cattani rigorosa la custodia.
Il Senato di Bologna, temendo per tal fatto aggressioni al nostro Castello e Borgo da fuoriusciti d’Imola per liberare li relegati, mandò tosto Desio Castelli a fare le necessarie proviste per una valida diffesa, onde oltre li molti pedoni fu rinforzato di cavalli il Borgo e Castello, ma li nemici imolesi non perdendo tempo cominciarono a fare scorrerie e bottinaggi.
Attese queste molestie il Senato l’anno seguente 1293 spedì Riccardo Beccadelli a fare ulteriori provisioni a Castel S. Pietro per una guerra iminente. Fece rimettere li palancati ove abbisognavano, fece ferrare tutti li passi che introducevano nelli abitati, bariccò le strade eccetto quelle che introducevano nel Castello, cosichè il Borgo divenne coll’altro municipio superiore un solo abitato. Rinnovata la diffesa esterna colle porte una al levante e l’altra al ponente, non sembrava più il Borgo di prima e di qui si vole che incominciase a nomarsi Borgo Novo.
Di quest’anno fu eletto in Bologna nel N. delli due milla del Consilio per il venturo 1294 Taddeo di Baldo da Castel S. Pietro, professore di leggi,come ci racconta il chiarissimo P. Sarti nella sua opera: De Claris Professoribus Archigemnasi Bonon. T.1 fol. 245, col riportarci il documento di questo tenore. In Christi Nomine Amen. Infrascripti sunt qui deberet esse de Consilio Duorum millium pro anno futuro 1294, indictione VII, de quarterio Porte Ravennatis. D.nus Baxomator de Baxecomatribus Doctor Legum D. Gardinus de gardinis Legum Doctor. P. Tadeus Domini Ubaldi de Castro S. Petri Legum Doctor.
Fu anco dal Consilio delli Ottocento il d. Tadeo, dal quale numero ne fu poscia cassato, non sapendosi il perché, come lo stesso P. Sarti ce le racconta nello stesso Tom. 1 fol. 243. Tadesus Baldi filius de Castro S. Petri scriptus fuerat huius nomen inter doctores Legum ex Regione Potra Ravennatis quo anno MCCXCIV erat in Consilio Octengetorum, sed poscia delatum. Incertum qua ex causa. Hic erat ex Castro S. Petri nobili bononiensim Municipio, nec aliter fere in antiquis talulis appellatur, quam Tadeus D. Baldi sive Ubaldi, quo ostenditur ni fallor, non ignobili patre ex familia natus. Appunto perché era facoltoso poco esercitò la lettura delle leggi. Lo conferma lo stesso Sarti: sed illum peculiam de hoc legum professere occurrit, quod raro admod. et brevi tempora intervallo doctoris appellatio illi tribuint in antiguis tabulis, ut Clarens Montius animadvertit. Ciò può servire di argumento che Tadeo tostamente passasse dalla lettura al Foro e dallo Studio e Cattedra alla Mensa argentaria e che per questo motivo il di lui nome fosse cassato dal ruolo delli Ottocento.
Fino alli 29 agosto 1294 essendo vacata la S. Sede, finalmente sopite le differenze fra cardinali, fu eletto Papa un eremita chiamato Pietro da Solmona, il quale faceva una vita asprissima nelle grotte di Abruzzo e nominossi Celestino V che fu poi santo.
Il medesimo conoscendosi insufficiente al maneggio delle cose eclesiastiche, col consenso de cardinali, lo stesso anno nel dì 13 novembre in pubblico Concistoro rinonciò al papato e ritornossi all’eremo. Ad esso poi sucesse Benedetto Gaetano, cardinale di Anagni col nome di Bonifacio VIII.
E come che li beni di codesto ospitale di S. Giacomo e Filippo di là dal ponte Silaro, al quale erano stati assegnati per mantenimento del medesimo e dell’ospitale, venivano occupati da particolari persone in parte ed in parte erano rimasti incolti per le guerre e sedizioni passate, il Senato, a petizione de nostri Castellani, ordinò che fossero tosto restituiti dalli occupanti e colla vendita si mantenesse il ponte e si alloggiassero li pellegrini.
La fondazione di questo Ospitale ci resta ignota, mentre in addietro spettava alla Mensa d’Imola. A memoria più antica non abbiamo qui da rifferire se non che Eugenio III in una sua Bolla diretta a Ridolfo vescovo d’Imola conferma la somessione di questo ospitale e della chiesa parochiale di Alborro Castello sotto l’invocazione di S. Paolo, soggetta alla giurisdizione del vescovo di Imola, segnata l’anno 1151, riportata dal Manzoni nella sua Storia de Vescovi imolesi in questi termini: Sub ditione Eclesie imolensis confirmamus Capellam S. Pauli in Castro Alborji et Hospitale S. Jacobi in Silaro.
Essendo già stato eletto per Rettore della Romagna Guglielmo Durante vescovo milanese e sforzandosi questi l’anno 1296 comporla in pace, Azo d’Este Marchese di Ferara pose in isconpilio il tutto per dispareri avuti da bolognesi, imperciochè radunati li principali di Romagna, cioè Ravennati, Riminesi, Bertinoresi, Forlivesi, Cesenati e Faentini e li fazionari Lambertazzi di Bologna conchiuse con essi in Argenta li levare Imola a Bolognesi e rimettere in Bologna li fazionari.
Il Senato di ciò avvisato da Guglielmo, pressidiò Imola e Castel S. Pietro, ma il Conte Galasso di Cesena e Majnardo generale delle armi forlivesi passarono tosto sopra Imola ove, trovati li bolognesi, vennero a battaglia presso il fiume. Restarono perditori li Bolognesi e si ritirarono per ciò a Castel S. Pietro.
Il nemico furibondo per la vittoria vi venne sopra. Uguccio Salcizia, che a Castel S. Pietro era con molte genti capitano attendato fori del Castello, si unì colli altri soldati scampati dalla battaglia, prese la bocca del ponte sopra il Silaro a levante e vi si fece forte. Majnardo, conosciuta difficile la presa del Castello, salì il colle e passato il Silaro cominciò a dare il guasto ai vilaggi sotto Liano, Frassineto, Galegato per trar alla campagna Uguccio ma questi, attendendo al nostro Castello non abbandonò, mai il posto.
Fattosi perciò più ardito Majnardo venne di novo a Castel S. Pietro e calando la collina lo attaccò dalla parte superiore con tutte le forze. Bisio Musitelli ed Angelotto Pellegrini oppidani che avevano la guardia di quel quartiere lasciarono prima che il nemico si deffatigasse coll’impeto sopra alquanti uomini d’arme, che avevano mandati in aguato, tanto che potessero venirli appresso.
Così seguì, avvicinato il nemico al Castello cominciossi più calda la baruffa. Li Castellani nostri si tenevano forti da un canto e dall’altra nella parte superiore al Castello, sopra il Silaro eravi altro attacco diffeso e sostenuto da Mattia Cattani ed Enrighetto Feliciani contro delli quali non potendo far frutto Majnardo per la scomodezza del posto, con maggior ardore replico l’assalto a Bisio rompendo il palancato. Veduta la mala parte li nostri oppidani abbandonarono la ressistenza e Majnardo entrò nel Castello.
Questi fatti accaderò nell’agosto. Occupato Castel S. Pietro cominciò a depredare li circomvicini nelle robbe e bestiami, scorrendo fino a Medicina con ferro e foco, ruinando case e medali. Durò poco questa barbarie poiché i bolognesi per trarlo fori di Castel S. Pietro ritornarono a Imola per la parte bassa, ove giunti misero foco ai suburbi della città.
Ciò inteso il Majnardo ritornò alla diffesa di Imola lasciando pochi presidi al nostro Castello. Retrocedendo l’armata bolognese venne all’assalto del Borgo che tosto l’ebbe in potere. Li pressidi di Majnardo conoscendosi inferiori di forze li 23 settembre abbandonarono Castel S. Pietro e nell’abbandono ruinarono li palancati e le porte di ingresso.
Seguì in quest’anno 1296, secondo scrive il Gozadini nella sua Cronaca dei Matrimoni Nobili di Bologna, il matrimonio fra Beatrice di Riniero Cattani di Castel S. Pietro e Ridolfo di Bonacorsi Bonromei di Bologna.
Giunto l’anno 1297 il Senato spedì a codesto Castello Bonifaccio Bolognetti per visitarlo e fortificarlo. Riferì esso lo stato deplorabile in cui era e la desolazione che sovrastavalo. Spedirono per ciò 600 cavalli alla diffesa sotto la condotta di Malatestino Gozadini quale fu dichiarato Prefetto dell’armi ed ad esso consegnato il Castello.
Giunta la primavera Uguccio da Faggiola, generale dell’armi forlivesi e cesenate, messo il campo sopra le coline di Castel S. Pietro pose Varignana a sacco poi retrocedendo al nostro Borgo, scaramucciando colli cavalli del Gozzadini, tentò di impadronirsene ma sortito dal Castello Mattia Cattani co’ terrazzani e borghesani lo fecero retrocedere.
il Senato vedendo andare le cose di male in peggio, spedì le Tribù del Popolo al nostro Castello con gran quantità di fanti e cavalli e vi accamparono attorno. Ciò inteso Uguccio passò arditamente con 200 cavalli al Silaro. Appostossì di là dal ponte presso S. Giacomo, unitosi a molti fanti cesenati, dispose la sua armata in tre corni, poi mandò un araldo ad intimare la battaglia ai bolognesi che erano in Castello, conoscendo questi la bravaria forte nell’armi e per non aprire il passo a nemici alla città se perdevano Castel S. Pietro, rifiutarono l’invito. Uguccio come che fosse stato vincitore , spiegando le bandiere a suon di tromba, ritornossi nella Romagna.
Allontanato Uguccio, nel mese di giugno li nostri passarono a scorrere l’imolese. Li soldati forlivesi si rivolsero a farvi fronte assieme ai faentini, ce lo annunzia il Tonduzzi ed il Catinello cosi: Die 18 junjo equitaverunt milites et Populi Faventie ad civitatem Imole quia bononienses venerunt versus imolam ad faciendum guastum.
Li bolognesi poscia si ritirarono ed il Senato li 25 giugno ordinò novi custodi a Castel S. Pietro, constituendovi Generale de cavalli Pietro Basciacomati e Leonello Brochi per Generale de fanti. Fu accomodato il Castello e Borgo dove si piantarono una rocca consistente in una torre rotonda a fianco dell’ingresso a levante, ove di presente avvi una comoda locanda detta: Il Portone, poscia fu consegnata questa in custodia a Princivalle di Giacobello Ghirardacci.
Nel med. Borgo, per comodo delli abitanti, vi fu cavata una fonte pubblica o sia pozzo nel mezzo della strada ove ora è la chiesa della SS: Annunziata esternamente alla parete che guarda il Castello, la quale fonte fu chiusa nel 1620 per evitare li chiassi che disturbavano li ministri del culto, esercenti li divini uffici nella med. chiesa, l’origine della quale riferirassi alla sua epoca. La fonte fu scoperta pochi anni sono all’occasione di seliciarsi nel 1775 il Borgo e poi fu interita.
Oltre li lavori accennati fu anco rincavata la fossa attorno al Castello sino a quella del Borgo, dentro lo stesso Castello in alquanti luoghi furono pure cavate altre fonti delle quali ne sono alla vista ed uso comune parechi cioè nella piazza Liana, nella piazza Framella presso il convento di S. Francesco e nella via a ponente presso le mura ed inerente alle case già de’ Morelli, dove esisteva la Rocca grande del Castello edificata in questi tempi, della quale altro ora non si vede che un rotondo ben forte maschio a fianco di un tronco di torre, li altri pozzi sono stati parte coperti dalle vicine padronanze e parte interiti.
La semetria ad il fabbricato de med. e di quelli che ora si vedono è uniforme, formando un mezzo circolo unito ad un parapetto retto e la camicia interna è tutta di pietre in piano a diversità dalli altri pozzi moderni che sono di pietra in coltello. Fu accomodato altresì il chiostro avvanti la torre maggiore.
Li ghibellini imolesi, vedendo ben guarnito Castel S. Pietro, si voltarono alla pianura sotto strada, drizzarono la loro milizia, secondo scrive il Cantinello, li 3 lulio a danni di Castel S. Polo, castellare in noi distante un miglio all’incirca, ove uccise cinque persone. Prosseguirono le loro scorerie nel contado inferiore alla via romana.
Venuto tale avviso a Castel S. Pietro, li Cattani si levarono a rumore ed uniti alli Zopi, Pelegrini, Campana, Fabri, Feliciani e Ghirardacci borghesani sollecitarono li presidi del Castello e congiungendosi colle genti di Pietro Basciaco (….) che aveva 400 cavalli di guardia in Castel S. Pietro, andarono tosto ad incontrarli a Idice.
Venuti alle mani furono respinti li nostri, come riferisce il Cantinello: Item eodem anno milites de Imola cum Lambertatiis ibi commorantibus numero 200, equitaverunt versus castrum S. Pauli die 3 juli ad daninifican. quosdam homines qui secabant in pratis et equites qui ad eorum custodia fuerunt deputati et ipsos universos insultarunt virilit. et in fugam verterunt, ocidentes quinque (..) duos equos capientes et in eorum reddito rumor insortuit in Castro S. Petri ubi erant maxenates comunis Bononie in N. 400 equitum, qui stabant occurrerunt Lambertatiis et dum fuerunt al flumen Idicis subtus stratam obviverunt eis et habito prelio in fugam verterunt bononienses.
Per la qual cosa il Senato di Bologna pensò ad assicurare meglio Castel S. Pietro col deputarvi due novi capitani uno nobile, che fu Angelotto Ucelletti per la cavalleria e l’altro populare per la fantaria che fu Uguccio Salcizia. Avuti questi la carica marciarono tosto a Castel S. Pietro e li 20 ottobre si posero in guardia al Borgo e Castello.
In questo tempo Pelegrina di Pagliarino Accarisi di Bologna si collocò con Egidio di Giberto Cattani di Castel S. Pietro, tanto ci riferisce il Gozadini nella sua Cronaca dei Matrimoni Nobili di Bologna. Ne esultò molto il nostro Castello per tale illustre parentela onde averne in seguito favori.
Pressidiato appena Castel S. Pietro col suo Borgo l’anno seguente 1298 nel mese di maggio Uguccio Faggiola e Majnardo tornarono di Romagna ad infestare nel vicinato. Aggiunse perciò il Senato altre bande di soldati a piedi ed a cavallo per rinforzo dell’Ucelletti e Salcizia. Il rinforzo pose il campo sotto strada al Borgo nella pianura attendendo quivi alla scoperta il nemico. Avvisati di ciò il Majnardo e Faggiola evitarono l’accampamento, ascesero la collina lungo il Silaro sopra il Castello, poi approssimandosi al medesimo presero la costa del fiume per dargliene, con vantaggio sopra l’eminenza, l’assalto. Se ne accorsero li Castellani e senza perder tempo, veduto l’inimico approssimarsi, sortirono dal Castello in due truppe, una di castellani condotta da Dondidio Fabbri uomo audace unito alli Cattani, Zogoli, Rinieri, Musitelli, Ghirardi, Toschi ed altri andarono dalla parte superiore, per quanto ci lasciò descritto il P. Gio. Lorenzo Vanti.
L’altra truppa bolognese poi di presidio, sortita dalla parte della rocca sotto la condotta del Salcizia, si inoltrò ancor essa per la via di Viara o sia Cupa, che tale veramente si può dire mentre poco vi si vede il sole. Distribuitisi così le genti nostre, cominciò Manghinardo dall’alveo del Silaro avvanzarsi per affrontare li nostri.
Il Salcizia che caminava coperto nella profondità della via sudd. aspettò sentire l’attacco, quale inteso salì sopra la vicina pianura ed attaccò ancor esso il nemico con vantaggio per la situazione de suoi armati. Si fece più che ardente la baruffa con effusione di sangue dall’una e dall’altra parte. Per molto tempo non si distinse per chi stesse la vittoria. Angelotto Ucelletti avvisato accorse in ajuto de nostri. Il Faggiola, che era nella collina superiore, calò furiosamente colle sue genti per ajutare Majnardo, ma l’Ucelletti le tagliò la strada in guisa che, non potendo superare le forze del Fagiola, si voltò verso Liano inseguito bon tratto di strada finchè potette imboscarsi.
Fintanto che si facevano queste cose da un canto, dall’altro proseguivano a battersi li castellani col nemico con ferocia tale e costanza che se non sopragiungeva la notte, come scrive il Ghirardacci ed altri storici, si distruggevano affatto. In questa pugna ebbero la peggio li romagnoli e li nostri carichi di preda e spoglio, che fra loro fu diviso, ritornarono vittoriosi in Castello. Di questa zuffa ne fa singolar menzione il Gherardo Ghirardacci ancora, ma laconicamente.
Questa baruffa, seguita in d. pendice di terreno fronteggiante il Silaro sopra il Castello nella via che porta alla fonte della Fegatella ne riportò il nome glorioso che tuttora ritiene del : Campo della Baruffa. Lo spolio ricco che vi si fece da nostri diviso fra loro, introdusse in appresso nel paese il proverbio vulgare che tutto oggi corre per bocca di questi nazionali quando vogliono esprimere una cosa di gran pregio in proporzione di un’altra : “Non dare la mia parte per quella della Baruffa”.
Fecero altresì li nostri paesani molti prigioni in questo fatto riguardevoli per grado e condizione fra quali fuvi il Conte Ghinoro di Semito capital nemico d’Azo d’Este.
Diede questa battuta, vinta dai nostri castellani, ne romagnoli forte motivo che si cominciò a trattare di pace, onde li 2 agosto furono dal Senato deputati al parlamento da farsi in Castel S. Pietro Lambertino Lupari, Ubaldino Malavolta, Gulielmo di Cambio Bonetti, Comazzo Gallucci, Giovanni Basciacomatri e Gulielmo Guidozagni. Intanto si mandarono al nostro Castello due balestre grosse oltre le altre picole e più dieci militari scelti colle lancie lunghe dodici piedi.
Li romagnoli, che avevano a petto la sconfitta avuta nella baruffa a Castel S. Pietro, non potevano astenersi dalle scorrerie nelle vicine campagne provocando ancora li castellani fino sotto il Borgo a cui rispondevano bravamente li paesani. Convenne perciò accrescere truppa a questo loco, vi furono per ciò aggiunti 200 cavalli, cento de quali stavano di qua dall’Idice fermi per socorrere Castel S. Pietro al bisogno e 100 furono destinati stare di là dal Silaro a pattugliare per difesa di contrade e castelli vicini.
Siccome poi Castel S. Pietro con Borgonovo, avendo nelle guerre passate colli altri luoghi vicini patito danni avendo perciò lasciato anco inculti e deserti li terreni, ad ogetto però di darle un qualche ristoro, il Senato di Bologna, comiserando la sorte di questo paese e per avvalorare il coraggio, nel di 4 marzo 1299 decretò che fosse esente dalle colette de soldati, estimo, fumo ed altre gravezze eccetto il dazio del pane e vino. Questa esenzione si estese ancora ai nostri borghesani, lianesi ed alle altre castella vicine di Galegata, Bisano, Sasuno, Montecalderaro e Castel S. Polo.
Giovanni Savelli vescovo di Bologna, vedendo la città e contado andare di male in peggio, maneggiandosi per ultimare la pace fra bolognesi e romagnoli ancor esso, infrapose F. Agnello priore dell’Ordine de Predicatori di Bologna. Lo spedì poscia ad interpellarne i capi nella Romagna, adoprossi tanto che mosse le parti venirne alla conclusione. Scrisse in seguito al Senato che ne accettò il partito.
In oggetto decretossi che il Pretore si portasse assieme colli ambasciatori a Castel S. Pietro, luogo di comune approvazione eletto per tale pace. Fatto questo decreto li 6 aprile ed avuto il Pretore lettere da F. Agnello circa la dilazione del parlamento fino alli 8, tosto fu ordinato che si vietasse alli uomini di Castel S. Pietro e Borgo che per fino a tutti li 12 d. non dovessero molestare la parte nemica.
Ad Enrighetto Feliciani fu imposto ciò particolarmente, ingiungendole di scrivere in questi termini a F. Agnello. “ Che esso non auria né per se né per li suoi seguaci in alcun modo molestato le genti di Romagna, che nel giorno di martedì prossimo l’attendeva in Castel S. Pietro dove in tal giorno il Pretore e li ambasciatori di Bologna si sariano ritrovati per trattare la pace il mercoledì seguente, dove si dovesse trovare anco la parte di Romagna”.
Tanto adempì Enrighetto. In seguito Domenico Tolomei consiliò che si mandassero cinquanta cavalli forestieri ed altrettanti pedoni alla guardia del nostro Borgo per tutto quello potesse accadere. Alli 7 detto martedì, Ottolino da Mondello Pretore prevenne li romagnoli e giunse co deputati a Castel S. Pietro e tutti andarono in casa di Princivalle Gherardacci custode della rocca di Borgo con li Anziani Sapienti ed Ambasciatori per il Pubblico Parlamento da farsi co’ nobili di Romagna.
Il giorno seguente 8 aprile mercordì, arrivati li ambasciatori di Romagna e nobili, si unirono col Pretore e bolognesi acorsi. Convennero per ciò che siccome erano li nostri attendati nel quartiere Gaggio, vilaggio del comune di Castel S. Pietro alla pianura ed all’incontro era attendati nell’opposto quartiere di Granara li romagnoli, si eseguisse perciò il determinato parlamento in loco visto dall’uno e dall’altro campo diviso dal Silaro.
Si portarono per ciò al luogo inferiore alla via romana denominato: li Montroni e Panicale lungo il Silaro e che tuttora ritiene tal nominaglia, dove fu, come si narrò all’anno 1274, dalli partitanti Lambertazzi formata una eminente alzata di terra su la costa e labro del Silaro e posta a guisa di rottonda montagnola sulla di cui apice si vedevano così medesimanente le truppe.
Quivi asceso F. Agnello eloquentemente e con brevità spiegò quanto col mezo suo erasi fatto poi esortò ambedue la parti ad una stabile pace ed a riformare la quasi desolata Romagna. Terminato il ragionamento, Mainardo per se e suoi seguaci giurò vera pace al comune di Bologna, Ottolino ed il Conte Galasso da Montefeltro, generale dell’armi di Bologna fecero lo stesso ed ivi fu celebrato il pubblico instrumento di pace.
Nel medesimo giorno e luogo il Pretore, anziani e sapienti e il d. Conte e nobili di Romagna ordinarono poscia che il parlamento generale di tutte l’altre cose si dovesse fare per il comune di Bologna, città e luoghi di Romagna di comune consenso alli 13 aprile. Frattanto gli ambasciatori e sindici dell’una e dell’altra parte dovessero ritrovarsi a Castel S. Pietro il giorno della domenica seguente, che li d. Conte e nobili di Romagna dovessero essere al castello di Doccia, di poi congregarsi ciascun giorno al luogo di Monte del Re, d’indi poscia a Doccia e Castel S. Pietro, avendo perciò li salvicondotti opportuni.
Così convenutosi dalle parti ed avvisato F. Agnello del tutto, gli anziani ed il Pretore vennero a Castel S. Pietro e di qui passarono ad Imola ove, abboccati con Zapettino e Galasso, Manghinardo o sia Majnardo Pagani ed altri, nella chiesa di S. Cassiano si tenne il parlamento generale. Il Conte Galasso confirmò di novo la pace.
Ricercò poscia il Pretore, d. nobili di Romagna, che per beneficio della pace fosse accordata Imola a Bologna per molte ragioni. Zagottino e li altri si opposero e per allora si differì la rissoluzione sopra Imola.
Li 15 d. il Pretore in Castel S. Pietro co’ suoi aderenti attendendo la rissoluzione sopra Imola, F. Agnello e F. Giacopo mandati dalli ambasciatori di Romagna riferirono che questi a niun modo volevano accordarle questa città. Poi li 16 d. li oratori di Forlì, Cesena, Faenza ed Imola vennero al nostro Borgo alla rocca custodita dal Ghirardacci accenato, ove tenevasi il consilio del Pretore, anziani e sapienti. Quindi entrato Aliotto, giudice di Forlì a nome delli ambasciatori e nobili disse che nel trattato di pace F. Agnello mai parlò d’Imola che però, per addimostrare la loro premura circa l’ultimazione della pace, proponeva una breve tregua finchè fosse deciso il fatto d’Imola.
Ciò fu tosto accordato. Il Senato di Bologna poscia li 25 d. concesse il salvacondotto alli ambasciatori di Romagna per venire alla città, indi decretò che tantosto si saria tenuto parlamento a Castel S. Pietro sopra la pace. Quindi li 28 d. li Sapienti di Credenza vennero di Bologna a Castel S. Pietro ed il dì seguente 29 scrissero a F. Agnello così: Sapientes Credentie Civitatis Bononie exiistentes apud Castrum S. Petri salutem. Noverit vestra Paternitas nos die martis 18 aprilis post nonam venisse ad Castrum S. Petri ibique sumus expectantes die hodierno D. Potestatem qui propter novum regimen, quod hodie incipit pro sex mensibus proxime futuris et propter mutationem familie impeditus, dicta die martis venire non potuit ad d. Castrum S. Petri. Quidquid autem agendum est circa parlamentum siendum, placeat vobis iluud ordinare et illud nobis rescribere. Parati enim sumus juxta vestra ordinatiionem provedere in negotio. Videtur tamen nobis quod decenter, si vobis videretur conveniens pro opportunitate negoti diligentius explicandum, quod parlametum fierat apud Castrum S. Petri. Cedet enim honori si hoc fiat D.D. Nobilium de provincia Romandiole. Declaravimus pro meliore negotio vos personaliter venire ad Castrum S. Petri die mercuri 29 aprilis 1299.
Il medesimo giorno venne Ottolino da Mondello Pretore a Castel S. Pietro quale, trovandosi in casa Prencivalle di Giacolello di Gerardo Ghirardacci colli Sapienti di Credenza, determinossi che per ultimare la pace tutti dovessero ritrovarsi a Monte del Re, se però così piacesse alla parte avversa. Il progetto fu abbracciato.
In seguito Galasso e Manghinardo e li Sapienti di Bologna si ridussero a Monte del Re e, congregati nel coro de FF. MM. del medesimo loco, quivi il Giudice di Forlì a nome de Nobili ed altri ambasciatori di Romagna pronunciò che Imola non si poteva dare in mano de bolognesi perché interdetta e di molte altre cose processata, libera poi che fosse si sarebbe grata deliberazione ai bolognesi e che intanto si concludesse la pace.
Ciò detto restò il tutto per allora sospeso ed ognuno se ne ritornò a propri allogiamenti. Non si comprende come un inscrittografo abbia avuto il coraggio di apporre in una lapide a Monte del Re la pace ivi conchiusa, quando che rimanevano ancora condizioni ed articoli da purificarsi, se poscia
la divisata pace seguì nel venturo maggio il dì 4 a Croce pellegrina nel comune di Castel S. Pietro distante quasi un miglio ove avvi un oratorio dedicato a M. SS. Addolorata e l’instrumento di pace seguì in questo loco. Non ostante noi apponiamo la inscrizione nella quale ivi si legge , acciò il lettore sia di tutto a giorno.
D. O. M.
In hac Minorum Aede
inter Bononienses ex una parte
Imolenses vero, Faventinos, Cesenates
ac Forolivienses ex altera
Presidentibus hinc inde legatis
Pax et Concordia
restituta est
die mercuri 29 aprilis 1299
Sembra dovesse egli scrivere incohata est oppure preparata est, invece di restituta est.
Appianate tutte le differenze vennero ambo le parti il giorno quarto di maggio al divisato loco di Croce pellegrina. Viene questo luogo così detto a motivo che li pellegrini, prima di inoltrarsi e riceversi nell’Ospitale di S. Giacomo sopra il Silaro presso il ponte, fermavansi ivi per essere visitati poiché in questi tempi gelosamente si introducevano genti straniere, di qual condizione si fossero, nei luoghi abitati, si per la salubrità, che per evitare li tradimenti ed insurezioni di popolo non meno che per riconoscere se erano esploratori ed emissari.
Questo luogo in appresso essendovi una imagine di M. SS. Addolorata, prese il nome di Madonna del Cozzo dal cognome del proprietario detto Cozzamonte e per nome Fredo invece di Odofredo. La medesima nominalia di Pellegrina si estese anco al vicinato e tutt’ora conservasi sopra la fronteggiante possessione di ragione delli fratelli Paolo e Luigi Farnè, arciprete di Varignana ma nazionale di Castel S. Pietro, uomo questo pio altrettanto dotto, chiamato da quella populazione alla cura delle anime.
Giunto Ottolino Pretore a Croce pellegrina riferì qual fosse l’animo del parlamento, popolo e comune di Bologna per la consegna d’Imola. Doppo amorevole ragionamento li sindici dell’una e dell’altra parte si bacciarono assieme e poscia fu celebrato il solenne instrumento di pace il quale noi tralasciamo mentre trovasi stampato nella storia del Ghirardacci P. I fol. 397 ad 399.
A questo proposito il nostro Giovanni Morelli, poeta latino ne scrisse il seguente epigrama che trovasi stampato con altre sue poesie latine per il Bonardi in Bologna
Fessa ghibellinum perferre Bononia bellum
finibus his nostris federa pacis avet
qui populos urbemque rapit committitur histuc
praetor ut optatam jungat amicitiam
advenit, et nectit partes in foedera frater
Angelus, et primus conciliatur amor
nunc stemat insanus, rabidusque exsaniat estus
undique composita pace, quiescit ager.
Fatta dunque la pace li 4 maggio in giorno di lunedì, si fece grandissima festa e li ottimati di Bologna vennero tostamente a renderne le dovute grazie al Signore nella nostra parocchiale di Castel S. Pietro. ll martedì seguente poi, giorno 5 di maggio, il Pretore colli Anziani e Sapienti ritornarono a cavallo a Croce pellegrina ed entrati nel prato inferiore della Pellegrina di Fredo Cozzamonte, si schierarono quivi colle genti a cavallo aspettando li nobili e ambasciatori di Romagna che venissero a pranzo al Borgo.
Mentre questi indugiavano, Ottolino propose alli Anziani e Sapienti cosa doveva farsi intorno alle rappresaglie di Romagna e per quanto tempo si dovesse aspettare e sospenderle coll’indicare che chi stendesse la mano ed il braccio sull’arcione del cavallo fosse negativo. Posto dunque il partito sopra la sospensione per un quinquennio avvenire, riescì ottenuto affirmativo. Appena ciò fatto cominciarono a comparire gli invitati. Ottolino e compagni cortesemente li incontrarono e con grande onore li condussero al preparato Ospizio e si passò tutto il giorno in letizia. Fredo Cossamonte poi per rendere memorabile il suo fondo per la pace ivi compiuta fece ristorare la Croce e riddurla ad una picola celetta dedicata alla Vergine del pianto.
Trovandosi le cose di Bologna a bon grado ordinò il Senato che si levassero molte spese. Levò per ciò la Guardia e li Contestabili delle castella, ordinò che le castella tutte fossero consegnate ai massari e uomini delle med. purchè fossero dalla parte guelfa, con ordine che le fortificazioni e roche fossero conservate nel suo essere. Quali fossero li Massari di Castel S. Pietro e Borgo per essere defficiente l’archivio comunitativo di documenti ed atti di questo tempo non è possibile indicarli.
Finalmente li 24 dicembre il senato per pubblico bando sotto pene arbitrarie comandò a molti nobili cittadini, che colle loro familie e robbe per le guerre passate erano spatriati, dovessero fra un mese ristabilirsi in Bologna. Partirono da Castel S. Pietro Nicola Bonacatti, Enrico di Giovanni Basciacomatri, Adreuccio Cacciati, Enrico Muccia, Ricobono Visconti, TomasoUbaldini, dott di legge, Bartolomeo di Bonaventura Spiolari, Lamberto Chiari e molti altri e così terminò l’anno 1299.
L’anno seguente poi del Parto della Vergine 1300, cominciandosi ad assaggiare il dolce della pace, Bonifacio VIII, che reggeva saggiamente la chiesa, lusingandosi di una tranquillità perfetta, consacrollo alla pietà e divozione. Instituì il Giubileo, ma la discordia vi si oppose, imperciochè Azo d’Este Marchese di Ferrara, che non aveva animo di servare li patti di pace co’ bolognesi, cominciò a trattare con alcuni popolari di Bologna per isconvolgerla, si accordò con altri della Romagna per darle l’ultima rovina.
Avvisato il Governo per ovviare ad ogni disordine verso li confini di Romagna, spedì tosto Pietrobono Graffi a provedere di vettovaglia Castel S. Pietro ed a fortificarlo, come di fatti fece dare
tostamente mano alli ripari delle porte della Rocca e della torre e remontare li palancati ove abbisognavano. Indi mandò il Senato nel febbraro Giovanni de Bonpietri con venti soldati al vicino Borgonovo e Pietro Pegolotti con altri quaranta soldati al Castello poscia ordinò a castellani stare pronti alle ostilità incominciate dal vicino nemico.
Per questo motivo ancora ritornò questo luogo e passò al medesimo disordine che era al tempo della sua edificazione se non a peggio comettendosi molti mali e misfatti da fazionari e facinorose persone. Per la qual cosa, volendosi maggiormente assicurare questo luogo di somma importanza per essere la frontiera della Romagna, il Parlamento generale di Bologna fece tosto arginare il Borgo e chiudere li passi che potevano inserirle aggressioni senza contrasto, ciò fatto assodolle il nome di Borgonovo.
Consisteva prima questa Terra in una linea di case sopra la via consolare dalla parte del meridio, la qual linea era intersecata da una strada retta introducente al Castello, come tutt’ora si vede. Aveva due porte o siano ingressi l’uno a mattina, respiciente la Romagna e l’altra a ponente respiciente Bologna. Erano entrambe le porte fabbricate obbliquamente all’uso di questi tempi per maggiore fortezza.
La porta a levante che tuttavia esiste e chiamasi il Portone, di semetria gotica, aveva alla destra dell’ingresso un rotondo baloardo che fu già chiamato Rocca del Borgo, come riscontrasi da vestigi di antichi fabbricati. L’altra porta opposta era pure edificata obliquamente e di essa non avvi alcun vestigio, se non la positura del fabbricato che congiungevasi alla porta ove dappoi Ghino di Giai di questo luogo vi fabbricò una grande e comoda osteria coll’insegna del Montone, il qual fabbricato esistendo in faccia all’abitato detto: il Ghetto, ove abitavano li Giudei, ritiene tanto quell’edificio vasto quanto questo la stessa denominazione.
Fu rincarata la fossa che la circondava, la quale pria era stata fatta fino dal 1293, come si scrisse secondo la provisione fatta li 25 giugno di quell’epoca, e riceveva le aque superiori della Viola del lupo e traversando la via romana andava a congiungersi al circuito dell’acenato baloardo, come riscontrasi dalla misura delli antichi instrumenti. Tanto ciò è vero quantoché le vicine possidenze inferiori del casino Graffi chiamavasi: la Fossa, ne publici rogiti e cattasti ed al di intorno della quale vi era una siepe di travicelli acuminati che formavanle il recinto.
Di questa cerchia o fossa non abbiamo altro vestigio che il corso dell’aque che, sottopassando la via romana dalla parte di ponente, si rivoltano al disotto del fabbricato Gini fino alla profanata chiesa di S. Carlo, costeggiante la via di Medicina. Rimpetto a quella, fabbricandovi Carl’Antonio Giorgi un edificio ad uso di molino da olio, nel profondare li fondamenti ed il pozzo, si ritrovarono alcuni delli travicelli ben conservati e posti in regola.
Le familie principali che abitavano nel Borgo erano queste che abbiamo in publici documenti ritrovato cioè: Puozi, Bolghelli, Righi, Tedeschi, Fucci, Scarsella, Ghirardacci, Fabbri, Ubaldini, Balioli e Magnani.
Ma perché questa terra non aveva precisati li confini né con Castel S. Pietro né con le vicine terre di Liano e Casalecchio onde alle accorenze di malefici non potevasi per ragione di giustizia riconoscere da che parte fossero commessi, ne nascevano quindi grandissime questioni fra li uomini delle accennate Comunità.
Il Senato per tanto avendo continui richiami venne in determinazione segnarne la precise confine. Elesse perciò Peregrino de Placiti, Corruccio Basciacomatri e Domenico agrimensore pubblico insieme con Ugone Borghesi notaio, li quali in seguito della visita fatta localmente, dessignarono della nova terra del Borgo le confine e così fecero con Castel S. Pietro e nominate Comunità, come ne appare nella Provisione e Decreto del quale ne riportiamo quivi quella particola soltanto che spetta al nostro Castello e Borgo per essere assai lungo il documento che in forma autentica presso noi esiste cioè: Curia Castri S. Petri dessignata, terminata data et pronuntiata fuit esse in.cto modo et forma vid. quod omnes possessiones quae sunt versus terram p.tam Castri S. Petri incipiendo supra statam majorem, juxsta riolum qui vocatur riolus de Puzuolo inter Curiam illorum de Burgo novo positus eundo super stata versus parte montaneas usque ad terminationem et designationem factam et usque ad viam de Ronchopoli iuxta possessiones Boragarelli Ubaldini de Burgonovo pro curia illorum de Burgonovo eundo per viam predictam usque ad viam de colina et per viam de colina usque ad Columbariam facta per Faciolum de Cataneis de Castro S. Petri super possessiones quae sunt consueverant esse Monasterii S. Pauli de Ymola capiendo dicta possessiones eundo inferius versus flumen Selaris capiendo omnes possessiones quae sunt versus terram Castri S. Petri, juxsta nemus illorum de Butrighellis eundo inferius usque ad viam pubblicam de Viaro, iuxsta quam est posita domus Jacobi Schifati versus Selarum eundo eundo per decta viam a latere desustus versus Selarum usque ad flumen Selarus quae vocatur Via de >viaro. Item omnes posessseiones quae sunt subus stratam ultra d. riolum versus Castrum S. Petri a latere mane usque ad curiam illorum de terra Castri S. Pauli, exstra posessseiones dessignatas et terminatas pro Curia Terrae Burgi novi. (…) dessignaverunt, terminaverunt, dexerunt, pronuntiaverunt, declaverunt et mandarunt esse in curia per Curia et de Curia Castri S. Petri omnes terram possesiones , ..ltas et incultas, prativas, vigras, bedustas, boschivas, silvas, ..deles montes et valles partes et aquas, riolos, flumen, flumixellos, aque.., (…..) , trivia, stratas et alia loca pubblica, positas, et petita infra (..) confines ……….. cum omnibus domibus, caxamentis at aediciis eclesiis sive hospitalibus posistis et aedificatis in d. terra et Castri S. Petri et in d. d. territoris et super d. terris et possessionibus et locis positis infra d. terminos dessignatis pro curia Castri S. Petri.
A motivo poi delle passate guerre trovavasi Castel S. Pietro snervato e difficile a pagare altresì le colette imposte, per la qual cosa ne addomandarono al Governo un condegno sollievo. Fu ascoltata la petizione e nel dì 27 maggio il parlamento decretò che per quattro anni avvenire continui pagassero li uomini di Castel S. Pietro soltanto la metà delle imposizioni.
E perché pure a motivo delle stesse guerre erano stati sotratti molti beni alli ospitali e ponti del contado, statuì il parlamento in una sua rubbrica de Generalitate Pontium che si riaquistassero segnatamente li beni dell’ospitale dei SS. Giacomo e Filippo del ponte Silaro nella corte di Castel S. Pietro sopra la via romana e che l’Ospitario pro tempore o sia Rettore di d. ospitale e ponte fosse restituito in d. loco e colle rendite di d. beni mantenesse il ponte medesimo.
Due sogetti di Castel S. Pietro fiorivano in questo tempo nelle belle facoltà scientifiche cioè Giacomo di Gerardo di Bencivenne Gherardi ed Albritto Mattei, il primo nell’arte medica e l’altro nella giurisprudenza, entrambi nella città di Bologna, li quali non solo per il loro carattere, ma anco per il saggio dato della loro dottrina furono promossi alla dignità di Anziani nel mese di ottobre ed investiti eseguirono le loro incombenze fino a capo dell’anno come si riscontra nelle storie patrie di Bologna.
Non ostante la sudd. provisione sulle confine di Castel S. Pietro li uomini della Terra di Borgo novo, essendo malcontenti, continuavano li clamori onde, per terminare le amarezze fra essi colli uomini del Castello, non andò guari che il Senato incorporò la terra di Borgonovo colle sue campagne nel comune di Castel S. Pietro e per la parvità dell’abitato che non era altro che una contrada sulla Emilia di pochi abitatori, non che il suo villaggio di quarantasei focolari.
Conforme leggesi nella descrizione fattansi dal cardinale Albornozio generale di S. Chiesa per ordine del pontefice Gregorio XI che alla sua epoca sarà riportata in questa racolta per quanto interessa la comune di Castel S. Pietro e suo vicariato nel 1371. Eseguita di che anco il Savioli ne fa menzione ne suoi Annali di Bologna, soggiungendo che la Villa di S. Biagio di Poggio fu aggregata ed incorporata nella comune di Castel S. Pietro, da cui si accrebbe la sua giurisdizione ed anche in seguito li nostri borghesani per essere stati sottoposti colla villa sudd., denominati ancora poggiesi, furono annessi ai consili communali ed alle altre sedute governative politico civili come in oggi costumasi dopo la venuta de francesi nel 1796 li 19 giugno.

Raccolto di Memorie Istoriche di
Castel S. Pietro
della giurisdizione di Bologna
dal 1301 al 1401
Libro secondo
Centuria seconda

Argumento della Centuria seconda

Li imolesi infestano il territorio di Castel S. Pietro, assediano il Castello, battuto e difeso dalli castellani. Vi si introducono li ghibellini. Cacciati a rumore. Triforce castello battagliato dalli uomini di Castel S. Pietro nella villa di Poggio. Loro vittoria. Romeo Pepoli cacciato da Bologna si fortifica in Castel S. Pietro. Viene attaccato, si difende bravamente con l’ajuto de castellani. Vanno li uomini di Castel S. Pietro come ausiliari in oste a Ganzanigo e lo guastano. Bologna interdetta, si trasporta lo studio pubblico colli Lettori nel Borgo. Loro permanenza colla scolaresca. Si scopre la fonte della Fegatella. Sue virtudi. Parocchiale di Castel S. Pietro dichiarata Pieve. Agostiniani introdotti in Castello. Vi formano convento. Castel S. Pietro dichiarato Podestaria di Bandiera. Comunità subordinate. Descrizione delle medesime e numerazione delle loro abitazioni per ordine papale del cardinale Albornozio. Ospitale per li viandanti in Borgo. Rumori accaduti. Atterate le vecchie fortificazioni si fanno mura nove. Varie beneficenze fatte al paese e fatti d’armi.


Governandosi Bologna in questo tempo democraticamente, entrarono nella pubblica Credenza anco li nobili del contado, questi nobili erano le famiglie magnatizie delle castella e muncipi, onde non è da farsi meraviglia se trovansi nelli Anziani e nelli altri offici della Somma del Governo abilitate familie di Budrio, Medicina, Castel S. Pietro ed altri luoghi del contado. Nell’anno portante 1301 furono in febbraro promossi alla carica delli Anziani Enrichetto Feliciani e Bartolomeo Bonacatti di Castel S. Pietro.
Azo d’Este, che male la sentiva de bolognesi, sollevò li imolesi come quelli che erano limitrofi al contado di Bologna, onde per ciò comettevano qualunque male potevano e derubbavano questi contorni né vi era cosa cattiva che non commettessero.
Il Senato per ciò di Bologna ne fece intesa Roma mediante Giacomo Gherardi di Castel S. Pietro, che nel seguente aprile fu dichiarato e spedito al pontefice per li vantaggi della città in qualità d’ambasciatore. Mentre questi operava per la città, da quest’altra parte operava presso il parlamento Albritto Mattei per la sua patria di Castel S. Pietro, affinchè nelle odierne vicende ne sortisse il minor detrimento possibile.
Operò in guisa per tanto che il Parlamento ed Anziani le assicurassero maggiormente dalle invasioni che sovrastavano. Fu quindi accomodato il ponte e la via presso il Castello, furono rinovate le fosse del Borgo ed arginato con forti ripari e così facessi al Castello, vi si aggiunsero nove guardie e munizioni da guerra all’uno ed all’altro luogo.
Ritornato da Roma Gerardo Gerardi si infirmò mortalmente, finì li suoi giorni con dispiacere universale avendo perduto la città un bon concittadino e fu sepolto in S. Francesco.
Giunto l’anno 1302, presentito il Senato di Bologna li grandi preparamenti che si facevano dalli imolesi, ordinò li 11 genaro che con fortissimi ripari si fortificasse e rinforzasse il nostro Borgo perché il Marchese di Ferrara si avvanzava a questo confine. In seguito di che dalla parte di levante si fece una alzata di terreno a guisa di monte e vi si lasciò uno stretto passo come si rileva dalle alzate di terra, tanto che vi si potessero entrare carette e fu altresì alla testa del ponte del Silaro piantato uno steccato per le milizie.
Fu indi proveduto anco il Castello di vettovaglie, munizioni e foraggi. Oltre la consueta milizia vi furono aggiunti quattrocento cavalli. La Roca grande del Castello ed il Cassaro furono contemporaneamente ristorati e fortificati da ogni canto. Alberto Ghirardacci ne era il custode ed in cotal guisa fu assicurato questo loco.
Mentre stavasi in questa diffesa il Marchese si era avvicinato alle confina di Massa lombarda onde, volendo anco da questa parte assicurarsi, il Parlamento ordinò che fosse soccorso quel paese di valorosi militari, onde vi fu spedito tostamente truppa sotto la condotta di Matteo Zambonini di Castel S. Pietro. Vi cavalcarono con esso molti di questo Castello e furono Sante Lamprini, Bertolino Guiduzzi, Superbo Giacomelli, Giovanni Ridolfi, Cecco Rolanduzzi, Mattiolo Bertoli, Gerardo Sussuli ed altri li quali militavano a proprie spese come volontari onde poi il Senato li rimunerò a guerra finita.
Mentre si facevano tutte queste cose l’anno seguente 1303 mancò Bonifacio VIII. Una tal morte fece più largo campo alli imolesi nemici. Questi all’entrar di maggio cominciarono le ostilità, imperciocchè nelle memorie della familia Mondini, proprietaria dell’oratorio di S. Giacomo e Filippo presso il ponte sopra il Silaro, riferiscono che una masnada di imolesi il giorno primo maggio, col pretesto di venire alla festa che facevasi al d. oratorio, quando furono quivi il doppo pranzo assalirono donne e fanciulli spogliandoli di quel che potetero onde ne naque non picolo rumore in guisa che li uomini del Borgo li inseguirono fino a Croce pelegrina, ma senza frutto.
Eletto pontefice Nicola da Treviso dell’ordine de predicatori col nome di Benedetto X che fu poi detto undecimo, godette egli poi poco il pontificato poiché doppo il governo di otto mesi nell’aprile 1304 morì avvelenato in Perugia.
Li imolesi, sempre più spalleggiati dall’estense, scorrevano ora la nostra pianura ora la collina e si avvanzavano fino presso il nostro Castello cimentando li abitanti del Borgo. Il Parlamento di Bologna, avvisato di sì frequenti provoche ed aggressioni alle persone, nel dì 14 decembre accrebbe la forza del Borgo e Castello con uno staccamento di 100 militari, poi alla Rocca del Castello vi fece fare un corridore di legno per potere da quella passare sopra le mura da un canto all’altro.
Si deduce da questa provisione che la Rocca era un corpo separato dalla mura del Castello, a diversità di quello che ora si vede nelli avvanzi della med. in un baloardo rottondo congiunto alla porta della torre verso ponente, che è ormai demolito.
Fu altresì fortificata la med. Roca esternamente mediante bastioni ed alzati di terra. Era così diffeso il nostro Castello non solo perché era chiave del contado dalla parte di Romagna, ma perché aveva ancora nella città nazionali che, interessati nel governo, avevano a cuore la loro patria, le loro sostanze e congiunti che quivi soggiornavano. Oltre li sogetti accennati fioriva vieppiù d’anno in anno il nostro Castello ed erano conosciuti e riconosciuti li individui del med. meritevoli nella capitale.
O fortunati tempi non solo per Castel S. Pietro, ma anco per le altre castella del contado che spronati da un giusto premio alle loro operazioni ne riportavano una condegna riconoscenza.
Scrive l’Alidosio, nel suo trattato de Cavalieri, che l’anno presente la familia Cattanei di Castel S. Pietro si rese vieppiù chiara nella persona di F. Michele di Riniero Cattani. Questi passò all’ordine de Frati della Milizia della B. V. in cui sostenne le cariche primarie del suo instituto decorosamente. Li componenti la med. altri erano claustrali ed altri conjugati. Li primi vivevano nel chiostro e li secondi fuori et andavano vestiti di bianco con croce in petto profilata d’oro con due stelle simili sopra il traverso della croce. Erano di molta autorità e reggevano la città col Pretore.
Vacata la S. Sede tredici mesi, finalmente l’anno 1305 Raimondo Goto Vescovo di Bordò li 5 giugno, vigilia delle Pentecoste doppo molta dissensione fra cardinali, fu assunto al pontificato col nome di Clemente V.
Nell’anno med. li 14 novembre fu coronato in Lione. Questi trasferì la sede pontificia in Avignone nello stesso anno. Non essendovi per ciò Pontefice in Italia, molte città della med. fomentate ed ajutate da spirito di partiti, si sollevarono.
In Bologna per ciò il partito de ghibellini detto de Lambertazzi era divenuto così torbido che, insultando il partito guelfo o sia Geremeo, accadero stragi e massacri. Il card. Legato Napulione Orsini vedendo la mala parte se ne partì a Imola. In tale contingenza, rimasta la città priva di un capo, il Consilio generale il 12 aprile 1306 elesse per capo della med. Romeo Pepoli del partito eclesiastico, tale elezione fu plaudita universalmente.
Il Legato non per questo stette colle mani in cinta essendo in Imola, quindi pubblicò scomunicata Bologna e priva di divini offici e dello Studio. Molti dottori partirono e passarono a Padova. La sede episcopale abbandonò ancor essa la città. A tali notizie il Papa non potette che dolersi e sentirsi male. Il Consilio generale perciò mandò a chiederle scusa e perdono del fatto seguito sconsideratamente. Ascoltò umanamente la scusa, perdonò il delitto e restituì lo Studio e la sede episcopale alla città.
In questa epoca così luttuosa si distingueva a Bologna Ventura Rinieri di Castel S. Pietro, Lettore di grammatica. Michele di Gerardo di Bencivenne Ghirardi medesimamente di Castel S. Pietro non fu dissimile nella virtù desunta di lui padre, imperciochè nell’anno seguente 1307 prese la laurea dottorale in Medicina e non la cedeva a suoi coevi nella professione. Bonaventura di messer Giacomo Fabbri di Castel S. Pietro, uomo scienziato nelle leggi, fu chiamato da pistojesi al loro governo per Rettore di S. Bartolomeo dal vescovo, vale a dire per Podestà e Pretore.
Cacciata la fazione Lambertaccia, non solo fori dalla città di Bologna ma anco dal contado, doppo molte risse e spargimento di sangue, cominciarono perciò li fuorusciti ad inquietare la vicina Romagna, di modo che tirarono alla loro divozione bona parte della med. occupando terre e castelli. Presero fra l’altro Doccia dalla quale giornalmente facendo sortite comettevano rubbarie nel comune di Castel S. Pietro il quale, non avendo forza sufficiente, non poteva farle ressistenza.
Il Senato, temendo anco della guerra dal nostro Castello, ordinò, giachè li nemici venivano fino al Borgo, che la milizia di Bologna venisse in oste a Doccia, dove erasi fatto capo Giacomaccio de Principi. Di fatti, seguita nell’anno presente la pace col Duca di Ferara, passò nel dì 14 settembre l’esercito con mangani e trabucche sotto quel castelletto e fu abblocato. Durò il blocco fino alli 14 ottobre, ma invano poiché le grandi e continue pioggie fecero ridurre la truppa a Castel S. Pietro.
Galvano di messer Riniero Rinieri di Castel S. Pietro fu fatto dottore di grammatica in Bologna e non fu dissimile nella virtù al denominato Bonaventura di lui germano.
Cessata poi la pioggia passò la truppa ed esercito bolognese alla volta d’Imola, arrivati a Croce coperta, sortiti li imolesi dalla città, si venne alla baruffa. Li imolesi furono battuti e fatti molti prigioni che furono tostamente condotti a Castel S. Pietro.
Ricordevoli poi li imolesi, collegati co’ forusciti ghibellini, di questo fatto, l’anno seguente 1308 cominciarono a scorrer fino alla Toscanella poi nel nostro comune. Li villani, non potendo coltivare le campagne con quiete per che andavano scaramucciando di quando in quando con quelli e con poco costrutto, ricorsero al Senato il quale, ritardando la provista a tanto disordine, si fecero perciò li nemici più coraggiosi e incendiavano ancora le case.
Alla perfine si innoltrarono tanto che nell’anno seguente 1309 si impadronirono di Triforce, castelletto nel nostro comune nella villa di Poggio. Erano capi di questa truppa fazionaria Daniello Rizaldini e Ridolfino Saldadieri. Ivi fattisi forti colla presa ancora del vicino castelleto denominato Triforceto, non vi era male che non comettessero.
Avvisato il Senato mandò tostamente, conforme scrive il Ghirardacci, li soldati della tribù di porta Stiera, secondo scrive il Vizani, li cavalli di tre quartieri con alcuni fanti sotto la condotta di Biancolino Zovenzoni alla volta di Castel S. Pietro ed indi passarono a Trifolce dove Ridolfino Soldadieri bandito si teneva forte e travagliava queste contrade fino a Castel S. Pietro facendo preda di buoi ed altri animali, pigliando uomini e donne indistintamente. Il quale, intendendo la venuta di Biancolino, si fece co’ suoi seguaci animoso aspettando li suoi nemici li quali, ordinatamente andando ad affrontarlo, vennero all’armi insieme a Poggio ove ora è la chiesa della Madonna.
Durò la mischia circa tre ore con molta effusione di sangue. Mentre seguiva questa baruffa, Riobaldo e Mattioso Catanei da Castel S. Pietro con altri suoi aderenti, tenendo la via di Castel S. Polo verso Triforceto, attacò ancor egli co’ suoi seguaci e villani malcontenti il nemico. Così che battuto da un canto all’altro prevalendo il Zovenzoni, Ridolfino restò morto. La stessa sorte incontro Daniello Rizzaldini di Castel Franco con molti altri congiunti a Ridolfino che furono fatti prigioni. Li corpi di Ridolfino e Daniello furono appicati alli arbori e pochi si salvarono che fuggirono nella vicina Romagna.
Liberato Triforce e Triforceto da questa parte, pensò il Consilio assicurare da altra parte quelle castella e roche che erano in più pericolo. Spedì perciò Giacopo Ghirardaccio di Castel S. Pietro uomo franco al maneggio delle armi e che aveva dato saggio di sua persona a Roca Corneta in qualità di capitano.
Desiderava Enrico VII imperatore già eletto di coronarsi in Italia, a tale effetto spedì ambasciatori a Clemente Papa V acciò le concedesse l’entrata in Italia. Corrispose il Papa alla domanda e promise che fra tre anni avrebbe avuto l’intento. Ma Enrico voglioso di compiere il suo dissegno non apettò nemeno l’anno secondo che preventivamente nell’anno primo venne in Italia.
Al Pontefice, non solo ma ad ogni nazione italiana, ciò spiaque non sapendo le di lui mire. Li bolognesi pure, sospettosi di novità, fortificarono tutte le loro castella, massime quelle di frontiera e di maggior importanza. Imperciochè li cinque Sapienti, eletti per ciascuna tribù o siano quartieri della città, cosa uscita in questi tempi, determinarono 16 agosto 1310 che Castel S. Pietro e la torre fosse guardata da un capitano e 12 soldati. In seguito per ciò fu il nostro Castello consegnato a Rizzardo Linetto ed il Borgo alli Cattanei e massari del Castello.
Questa è la prima sanzione che troviamo scritta nella storia colla quale vediamo sottoposto al Castello nostro il Borgo il quale per l’avanti faceva Terra e da se governo.
Li uomini di Fiagnano, Corvara, Bello ed altre comunità superiori dalla parte di Romagna erano devenuti così temerari che non vi era maleficio che nol commettessero si per essere del comitato d’Imola che per essere la situazione delle loro castella difficile a battersi.
Avuti richiami il Senato proibì l’anno veniente 1311 tutti li mercati soliti farsi a Liano, Frassineto, Galegato ed altri perché questi mercati servivano di occasione alle risse, stragi e massacri che perpetravano li fazionarii. Solamente permise che li mercati si facessero due volte il mese a Montevellio, Pianoro ed a Castel S. Pietro come luoghi più mercantili per la situazione e loro natura a proposito per il comercio della città e contado.
Enrico intanto da Avignone passò l’anno seguente a Roma dove nel mese di lulio 1312 nella chiesa lateranense fu coronato della corona d’oro e titolo imperiale, ma poco lo gustò poiché l’anno seguente infirmato di febbre morì li 23 agosto a Benevento ed in Pisa fu sepolto.
Riobaldo di Battista di Roberto Cattanei di Castel S. Pietro nell’anno presente sposò Gioanna di Tomaso Beccadelli.
Attesa la morte di Enrico l’anno scorso fu nel dì 25 ottobre eletto Re de Romani Lodovico Duca di Baviera da cinque elettori ed il restante elesse Federico Duca di Austria, li quali per gran tempo contesero ma alla fine rimase Federico.
Li bolognesi, che in questo tempo avevano la guerra co’ modenesi, non ammettevano però le guarnigioni alle confina di Romagna temendo diversioni d’armi da questo canto. Oltre le provisioni di viveri ordinarono a Rizzardo Linetto che raddoppiasse le guardie a queste campagne.
Intanto giunto l’anno 1314, li 20 aprile Clemente V, partito d’Avvignone per Burdagalla sopra il Rodano, infirmatosi a Roca Maula morì doppo avere retto otto anni e dieci mesi la Chiesa romana in Francia.
Vacò la S. Sede per tutto l’anno veniente 1315, anno che fu carestioso a motivo delle grandi locuste che nel territorio avevano divorati li seminati nella massima parte ed in quei luoghi, che non erano state cacciate mediante il segno di S. Croce, fu la raccolta mediocre.
In quest’anno Galvano Rinieri di Castel S. Pietro, dottor grammatico cominciò a dare pubblico saggio della sua dottrina in Bologna. Nel successivo agosto poi 1316 fu eletto papa Giacopo di Caors città metropoli di Caus dove rissiedevano li antichi Cadurci. Fu nominato Giovanni XXII. Questi fu il secondo papa che continuò la sede apostolica in Avignone. Patì molte ingiurie nel scisma di Lodovico Bavaro da lui scomunicato.
Il Senato di Bologna, che pure dessiderava ordinare il governo delle fortezze e castella del contado, determinò assegnarle alla custodia delle Società dell’Arme e dell’Arti del Popolo onde l’anno 1317 assegnò alla Società delle Traverse e de Fabbri Castel S. Pietro.
Marsilio di messer Gerardo Gerardi di Castel S. Pietro esendosi stabilito in Bologna esercitava quivi lodevolmente l’arte medica l’anno 1318, conforme scrive l’Alidosio.
Eransi fatti tanto potenti li ghibellini per lo loro continue stragi e ruberie in ogni loco e molto più nel nostro comune di Castel S. Pietro per essere di confina e situato inferiormente a folte boscaglie ove si facevano maleficii.
Furono per ciò per rubberie e stragi banditi in questo tempo li seguenti sogetti di Castel S. Pietro cioè Pellegrino Ghiberti, Margarita di Domenico Toschi, Sante Marganelli, Ghillino Tecasacchi, Giacomo Risso, Filippo Zesso, Zanello Zani, Michele di Guidone Fichi detto Bandella, Balduccio Leali, Guido di Guidone detto Vinea(Lib. Malef. estratto dai MM. SS. del Conte Carati).
Irato il Papa dalli continui richiami li scomunicò tutti. Pensarono perciò essi farsi un capo, tanto fu poiché tosto elessero in loro generale Cane della Scala, detto volgarmente poi lo Scaligero veronese, uomo di grande capacità e talento. Gli forlivesi spaventati da questi rumori novi e defatigati più di tutti dalla fazione ghibellina, chiesero socorso al Re Roberto di Sicilia.
Quantunque Benedetto Fabbri di Castel S. Pietro fosse stato della fazione Lambertazza, dopo avere dato segni dell’abbandono a questa e prove co’ fatti fu, per decreto del Consilio, come uomo capace al maneggio del Governo rimesso alla facoltà di essere delli Anziani Consoli, come erano li altri boni cittadini.
Ricevute le suppliche de forlivesi il Re di Sicilia spedì nel venturo decembre 1319 col suo siniscalco Guido Scarpetta a Forlì ove, da quelli eletto per capitano, in breve tempo cacciolli di Romagna.
Per queste continue novità che si agitavano in Italia il Papa col d. Re fecero molti Concilii per totalmente reprimere la fazione ghibellina fulminandole scomuniche. Ma perché le armi spirituali non si attendevano, si voltarono il Papa ed il Re alle armi temporali ed alla forza umana. Quindi coll’ajuto del Re di Francia , sotto il governo del Conte di Rosè, di Bernardo da Margaglio e Filippo Valesio, entrati in Italia con truppe l’anno seguente 1320, intrapresero nel mese di giugno la difesa de guelfi mettendo a fil di spada questi ghibellini che si trovavano nella Romagna ed in altri luoghi incendiando ancora li loro domicilii.
Furono altresi contumaci di giustizia e banditi nello stesso anno 1320 fino al principio dell’entrante lulio li seguenti sogetti di Castel S. Pietro, come si ripete dal Lib. de Maleficii presso il caval. Carati, cioè: Francesco di Guidone Galliani, Riccardina moglie di Checho di Guidone, Gabrielle di Pagino, Caracosa di Gerardo, Bartolino di Rimirolo, Riniero di Toto Oliva, Balduzzo di Ubaldo Leali, Gazolo di Ubaldino Leali, Giacomo di Grandio Dalli Aceto, Muziolo di Besio di Alberto Dainesi, Nicolò di Zanino Ricardi, Zeccolino di Bisio Diamanti, Ligolo di Leale de Nobili, Muzzolo di Zanino Ricardi, Nicolò di Zanino Ricardi, Rainirolo di F. Alberico da Castel S. Pietro, Riniero di Pietro Rondoni e ciò per sospetto di intelligenza co’ nemici.
Il Conte di Romagna Astorre che stava alla difesa di Castel S. Pietro vedendosi poco sicuro abbandonò il Castello et andò a Budrio e Berluccino Cattani e Giovanni di Cino Zenzani abbandonarono ancor essi questa sua patria di Castel S. Pietro per tale ragione.
Il governo di Romeo Pepoli era così odiato da Ghibellini che fattisi capi di questi Beccadelli in Bologna a rumor di popolo cacciarono nel seguente giugno 1321 co’ suoi aderenti Romeo, inseguendolo fino a Castel S. Pietro. Fu tanta la furia delli insecutori, che venendo a Castel S. Pietro ad unirsi co’ malcontenti e banditi devastarono queste parti tutti li di lui raccolti.
Cacciato Romeo Pepoli con buon numero di nobili cittadini, restò la città in mano di Antusio da Munzone nel posto di Pretore. Si fece per ciò loco a nova imborsazione di Anziani. Per la tribù di Porta Stieri fu eletto Ottone da Castel S. Pietro, il di lui cognome la storia non ce lo manifesta.
Nell’ultimo di lulio F. Mattiolo di Riniero Cattani di Castel S. Pietro fece il di lui testamento a rogito di Michele di Biagio Stiulico. In esso ordinossi la sepoltura nella chiesa dei frati Eremitani di S. Giovanni Battista della Castellina nel Medesano alla cui chiesa lasciò quattordici tornature di terra prativa nel plebato di S. M. della Selustra ed altre nove nel med. loco a d. frati per vestirli a condizione che per dieci anni prima si impiegasse il frutto di d. terreni nella compra di tanti libri necessari al d. loco. Ebbe egli due filie una Cattarina maritata in Calorio di Brandiligi Gozadini e l’altra Xama maritata a Petriciuolo di Fagnano con dote di l. 500 per ciascuna.
Romeo Pepoli intanto che se ne stava nella Romagna, vedendo li grandi apparati che si facevano per invadere lo stato di Bologna, avvisò li suoi amici, onde il Senato penetrato questo mandò li ingenieri a Castel S. Pietro per assicurarlo maggiormente, ove a gran studio si fecero fortificazioni tanto interne, che esterne nelle strade circondarie il med., vi spedì ancora vettovaglie e vi aggiunse guardie. Scrive il Ghirardaccio che trovandosi molti beni di Romeo Pepoli intorno a Castel S. Pietro, che erano stati sacheggiati, fu ordinato dal Senato che chiunque si trovasse ad occupare di d. beni si dovesse consegnare in mano delli deputati, il che fu tosto eseguito e dalli detti beni fece il Consilio fortificare Castel S. Pietro.
Infrattanto li ghibellini della Lombardia spalleggiati da Matteo Visconti, detto Scaligero, e Passerino da Mantova cominciarono l’anno seguente 1322 a fare grandi rumori. Il Senato, che temeva non tanto dalla parte di Lombardi che dai romagnoli, rinforzò la guardia di Castel S. Pietro, vi mandò sedici soldati con due capitani e due balestre grosse nella torre e sette a staffa, che furono messe nella Rocca con molte lancie, poi nel mese di lulio lo fornì di viveri.
Ciò non ostante Cane della Scala, Passerino e Francesco Bonacossi, dopo avere messo a ferro e foco tutto lo stato de reggiani, scorsero fino alla parte di Bologna di dove, partito poi, venne verso Romagna, facendo infiniti mali per le campagne. Cane prese tostamente con impeto il nostro Borgo ed indi si mise all’impresa del Castello. Approssimatosi al ponte fu diffeso bravamente da castellani unitamente co’ soldati cosichè vedendo Cane difficile la presa pensò usare il foco.
Il terzo giorno doppo un assedio stretto, fatta condurre quantità di legna, incendiò al levante le fortificazioni esterne con li steccati. Il Ghirardaccio scrive, Parte 2 fol. 35, che fu incendiato il Castello ma noi abbiamo da altri scrittori che vedendosi li castellani colli pressidi privi di soccorso da Bologna patteggiarono con Cane la entrata nel Castello salva robba e persone. Avuto il Castello e sua Rocha lo tenne fino all’entrare d’inverno, che se fosse stato abbruciato non poteva quivi avere li aloggi sicuri colla sue genti.
In questo tempo essendo andato il Pepoli in Avignone ivi finì li suoi giorni.
Non mancarono perciò li bolognesi ammassar genti per espellere dal nostro Castello lo scaligero, il quale sentendo movimenti del popolo ad avvanzarsi, quindi non avendo forze sufficienti a ressistere, abbandonò all’entrare d’inverno questo paese, ma prima di decampare atterrò le porte del Castello ed alla Roca grande abbruciò il corridore di legno, che con questo passavasi sopra la mura circondaria del Castello dalla Roca, rovesciò una parte della mura messa vicina, smantellò le fortificazioni, si portò via le munizioni, interì li cassari sopra la fossa, incendiò il ponte levatore della Roca a se ne andò alla volta di Romagna.
Con questa occasione li figlioli di Romeo Pepoli, che si trovavano in Cesena, pensarono che le ruine fatte a Castel S. Pietro le desse campo a rimettersi più facilmente in Bologna, onde nell’anno seguente 1323 cominciarono ad assoldare gente con destrezza. Il Senato di ciò inteso spedì a Castel S. Pietro Fantone di Mattiolo Beccadelli a visitare la ruina fattele da Cane et indi a distruggere la torre di Facciolo Cattani di Castel S. Pietro che era nella vicina imminente collina perché non servisse di ricovero ai nemici.
Questa torre riscontriamo in pubblici instrumenti e da catasti comunali essere quella che vulgarmente chamasi dalle genti Torre de Moscatelli, la quale al presente è mozzata in un angolo dalla abitazione padronale e collonica al levante e meridio, né altro vi resta che un piano superiore al primo ed eguagliato al resto dell’abitato, le grosse e forti mura che si vedono ancora di macigno in confine del comune di Liano e Castel S. Pietro.
Ciò seguito diede il Senato mano al rissarcimento del nostro castello ed a guarnirlo dell’occorrente. Dappoi fece fare una generale rassegna di beni la milizia, indi accrebbe li dazi per il matenimento della med. così pure fece del Dazio del Passaggio di Castel S. Pietro che era di due danari fu duplicato per capo di ogni forastiero transitante.
Ciò non ostante li Pepoli, assoldati qualunquemente cento cavalli col proprio oltre li pedoni, vennero co’ suoi amici in queste parti la primavera dell’anno seguente 1324 accompagnati al Silaro li 23 maggio di buon mattino. Quivi si fecero alla porta maggiore sotto la torre della Rochetta e, frante le seraglie colle machine ed instrumenti militari, entrarono con poca resistenza nel Castello. Impossessati di questo e fatti prigioni li presidi che poterono, prosseguirono il viaggio a Bologna, ma li bolognesi sortiti con bon numero li rispensero fino al nostro Castello dove al termine di maggio sloggiarono.
Giunto l’anno 1325 e quietati alquanto li tumulti, li Malatesti sig. di Rimini fecero solenne festa allo Spirito S., 23 giugno, a cui vi intervennero molti bolognesi sia quali Giacomo di Mattiolo Cattani di Castel S. Pietro intrinseco de Malatesti che fu uno delli XX guelfi che assistette Pandolfo Malatesta nell’omicidio di Uberto Malatesti. Per tali onori si mostrarono grati li sig. di Rimini col fare cavalieri aurati Francesco de Pretoni ed il d. Giacomo Cattanei.
Li Pepoli poi, che annelavano di rimettersi in Bologna, ritornarono ad inquietare lo stato. Quindi l’anno successivo 1326, uniti con Passarino da Mantova e colli altri collegati, andarono fino alla Sambuca. Perché poi ulteriormente non si inoltrassero dalla parte di Romagna li nemici, il Senato spedì a Castel S. Pietro molti miliziotti sotto la condotta di Pietro Bianchetti e unitamente con Bombologno, detto Prenzia, di ser Guido Zagni capitano a cavallo.
In questa contingenza furono fatte di novo le serature ed acconciati li cassari e ponti levatori ad ambo le Roche del nostro Castello e rimesse in buon stato le altre fortificazioni guaste, alle quali il Senato vi spedì per sovrintendente Mino di Nicolò Beccadelli. Ressignò pure questi la milizia del Castello e riferì al Senato non essere bastevole alla diffesa del med.. Per lo che l’anno seguente 1327 vi spedì poi Francesco Montevenzoli con truppa affinché girasse e guardasse la campagna.
Finchè si facevano tutte queste cose il Cardinale Beltrando Legato della città, vedendo li passati travagli dei cittadini e comitive per le fazioni civili d’onde furono molti morti e molti banditi e prevedendo maggiori disordini, si adoprò in guisa che li 17 marzo 1328 furono richiamati per pubblica grida li banditi alla patria senza pena ed assoluti. Dopo tale chiamata, rimpatriati li esuli, temendo il Senato della loro instabilità fece premunire tutte le fortezze e castella del territorio.
Fu appoggiato l’impegno a Mino Beccadelli, egli provedette tostamente Castel S. Pietro di vettovaglie e di quanto occorreva. Nel 1329 in seguito il card. Legato ordinò la spedizione di diversi bravi capitani con valorosi soldati. Dalle storie nazionali abbiamo ancora che furono ordinati molti lavori alle confina del territorio. Fra tali capitani ci lasciò scritto l’Alidosio nelle sue vachette che Tordino da Castel S. Pietro, fatto capitano di 48 fanti, numero riguardevole in questi tempi, fu spedito al lavoro di Seravalle e Bastia da farsi sopra il fiume Secchia presso il Castello di Seravalle per diffesa del contado con altri bravi capitani.
Nel genaro del seguente 1330, richiamato a casa, passò il med. Tordino, così detto per sopranome mentre egli aveva nome Matteo Benelli, familia antica di paese, con 43 soldati alla diffesa di altro posto contro li modenesi assai importante, al quale luogo vi andarono ancora Cito Cattani nel mese di maggio, secondo lasciò scritto l’Alidosio nelle sue vachette, assieme con Civilino di Puzuolo da Castel S. Pietro con N. 25 soldati e Paolo di Zeno da Castel S. Pietro capitano con altri 25 soldati, li quali tutti uniti sotto la condotta del d. Tordino passarono tosto colle loro truppe a Formigine distretto di Modena.
Quindi, incontrato l’inimico fra Spezzano e Fiorano, ebbero una crudelissima battaglia in cui, combattendo per lo spazio di ore valorosamente co suoi compagni, fu sopragiunto da cavallaria modenese al fianco sinistro, non potendosi difendere alla destra a cagione delli ammassati terreni da modenesi, le convenne con grande isvantaggio chiamare la ritirata.
In quest’anno niente altro abbiamo di singulare in discorso di Castel S. Pietro per armi. Chiuderemo l’anno con due spettabili matrimoni, riferiti dal Gozadini, che fanno parte della nostra storia cioè di Giovanna filia di Mattiolo da Castel S. Pietro con Giovanni Ugulino Guidozagni nobile bolognese e l’altro di Tomasina di Zandonato Malvolti con Giacomo Ubaldini da Castel S. Pietro.
Il cardinale Beltrando, che fu il primo ad essere chiamato Legato di Bologna da Giovanni XXII, dopo avere rimesso tutti li fuori usciti della città e contado di Bologna con universale contento, cominciò l’anno 1331 a fabbricare una fortezza alla porta di Galliera con architettura di Angiolo ed Agostino Daniesi per assicurare la città, ma ciò non bastando alla quiete comune tanto più che la Romagna non era quieta, spedì li med. ingegneri a Castel S. Pietro a fortificarla da questa parte che era stata più indebolita dallo scaligero. Fu fatto un baloardo rotondo a fianco dell’ingresso esterno della Roca grande e chiusa la porta vechia, col farne un’altra appresso ed al di sotto che fu terminato tutto il lavoro nel 1332.
Nel mese di agosto per castigo divino si riempì il contado bolognese di una immensità di cavalette e grilli che lo devastarono e le strade erano coperte di questi animali. Il gualdo che era il maggior nervo de prodotti del comune di Castel S. Pietro fu talmente corroso che appena restovvi la gamba. La polvere amarissima di lupini stemprata con aceto forte con cui si aspargevano nulla valsero, d’onde si riconobbe la mano di Dio sdegnato.
Nel successivo 1333 seguirono in Castel S. Pietro due luminosi matrimoni nobili come racconta il Gozadini e furono fra Guiduccia di Cambio Giambeccari e Tomasino di Facio Cattanei di Castel S. Pietro con dote di l. 700, l’altro matrimonio fu di Lucia di Albertino di Gerardo Beccari con Bono di Giovanni Bonacursio di Castel S. Pietro.
Malcontento il popolo di Bologna del Legato e dispiacendole fortemente la fabbrica della cittadella alla porta di Galliera, li 17 marzo si levò in arme onde egli, per salvarsi dal furore della gleba, l’anno 1334 se ne fuggi con la scorta de fiorentini da esso richiesta, lasciando la città al regimento popolare dal quale furono cacciati li Boateri, Subbatini, Sali ed altri.
Il Diario Bolognese per due volte stampato nel 1773 per il Dalla Volpe in Bologna ci fa noto nell’elenco dei vescovi bolognesi, alla pag.V artic. Bagnarea, che fu fatto vescovo in quella città F. Marco da Castel S. Pietro , senza enunziarsi il suo casato. Nella ristampa fatta per lo stesso Dalla Volpe l’anno stesso pag. 27: Vescovi nel regno di Napoli – Acerra, soggiunge che F. Marco sud. da Castel S. Pietro dell’ordine de MM. OO. fu da Bagnarea trasferito ad Acerra l’anno 1324, nel che concorda coll’Ughetti nella sua Storia Sacra d’Italia T. VI fol. 256, ove aggiunge dippiù che finì in questa sede li suoi giorni nel 1344. Esso pure non cita il cognome indicando la sola patria come usano tuttora li frati minoriti, il che deve bastare al lettore di questo nostro raccolto.
Andrea e Pietro d’Albro della corte di Castel S. Pietro con Zeno di Muzio Zani e Lenza di Gazolo di Castel S. Pietro, banditi nel 1332, partitanti del Pepoli in un rumore popolare, furono assoluti
con altri e rimessi in patria.
Perché il contado di Bologna era confusamente governato da Pretori locali, motivo per cui non ne abbiamo alcuno elenco delli individui di essi, ne andavano continuamente riclami al governo, quindi il parlamento pensò alla providenza.
In frattanto li 4 dicembre 1334 Giovanni XXII morì in Avignone di anni novanta al quale nel dì 16 dello stesso mese successe Giacobbe di patria tolonese col nome di Benedetto XII.
Taddeo Pepoli che era stato mischiato nella solevazione populare e fugito, rimesso che fu in città fu acclamato Signore di Bologna con 908 voti favorevoli, conforme ci lasciò scritto Cesare Silvetti, Cron. Pepoli, il quale tosto nel 1335 spedi Giacomo Pepoli di lui filio alle castella del contado a prenderne in nome del padre possesso.
Il med. Tadeo, divenuto signore della città, sollecitò il Parlamento a prendere provisione sopra il governo del contado scomposto. Il Parlamento perciò, affinché con più facilità fosse governato, lo divise in quattordici podestarie colla subordinazione di diverse comunità a ciascuna podestaria, le quali furono dette Podestarie di Bandiera. Questi Podestà o loro vicari che le governavano avevano l’obbligo di custodire anco il Castello capoluogo e quando andava in forma per l’esercizio del suo ministero doveva prendere seco il Sindico della Comune, detto anco Massaro come capo della Massa del Popolo, che conduceva seco un uomo armato portante la sud. bandiera inalberata e spiegata.
A questi Podestà furono accordate molte prerogative per via di Statuto, cioè di invigilare all’anona, sulli malefici colla giudicatura civile mista e criminale, visitare le pubbliche strade per il loro ornato nell’abitato. La giudicatura civile era di lieve momento ma la punitiva si estendeva molto nelle pene borsali ed afflittive fino alla morte.
Su questo particolare si potrebbero addurre esempi e segnatamente uno del Podestà Fantuzzi in S. Giovanni in Persiceto nel 1500, come ci annotò il chiarissimo dott. Gaetano Monti di Bologna. Le carceri, li ferri per la tortura, per la berlina, in Castel S. Pietro conservati fino al 1756 nella pubblica ressidenza, ce ne hanno fatto testimonianza. Li atti giudiciali, li proclami in proposito si leggono nelli libri delli atti giudiciali della nostra Podestaria di Castel S. Pietro che incominciano nel 1326. Questi Pretori, che ancora si chiamano castellani, assistevano alli comizi comunali, tenevano le bandiere spiegate ne giorni di mercato per quel tempo che era interdetto ai rivendiroli la compra de comestibili, come si è osservato sucessivamente fino al presente tempo in cui scriviamo le presenti memorie.
La sommessione poi delle Comuni a Castel S. Pietro fu la seguente, Liano, Vidriano, Monte Caldiraro, Frassineto, Galegata, Sassuno, Monterenzoli, Bisano, Monte Armato, Zena, Ciagnano, Ozano, Varignana, Casalechio de Conti, Borgonovo colla villa congiunta di S. Biagio di Poggio che quantunque queste due ultime terre fossero entrambe unite non di meno furono, per un di loro particolare valore, dichiarate membro in appresso di Castel S. Pietro.
Esse poi comunità furono obbligate dal Governo concorrere alla diffesa del loro capoluogo Castel S. Pietro, mantenerle le fortificazioni e le mura del Castello ed edifici pubblici del med. nonché corrispondere al Podestà una tenue mensile corisposta pecuniaria. Nella Bandiera eravi dessignato lo stema del capoluogo della podestaria. Crediamo pertanto, da un documento del card. Cossa del 1406 che ivi riportiamo, essere l’emblema suo le due chiavi apostoliche incrociate sopra un’asta dritta col capellone, tanto più che in questo tempo il principale protettore di Bologna e del contado era il principe delli apostoli S. Pietro, quale dalli Anziani di Bologna portavasi incisa la sua figura nelle marche e sugetti pubblici.
Seguirono in quest’anno due nobili matrimoni di sogetti del nostro Castello e furono uno di Misina di Nicolò Misino Tebaldi con Paolo di Frando Cattani e l’altro di Nanna di Masolino di Faciolo Catani di Castel S. Pietro con Paolo di Francesco Matuliani di Bologna.
E perché accadevano di quando in quando scorrerie nel contado da fuorusciti, il Consilio generale spedì a Castel S. Pietro, luogo che era minacciato più delli altri castelli del territorio, Tomaso Foscarari con truppa acciò guardasse le contrade presso Castello. Contemporaneamente Paolo Cattani dello stesso Castello fu fatto cavaliere dal Conte di Viena a petizione di Tadeo Pepoli. Ciò fu motivo per cui un ramo della medesima familia Cattani emigrò da questa sua patria.
Mentre stavasi in diffesa contro li fuorusciti ed ogni luogo e città aveva li suoi partiti cesò l’anno 1336.
Bonaventura Fabbri di Castel S. Pietro che trovavasi al rettorato, cioè alla pretura di S. Bartolomeo del vescovo di Pistoja, venuto in sospetto di intelligenza co’ nemici (de) pistojesi fu privato della carica. Ammassate esso le sue diffese, interpose Nanna Cattani sposa di Paolo Matuliani fornito di singulare eloquenza e di stima colla novella sposa nella città, onde presentarono essi la diffesa del Fabbri con energia al Senato bolognese, quale in seguito spedì solenne ambasciata a pistojesi, onde fosse il Fabbri come innocente reintegrato nel suo ministero fino al di lui professo tempo del servigio. Purgata la innocenza fu reintegrato il Fabbri tostamente.
Li Bianchi, che in Bologna sofferivano di mal’occhio li Gozadini, pensavano continuamente soverchiarli, onde fattosi audace più di tutti Giacomo Bianchi l’anno 1337 venne co’ suoi partitanti alle mani in piazza colli Gozadini e suoi aderenti per differenze di stato. Durò la baruffa bon pezzo ma, spartite le due fazioni, dal popolo furono cacciati li Bianchi ed inseguiti con sei de Bianchetti fino al Borgo di Castel S. Pietro, ove arrivati sortirono li paesani, li fermarono e li condussero cattivi entro il Castello guardato da Cattani.
Narra Cronica Bianchetti che, essendo poi stato spedito a Medicina uno di d. Catani con pressidio per diffesa di quella Terra e trovandosi malcontenti li medicinesi del di lui governo, fu proditoriamente ucciso. Commesso un tale delitto fuggirono li ucisori a Ganzanigo e quivi si fecero forti unitamente a quelli del med. luogo.
Dispiacendo questo fatto al Senato spedì tostamente una banda di guastatori a Ganzanigo con truppa di soldati per avere nelle mani li malfattori. Quei terazzani fecero alto e ne seguì non poca effusione di sangue, finalmente accrescendosi il numero del soldati con una masnada di ausiliari di Castel S. Pietro, capo de quali fu Gianello Adami e Gioliolo di Giacomo Appiani detto Liogardo, bandito, per vendicare una tanta sceleratezza perpetrata in un concittadino di Castel S. Pietro presero per assalto Ganzanigo assieme colli micidiali che furono puniti e finalmente Ganzanigo fu desollato fino a fondamenti.
Tutte queste insorgenze e fatti con altri che si commettevano in diversi altri luoghi dispiacendo a Benedetto XII e molto più le sollevazioni di Bologna, spedì nel seguente genaro 1338 una Citazione contro la città, popolo e territorio di Bologna intimandole a diffendersi perché, in pregiudizio della romana Chiesa, avessero eletto Tadeo Pepoli in loro signore.
Il Consilio generale ciò inteso mandò ambasciatori al Papa per rispondere alla chiamata. Nel mentre che viaggiavano fu replicata la Citazione colla privazione dello Studio. Prevedendosi da Tadeo in pericolo l’abbandono dello Studio, passò alla scuola ove, radunata tutta la scolaresca, perorò in guisa che la essortò a prosseguire lo Studio proponendo alla medesima Castel S. Pietro per ricovero come luogo assai acconcio per tranquillamente coltivare le scienze.
A tale proposta tutti li dottori di Studio vi accudirono colli scolari. Che però Rainero Arsendi dott. legista da Forlì e maestro del gran Bartolo da una parte ed Ugo da Parma dall’altra dottor decretale, lettori sommamente amati, non tardarono molto a trasferirsi a Castel S. Pietro onde li 16 aprile 1338 vennero con gran seguito di scolaresca.
Ebbe lo Studio le abitazioni nel Borgo chiuso da fortissimi ripari. Rainero leggeva nella casa ora detta il Montone, appoggiato alla porta occidentale del Borgo che forma penisola in faccia al ghetto de giudei, dove si fabbricò poi una comoda osteria Ghino de Gini all’insegna del Montone d’onde prese il nome che fino ad oggi ritiene.
Ugo leggeva nella casa di Bittino de Fabbri in faccia al campo detto dell’Annunziata, qual casa passò in mano ai fratelli Baldazzi ed ora del cittadino Giulio Viscardi ove è stato finora lo stema gentilizio del d. Fabbri che da Cristoforo Fabbri suo sucessore ed Innocenzo Fabbri reidificata nel 1612 colla incrizione che alla sua epoca trascriveremo.
Li sponsali seguiti nel 1337 fra Cattarina di Enrighetto Feliciani di Castel S. Pietro con Rustigano di Giacomo Rustigani solamente in questo anno ebbero la effettuazione in matrimonio.
Ritroviamo in questo tempo per la prima volta menzionata la fonte della nostra aqua della Fegatella dal cronista Gian Giacomo Brochi nella sua cattegoria delle aque salubri del contado di Bologna senza punto indicarci la origine, ritrovamento non che delle virtù della med.. Supponiamo perciò che nella presente contingenza dello studio di Bologna qui traslocato si scoprisse quella. Li Dottori lessero quivi e disputarono secondo il consueto fino a che fu levato l’interdetto, che durò fino al 19 ottobre anno presente.
E perché, passato il secondo mese dell’interdetto vedevano li scolari che si protraeva la riconciliazione, titubavano fra di loro ed altri si erano restituiti alla città, perciò Pietro da Coreggio, come uno di quelli che a principio dell’interdetto aveva animato la scolaresca con altri Dottori a portarsi a Castel S. Pietro, si adoprò in guisa che ritornò la calma nelli animi de scolari pusilanimi e prosseguì egli le sue letture fino alla fine dell’interdetto.
Si agiunge dal nostro P. Vanti che per quietare maggiormente li animi deboli fu in questo tempo, per comodo della scolaresca, incominciata la fabbrica della chiesa della SS. Annunziata nel Borgo dalli borghesani onde poi solennizarsi le feste. Alla costruzione di questo sacro edificio concorse Tadeo Pepoli per tenere vieppiù in calma li animi della gioventù studente, che si era già fraternizata colli borghesani onde in breve fu terminato il lavoro. In ciò concordano anco le memorie MM. SS. di Bologna dell’avv. Alessandro Machiavelli all’articolo di Castel S. Pietro. Leggesi ancora in proposito di ciò nelle poesie latine di Giovanni Morelli il seguente epigramma.
Sedis apostolice lassata Bononia loris
fijdeum populum plauserat in dominum
Interdicta sacris , Studio privanda minatunt
fertur ad hoc Castrum tunc schola, tunc studium
Ugo parmensis, Livj Rainerus ab urbe
hic septem menses utruque jura legunt
nunc celebres sileant, grecorum gloria, Athene
nec jactet doctus Felsina sola Lares
Seguita poi la reconciliazione colla Chiesa, Beltramino vescovo e nunzio apostolico si portò a Bologna ed all’entrare del contado fermatosi al nostro Borgo, rivolgendosi verso il Castello ne diede, sulla via corriera presso la chiesa della Annunziata che si edificava, la benedizione al numeroso popolo.
Nel loco ove fermossi a benedire ed assolvere dall’interdetto dappoi vi si piantò una colonetta di macigno, con croce della stessa materia, portante incisa la mano benedicente. Col tratto del tempo per essere d. colonna in mezo la via, fu ruinata ma la croce traslocata entro d. chiesa ove si vede incastrata nella parete fra le due capelline. La scolaresca giuliva per un si chiaro fatto ne rese al Signore le dovute grazie nella arcipretale entro il Castello a cui vi intervennero li graditi Dottori col seguito della scolaresca.
Giunto in Bologna il Beltramino prima di procedere alla assoluzione furono proposte alcune condizioni fra il Papa e bolognesi, le principali delle quali furono: Che il dominio della città fosse libero dalla Chiesa.Che il popolo le giurasse e mantenesse fedeltà e che il popolo ne fosse (…) pagando ottomila fiorini ogni anno. Onde il papa li 23 decembre per la conclusione di tutto spedì a Bologna per suo speciale esecutore e Legato Giuliano de li Germano a prendere la pattuita fede del popolo.
Questi mutata la idea ricusò cosicchè nel genaro seguente 1339 se ne partì per Roma. Il Parlamento intanto riflettendo a tale ricusa, temendo di novità, aumentò il numero del Consilio, procedette all’elezione di novi soggetti in cui nel successivo 1340 fu intromesso Masolino Cattani di Castel S. Pietro, uomo di autorità e ben veduto dal popolo onde, dopo breve perorazione, fu preso il giuramento alla presenza di sei milla uomini in mano del Nunzio Apostolico, quale dopo aver preso il possesso della città e di tutte le castella e fortezze del contado mediante la consegna delle chiavi delle medesime diede la benedizione papale ed assoluzione.
Levato l’interdetto furono restituite le insegne di Signoria al Pepoli, cioè il Manto di Scarlatto con capuccio, la spada di giustizia, le chiavi della città e castella ed in seguito fu dichiarato ad alta voce dal popolo Vicario di S. Chiesa.
Era tale la dottrina di Matteo di messer Gerardo Gerardi da Castel S. Pietro medico, che fu perciò fatto cittadino di Bologna dal Senato, ove conducendo a guarigione le più ardue infermità ne riportava universalmente applauso.
In questo tempo ci annunziano le memorie della comune di Castel S. Pietro nel suo archivio che finì la sua vita in questi dì D. Giacomo Giacobini pievano di S. M. Maggiore del paese, ma non ci sugeriscono il di lui sucessore se non nel 1374 senza accusarne la ragione.
Gli Maltesti di Rimini, che male soffrivano la signoria di Tadeo Pepoli, cominciarono nella primavera del seguente 1347 ad infestare il contorno di Castel S. Pietro predando bestiami, foraggi, facendo scorrerie e prigioni fino sotto le porte del Castello. Il Pepoli perché non si inoltrassero di più pensò farle fronte, quindi li 14 ottobre 1347 spedì al nostro Borgo li soldati del quartiere di porta Stieri e di porta Procula ove fatta la Dieta si fece la scielta de buoni.
Ciò fatto si incaminarono alla volta di Faenza. Li nemici, che quivi erano accampati, ora facevano le più alte iniquità su le possidenze vicine de Pepoli, sentendo venire bolognesi decamparono onde li bolognesi ritornarono coll’armi sul modenese contro Luchino Visconti nel 1343 facendovi infiniti mali. In vista di ciò si fece un triduo che fu proclamato li 25 marzo.
Fu spedito intanto alla corte romana ambasciatore Matteo di Nicolò da Castel S. Pietro, conforme scrive l’Alidosio, dott. in ambe le L.L., ove stette tre mesi e dieci giorni per comporre le comuni vertenze contro bolognesi come seguì e così furono liberati Castel S. Pietro colli suoi contorni dalli nemici. In ringraziamento a Dio di ciò si promosse una devota unione de castellani e borghesani, la quale contestò al pubblico la sua gioia colla costruzione di un recipiente sacro, onde nel 1344 secondo le notizie avute dall’Ordine delli Agostiniani fu edificato per essi un oratorio nel quartiere superiore del Castello, detto Piazza Liana, e lo consacrarono alla gloria di S. Bartolomeo apostolo, che fu poi assegnato come diremo all’ordine sudd. nel 1345.
In autunno si cominciarono a sentire tremori nella terra, che furono furieri di una potente scossa di terremoto, che seguì nel successivo 22 febraro 1346 per cui caddero non pochi fabbricati.
Tra non molto giunse a Bologna Umberto Delfino di Viena e Francia. Fece egli predicare la crociata contro il turco che molestava la cristianità, essendo stato il medesimo Delfino confirmato dal Papa per capitano e Duca delli Cristiani. In seguito molti nobili bolognesi al numero di 120, ben montati a cavallo, presero la croce dalle mani di quello in bandiera spiegata. Indi nell’aprile se ne partirono per Vinegia accompagnati da molti cittadini bolognesi a quali vi tennero anco dietro non pochi volontari pedoni del contado. Delli più bravi, fra quali ve ne andarono anco di Castel S. Pietro delle familie Mattei e Laxi.
Raccontano le Cronache Guidetti, Rampona, Bianchetta, Filano dalle Tratte e finalmente Cesare Salvetti che scrive li fasti de Pepoli, che in tale contingenza Tadeo Pepoli ottenne dal Delfino molta attenzione onde si mostrò grato. Fra questo ottenne che furono fatti cavalieri a di lui petizione messer Zeno capitano di Castel S. Pietro con messer Polo Cattani dello stesso paese.
Non andò molto che Tadeo morì. Dovendosi per ciò eleggere un nuovo Governatore per la città e contado, convocato il Parlamento generale li 30 settembre fuvi dibattimento ma la facondia di Giacomo Sacenti Sanuti, la eloquenza di Filippo Cattani e la energia di Giacomo Dainesi di Castel S. Pietro arringarono con tanto calore a favore dei Pepoli che ne riportarono per ciò, in loco del defunto Tadeo, la elezione in Giovanni e Giacomo di lui figlioli. Questi divenuti eredi del padre nello stato e dominio non lo furono però nella fortuna e scienza paterna, poiché Tadeo fu dottore scienziato di somma prudenza ed avveduto, ma li figli sudetti nella città furono travagliati da congiure e tradimenti massime dai Cattani di Castel S. Pietro, tanto beneficati dal loro padre Tadeo e, fuori della città, furono vessati da Rainaldo conte di Romagna.
In questo anno morì pure Giovanni Re di Boemia e Carlo IV suo figliolo fu eletto Imperatore.
Eletti adunque per signori di Bologna li due fratelli Pepoli dal Consilio delli 4 milla, intraprese il Governo l’anno seguente 1347 in mezo alla calamità maggiore del mondo poiché comincia qui una pestilenza fierissima per tutta la Italia.
In Bologna morirono per ben tre quarti di cittadini e nel contado una quarta parte così in altre provincie in modo che restò quasi desolata la Italia. A questa lagrimevole circostanza si accrebbe il terremoto onde li 25 genaro di notte tempo il venerdì replicarono li tremiti con maggiore violenza. Da quel che si scrisse caddero per ciò molti edifici, nel nostro Castello si rovesciarono le merlature alle torri delle Roche, nella vicina nostra collina ruinarono le Chiesole presso Alborro e molti tratti di mura al medesimo, così in Crovara, Fiagnano e Galegata sopra il nostro Silaro.
Durarono queste vicende funeste fino al 1348 ove, per le orazioni che si facevano in ogni dove, si placò l’ira divina alquanto ma, prosseguendosi il male, cominciò altro castigo e fu nel seguente 1348 per molti giorni una nebbia densissima nel contado che durò fino ad aprile, la quale danneggiò molto la campagna e fece seccare per fino li getti delli arbori non che li prodotti.
Giovanni e Giacomo Pepoli, avendo pressentito che Lodovico Re di Ungaria veniva a Bologna per portarsi a Napoli a vendicare la morte del fratello Andrea fatto strozzare dalla Regina Giovanna, lo incontrarono a Castelfranco e condotto a Bologna li 12 decembre ove pernottato passò il dì seguente 13 decembre a Castel S. Pietro accompagnato da molta nobiltà. Quivi fermatosi ed accolto dalli Rinieri, familia del paese, fece cavaliere Matteo di Zerra col cingerli la spada al fianco.
Il di seguente 14 decembre con tutta la sua brigata se ne partì alla volta di Romagna, vi andarono seco del nostro Castello alquanti aderenti dei Rinieri che si unirono alla di lui brigata e furono delle familie Ronacalti, Cheli, Zaffolini, Lamprini e Battisti, secondo le memorie che abbiamo nelli ricordi MM. SS. de quest’ultima familia antica che si estinse in Michele Battisti nel 1749, la quale ne piantò in Napoli, alla contingenza predetta, del suo casato un rampollo. Caminava il Re a cavallo, colla spada ignuda in mano e così le suoi cavalieri ed in tal guisa andò fino alle fosse d’Imola.
In questo tempo F. Francesco della familia Fucci di Castel S. Pietro dell’ordine de Predicatori, teologo insigne, fu fatto Vicario Generale del suo instituto e sostenne la carica con soddisfazione e plauso universale.
Aveva Clemente VI data una sua nipote per moglie ad Astorre Duraforte Conte di Provenza che poi, avendolo fatto Conte di Romagna e governandola, l’anno 1349 fu cacciato ed inseguito da Faenza da Manfredi coalizatosi colli Ordelafi di Forlì fino alla confina del bolognese in fino a Castel S. Pietro.
Quivi, assicuratosi come paese amico, spedì tostamente ai Pepoli e loro richiese di nuovo ajuto ma, non ostante che Giovanni Pepoli vi avesse dato cento cavalli, si scusarono destramente pregando contentarsi di questi, ma il Conte si ebbe a sdegno e covò la vendetta talmente che pensò poscia riffarsi col tramarli la morte e così poi avere il libero dominio di Bologna.
Per la qualcosa dissimulò il suo pensiero fino all’anno seguente 1350 ove se ne andò ad Imola e quivi fatto gran gente nel mese di maggio cominciò a conquistare le castella di quella città, avutene varie andò all’assedio di Solarolo.
Nel mentre che era quivi al nostro Castello, trattò con Bonaventura di Giovanni Andrea Bonimontri e Rainero Raineri, del med. Castello ambo, del come poteva uccidere li due fratelli Pepoli ed avere prima in pieno potere Castel S. Pietro e poi il libero dominio di Bologna.
Fu convenuto di ciò eseguire per trenta milla fiorini d’oro, purchè però prima il Conte mandasse loro segretamente a poco a poco cinquanta uomini animosi e fedeli a quali aurebbero dato ricetto essi congiurati nelle case loro sicuramente. Case avvanti le quali, passando poi come era costume dei Pepoli, alla sprovista sarebbero stati uccisi e nello stesso giorno avrebbero dato un segno di foco o suono al Conte il quale dovevasi poi trovare a Castel S. Pietro e di quivi doveva venire in città dove, passando coll’esercito, le avrebbero dato una porta della (città), ma (scoperto) il trattato, furono fatti prigioni e posti al tormento confessarono tutto. Quindi il 15 giugno furono decapitati e le loro teste furono portate sopra due aste per la città.
Deluso il Conte con molto dispiacere dei due decapitati, dissimulò pure il suo dispiacere ed il trattato avuto con quelli, laonde scrisse lettere ai Pepoli chiedendoli consilio sopra l’assedio di Solarolo, che si teneva forte e sopra la pace co’ Manfredi di Faenza, facendo arbitri li Pepoli della med. per il che attuare bramava abboccarsi con essi ove più loro piacesse.
Giovanni Pepoli prestando fede alle lettere del Conte si lasciò sedurre, molto più perché vi aveva nel di lui campo li 200 cavalli, non ostante che Giacomo il fratello lo dissuadesse. Perciò li 6 lulio, con promessa fatta al fratello Giacomo di non oltrepassare Castel S. Pietro, avendo seco uno stuolo di 300 soldati condotti da Giacomo Bianchi, Cino da Castel S. Pietro, GazoTolomei da Siena, Ubaldino Malavolti, Giovanni Bentivogli ed altri gentiluomini.
Ma Giovanni non mantenne la parola al fratello onde, oltrepassato Castel S. Pietro, passò al Conte ove, rinfrescatosi alquanto pensando poscia di partire, il traditore fece cingere la tenda di soldati ed arrestò il Pepoli e di lui compagni, quali svalligiati li carcerò ed il dì seguente 7 lulio furono condotti tutti alla Roca d’Imola accompagnatida 200 cavalli.
Poi il Conte il dì 9 lulio levolle l’esercito e venne a Castel S. Pietro che era guardato da Polo Cattani capitano dello stesso Castello. Cominciò poscia quivi a travagliarlo da ogni canto ma, perché strenuamente veniva diffesa la torre oltre li presidi anco da terrazzani contro il Conte, vedendo non potere fare profitto sotto le Roche, promise a suoi soldati la paga doppia se lo prendevano per assalto.
Si infervorò sul mezzogiorno la zuffa per l’una e l’altra parte, il numeroso stuolo di soldati del Conte fece un cordone attorno il Castello, eccetuate le Rocche, e poscia cominciollo a battere colle macchine militari e, franti li palancati in parte ed in parte incendiati, si aperse l’accesso alle mura.
Il che vedendo li castellani e pressidi apersero le porte al Conte, il quale tosto corse alla Roca maggiore e forzate le porte entrarono li di lui soldati e fecero prigione d. Polo che vi si era rifugiato con alcuni valorosi soldati e castellani, fattolo prigione saccheggiò il Castello malmenando li paesani anco nella persona.
Poi il dì seguente si incaminò a Varignana e fece lo stesso, indi a Ozano fino ad Idice con animo di assaltar Bologna. Lasciato Giovanni co’ suoi coleghi ben guardato nel nostro Castello non cessava di sollecitare l’assedio della città a suoi soldati ma cominciarono questi a rallentarsi nel corso della vittoria a motivo che erano defraudati nel soldo anzi, ad ogni premura che esso li faceva, si lasciavano intendere di volere abbandonare il campo se non erano prontamente pagati.
Il Conte dubitando della rivoluzione tanto più che li castellani erano malcontenti della di lui condotta li quali, colli militari del Conte male intenzionati, fomentavano il disordine.
Egli, credendosi poco sicuro, consegnò tosto in loro mano non solo Giovanni Pepoli colli di lui compagni, acciò ponessero quella taglia che loro piacesse, ma ancora consegnolle il nostro Castello colli altri vicini luoghi a questa condizione però che, se Giovanni non pagava per tutto il settembre avvenire la taglia secondo l’accordo, li soldati disponessero e del Castello e del med. Giovanni a loro talento.
Una tale proposta amareggiò magiormente li paesani perché vedevano, se si accettava da soldati, era sottoposto tutto il paese a novo sacheggio ed una strage di paesani nella quale sarebbero anco periti molti soldati, la onde non fu adottato il progetto né volero andare più oltre ma solo tenere più saldo il Pepoli colli altri cavalieri.
Intese tutte queste cose Giacomo Pepoli e che il Conte Astorgio con Mastino Scaligero tentavano la presa di Bologna, ricorse all’arcivescovo Giovanni Visconti Duca di Milano fra l’altro il più temuto signore in questi tempi, a gradi del di cui volere era la fortuna prospera, onde avere affetto, poi si rivolse ancora alli Malatesta di Rimini, alli Gualtieri e alli Gonzaga di Mantova per lo stesso effetto.
In vista di ciò il Visconti spedì venti bandiere equestri e 400 uomini guidati da Giovanni Visconte detto da Oleggio. Arrivato tale soccorso in Bologna l’Oleggio imediatamente fece intendere ad Astorgio che egli unito con Giacomo Pepoli domandavano la liberazione di Giovanni e suoi coleghi e la evacuazione di Castel S. Pietro e nel secondo intimava tosto alli 500 cavalieri di esso che erano al soldo dello stesso Astorgio che immediatamente da lui partissero.
Scosse l’orecchio Astorgio e non volle liberare non solo Giovanni Pepoli ma ne anco permise che li 500 cavalieri assoldati partissero dal suo campo. A tale liberazione vi si interposero li fiorentini ma il Conte consiliato al contrario da suoi aleati, rispose di no.
Il Pepoli poi che era stato messo alla larga in Castel S. Pietro, ove rissiedava ancora Astorgio, vedendo una tanta durezza si procacciò familiarità con certo Fragnano che era capitano del vastello del Castello, dal quale essendo spesso visitato, venne Giovanni a trattare della di lui liberazione che allora trattavasi e fece grandissime offerte, strette promesse al capitano e di lui soldati se secondavano un di lui stragema che egli desiava fare al Conte e ciò, appena che fosse liberato, voleva d’assalire con molti alla sprovista il campo del Conte quasi sbandato, fare di tanti suoi militari prigionieri che colla taglia de medesimi potesse riscattare se stesso e li di lui figli che si dovevano lasciare in ostaggio al Conte per le paghe del riscatto che si maneggiava.
Il Conte scoperse il trattato, fece prigione il capitano colli suoi complici e li 27 agosto li fece tosto strascinare a coda di cavallo per tutto il Castello e dappoi li fece impiccare per la gola alli merli della Rocca minore sopra la porta del Castello poscia, temendo di novità, trattò ed accordò il riscatto in ottanta milla fiorini d’oro de quali 20 ne pagò allora ed il resto si obbligò pagarlo nel seguente settembre, lasciandoli per sigurtà in ostaggio tre di lui figlioli.
Avuto il danaro il Conte non per questo cessò di danneggiare il contado. Scorreva ora in questa parte ora nell’altra bottinando e foraggiando come le veniva in capo. In tali disaventure il men danno che soffrisse fu il nostro comune di Castel S. Pietro per esser da paesani ben corrisposto, ma Medicina, Budrio, Liano, Varignana e li castelli superiori al nostro furono d’assai danneggiati. Tutti questi mali operava il Conte per essere sfornito di danaro e per tener quieta colle rubbarie la sua soldatesca.
Infrattanto scrisse al Papa di lui zio che non avendo numerario onde pagare li soldati glie ne mandasse. Ma il Papa altro non le diede che buone parole. Naque frattanto non poca e nova discordia fra li di lui soldati la onde Brocardo, uno de capi de suoi tedeschi con molti di sua nazione, trattarono essi con Bernabò Visconti di venderli i figli di Giovanni Pepoli, Castel S. Pietro ed esentare il med. Giovanni delle paghe con che però esso Bernabò le desse le paghe loro dovute.
Astorgio, intendendo il trattato e che il soccorso dell’arcivescovo di Milano si trovava in Bologna di mille e trecento cavalli e che dalla parte di Romagna veniva Ugolino Malatesta ed Ugolino Gualtieri di Firenze con molta gente, pieno di sdegno li 26 novembre abbandonò colle sue genti Castel S. Pietro smantellando quelle fortificazioni che si erano fatte ed, incaminandosi verso Budrio, mandò a ferro e foco quanto ritrovava per lo stato affinché l’inimico nulla in suo pro ritrovasse.
Prima però di partire dal nostro castello assegnò a Mastino Scaligero ed a Brocardo le fortezze del paese colli suoi approvigionamenti. Vi lasciò ancora li ostagi che vi aveva per le paghe delle quali ne andava debitore con quelli ed assegnolle ancora Doccia e Fiagnano.
Giacomo Pepoli infrattanto per liberare li prigionieri e Castel S. Pietro scrisse a Mastino per la ultimazione del trattato il quale tosto spedì dal paese a Bologna Broccardo che trattò con Bernabò Visconti di vendere li prigioni ed il Castello purchè in corrisposta delle loro paghe in tre volte, la prima alla mano e le altre due a tempo. Così fu concluso e se ne stipularono li instrumenti in Bologna ed in questa guisa ebbe Bernabò Castel S. Pietro.
Infrattanto giunse l’anno 1351 in cui li 10 febraro Brocardo rese Castel S. Pietro ed il giorno 13 partivano, come riferisce Bernardo Cario nella Storia di Milano, li ostaggi e così fu evacuato il nostro castello.
Tornato poi Giovanni Pepoli in Bologna, conoscendo non potersi riparare dalli emuli, cedette in seguito la signoria della città all’arcivescovo Visconti di Milano per ..3 milla fiorini d’oro.
Aquistata tale signoria, mandò a Bologna Gian Galeazzo Visconti con molte genti a prenderne il possesso e così fece in seguito delle fortezze di Castel S. Pietro. Sentita tale vendita il Papa interdisse la città e contado.
Astorgio Duraforte, che era nella Romagna, sentendo ancor egli che Bologna e suo territorio veniva diffesa dal Visconti e da Filippo Gonzaga, raccolse molte genti quindi l’anno 1352 in marzo venne nel contado e scorse sotto Castel S. Pietro. Predò uomini, bestie biade e ciò che le diede tra mano. Tentò ancora la presa del Castello, affaciandosi alla Rocca picola ed all’ingresso sotto la torre, ma respinto novamente da Gio. Galeazzo e da una turba di patriotti sortiti dalla Rocca grande che l’investivano di fianco, non potendo ressistere alla furia delli uni e dell’altri, abbandonò l’assalto e, ritornandosene verso la Romagna, scorse ora un luogo ora l’altro depauperando le familie e comettendo mille mali.
Avuta tale nova il Papa, conoscendo non potere avere Bologna dalle mani del Visconti colla forza, venne seco a trattato e convenne che in perpetuo le pagasse ogni anno dodicimilla fiorini d’oro e le fosse rinonciato liberamente il dominio sopra la città e contado. Stipulossi l’instrumento mediante l’abate Massilese mandatario pontificio e fu tosto levato l’interdetto nell’anno presente 1353. Per tanto avvenimento se ne fecero pubbliche addimostrazioni. In seguito furono ristorate tutte le castella e guarnite di munizioni da guerra onde per la prima volta ritroviamo nelle memorie che furono messe nella Roca grande di Castel S. Pietro alcune spingarde che per lo avvanti non le troviamo segnate.
Morto nel decorso decembre il Papa, le sucesse nella cattedra Innocenzo sesto che per l’avvanti era chiamato Stefano Limocinenze.
Riscontriamo poi nell’archivio di questa comunità da un elenco di documenti attinenti a questa nazione la seguente memoria. Adi 19 agosto. Beneficio a favore di Castel S. Pietro Lib. secund. N. 40 fol. 126 Arch. pub. di Bologna, il di cui contenuto non potiamo con nostro dispiacere riferirlo poiché è stato conteso e negata la copia da chi lo poteva e la doveva favorire a confronto della indennizzazione. Lasciamo pertanto l’indagine e cura di scoprire ed avere un tale monumento alle autorità competenti per chi tanto bramasse. Parimenti il ripetere copia di quei decreti che a favor nostro sono competenti e descritti nel Lib. Reformation. del secondo semestre al N. 42 donde noi siamo stati sconsolati.
Nel tempo della guerra passata, avendo il Conte Duraforte svelte le palate e disfatte le ripe che presso al ponte Silaro difendevano la via consolare in modo che le correnti minacciavano nelle escrescenze la medesima strada perciò, al fine di ostare al pregiudizio che si prevedeva a quella, fu rinovata un ala all’imboccatura del ponte a levante di cui se ne vedono tutt’ora le vestigia de fondamenti quando le aque li scuoprono.
Liano medesimamente avendo sofferte le stesse vicende per modo che alquante familie di quello avevano abbandonato l’abitato e si erano ridotte alla campagna, per essere più sicure delle loro persone e sostanze, si ridussero a Castel S. Pietro fabbricandosi in questo, su li suoli di altre case distrutte e guaste, le loro abitazioni come riscontriamo ne rogiti di Cambio Alberti del 1354 e 1355 e seguenti. Le famiglie che ci sono appresentate furono queste: delli Astorri, Fisoli, Dalla Costa, Bellosi, Marozzi e Grappi.
L’anno poi che seguì 1356 di nostra salute fu luttuoso il suo inverno imperciochè fu tale estremità di freddo che le genti più robuste morivano e si trovavano intirizziti li viandanti.
Li agostiniani locali di S. Bartolomeo, così detti, pressentendo la visita universale de conventi della Relligione intimata dal celebre Gregorio da Rimini, teologo insigne che fu poi generale, accomodano la loro chiesa e convento coll’aggiungervi alcune stanze come abbiamo riscontrato da registri in S. Giacomo di Bologna nel loro archivio.
Nella Romagna, poco contenta del governo in alcune città, naquerò rumori. Giovanni di Oleggio che governava Bologna ciò penetrato, per assicurarsi anco dalli insulti del Conte Duraforte, fece alzare a Castel S. Pietro l’anno seguente 1357 li argini attorno alla fossa e lo stesso fece al Borgo a levante ed all’uno e l’altro luogo vi aggiunse guardie.
Il Senato poi, affinchè il contado venisse nel politico e nel giudiciario meglio regolato che quello che sin qui era stato, ordinò che fosse diviso in sette vicariati invece di podestarie a quali furono assegnate e subordinate altre comunità. Castel S. Pietro fu dichiarato vicariato e le furono sottomesse le seguenti Castella e Terre cioè Liano detto anche Lignano, Vitriano, Castello Monte Caldiraro, Frassineto, Galegata, Sassuno, Monterenzio, Bizano, Monte Armato, Zena, Gorgognano, Stifunti, Cepiano ora d. Ozano, Varignana, Casalechio, Poggio o sia Villa di Poggio subordinata a Borgo novo.
Nel giorno 3 marzo Cino da Castel S. Pietro, eletto podestà di Perugia ed a quella città invitato, fu l’esempio di probità e prudenza tanto nel militare che nel politico come si riscontra dalle cronache e dalle nostre Storie di Bologna.
Li fuorusciti nemici del Visconti, malsoferenti lo spatriamento dalla città e loro paesi, infestavano di quando in quando il territorio ora in un luogo ora in un altro massime in quei siti ove era poca o nulla la diffesa. Li conventini e li casali erano li più danneggiati. Il convento di S. Gianbattista della Castellina nel Medesano patì più delli altri che quei relligiosi ben di spesso erano sacheggiati e maltrattati.
Il P. Luigi Torrelli di Bologna,ne suoi Secoli Agostiniani Tom. VI, all’anno 1358. N. 26 pag. 45, fa menzione non meno del nostro convento di Castel S. Pietro che di quello del Medesano indicando avere ricavato la sud. notizia dall’accennato registro del P. Gregorio da Rimini in questi termini cioè: Quanto a conventi dell’ordine nominati nel registro di quest’anno, ne ritrovo cinque fondati prima di questo tempo cioè quello di Dublino, città metropoli del regno di Ibernia, quello di Monte Lugello nella provincia di Narbona in Francia, quello di Città Ducale nell’Abruzzo, il quarto quello di Castel S. Pietro col titolo di S. Bartolomeo, trasferito nel d. castello dall’antico monastero di S. Gio. Battista della Castellina di Medesano ed è membro di questa provincia di Romagna tredici miglia lontano da Bologna. e più oltre nel d. T. V al C. 525 N. 27 sogiunge: abbiamo altresi dal su mentovato registro la certa esistenza del convento del Medesano, il quale poi per le gravi molestie che continuamente pativa da fuorusciti fu dalla relligione dopo alcuni anni trasferito in Castel S. Pietro ed è quello che oggi ivi possediamo col titolo di S. Bartolomeo.
Rilevasi da questo istorico tanto la esistenza del nostro convento di S. Bartolomeo prima della presente epoca, quanto la emigrazione de relligiosi dal Medesano condotti e incorporati in questo loco, quanto il motivo per il quale furono quivi tradotti per li danneggi de fuorusciti bolognesi.
Si erano fatti in questi tempi così familiari di disordini in molte città dell’Italia, dalle quali avendone continui ricorsi Papa Innocenzo il medesimo per ciò, ad effetto di sedare li clamori e quietare le med. città, vi spedì Egidio Albornozio Cardinale di Spagna il quale, passando per la Toscana valicò l’Alpe, per non aprossimarsi a Bologna, acciò l’Oleggio fatto governatore di quella e vicario ed indi insignoritosi della med. la tiranneggiava non prendesse gelosia dal med., venne egli ad Imola.
Ciò non ostante l’Oleggio con bona compagnia de genti li 10 lulio venne a Castel S. Pietro, che aveva ben munito di vittuario. Quindi passò il ponte sopra il Silaro e si fermò a S. Giacomo colla truppa, attendendo il cardinale, ma ritardò molti mesi.
Infrattanto, morto di veleno Matteo Visconti, il principe Barnabò suo fratello, succedendo a quello nella signoria, si preparò con poderoso esercito per iscacciare l’Oleggio che si era impadronito di Bologna e non andò molto che lo condusse nel bolognese, facendo in questi stati ogni crudeltà non perdonando nemeno alle chiese e luoghi sacri.
Vedendosi pertanto l’Oleggio aborrito da tutti ed odiato, fece intendere al cardinale Albornozio che le aurebbe ceduto la signoria di Bologna purché le avesse dato in controcambio il Marchesato della Marca anconitana goduto da Blasco Fernando. Fu ascoltato ed in seguito li 12 decembre, ritornato a Castel S. Pietro, l’Oleggio aspettò l’incontro del cardinale in questo loco ove venne ricevuto onorevolmente alli confini e, scortatolo colle sue genti, fu introdotto in Castello, fu trattato in casa delli Cattani stando l’Oleggio in quella dei Rinieri.
Quivi stettero tutti colle truppe in armisticio tranquillo tutto il sabato 22 decembre, la domenica ed il lunedì vigilia di Natale ove, intervenuti li ambasciatori del Marchese di Ferrara, della Gran Compagnia e di molti signori , si trattò l’accordo proposto ma senza frutto, per la qual cosa il Cardinale se ne se ne ritornò ad Imola poi passò al campo a Forlì.
Il conte Lando, che colla sua compagnia era stato sinora al soldo de veneziani, si partì e venne ancor esso sotto Bologna per unirsi al Legato ma, inteso che il Legato era a Forlì, si incaminò a quella volta tenendo la strada nostra per la qual cosa, giunto a Castel S. Pietro, le sopravenne una grossa neve onde fermossi fino alla fine di decembre nel Borgo e Castello, di dove poi se ne andò a quella città.
L’Alidosio che ha scritto dei dottori di Bologna, dei vescovi ed altre dignità, riferisce nelle sue Memorie che (…) della familia Fucci di Castel S. Pietro dell’ordine de Predicatori fiorì in questo tempo talmente nella sua Relligione che per le rare sue prerogative e virtù d’animo fu dappoi fatto Vicario generale dell’Ordine. Quali siano state le sue gesta le cronache non lo raccontano.
Nel seguente genaro 1359 vennero tali e tante nevi che, cresciute all’altezza di quattro piedi, caddero per il gran peso molte fabbriche e restarono supressi li medali nella collina sopra il nostro Castello, donde perirono anco persone. Alle nevi si aggiunsero impetuosi venti per cui , al riferire di un cronista anonimo imolese, caddero le case nel Castel di Corvara, la chiesa di Fiagnano ed Alborro.
Gio. Giacomo Brochi nella sua Raccolta delli Uomini illustri di Bologna e del Contado riferisce che in quest’anno fu spedito per capitano della Rocca grande a Castel S. Pietro Broco Brochi.
Finalmente, doppo non pochi trattati, fu concluso l’accordo fra l’Oleggio e la Chiesa quindi per ciò Pier Nicola Farnese, generale dell’armi pontificie, prese il possesso della città di Bologna e contado in nome del Legato Albornozio, quale tra non molto venne alla città e fu incontrato a confini di Castel S. Pietro da Mattiolo Gallucci e Giacomo Ramponi il giorno di S. Simone e Giuda.
Pubblicata la pace se ne diedero segni di allegrezza. Appena giunto in città ordinò che tutte le armi dell’Oleggio fossero abbassate e sostituite quelle della Chiesa, il che in ogni dove fu eseguito.
Nel genaro 1360 fu estratto ne Consoli di Bologna Facciolo di Masolo Cattani di Castel S. Pietro.
Bernabò Visconti vedendosi spogliato della signoria di Bologna a cui aspirava come legittimo sucessore di Matteo, presumendo illegittimo il possesso preso dal Card. Albornozio, si voltò di novo all’armi per avere Bologna in mano e con simulati pretesti di volere attaccare li pontifici nella Marca, mandò collà Anchino Bongarbi a disturbare e guerreggiare nelli stati del Papa. Il Legato, vedendosi poco sicuro in Bologna, abbandonolla lasciandola in guardia del suo vicegerente Blasio Fernando suo parente ed il contado lo lasciò in cura de terrazzani.
Visconti con poche truppe si avvanzò in queste parti, bottinando e guereggiando continuamente. Prese in seguito vari picoli casteletti per che di poca diffesa, fattosi per ciò più coraggioso venne nell’aprile a Castel S. Pietro, prese solo il Borgo perché quelli abitanti sentendo li di lui progressi si erano ritirati entro il Castello.
Pose a questi tosto l’assedio, ne tentò la presa coll’assalto ma, difeso dalli castellani retti dal capitano locale e difesa la Roca dal capitano Broco, fu vano ogni suo attentato ma, conoscendo non tornarle perdere il tempo in questa picola impresa, ruinò il Borgo e distrusse l’ingresso del med. a ponente.
Andò nella Romagna ma per poco, nel seguente maggio diede la rivolta verso Bologna e vi diede il blocco. Li bolognesi che temevano la presa della città per che di giorno in giorno veniva stretta, scrissero a Galeotto Malatesta di Rimini per un pronto soccorso. Venne egli di volo ad Imola colle sue genti, indi a Castel S. Pietro ove lasciato un corpo di gente, con un altro si avvanzò verso Bologna.
Il Visconti in vista di ciò, sentendo il Malatesta che si inoltrava, per disturbarlo si scostò dalla città con alquante genti e tirò un cordone da Budrio fino al monte e con altrettanta truppa meditava l’assalto. Così, assicuratosi le spalle, il 19 maggio mandò novamente per la collina via 400 soldati a Castel S. Pietro per trarne fuori li malatestini.
Ducento ne mise alla porta del Castello e duecento ne mandò alla Roca. Simularono quelli che erano al di dentro l’assedio, né punto si commosero. La mattina poi delli 20 maggio cominciò a battere l’ingresso della porta maggiore con bombarda ma fu vano poiché la porta era stata baricata con terra ed altra materia. Ciò esso rilevatosi si voltò superiormente del Castello dalla parte del matino ove era men forte, scansando la Roca e le torri. Quivi fece larga la breccia nel palancato, cosiché in breve poteva tentare la scalata, ma li malatestini e i castellani, che sempre stettero sulla difesa con arginare la terra ove si batteva, vedendosi in periglio sortirono disperatamente per la parte della Roca e col massimo ardore investirono di fianco il nemico il quale, debilitato molto dall’avere travagliato molto nella brecia del palancato e trovandosi nella fossa del Castello per ascendere le mura, fu da nostri battuto e respinto in guisa che si diedero molti alla fuga inverso la prossima collina.
Arrivò in questo mentre sul meridio altre genti del Visconti condotte dal capitano Tognazzo da Dozza che militava, secondo scrive Bernardino Cario nella sua Storia di Milano, allo stipendio di questa signoria e con tutto lo sforzo le riescì di guadagnare il cassero della Roca.
Li malatestini vedendo non potere ressistere apersero alcune posterule nella mura del Castello e sortiti per esse fuggirono ad Imola. Li altri combattenti co’ terazzani parte fugirono al monte e parte restarono cattivi. Entrato il Visconti nel Castello lo fortificò tostamente come potette ma il Malatesta più scaltro, finché le genti del Visconti attendevano quivi a fortificarsi, andò per altra parte a Bologna.
Il presente acadde nel nel dì 24 maggio. Il giorno seguente poi intesosi che il Malatesta era andato a Bologna con marcia sforzata, rivocò le genti che avea in Castel S. Pietro e lasciollo in mano de paesani ritornandosene alla città. Li bolognesi che si vedevano alle strette scrissero al Papa per avere soccorso, si querelò questi col Visconti mediante Guarniero Vassielli arcivescovo di Ravenna esortandolo ad abbandonare Bologna. Non le diede ascolto che però il Papa adirato lo scomunicò, concedendo indulgenza a chi contro quello prendeva le armi.
E perché il Visconti aveva fatto levare le aque di Reno alla Canonica perché non andassero in Bologna coll’avervi ivi piantato un bastio, così il dì 12 ottobre nel Parlamento Generale di Bologna si determinò che due Tribù cavalcassero a quella con buon numero di guastatori e si unissero al Malatesta che l’assediava.
Furono indi eletti sopra la condotta della battaglia Berluccino Cattani e Giovanni Cattani di Castel S. Pietro con Blasco spagnolo Governatore lasciatovi dal cardinale alla città.
Passarono tosto li deputati al ponte di Reno, posero li veterani alla fronte dell’armata e partirono in due corpi, la cavallaria all’uso di questi tempi, il destro fu commesso a Berluccino ed il fianco al Conte Blasco. In mezo a questi due corni furono collocati li soldati armati alla leggera, la retroguardia fu affidata a Galeotto Malatesti con bona guardia di Bologna condotti dal d. Giovanni Cattani acciò potessero accorrere a tempo e loco.
Furono poscia mandati esploratori ad ispiare la disposizione del nemico quale, avendolo ritrovato pronto alla battaglia, si vennero tosto ad affrontare le parti. Il conflitto fu sanguinoso per ambo e non distinguendosi lungo tempo per chi stesse la vittoria, Galeotto con Giovanni Cattani entrarono con tanta gagliardia in campo ed urtarono in questo il Visconti che restò perditore.
In questa battaglia restò morto il Blasco e furono fatti molti prigioni fra quali Francesco d’Este oltre il bagaglio aquistato. Morto Blasco coprì il suo posto il Governatore Gomezio Albornozio col permesso pontificio.
Cacciato in tal maniera il Visconti il card. Egidio d’ordine papale tornò alla volta di Bologna.
Fu nel 26 ottobre giorno di lunedì incontrato alli nostri confini da Nicola e Giovanni Cattani da Castel S. Pietro con molti nobili ricevuto, fu introdotto in Castello ed albergato nella ressidenza pubblica per tale occasione ben preparata. Qui si tratenne fino al mercordì 2 d. di dove partito andò alla città ove fu accolto con solenne pompa. Questi tosto pensò a modificare le leggi e poi nel seguente 1361, volgendo l’ochio alle castella che erano state ruinate e guaste le fece accomodare con nove fortificazioni.
Quindi sicome il chiostro della Roca grande del nostro Castello era basso nella fiancata colla merlatura le fece alzare le pareti eguagliandole alla mura di prospetto. In mezo alla piazza vi fece edificare un’altra torre quadrata di mediocre altezza che serviva di parapetto all’ingresso esterno della med. Roca, le cui vestigia si scoprirono anni sono in occasione di selciare a sassi la piazza, le quali da chiunque si vedono nel suolo. La porta del Borgo che guardava a ponente nella via corriera verso Bologna, distrutta come si scrisse di sopra, fu totalmente demolita e surogato invece di essa un cancello di travicelli acuminati come si è rilevato da pub. instrumenti di contratti fatti de contigui e vicini fondi.
Nel settembre morì Papa Innocenzo IV. Il giorno 12 ed il giorno 22 dello stesso fu assunto al pontificato il card. Gulielmo Grisacco monaco benedettino col nome di Urbano V.
Nel seguente anno di nostra redenzione 1362 troviamo nelli Dottori dell’Alidosio che Giovanni di Gerardo Gerardi e Geminiano di messer Antonio Geminiani, ambi di Castel S. Pietro, fiorirono d’assai nell’arte medica che da essi sostenevasi con riputazione e lode. Il primo abitava in Bologna ed il secondo in patria ed ebbero molto ad operare per la grandissima mortalità di uomini e donne che seguì in questa epoca come riferiscono tutti li cronisti.
La Cronaca Gozadini de Matrimoni Nobili della città e contado riporta che Lippa di Giacomo Vitali da Castel S. Pietro sposò Nicolò di Pietro Cavalli. La famiglia Vitali fu quella che diede il nome alla via de Vitali a Bologna per la possidenza delli edifici che in quella tenevano col suo domicilio da come riscontriamo dalle memorie di questi tempi.
La epidemia ne’ corpi umani manifestatasi nell’anno scorso non che la guerra, avendo fatto spatriare molti dalle città e contrade, il parlamento di Bologna unitamente al Legato ordinarono il rimpatrio a tutti nell’anno presente 1363 e chi non ritornava era marcato di ribelle, così riferisce la cronaca Galassi.
La medesima racconta ancora che il territorio di Bologna essendo infestato da molti lupi, il parlamento per distruggerli pubblicò una taglia di lire tre per ogni lupo ucciso. Sappiamo poi da altri scrittori che queste fiere avevano molti covili sopra le nostre montagne e boscaglie folte presso il Silaro.
Nel mese di lulio fu eletto nei Consoli di Bologna Faciolo di Masolo Catani di Castel S. Pietro. Cessati li tumulti militari e le guerre considerando li uomini del comune di Castel S. Pietro che la sicurezza delle fortezze e torre si deve mantenere sempre con gelosia, poiché rimangono sempre scintille di quel foco bellicoso sopite nell’animo delle genti ma non estinte e pensando che la vigilanza è filia del timore, la quale fu mai sempre data in custodia alle guardie onde li antichi si servivano di gride e trombe per tenerle svegliate, perciò pensarono e risolvettero di costruire una campana grande e collocarla nella torre presso la parochiale coll’alzare la med. torre affinchè col tintinito grande ed in alto posto fosse sentito anco alla campagna, tanto più che le campane su le Roche erano di mole picola. Tanto eseguirono e nel successivo 1364 fu posta una nova e grande campana in d. torre come abbiamo rilevato dalli mandati e notizie nell’archivio comunitativo.
Terminata la legazione del Card. Albornozio, fu eletto in sua vece Androvino della Rocca francese in di cui vece venne nel dì 12 genaro F. Daniele del Carretto cavaliere gerosolomitano e ne prese per esso il possesso in Bologna ed il giorno primo di quaresima solamente venne Androvino. Questi poscia constituì per suo vicario L’arcivescovo di Candia per nome Bartolomeo Bovini.
Incontriamo in questa epoca un nodo che ci resta indissolubile per la scompostezza delli archivi e carte, egli è che, nelle Memorie nostre comunitative, dell’esempio accenato trovasi indicato il seguente monumento: Dichiarazione di Bartolomeo Bovini V. G. di Androvino Legato di Bologna a favore di Castel S. Pietro, Mem. di Giacomo Guidi e Giacomo Federici, Arch. pub. C. 10 in Camera. Onde perciò lasciamo a più fortunato scrittore l’indagine di questo recapito e la produzione del contenuto.
Raccontano li Ricordi della familia Fabri nazionale, in conformità delle storie, come in Castel S. Pietro esercitava la professione medica Guido di Antonio de Boi onde, abitando questo in casa di Bittino de Fabbri, certo Albritto Cammozza d. Galabrone rubbò di notte tempo una veste al d. medico quale, accusato all’autorità locale, ordinò questa che Galabrone fosse vestito della stessa veste e fosse condotto di bon giorno per tutto il Castello e Borgo. Così seguì ma fu l’infelice tanto deriso e provocato che, vedendosi perduto l’onore, appena sortito dalle mani della giustizia prese un pugnale e miseramente si uccise.
Siccome poi dall’anno scorso si annunziò esservi propagati molti lupi nel contado e massime nelle vicinanze di Castel S. Pietro, così queste fiere si erano anco innoltrate presso l’abitato ove avevano predato bestie quindi, come lasciò scritto il P. Vanti, una formidabile lupa essendosi veduta da Momo Samachino ne di lui campi, denominati oggi giorno la Samachina sopra li Cappuccini, non arrischiò affrontarla da solo, ma tenutovi dietro coll’occhio e col camino ritrovò che ella si nascondeva poco distante da suoi terreni in una profonda fossa detta in allora, la Fossa, ove essa vi aveva la cava con alquanti suoi parti onde, dato l’avviso ad alcuni suoi compagni fra quali certo Tono della Collina, le fecero l’aguato più di una volta.
Finalmente osservata la strada e sentieri che ella teneva, le fecero un laccio nel quale incappata si sviluppò prestamente, onde accorse il Samachini da solo, non avendo avuto corragio li altri, levatosi di dosso la giubba glie la avventà alle gambe nella quale inciampatasi le corse addosso con una lunga ronca, che aveva seco presa per tale effetto, e la ferì nelle gambe deretane, cosichè non potendo correre fu fermata e vi concorsero subito li altri suoi coleghi per finirla.
Ma furono tanti li ululati che mandava la bestia, che al rumore di questi vennero alla madre li piccoli lupetti, onde trovandosi in un impegno curioso fu finita la madre ed indi inseguiti li figlioli. Si ritrovò poi nella fossa indicata il di lei covile, che riportò poi il nome questo loco che ora ritiene di Fossa lovata che comunemente col dialetto corotto, Fossaloara, si dice. Ciò fatto il Samachini ne riportò il premio duplicato in Bologna per una si fatta azione.
Trovandosi angustiato Urbano V a motivo delle guerre passate ordinò egli nel seguente 1366 una coletta alle chiese e luoghi pii del bolognese di soldi tre per ogni lira di estimo e possidenza. A questo effetto fu fatto un elenco delle chiese. Fra queste troviamo sottoposta la nostra di Castel S. Pietro al plebato di Monte Cerere ed è misteriosa questa soggezione poiché la med. nostra chiesa arcipretale viene ancor essa denominata Pieve fin da tempo di Onorio 3°.
Nel medesimo elenco, che trovasi stampato per il Dalla Volpe in Bologna l’anno 1779, al T. 2 delle Vite delli Uomini Illustri per santità scritte dal P. Ganbattista Meloni nell’appendice della vita del B. Simone da Todi si ritrova la seguente Partita relativa alle nostre chiese cioè: Ecclesia S. Maria de Castro S. Petri extim: Lir. VIII, Ecclesia S. Maria de Alborro cum Hospitale S. Jacobi de Castro S. Petri extim. Lir. VIII. Onde perciò si lascia lo sviluppo di questo enimma a chi ha più di ozio, mentre noi non ne abbiamo tanto.
Credesi però che così dovesse fino al secolo XIV mentre troviamo solo in questo sottomesse alcune parochiali a Castel S. Pietro, fra le quali quella di S. Biagio di Poggio, la quale troviamo assoggettata a quelle incombenze che tutt’ora sopporta. In questo proposito, riferisce il Muratori nella Dissertazione 74, competere alle Pievi soltanto il privilegio del battistero, quello delle sepolture, quello di esiggere che li capellani o siano parochi subordinati concorrino alla Pieve loro nel battesimo solenne della vigilia di Pasqua e di Pentecoste, con altre prerogative che sono segnate in una bolla di Celestino III dell’anno 1194 data ai Canonici di S. Reparata nella citta di Luca, di che tutto si può vederne l’estensione nel Tomassini che ne tratta diffusamente nella parte prima, Lib. (..) Cap. 3, 4, 5, 6.
Li villani di Poggio, sottoposti a Castel S. Pietro, pretesero nel 1790 ed anco poscia sottrarsi dal pagare le colette a Castel S. Pietro e smembrarsi dal med. anco nel temporale, fra le quali ragioni da loro indotte nella Signatura di Roma produssero un documento di avere eglino l’aggravio del Cereo Pascale alla loro chiesa imemorabile e però non doversi loro la coletta del Cereo, allibrato nelle tavole delle gravezze comunitative di Castel S. Pietro. Ma, dedotte le ragioni presenti del plebato di Castel S. Pietro, patirono sentenza contraria. Che chi volesse in questo proposito narrare le loro inezie e pazzie giammai si rifinirebbe e noi dirigiamo in questo loco il lettore de nostri scritti all’epoca in cui fu ventilata in Roma seriamente la causa e decisa in giudicio.
In questo anno di febraro fu ne Consoli di Bologna novamente Facciolo Cattani di Castel S. Pietro il che pure fu replicato nel successivo genaro 1367 ed in giugno Nanne Cattani e di agosto il med. Faciolo, per la loro maniera di governare ottimamente.
Poche sono le notizie che potiamo riportare nelli seguenti cinque anni, mentre li scrittori di queste epoche poco o quasi nulla ci hanno lasciato. Soltanto abbiamo solo che nel genaro 1368 fu nel numero de Consoli Giovanni —- da Castel S. Pietro e di decembre il sudd. Nanne Cattani.
Messer Mello di Geminiano Geminiani di Castel S. Pietro fu bon filosofo e medico l’anno 1369 ed esercitò la sua arte in patria. Abitava nel Borgo, come ci lasciò scritto il P. Vanti, in casa propria.
E perché l’anno successivo 1370 dopo Cristo nato suscitarono nuovi motivi di guerra, perciò il Parlamento decretò che si guarnisse dell’occorrente Castel S. Pietro colle sue Roche. Furono tosto mandate munizioni da bocca e guerra nelle med.
Un tale suscitamento fu motivo ancora che alquante delle Terre, che erano subordinate al Vicario di Castel S. Pietro si abdicarono dal med. Fra queste vi furono, come si riscontra dai fatti sucessivi a provisioni su ciò prese, Frassineto, Galegata e Monte Armato.
Nel dì primo decembre fu eletto per Podestà di Pistoia Mess. Paolo di Cecco Cattani di Castel S. Pietro, corrispose egli alla scelta nella sua condotta e ne riscosse da quei cittadini gratitudine ed applausi. Sotto il di lui governo accadde la guerra fra li Visconti di Milano e li pistojesi. In tale contingenza egli usò egualmente la autorità sua che la prudenza per li partiti che in quella città regnavano. Chi volesse a minuto saper tutto si riporti al T. 2 delle Storie di quella città, scritto da Angiolo Michele Salvi, e massime al fol. 128 e seguenti che sarà contento.
Alla fine di questo mese ed anno finì la vita Urbano V Papa ed a lui successe il card. Pier Conte di Belforte francese col nome di Gregorio XI. Appena creato Papa determinò di restituire la cattedra pontificale in Roma dopo esser stata lungo tempo in Avignone di Francia. Prima però di ciò effettuare spedì nella Romagna ed altre provincie spettanti alla Chiesa il Cardinale Albornozio a farne la descrizione dei luoghi e del loro governo. Fu fatto contemporaneamente Legato di Bologna il card. Pietro de Stagno arcivescovo Bitturinense. In sequela della determinazione fatta e deputazione nel Card. Albornozio alla descrizione delli Stati Pontifici, il med. prontamente si portò in ogni loco. Giunto a Bologna ne fece la descrizione non meno di quella che del contado e suo governo.
Rissulta ciò da un libro MM. SS. composto nell’ottobre dello stesso anno che conservasi originalmente nella biblioteca del Card. Borgia in Roma, copia del quale ci è stata comunicata dall’infaticabile cittadino Conte Baldassarre Carati di Bologna da cui abbiamo (avuti) li inc.ti monumenti attinenti a questa nostra scrivenda per quanto porta il nostro scopo.
Eccone il preambolo: Bononiae civitatis ac districtis. Bonon. Dessignatio Anglici S. R. Eclesiae Cardinalis Albornatis General. Ap.licae sedis Vicariique Se… XIV post madium exavat, cui acedunt instructiones pro Bono regimine civiates et Comitat.. Anno nativ. D. J. C. 1371. Ind. nonam de mense octobris, Santificatus SS. in Christo Patres Gregori Pontetificis XI, Anno primo.
Ed al folio 13 leggesi in proposito nostro. Castra Civitat. Bonon. quae sunt in plana versus Romadiolam videlicet: Castrum S. Petri. La descrizione del med. è limpida e chiara:
Est supra stratam rectam eundo de Bononia ad Imola et distat ab Bononia per tredecim milliaria, et ab Imolam per septam milliaria et est magnum castrum, forte, bene muratum cum foveis et ripis et bene habitatum. In eo est una porta cum turri supra, per quam habetus intro et exitus d. castri. In d. turri supra portam manet unus castellanus cum paghis IV. In castro predicto manet unus capitabeus cum uno notario, duobus equis et un ronceno, qui capitaneus tenet claves d. castro et habet ponere custodias de die ed nocte ad dicta portam et circumcirca d. castrum et habet reddere rationem usque ad quantitatem quinque lirar. bonon et non ultra hominibus et personis d. castri et certis aliis comunitatibus subdictis d. eius capitaneo.
Item in dicto castro est una rocha que habet introitus et exitum, bene murata, cum una forti turri, cum bonis faveis et bene munita, in qua roca moratur unus castellanus cum sociis duodecim.
Dappoi segue la descrizione di Budrio, indi alla pag. 21 riassume: De vicariatu Castri S. Petri comunia inctarrum Terrarum habet inter fumante et abitatores focularia videlicet:
1- Castri S. Petri focularia CCXII
2- Lignani focularia CXX
3- Vidriani focularia XXXXVII
4- Montis Calderari focularia XXV
5- Frassinete focularia XX
6- Galegate focularia XIII
7- Sassuni focularia XXII
8- Montis Renzoli focularia XV
9- Bizani focularia XXXXII
10- Montarenti focularia XV
11- Gene focularia XXIII
12- Gargognani focularia XVI
13- Stifonti focularia XXXVIII
14- Ugiani focularia CLVII
15- Varignane focularia CCLIII
16- Casalichi focularia LXXXI
17- Podii et Burginovi focularia XXXXVI
Rilevasi da questa descrizione che in Castel S. Pietro e sua giurisdizione non era per anco attivata la sanzione 1251 né tampoco quella del 1283 sopra li Uffici utili del territorio e li Pretori semestrali di ogni anno per le castella e ville mentre erano governati da un castellano con un notaio. Il primo de quali doveva rendere ragione e ministrare la giustizia a chi ne abbisognava onde non è meraviglia se non si hanno li atti giudiciali e nè tampoco li loro nomi e cognomi se non successivamente doppo il 1376 in cui nel secondo semestre troviamo per il primo Pretore di Castel S. Pietro l’egregio Faciolo Catani con il suo notaio Andrea Ardizioni , nel qual anno cominciossi a tenere il registro delle funzioni giudiciali.
Nella stessa Descrizione sotto l’articolo: Instruzioni per il bon governo della città e contado al paragrafo 35 avvi la seguente instruzione relativa al contado cioè: Item est sciendum quod in comitatu, in castris et in villis sunt duo genere hominum quod contributiones impositionum fiendarum, aliqui vocatur fumantes et terrigene, alii cives moleand.. (…) ultimi in certis factionibus et expansis contribuat in civitate, et etiam in castris et comitatu alii terrigene solum contribuunt in castris, et nihil in civitate, prout ista in statutis Comunis Bononie particulariter distinguetur.
Doppo queste ed altre instruzioni porta il medesimo libro la nota de capitani che guardavano le castella o siano vicari, per il giudiciario e per il militare. Porta la nota ancora de castellani, colli respettivi emolumenti.
Era di quest’ anni nel nostro Castello Giovanni Infangani fiorentino vicario, il castellano della Rocca grande Bernardo Ast , così viene segnato: Io de Infanganis de Florentia, capitanus Castri S. Petri cum unum Not., duobas equis et uno ronzeno. ultra libras XXV quas percipit a comunitatibus in mense a camera floren. XV. Il fiorino valeva a quei giorni, come sta segnato nella Tavola dell’Introito, soldi XXXI e danari VIII.
Nella nota de castellani poi in quest’anno colla spesa mensile era il detto Bernardo Ast : Bernardus Ast castellanus roche majori Castri S. Petri cum sociis duodecem et provisione sua persone percipit florenos in mense XXXV. Trovasi ancora in d. libro la spesa che aveva Bologna per li capitani di milizia, nella di cui serie troviamo nella truppa pedestre il capitano Bolognini da Castel S. Pietro col suo emolumento mensile così segnato: Bologninus de Castro S. Petri cum paghis, vale a dire soldati, N. XV florend. XXXVII cum dimidio al mese.
Li soldati che in questo tempo stipendiava Bologna, fatto il calcolo a pedestri erano VIIII milla. Nell’elenco suddetto della Comunità e Terra pertanto riscontrasi, all’ultimo pagato segnato N. 17, che la Villa di S. Biagio di Poggio era sottoposta al nostro Borgo, sin qui chiamato Borgo Nuovo nelle antiche carte nonché nelli scrittori contemporanei e posteriori, egli faceva il suo Massaro, ma incorporata poi la populazione in quella del Castello, furono abboliti li offici di massariato e sindacato perché accomunati essi nell’autorità patrie. Sia tutto ciò a confusione di questi torbidi abitatori di Poggio che intesero più volte smembrarsi con sotterfugi e cavilli dalla subordinazione alla comune di Castel S. Pietro pretendendosi da essi fare da sua volta un massaro o sia sindaco, un depositario, uno scrivano ed altri ministri, quandochè nella unione della loro matrice si erano congiunti assieme ed incorporati nel ceto comunitativo del nostro Castello, come anunzia la Bolla di Eugenio IV nel 1425, d’onde il sagace Savioli ne suoi annali scrisse che colli borghesani congiunti alli castellani prese maggior consistenza il nostro Castel S. Pietro, su di che si potrebbero fare infinite le scritture.
Giunto poi l’anno 1372 il novo pontefice, veduto rasserenato a S. Chiesa il tempo e calmata la tempesta, si trasferì a Roma ed a Bologna spedì li 12 genaro il novello Legato Pietro de Stagno francese. Fu questi ricevuto con molte cerimonie.
Essendosi poi fatta la pace colla Chiesa e Visconti, questa durò poco, imperciocchè fra non molto fu violata, onde il Papa, sentendo armarsi il Visconti, si collegò con molti signori. Il novo legato cominciò ancora esso a prepararsi alla guerra. Visitò tosto in persona tutte le fortezze del contado. Venuto a Castel S. Pietro come luogo di maggiore importanza rinovò quasi tutti li palancati, fortificò il corridore sopra la porta del Borgo a levante ed aggiunse alla roca del Castello alquante spingarde.
Il Papa poi, che giornalmente veniva perturbato da relazioni contro il Visconti, fu intensionato a scomunicarlo, ma in seguito nel 1373 si accomodarono tutte le differenze col pagare il Visconti al papa ducentomilla scudi per li danni patiti.
Richiamato poi dal governo di Bologna il Legato Stagno, il Pontefice le sostituì Gulielmo Novello. Furono parimenti mutati li castellani alle roche del contado dalla sede apostolica ed altresì furono mutati li capitani e vicarii delle castella colle solite paghe.
Questa notizia la ripetiamo dalla laboriosa opera scritta dall’eruditissimo Guido Antonio Zanetti bolognese sopra la Zecca e monete riminesi, nella qual opera ci porta egli un autentico documento, col quale ci fa conoscere il sistema del pressidio che la Sede Apostolica teneva nel contado di Bologna portandoci l’astratto di diversi ordini di pagamenti per li castellani delle roche ed altri ufficiali, colle paghe de soldati dipendenti da questi e segnatamente di Castel S. Pietro nel Discorso V. fol. 72, in cui ci porta il documento estratto dall’archivio delli agostiniani di quella città, cioè di essere stato nell’anno presente 1374 castellano della Rocca grande certo Bernardo di Flavinio e capitano , o sia vicario, Pietro Vardeno in precise parole:
1374, Ind. XII die ultimo novembris, Bernardus de Flavinio Castellanus roche magne Cas. S. Petri pro Sc.a Rom. Eclesia debet habere stipendium mensis octobris proximi preteriti videlicet pro provixione sue persone, que (..) mense F. L. florenorum V et pro paghis duodecim ultra personam d. Castri ad rationem F. L. duorum, cum dimidio in mense pro qualibet pagha sunt in summa florenorum trigintaquinque.
Deducuntur pro firma sol. XII
Item de dicta provisione sol. IIII
restat habere flor. triginta quattuor solid. quidecim et danar. sex. Rolandus Baroni Not. bolettarum dd.Card S. Agli,visa p. franciscum
Depositario era un tale Spinuccio del quale si legge dietro la cedola: Solvit Spinutius Depositarius d. Bernardo.
Ed altre simili bolette si sono pagate allo stesso castellano della Roca grande di Castel S. Pietro per li mesi di novembre e decembre 1374. Indizione XII, per li seguenti mesi del 1375, indizione XIII fino ad ottobre.
E sebbene nel corrente anno 1374 la pestilenza travagliava il contado di Bologna onde morivano infinite persone, non mancarono perciò in ogni loco stragi fra popoli ed omicidi comessi da sanguinolenti.
In proposito de quali riportiamo quivi un enorme fatto complicato di reati comessi in Castel S. Pietro e che ci viene sotto quest’epoca riferito nelle sue Selve Storiche per Tradizione dal P. Vanti che egli in questi termini espone.
“Amava grandemente Zanello di Lippo Dal Forno di Castel S. Pietro Tadea di Buriolo, il quale, doppo lungo amoreggiamento, avendola richiesta al padre per isposa più volte, sempre li fu negata. Infirmossi per tanto la medesima e fra non molto venne a morte. Per la qual cosa Zanello, trasportato da una enorme passione, la sera della di lei sepoltura si nascose nella chiesa senza essere veduto. A notte avvanzata, nulla riguardando il luogo né alla bestialità che si era fissato comettere tanto per fare uno sfregio al padre, andò al cataletto della defunta, quivi usò colla spoglia non altrimenti che fosse stata viva. Nella consumazione del misfatto le fuggì di capo uno starnuto, fosse accidente o volere di Dio. Si scosse dal sonno il custode della chiesa che ivi in guardia era del cadavere e rivolgendo l’ochio a questo vide movimento. Atterrito chiamò ajuto ma il malfattore Zanello di volo corse alla vita del custode ed afferratolo per la gola le vietò proferire parola non che ululare imponendole un silenzio rigoroso se nulla poscia avesse manifestato, minacciandolo di ucisione. Poi avuta la promessa, fattosi aprire la porta della chiesa sortì il malfattore Zanello.
Ma che ? Egli fu osservato da chi forse aveva inteso il rumore, quindi cominciatosi a vociferare e delli amori passati fra Tadea e Zanello. Entrò costui in sospetto di essere accusato dal custode per la qual cosa, fattole l’aguato, lo ferì mortalmente onde con ciò si scoperse il tutto.
Fuggito poscia ad Imola il malfattore si mise al soldo di Litto Alidosio signore di quella città ed un giorno fra li altri, dopo alcuni mesi, si invogliò rivedere cod. sua parentela. Venne in paese travestito ma, riconosciuto da congiunti di Tadea che si tenevano a mente l’affronto fattole, le tesero un laccio ed avvanzatole questo nel settore di sua casa non andò bene il colpo, onde egli dato mano ad uno stile cominciò a ferire li Burioli, che ivi pure volevano vindicare il reato.
Andarono molte grida dal loro canto come ne andarono anco per parte delli congiunti del Zanello quindi, attacatasi una fiera baruffa, restò morto il malfattore ed alcuni altri corsero pericolo di morte. Per questa enormità durarono non poco tempo le inimicizie fra queste familie e li congiunti dell’una e dell’altra parte onde benespesso erano in cimento, cosichè il paese era sempre in iscompiglio”.
Resa poi vacante questa chiesa arcipretale di Castel S. Pietro per la privazione di D. Pietro Giacobini fu proclamata la Vacanza ed insiememente l’invito al Comune. Compiuto il termine Andrea Burioli, capo della comunità e con mandato della med., nel dì 26 ottobre presentò al Capitolo la persona di D. Andrea Ceputi. Fu questo accettato come si legge ne rogiti Pavolo qd. Lenzio Cospi in questi termini: Preventatio ac confirmatio Rectoris Eclesie S. Maria de Castrum S. Petri per capitul. Bonon. anno 1374. Noverint universi prevens instrumenta inspectavi quod nuper eclesia curata S. Maria de Castro S. Petri rectore currente per privationem facta per Vicarium Domini Episcopi de presbiter qd. Jacobi —– de Terra d. Castri olim ultimo et imediato Rectore ad fedicte eclesie. (….) Andrea qd. Burioli sindicus et procurator universitatis et hominum Terre Castri S. Petri pred. patronium ipsius eclesie presentavit D. Andream de Receputis et beneficium d. eclesie potens ac eodem camerario ut auctoritate Capituli hujusmod. prerolationem admittere, diclumque presentatum in ipsius eclesie clerium institue… dignaretur. Qui D. Canonicus Camerarius Auctoritate ipsius Capituli, presentationem candem admittens, si fuerit admittenda, concisit et Petro qd. Facioli nuntio, ut vadat ad eandum parochialem eclesiam (..) ea publicum et poremptorium paragonat edictum, ut si qui sint qui velint opponere preventationi pred., debeant coram iper Camerario Legi…. et peramptorie comparire ad contra dicendum, sed nemine intra presentum tempus comparent… Anno eodem qui supra. Die vero quinta mensis Abris Canonici et Capitolum visa et examinata d. pre…tione facta proparte Comunis et Hominum d. Terre Castri S. Petri (..) Presbitero Andrea ad d. clericale beneficium antedicte parrochialis eclesie instituerunt.
Ipsi Canonici et Capitulum comiserunt Presbiter Andreas Rectori d. Parochialis Eclesia, licet ansenti qd. auctoritate d. Capituli d. Presbiterum Andream inducat in corporalem possessionem d. Clericalis Benefici. Come più diffusamente ne appare dalli atti e rogiti di d. Cospi.
Li 25 dello stesso mese fu preso il possesso. La cagione per cui fosse deposto e privato della cura di questa chiesa D. Giacomo ——- ed il di lui cognome, perché si oculti nel rogito Cospi non lo sapiamo e non lo abbiamo potuto rinvenire. Dubitiamo però di una grande irregolarità per cui non potesse essere assoluto, mentre questi tempi erano fecondissimi di malefici.
Al terminare dell’anno cessò ancora il ministero ed officio del Capitano e Vicario del nostro Castello e giurisdizione sua Pietro di Verdeno col rimanere ancora creditore de suoi salari, riscontrasi ciò dalla d. Opera Zanetti e dalla serie delle accennate bolette in termini seguenti: Petrus de Verdeno d. Capitaneus Officio mensium octobris, novembris et decembris prox. pretoriti cum uno Not. , famulis duobus et equis duobus ad rationem florenor. quinque in menso ultra id quod percipit a comunibus.
Combina tutto ciò col metodo esposto nella descrizione del Card. Anglico di sopra riportata intorno al Governo.
Nel successivo anno poi 1375 per le fazioni insorte, ritroviamo solo annotato in d. Opera Zanetti il Castellano della Roca picola, vale a dire sopra la torre che tuttora esiste sopra l’ingresso maggiore del Castello e dessignata in detta descrizione. Fu questi Raimondo di Vincenzo Rudezio, cioè il testimonio tratto dall’Opera accenata. 1375, Ind. XIII Die ultimo aprilis, Raimundus Vincenti de Rudetio castellanus Roche parve Castri S. Petri patr. S. Rom. Ecclesia debet habere stipendiummensis marti prox. pt. …ghis quattuor, computata paga morta d. Castri ad valionem florn. duorum cum dimidio in mense pro qualibat pagha sunt in floreni decem.
Recuntum pro firma – solid. IIII
item pro rimissione Luijsii de Alberto – solid. V
Restat habere floreni novem , sol. viginti duos et denar. sex
Essendosi sollevata Bologna contro la Chiesa, furono perciò cacciati li castellani delle roche nell’anno presente 1376.
Accadde la sollevazione nel giorno 20 marzo ad instigazione de fiorentini. Si solevò la città con due partiti, uno fu chiamato Maltraversi, perché a tutto si opponevano li malcontenti e l’altro fu de Pepoleschi o siano Scachesi perché lo stema de Pepoli forma tanti scacchi neri e bianchi. In seguito del tumulto furono eletti sopraintendenti alla guerra Pietro Bianchi con altri nobili, fra quali Bartolomeo Visani, che fu eletto sopra la custodia delle fortezze. Abbandonato il nostro Castello dalle autorità egli venne di volo ad impossessarsi delle Roche, fortificò la Grande con bombarde e munizioni di bocca e si fece giurare fedeltà alli uomini del Castello e Borgo.
Scrive l’Alidosio che Bartolomeo di messer Giacomo Geminiani di Castel S. Pietro, essendo del collegio di medicina dottore, per la sua sperimentata dottrina nella professione fu fatto Lettore all’ordinario fino al 1382. Era questi nipote di messer Geminiano di mess. Antonio Geminiani, familia non meno chiara del nostro Castello per la sua sostanza quanto per li dottori luminosi avuti.
E perché il Legato di Bologna era stato in pericolo di vita nel tumulto, fu questi salvato da Tadeo Azoguidi con gran numero di cittadini, il quale era già capo della fazione e molto stimato nella città. Lo liberò dalle mani del Conte Bruscolo, uomo empio e scelerato, il quale le aveva già levato l’anello dal dito, poi fu consegnato ad Ugone Ghiselieri, uomo di gran stima ed umanità, che travestitolo lo condusse a S. Giacomo ove fu accolto con molto amore dalli religiosi agostiniani di quel convento.
La serie di questo fatto viene da noi laconizata poiché più diffusamente fu iscritta dal Ghirardacci alla parte seconda della Storia di Bologna fol. 340 e seguenti dove a minuto si legge la tela della sollevazione ed unione delli due partiti civici, nobili e populari che, se quivi avessimo trascritta, saressimo stati stuchevoli a chi ama solo le patrie notizie. Una tale memoria fu scritta in un libro nella sagristia per mano di F. Proculo da Castel S. Pietro, custode e sagristo in S. Giacomo in questo tempo, nella quale non ommise né giorni, né ore, né nome di persona, ma fu scritta con molta precisione a tal segno che niun altro memorialista in questo fatto l’ha eguagliato. Noi pertanto dirigiamo li curiosi allo storico indicato.
Partito il legato, si fecero novi magistrati. Per tanta risoluzione patirono anco molti luoghi della Romagna. Faenza più di ogni altro, imperciocchè il Conte Giovanni Hauchevud inglese condotto al soldo di S. Chiesa inteso l’accaduto in Bologna, passò li 29 marzo a quella infelice città e, coltala alla sprovista, entrò nella cittadella colle sue genti, assalì il popolo e passò a fil di spada infinita gente e per fino li fanciulli latanti in seno alle meschine madri ed in meno di un ora uccise quattromilla cittadini.
Ciò fece perché quella città de li Manfredi signori della medesima erano collegati a bolognesi ed indi la sacheggiò tutta, poi se ne andò a Ferrara. Intesa una tanto strage li bolognesi detennero il capitano Filippo Puer con Cocco ed altri militari dell’Hauchevud che stano in Bologna per pressidio a conto della Chiesa. Ciò intesosi dal med. se ne addirrì e mandò a minacciare li bolognesi li quali tostamente spedirono a Ferrara Ricardo Saliceti per pacificarlo ma fu vano, imperciocchè fra non molto passò nel bolognese e tanto danno vi fece che non lasciò luogo né chiesa, né castello che non fosse da esso tocco o col ferro o col foco.
Scampò il Saliceti per miracolo la vita ed in seguito furono rilasciati li detenuti. Ciò non ostante nell’aprile venne colla massa delle genti dalla parte di Romagna. Assalì il nostro Borgo ed il Castello con tale impeto che vedendo la malaparte li borghesani, li castellani e li soldati di pressidio fuggirono ed abbandonarono la torre alla sua discrezione. Entrato in Castello fece alquanti prigioni che poi rilasciò e menò a filo di spada anco li custodi della porte, percosse le donne più animose e se vergini furono ignominosamente insultate e stuprate, nulla guardando all’età loro e quelle che non si nascosero e corsero alla chiesa di S. Bartolomeo, furono tratte fuori dai nascondigli, furono (…) seminude.
Le familie dei Rinieri, Fucci, Balducci, Bonacelli, Ghirarddacci, Lupi, Burioli, Battisti, Verondi, Comelli, Fabbri ed altri ed altri di minor condizione furono svaliggiate. Tanto ritroviamo scritto nelle carte del cap. Gio.Battista Fabbri.
Sacheggiò pure l’ebreo banchiere nel Borgo, rovesciò e sconquassò le mura publiche, appianò li terragli del Borgo, incendiò l’ospitale di S. Giacomo appresso ponte Silaro, né vi fu loco, per bono o tristo che fosse quale dalla licenza militare non fosse maltrattato.
Vedendosi li Bolognesi a mal partito si confederarono con Barnabò Visconti ed infrattanto elessero le altre autorità governative. Troviamo quindi ancor noi nella serie dei libri delli atti giudiciari attinenti a Castel S. Pietro, speditaci dalli conservatori del grande archivio di Bologna, che incominciano nell’anno presente 1376 secondo semestre, essere stato appuntato dalli Anziani e Consoli di Bologna per Pretore e Vicario del nostro Castello e sua giurisdizione il comendabile Faciolo Catani alias de Capitani di Castel S. Pietro, uomo di esistimazione, della nobile familia che ha coperto anco la carica di Anziano della città come più oltre si racconterà.
Adirato papa Gregorio IX vieppiù contro Bologna per una tanta rivolta, pensò spedirle contro maggior armata, tanto più che in questa contingenza avevano creata una nova magistratura che in seguito poi non piaque alla nazione e fu motivo di altra funesta insurezione. Assoldò perciò il Papa li nepoti di Cane dalla Scala veronese detto, il Gran Scaligero. Vedendosi perciò in cattiva situazione li bolognesi spedirono al Papa per la pace quale, mediante Ugolino Scappi, fu tosto composta.
Ma nel ritorno che faceva a casa fu catturato da Nestorre Manfredi signore di Faenza per paghe di milizia non pagate. Li Anziani spiacendoli tale aresto, spedirono tostamente al Papa Paolo Cattani di Castel S. Pietro con Ugolino Galluzzi per fare accordo. La spedizione ebbe il suo effetto.
Perché poi molti cittadini e nobili erano partiti dalla città per isfuggire le risse e parte per essere sospetti, così li novi magistrati, per ovviare a maggiori perdite di cittadini, l’anno seguente 1377 crearono un novo Consilio di 500 persone le più scelte, valore ed autorità ed amate dal popolo affine di prescindere a tali sconcerti. Nel numero di quelle che godevano le migliori opinioni nella città e contado furono Paolo e Faciolo Catani, Sasso Sassi e Minoccio di Cino di Guidillo Zenzani tutti di Castel S. Pietro. Cino era notaio ed aveva in consorte Giovanna di Geminione Donati da Imola.
Alla custodia delle fortezze e castella furono spediti diversi cittadini e nobili. A Castel S. Pietro venne Domenico Vizani, altresì confirmato per Podestà, Vicario e Governatore il lodato Faciolo Cattani di Castel S. Pietro al med castello e suo vicariato per il primo semestre come risulta al Lib. Actor. delli sud. Giusdicenti del paese, suo notaio Lorenzo di Nanne Fanti. Nella pergamena del qual libro esternamente si vede a penna dessignato lo stema della familia cioè un leone rampante alla destra con tre gilii sopra.
Fra non molto seguì la pace col Papa e Bologna. Nel fine dell’anno essendo in Cesena una compagnia d’italiani di 400 lanze che stavano per conto della Chiesa, le medesime chiesero il passaggio a nome della med. per il contado onde andare nel veronese condotte dallo Scaligero, chiedendo vettovaglie e dieci milla ducati.
Li bolognesi si opposero alla sovenzione ed offersero il solo passaggio colla condizione che si dessero ostaggi. Quanto all’altre domande non erano in grado effetuarle, anziché di far fronte alla violenze in caso si volessero. A questo effetto il Governo oltre li cavalli che aveva in città, mise in arme più di duemilla persone sul momento e consegnolle alla condotta di Pietro Canetoli. Questi senza perdere tempo le condusse a Castel S. Pietro sotto diverse compagnie, regolate da diverse bandiere, portate da alcuni cittadini cioè Tordino Cospi, Gio. Leoni, Sante Daniesi dott. di legge, Mercatante Ghiselieri e Giovanni di Giacomo Fucci da Castel S. Pietro.
Il secondo semestre anno corrente 1377 fu eletto Podestà e Governatore di Castel S. Pietro Pietro qd. Napolione Gozadini, suo notaio Paolo qd. Nicolò Magnani, Lib. Act. Judis. 1377 S.S.
Intesosi ciò dalli conduttieri delle 400 lancie, mandarono tosto li ostaggi a Castel S. Pietro colla massa delle lancie. Chi fossero li conduttieri e li ostaggi ce lo taciono li scrittori, solo che erano al soldo papalino. Una parte della truppa bolognese si fermò nel Borgo e l’altra entrò nel Castello il dì 19 decembre con li ostaggi.
Li 30 d. giunsero li 400 militari e furono scortati da bolognesi fino alla città e da quella fino ai confini di Modena ove furono restituiti li ostaggiati. In tal guisa fu sicurato Castel S. Pietro col resto del contado.
Nel seguente anno 1378 entrò Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Bartolomeo Poeti. Li 29 genaro Ghino detto Cino di Castel S. Pietro filio di Guidinello di professione notarile fu fatto cittadino di Bologna e tostamente fu posto nel Consilio civico per partito del governo.
Avendo Gregorio IX Papa eretto in Bologna un collegio per la gioventù a cui aveva deputati per lettori li migliori professori di Bologna, fra quali Bartolomeo Geminiani da Castel S. Pietro e Matteo da Varignana, ambo celebri nella medicina ed essendosi laureati due giovani nell’andante 1378 cioè Paolo d’Ari… ed Alberto Bonsignori fiorentini con applauso universale e contento del papa, il medesimo non solo onorò di preziosi doni li due lettori ma caratterizò ancora li medesimi del titolo di Eccellentissimi , il qual per lo passato mai si era appropriato al alcuno benchè fosse illustre ed insigne.
Li 21 marzo morì in Roma il Papa e di aprile morì l’Imperatore Carlo IV nella Roca di Praga, al quale successe Venceslao suo filio e nel pontificato successe il cardinale Bartolomeo Pignani napoletano arcivescovo di Bari col nome di Urbano VI. Fu questo pontefice nella giustizia inesorabile. Li splendori della nobiltà, né le autorità supreme, né la dignità, né li caratteri gli offuscarono li lumi perché non prendesse il condegno castigo alli contumaci. Alli cardinali rifformò il numero de serventi, fece rigorosissime leggi e ridusse le pompe alle convenienze dello stato loro. Li popoli che erano assuefatti vivere a capricio, si umiliarono. Le genti manesche e prepotenti deposero le armi, onde li sanguinari furono più cauti, massime li nobili che si prendevano le soddisfazioni loro benerese contro chiunque, cosichè il mondo cattolico mutò tostamente faccia. Li eclesiatici non furono esenti. Il loro dipiù dovevano destinare a sollievo de poveri et altre opere pie. Li cardinali francesi temendo la severità di Urbano si ritirarono in Fondi e quivi si elessero un antipapa che fu il card. Roberto de Conti di Ginevra col nome di Clemente VII.
Il danno di questo scisma, come fu universale, altrettanto fu travaglioso, mentre guerre, ribellioni, omicidi, impunità di delitti ne naquero in ogni parte seguendo chi Clemente VII e chi Urbano VI. Li bolognesi però e suo territorio seguirono la parte del vero Pontefice.
Vacata in questo tempo per la morte di D. Giovanni da Pizzano la cura della chiesa di S.Biagio di Poggio sotto Castel S. Pietro, juspatronato di quei parocchiani della qual cura più oltre del 1276 non si riconosce memoria, come al Lib. dell’Asse fol. 321. Fu presentata da essi al Capitolo della Mensa di Bologna D. Pietro qd. Giacomo ——– da Castel S. Pietro, quantunque fosse paroco della vicina chiesa parochiale di S. Giovanni nel vicino castello detto Triforce, dappoi distrutto, del quale in oggi vi resta il solo nome di una possessione detta Trifolce di ragione di Bernabiti di Bologna. Tale presentazione e nomina fu così fatta, attesa la tenue rendita si dell’una che dell’altra cura. Fu approvato il presentato, in questa guisa furono d. due chiese unite in una sola cura come ne appare alli atti di Paolo Cospi al Protocollo fol. 226. Morì poi questo nostro curato del 1407 in aprile.
Questa chiesa di Poggio fino alli 29 ottobre 1451 si denominò sempre colli titoli di S. Biagio di Poggio e S. Giovanni di Triforce come rilevasi alli atti e rogiti del notaio Pietro Bottoni. La di lui nomina si perdette dal 449 come alli atti e rog. di Giovanni Foscarini.
Giunto l’anno 1379 nelli Anziani fu eletto Facio di Tomaso Catani di Castel S. Pietro. Chi fosse podestà di Castel S. Pietro per i P.S. mancano gli atti.
Trovandosi li abitanti delle castella del bolognese oltremodo gravati di imposizioni, ne andarono richiami al Parlamento della città. Deputò egli perciò quattordici individui del suo seno, de più affetti al popolo, con facoltà loro di sgravare le comunità dalle nove imposte. Nel N. delli eletti vi cadde il sud. Facio da Castel S. Pietro, come riscontrasi nelli atti della Camera. Furono in seguito consolate le comunità ricorrenti. A quelle instanze si aggiunsero altre petizioni delli nostri oppidani di Castel S. Pietro contro li uomini del Comune che si erano appropriati sull’esempio di altre comunità de proventi delle imposizioni sud. onde in seguito ne fu fatto il sindacato essendo Massaro del nostro Castello Onofrio di Giacomo Bonacossi.
Erano in questa epoca al soldo militare di Bologna Rosino di Castel S. Pietro, capitano di lanze a cavallo e Francesco di Bolognino Naldi capitano di molti fanti con bona provisione che si riscontra al Lib. delle spese nell’Arch. pub. di Bologna L. 2 fol 2, Memor. di Francesco di Gio. Lanfranchi N. 118.
Le Croniche Bianchetti e Secadinari ramemorano nel seguente anno 1380 che Bartolomeo Geminiani di Castel S. Pietro, celebre medico, essendo nel numero de lettori pubblici della città se le accrebbe per il suo merito l’onorario fino a l. 50 e l’Alidosio ne suoi Dottori scrive l. 60, per la cattedra. Li onorari in tale somma non si ritrovano in questi tempi in alcun altro.
Accaduta in Firenze una grande rivoluzione, fuggirono parte de que’ cittadini, parte furono sagrificati al furore e parte cacciati da quella città. Racconta Francesco Pitti, nella sua Cronaca stampata per la prima volta in quella città l’anno 1720, un caso accadutole nel Borgo del nostro Castello nel mentre che egli quale foruscito andava ad unirsi con altri fiorentini fuoriusciti a Verona con mess. Carlo Durazzo e (..) di Napoli dell’Angioina, detto volgarmente, della Pace, per la famosa pace conclusa per opera sua fra veneziani e genovesi collegati co’ padovani da una parte e col Patriarca di Aquilea e Re Luigi d’Ungaria dall’altra parte, delle cui truppe Carlo era generalissimo, l’anno 1380 mentre con gran esercito di ungheri, tedeschi ed italiani si incaminava per la Romagna andando ad acquistare il Regno di Napoli investitone da Urbano sesto.
Il qual caso colle stesse parole del cronista fol. 26 fu il seguente cioè: Andamone a Verona dove erano già arrivati molti de nostri maggiori cacciati e rappresentatici tutti al detto messer Carlo, esso con grande esercito di ungheri e tedeschi e taliani si partì e venne in Romagna e noi con lui essendoci accompagnati con Bernardo di Lippo e con Gio. di Gurieri de Raffi andammo nel Borgo di Castel S. Pietro bolognese per essere meglio alloggiati dove avendo cenato, fuoco si apprese alla stalla, per modo che a me toccò lasciarvi arsi quattro de migliori cavalli che io avessi. Trassero i villani dal Castello per ucciderci, per sospetto che fossimo incendiari, venia lor fatto se non fosse stato uno di Firenzuola, che prima ce ne venne avvisati che ci giungessero sproveduti. Armamoci e chi a piè e chi a cavallo con grande fatica ci partimmo in la meza notte e tirammo verso il campo che era presso di qui quattro miglia e andammo a Forlì.
Deducesi da questa scrivenda che il campo era fra la Toscanella e Piratello nella via corriera, di che li nostri cronisti non ne fanno cenno.
E perché poi andavano continue querele al parlamento di Bologna essere male governati da laici li ospitali presso li ponti del contado e le abitazioni loro andavano in rovina, così, volendo il Senato prevedere a tali assordi, fece capo a Filippo Caraffa moderno vescovo di Bologna, acciò questi ospitali si ridducessero a bon governo grato a Dio e uomini.
Onde fu deliberato che fossero governati da regolari e persone eclesiatiche e, siccome questo nostro Ospitale di S. Giacomo e Filippo al ponte Silaro era ridotto, per le guerre passate ed ultimamente dalle truppe inglesi e brittone sotto il cap. generale Houcuhevod, inabitabile e sottoposto sempre a rabberie,ruine ed altri mali essendo lontano all’abitato, fu pensato in questa contingenza, giachè aveva bisogno di riffarcimento, di trasferirlo nel Borgo, ove non solo si albergassero li viandanti, ma anco si ricevessero li esposti che ben di spesso si ritrovavano in mezzo li trivi e crocciali e talora morivano senza sapersi se batezati o no.
Fatto il progetto, fu plaudito dalla università ed in seguito la pubblica rappresentanza del paese assegnolle poche pertiche di terreno sul labro della fossa del Borgo dalla parte di borea per la sua costruzione. Cooperarono a questa molto li agostiniani del paese detti di S. Bartolomeo, tanto più che una pia unione di terazzani nella chiesa loro si congregava a fare atti di pietà inverso Dio.
Si diede fra non molto mano all’opera in seguito di che alcuni paesani, comiserando la povertà umana, disposero causa mortis a favore del novo loco pio. Riferisce l’Alidosio, ne suoi Estratti de Testamenti esistenti nella fabbrica di S. Petronio, come nel 1399 Antonio di Gio. Rondoni di Castel S. Pietro muratore lasciò alla compagnia di S. Bartolomeo di detto Castello terreno ed allo Ospedale de’ Divoti di d. Castello terreni, come da rogito di Francesco Dal Porto fol. 18 e nel 1458 Antonio qd. Sodino Soldini da Castel S. Pietro all’ospitale novamente costrutto di d. Castello lasciò terreno, fol. 223. Da queste indicazioni, tanto dell’unione sudd. delli Devoti eretta da quei P.P. d’allora nella sua chiesa col titolo della med., quanto la costruzione recente del loco pio, che coll’andare del tempo l’uno e l’altra furono incorporati nella compagnia di S. Cattarina, rilevi il leggitore de nostri scritti se ci opponiamo alla verità del fatto.
Scopertasi poi la pestilenza in Bologna cominciò a dimesticarsi tanto colle febbri che, incrudelendo, mandava molte persone al sepolcro. Era questa una febbre tabifica che producendo enfiagione nelle inguinalie, declinando in inflammazione, uccideva le creature di ogni età e sesso. Nella publica strage cercava ciascuno fuggire alla campagna. Si spopolavano le contrade, li cittadini per ciò si sparsero nel contado ove l’aria era più perfetta.
Fra li contestabili di questo anno 1382 e nel numero de capitani stipendiati di Bologna trovasi, nel Libro della Spesa, assoldato Bolognino da Castel S. Pietro.
Nel dì primo settembre tanto per le contingenze pestilenziali, quanto per tenere in freno li malvagi e ostare a nemici, fu spedito a Castel S. Pietro Nicolò Lodovisi officiale sopra le Condotte con soldati.
Propagatasi ed estesa nel contado la pestilenza l’anno 1383 Castel S. Pietro fu uno dei più battuti castelli del territorio imperciochè perirono più di mille individui fra castellani ed agricoltori, secondo li MM. SS. in casa Fabbri. Durò l’epidemia fino al 1384. Il motivo di perdersi tanta gente fu per la sua situazione d’onde, nel transito di peregrini e viandanti, si rinovava la infezione che da questi si portava.
Liano che nelle guerre ultime aveva sofferti notevoli danni e sacheggi nella sua contrada, che è quella la quale oggi giorno pure si vede, pensarono li lianesi abbandonarla e trasferirsi in luogo più eminente e sicuro e difficile per la presa dall’inimico, che però, al riferire di cronisti, radunata quella comunità in figura di comizio, decretò per il meglio fabbricarsi nell’apice del vicino monte un castello diffensivo a proprie spese col circuirlo di mura di fortificazioni con una torre all’uso di questi tempi.
Tanto eseguirono in breve, fu edificato in figura quadrata con grosse mura, l’ingresso era dalla parte di borea a cui si accedeva sopra la cresta della sottoposta colina non potendosi dal circondario ascendere altrove per il pendio della terra da ogni canto. Sopra il med. ingresso vi edificarono una forte torre dalla cui vedetta si si scoprivano non solo li uomini nella via romana, ma anco si vedevano le castella vicine e le fortezze del territorio da questa parte di levante fino nell’imolese, come può ciascuno sincerarsi se vi si porta in facia all’ubicazione. Nella d. torre vi posero una campana onde chiamare le genti all’arme.
Di questo castello abbiamo fra le nostre carte il dissegno in misura fatto l’anno 1722, giudicialmente riprodotto alli atti delli Not. Gio. e Gian Giuseppe fratelli Pedini nel foro civile di Bologna per occasione di una rabbiosa lite civile fra il paroco D. Alessandro Scappi e li uomini del Comune per il diritto sopra la campana in d. torre che era del Comune e per altre differenze ecitate dalli Alberici, Bernardi familie di quel paese che vennero poscia criminosità.
In essa torre eravi lo stema comunitativo figurante un gilio. La disposizione delle case e piazza erano ben intese come si vede dalli fondamenti ed andamento delle via. La chiesa interna era dedicata a S. Nicolò da Bari in memoria di che, trasferitosi nella parochiale quel santuario, se ne celebra ogni anno dal paroco la festa.
Serafino Calindri che ha scritto molto nel suo Dizionario Coregrafico di Bologna sopra la parte montana, non ha scritto tutto per la sua avversione mostrata a quel zelante pastore D. Matteo Baldazzi di Castel S. Pietro che, mai sempre infaticabile per il bene spirituale e temporale del suo gregge, ha costrutto una nuova chiesa, riformata la canonica e coredata la sagrestia del bisognevole. Si potrebbe quivi aggiungere altre notizie belle ed antiche intorno a questa parochiale alla quale fu incorporata altra chiesa curata poco distante che noi conserviamo per altro effetto che non conviene in questo loco infraporle per non scostarci molto dal nostro camino al quale ritornando riferiamo che l’Alidosio nelle sue Vachette acenna a un rumore nato in Castel S. Pietro nel mese di agosto in quest’anno segnato nel Lib. 22 Malefic. fol. 18, che non ci è bastato l’animo avere in mano questo codice stanti li trasporti e mutazioni di posto a questi libri, senza farne il rincontro.
Li Ubaldini signori di alquante castella nel bolognese avendo contratto nimistà col Conte Alberigo e Giovanni di Barbiano e volendo questi passare colle sue genti per il contado di Bologna onde poi afrontarsi col nemico, offerse il Barbiano ostaggi di pace al Senato ma, ostesandosi ciò dal Senato, questo andò ad incontrare la nimicizia del Conte e, perché era prode e forte guerriero, temendo il Senato di una inaspettata sorpresa nel dì 15 febraro 1385 mosse soldatesca a Castel S. Pietro onde far fronte al nemico con facoltà a Tarlato Beccadelli , Lamberto Bacilieri e Francesco Parigi conduttieri dell’armi di oltrepassare ancora il nostro Castello quallora vi fosse il uopo.
Animosi questi soggetti si avanzarono nella Romagna, ma il valoroso Conte Balbiano e il Conte Zagonara congiunti e bravi egualmente nell’armi, vennero incontro a bolognesi e ritrovatisi nella Romagna a S. Prospero fecero una sanguinosa battaglia e fecero fugire li bolognesi fino al nostro Borgo.
Matteo Grifoni bolognese che, prima di fare la spedizione della truppa, in Senato aveva aringato con sommo calore acciò piuttosto si ricevessero li ostaggi di pace di quello che opporsi a valorosi capitani, sentendo la perdita de bolognesi e che si erano attendati a Castel S. Pietro, né arrischiavano venire in Bologna per il rossore, le fece una risata in verso toscano facendola attaccare nel publico palazzo, che noi ci risparmiamo quivi apporla dirigendo il curioso all’opera delli scrittori bolognesi ultimamente stampata in Bologna ove l’autore Conte Fantuzzi la riporta per intero all’articolo: Grifoni.
Stettero perciò li sudd. inviati nel nostro Castello alquanti giorni per il rossore, né avevano di ritornarsene in città, non avendo superato un nemico di forze minori, essendo essi di gran lunga superiori e coalizati col Duca di Ferrara Giovanni d’Azzo Estense.
Avendo compito il suo ministero di Sindico della comunità nostra di Castel S. Pietro Bartolomeo di Tomaso Marozzo fabbro, fu assogettato ad un sindacato per le providenze e suo governo fatto, per le colette massimamente, dalle quali intendevano sottrarsi molti oppidani. Rese egli il conto di tutto nell’anno seguente 1386, come ne risulta dalla Filcia delli Atti di Cambio Alberti Not.
Per il seguente primo semestre 1386 chi fu fatto podestà di Castel S. Pietro le carte dell’archivio non ce lo indicano e ci mancano ancora li atti giudiciali. Crediamo perciò che alle sue incombenze attendesse Lisandro Campana di Castel S. Pietro paesano eletto Contestabile del med.
Giovanni di Cino con Floriano di lui fratello detti da Castel S. Pietro, ambo dottori di legge essendo nel colegio de Giudici, di giorno in giorno crescevano e splendevano nella Lettura con gran seguito di scolari cosichè Floriano fu caraterizato dalle genti del titolo di Lume delle Leggi.
Il Conte Lucio Tadesco capitano che era al soldo di Astorre Manfredi signore di Faenza, essendo da esso stato licenziato colle sue genti, sdegnato si trasferì sotto Castel S. Pietro alla pianura per andare in Lombardia e comecchè il Manfredi era coalizato co’ bolognesi, il Conte Tadesco non lasciò contrada indennizata, provocando ancora a baruffe le guarnigioni delle castella e li paesani ancora. Così fece colli nostri castellani, ma con poca sua sorte poiché, avvanzato uno staccamento delle sue truppe al nostro Borgo per danneggiarlo, sortì dal Castello Lisandro Campana ed unito ad Ugolino Balduzzi con molti patriotti e villani vennero alle mani colli tadeschi, onde fu respinto fino alla Villa di Poggio.
Per il secondo semestre di questo anno entrò in Castel S. Pietro Pietro Buttrigari.
Il Conte Lucio intanto, richiamate le altre sue genti per non perdere tempo in cose da poco si inoltrò presso Bologna, da cui sortiti li bolognesi lo allontanarono dalla città. Prosseguendo egli il suo cammino entrò nella Lombardia. Temendosi poi di una pressione del Balbiano e Conte Zagonara, che ancor essi pure danneggiavano la campagna con scorrerie, il Senato pubblicò una Grida che tutti li contadini e familie che avessero abbandonato il loro paese dovessero ritirarsi colle robbe e persone entro le loro castella capiluoghi del respettivo comune. Le familie pertanto Pavarelli, Samachini, Dalla Serpa, Cheli, Dalla Collina, Nicoli e d’Alborro che erano partite dal nostro Castello, rimpatriarono tostamente.
Il Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre 1387 fu Facciolo di Campeggio. Il Conte di Cunio che di certo era partito dal bolognese, retrocedendo dalla Romagna, chiese il passaggio per le nostre parti di Castel S. Pietro. Le fu accordato a condizione di essere ricevute le sue genti ai nostri confini dai bolognesi e scortate fino al di là di Bologna. Tanto seguì nel maggio 1387 e fu accompagnato fino a Panzano.
Stanco l’arciprete Antonio Ricaguti di coprire il ministero e cura di questa arcipretale di Castel S. Pietro nel lulio seguente rinunciò la med. alli uomini del Comune. Al principio di questo mese entrò Podestà di Castel S. Pietro Masolino di Pietro Ferretti per il secondo semestre.
Attesa la rinoncia sudd., la pubblica rappresentanza del paese procedette alla presentazione di D. Giovanni Silveri li 17 agosto al Capitolo di Bologna e nel giorno seguente 18 furono affissi li editti e nel giorno 22 fu conferita la chiesa al presentato, come alli atti di Paolo Cospi.
Bartolomeo de Zangolini di Castel S. Pietro essendo stato in questo tempo promosso alla dittatura di Bologna il med. tostamente ordinò alli anziani che il Consilio delli 400 si accrescesse fino alli 600. Nel qual tempo era ancora anziano nella tribù di Porta Procula Sasso Sassi di Castel S. Pietro. Un tale fatto piaque molto alla cittadinanza.
Avendo terminato il loro castello li lianesi e reso abile alla diffesa, si stabilirono dentro il med. ma trovandosi senza un superiore locale sofrivano di malavoglia essere sottoposti alla Giudicatura di Castel S. Pietro, onde ne nascevano disordini e scandali. Pensarono pertanto sottrarsi al nostro Castello tanto per la sommesione al Pretore che per la esentazione di concorrere alla fortificazione di Castel S. Pietro capoluogo.
Ricorsero perciò al parlamento della città acciò volesse erigere in vicariato il loro Castello di Liano ed unirle le vicine terre e paesi della colina e montagna ad essi vicini. Il Senato per liberarsi da ogni contrasto con li uomini di Castel S. Pietro, co’ quali vedeva un adito aperto a disordini, si compiaque acordare che Liano fosse eretto a vicariato senza verun altra prerogativa. Cessarono perciò li cimenti ma per poco tempo.
Intanto per il seguente anno 1388 furono podestà di Castel S. Pietro per il Primo Semestre Filippo Manzoli e per il S.S. Ercole Bentivoglio come si riscontra dai libri respettivi delle loro funzioni giudiciarie.
Non contenti li uomini di Liano della provisione sudd. del Governo di Bologna, cercarono di tirarsi dietro li comuni di Frassineto, Galigata ed altre vicine terre e castelli con modi surretizi, estorcendo decreti e provisorie. Tutto ciò veniva maneggiato occultamente dal novo arciprete di Castel S. Pietro per le aderenze di parentele che aveva con alcuni lianesi. Se ne accorsero li uomini di Castel S. Pietro che il novo arciprete D. Silverio mostrava partito per li uomini di Liano, onde la familie magnatizie di Castel S. Pietro Fabbri, Zopi, Sassi, Comelli ed altri cominciarono a titubare contro esso così che si vide in situazione di allontanarsi non che dalla chiesa ma anco dal paese. Tanto fece e rinonciolla a D. Bertusio Berti da Varignana. Fu proposta questa rinuncia alla Comunità, fu accettata colla condizione che si desse solo evasione al fatto nel futuro agosto 1389.
Li uomini di Liano furono tanto importuni al governo per avere il Vicario separato da Castel S. Pietro che l’ottennero, ma volevano smembrare dalla podestaria di Castel S. Pietro alcuni comuni, al che non le fu data retta, solo a Liano si lasciò dal Governo di Bologna la giudicenza al loro Vicario pro tempore sulla Comune di Liano e le due ville di Corneta di sopra e Corneta di sotto perché fanno parte del loro comune e così le fu dato questo Vicario al primo semestre Bartolomeo di Pietro Bottrigari e Guglielmo Calanchi per notaio che al principio del 1388 investirono la carica, riscontrasi ciò dal libro delli Atti Giudiciali nell’archivio del giudice di pace di Castel S. Pietro.
Giunto poi l’anno 1389 furono fatti Podestà di Castel S. Pietro Galeotto Bocadelli e Matteo Fabri. Il primo nobile e per il primo semestre e l’altro civico per il secondo semestre come riscontrasi dalli respettivi loro libri delle funzioni giudiciarie in d. Archivio.
Alli 28 agosto poi li uomini di Castel S. Pietro giusto il concordato coll’arciprete Silveri, come si scrisse, fu presentato al capitolo di S. Pietro di Bologna D. Bertusio Berti. Nel dì 30 furono affissi li editti e nel giorno secondo di settembre le fu conferita la chiesa.
L’erario pubblico di Bologna trovavasi esausto a motivo delle spese incontrate per le guerre, onde non potendosi fare le spese convenienti fu necessitato il governo accrescere le colette sopra le possidenze delli fumanti. Ciò fece indistintamente e furono estese ad ogni persona e luogo anco privilegiato.
Li abitanti di Castel S. Pietro, che fino dalla sua fondazione erano stati dichiarati cittadini ed esentati da qualunque dazio ed imposta e sucessivamente per la aderenza al Governo bolognese le erano state confirmate le imunità dalle colette, anco a contemplazione delli danni sofferti per l’addietro e del ristoro che loro si doveva, non intendendo assoggettarsi a questo novo riparto di colette, alquante familie emigrarono dal paese li cui nomi e cognomi ci tacciono le storie, essendosi ritirate parte nella vicina Romagna e nei medati alle campagne. Furono perciò richiamate al rimpatriamento, furono rinuenti onde, fatto l’opportuno rapporto a Bologna per averne la providenza a tanto disordine, il quale prevedevasi essere per accrescere e che il Castello si saria evacuato, tanto più che altre familie facoltose erano sulle mosse della partenza, onde il Senato fece il seguente decreto in proposito ( qui si trascriva).(?)
Le familie poi che erano in sumossa furono per quanto riscontriamo dalle memorie della estinta familia del famoso cap. Gian Battista Fabbri le seguenti cioè: Rondoni, Dalla Muzza, Serpa e Comelli.
Nel seguente 1390 furono Podestà di Castel S. Pietro Giovanni Gozadini nobile e per il S. S. Romolo di Romeo Schiassi.
Ella è una infelicità assai grande di un raccoglitore di memorie storiche quando incontra lacune e contradicenze ne scrittori che non danno loco a discernere il vero. Tanto ora accade a noi in questa epoca. Nella sua Storia di Milano Bernardino Corio fol. 552 narra che il Conte Alberico da Barbiano gran Contestabile, avendo intesa la morte di Giovanni di lui nipote decapitato in Bologna, venne con gran quantità di genti a Castel S. Pietro inaspettatamente e presolo fece prigionieri tutti li pressidi, poi in questo luogo si fece forte, indi invase tutto il bolognese da questo canto facendo danni infiniti. In seguito si presentò a Bologna con animo di vendicarsi dell’ingiuria.
Questo fatto non lo sappiamo combinare con il racconto de nostri scrittori contemporanei, li quali non ne danno il minimo sentore di alcun rumore nato nella città. Perciò si lascia lo sviluppo del vero a chi ha più comodo e talento di noi a venirne in chiaro.
Raccontano bensì li nostri storici che avendo li Visconti mosse l’armi contro bolognesi, si ritrovava Bologna in bisogno di genti pratiche di guerra, perché il Visconti si era avvanzato nella Lombardia con capitani valorosi assoldati. Onde il Senato Bolognese chiamò alla diffesa dello stato li più valenti e prodi guerrieri e capitani statisti, fra questi eravi il capitano Ugolino Balduzzi e Lisandro Campana ambi di Castel S. Pietro che nel giorno 17 genaro 1391 entrarono in città, essendo persone famose la prima delle quali era Contestabile in patria.
Furono Podestà di Castel S. Pietro in quest’anno nel primo semestre Dott. Donato Sanini medico e per il S. S. fu Francesco Lambertini.
Per non lasciare poi indifeso il nostro Castello fu dal Senato munito di vittuarie e di tutto il bisognevole le Roche.
Eravi la familia nostra Cattani di Castel S. Pietro resa talmente chiara in questi tempi e per li dottori e per le genti d’arma che la fama delle loro virtù e valore era passata ancora a paesi lontani, che però Leonardo filio di Giovanni ottenne da Sigismondo Re d’Ungaria con lettere patenti il libero passaggio con armi e persone al bisogno per li di lui stati, essendo prode ed egregio guerriero.
Le insidie de Visconti ai bolognesi erano tali che conoscendo questi non avere forze valevoli a difendersi ricorsero al Papa onde avere ajuto. Le fu spedito per ambasciatore Paolo Cattani da Castel S. Pietro, Dottore di leggi nel 1392, come scrive l’Alidosio, che fu accolto umanamente dal Papa, dal quale ne riportò la di lui eloquenza nell’ambasciaria quell’esito felice che narrano le patrie istorie.
Furono Podestà di Castel S. Pietro in quest’anno per il P. S. Landino Sala e per il S. S. Tadeo Trentaquattro. Nel seguente 1393 furono Podestà per il P. S. ——- e per il S. S. Manfredino Sabbatini.
In quest’anno la mortalità nelle bestie dall’unghie spaccate fece gran strage per tutto il contado bolognese d’onde furono sospesi tutti li mercati dal Governo. Alcuni manuscritti annonimi ritrovati fra le carte delli Rondoni si pretende che in questa circostanza veramente luttuosa si manifestassero vieppiù le virtù della nostra Fonte della Fegatella. A questa opinione appoggiandosi il P. Vanti, più che al riferto del cronista Giangiacomo Brocchi che ne scrisse un barlume nel 1338.
Riferisce che, abbeverandosi pecore attaccate dal malore presso il nostro Castello a piedi della collina in una pozza fatta sulla strada che porta al monte lungo la destra del Silaro, sanarono molti di quelli animali alli quali, gonfiandosi il corpo soccombevano, onde bevuta di quest’aqua calava la gonfiagione, onde le bestie sentendone giovamento annelavano di questa aqua. Vedutosi ciò da pecorai cominciarono questi a farne le sue osservazioni. In seguito apertone alcune morte ritrovossi il loro fegato marcito. Cominciossi perciò da questo accidente condursi ad abbeverare le bestie alla sorgente di questa aqua ed a farne uso anco le genti che sentiva male alli intestini la quale, trovata giovevole vieppiù per il mal di fegato, fu denominata Aqua della Fegatella. Paolo Masini e la Cronaca Ghiselli la vogliono scopertanel 1415, senza dirci il come.
Delle virtù di questa sorgente ne è stato fatto un laborioso trattato dal dott. Antonio M. Fracassi medico condotto di Castel S. Pietro nelli anni 1773 della nostra Cristiana Redenzione che originalmente noi conserviamo di suo caratere colli altri documenti della familia.
Alla epidemia accennata si aggiunsero impetuosi venti che sradicavano le più annose querce ed altri arbori sconquassarono edifici e perfino le merlature alle alte torri e fortezze dalla parte del meridio.
All’entrare del 1394 coperse la carica di Podestà di Castel S. Pietro per il P. S. Urbano Sala e per il S. S. Giovanni Oretti nobile come abbiamo dai libri delle loro funzioni giudiciarie.
Il Senato di Bologna fece poi ristorare le fabbriche pubbliche delle fortezze che avevano patito detrimento dalli impetuosi venti. Riconoscente pure il Senato delle prodezze e meriti del d. nostro Leonardo Cattani, sulla traccia del Re d’Ungaria, concesse egli pure al med. nel dì 13 novembre il libero passaggio con genti d’arme per il territorio di Bologna.
Nel successivo anno 1395 quali fossero li Podestà e governatori di Castel S. Pietro ci mancano le notizie sicure, che dalla antichità ci vengono defraudate come pure ci viene defraudato la copia di un documento titolato: Beneficio a favore delli uomini di Castel S. Pietro nell’archivio pubblico di Bologna dalli custodi del medesimo con nostro dispiacere, indicato nell’elenco delli Privilegi attinenti al nostro Castello, Lib. Fantini e Fanticino.
Il dott. Paolo Dalmonte bibliotecario della Biblioteca Imperiale di Roma, oriondo del nostro territorio di Castel S. Pietro, in una sua raccolta fatta delle cose del castello di Dozza ci ha notiziato come avendo Lippo Valloni di questo castelluccio contratto nimicizia colli Benini e Buscaroli dello stesso castello a motivo delli partiti nati in Imola per li Alidosi, furono cacciati li Valloni e Duralli onde, per assicurarsi, questi si edificarono nei loro beni una forte torre sulla confina nella collina bolognese loco detto il Machione ove erano folte boscaglie contro il dozzese, nelle quali si facevano aguati e vi stettero alquanto a lungo, essendo anco spalleggiati dalli fuori usciti di Castel S. Pietro che molestavamo di quando in quando li dozzesi, ma poi fatta la pace fra loro fu demolito il fortilicio.
Passando poi all’anno 1396 furono Podestà di Castel S. Pietro per il P. S. Giusto Gelli nobile e per il S. S. Giovanni Bomboloni.
Le comunità del bolognese, avendo sofferti non pochi danni dalle milizie nemiche, ricorsero al Senato onde essere sollevate. Nel numero delle riccorrenti vi fu la università di Castel S. Pietro. Commiserando perciò il Senato questa populazione come la maggiore danneggiata ordinò nell’incanto del Dazio Sale e decretò che alli uomini di Castel S. Pietro fosse dato a minor prezzo delle altre comunità.
Nel Libro Datiorum et Gabellarum Bonon. trovasi questa beneficenza nei Capitoli da incominciarsi nel dì primo lulio 1396 che il daziere sia obbligato di dare il sale a Castel S. Pietro a ragione di l. 6 la corba di peso libre 170 ed a ragione di nove danari picoli alla minuta. Da un altro canto poi il med. Senato, per economizare lo stato gravato di debiti per le guerre fatte e per estinguerli a poco a poco, ridusse anco le spese pubbliche e li salari dei castellani. Quindi il castellano della Roca picola di Castel S. Pietro fu tassato di l. 4 mensili e quello della Roca grande in l. 10 mensili.
Nati dissapori in Bologna, che poi produssero malanni nel territorio, fra Nanne Gozadini e Giovanni Bentivoglio si venne a scompiglio tale che, nato rumore nella città, furono cacciati li bentivoglieschi. Per tale motivo crebbero li nemici al Bentivoglio. Fra li più potenti furono li Canetoli. Il Senato che per un tal fatto sovrastavale una rabbiosa guerra, moltopiù che Gio. Galeazzo Visconti, avendo inestinguibile sete sopra la città, mandava genti nella Lombardia. Pensò il Senato far danaro, che è il nervo maggiore per le guerre, mediante un estimo sopra li terreni del contado ed a proporzione gravare li sudditi. A questo effetto furono eletti nel 1397 Luchino Calegari e Lorenzo Maltesilani cognominandoli superstiti del Comune, che ne fecero poi il riparto delle collette nell’anno seguente.
Furono poi li Podestà di Castel S. Pietro e Governatori dell’anno presente 1397 per il primo semestre Giovanni di Bartolomeo Dessideri e per il secondo semestre Nicolò Rustigani.
Di quale mormorio si accendessero li sudditi nel 1398 massime contri li Gozadini ognuno se lo può ideare e così contro li Canetoli sostenitori della plebe e chi contro li Bentivogli sostenitori della nobiltà onde ne naquero due fazioni per cui si sparse non poco sangue. A motivo di queste vicende siamo privi delli podestà semestrali in Castel S. Pietro.
Ci fa noto l’Alidosio nelli suoi Dottori che fra li molti che erano insigniti di dottrina eravi Antonio di Nicolò Cattani da Castel S. Pietro che si distinse plausibilmente.
Nell’anno 1399 furono Podestà di Castel S. Pietro per il P. S. Paolo Filippi e per il secondo semestre Bernardo Rondi.
Necessitoso il nostro Castello del riffacimento delle mura sconquassate massime a levante ne fu avvanzato il ricorso al Senato il quale, stanti le presenti circostanze, nel dì 14 febraro decretò che fossero reidificate e, perché li abitanti avevano il massimo piacere di assicurare le loro persone e robbe, si offersero di concorrere alla spesa col proprio sempre che il Senato, dall’altro canto, li compensasse coll’esentarli di concorrere alle fabbriche pubbliche delle altre fortezze del contado.
Fu acettato il partito e si procedette tosto alla nova fabbrica nella quale si spesero lire seimilla delle quali la università di Castel S. Pietro pagò l. 1200 e quanto al ressiduo completivo le l. 8000 fu ripartito alle comunità della podestaria di Castel S. Pietro. Ciò non solo ce lo manifesta il Ghirardaccio nella sua Storia ma con il Legale decreto governativo nel libro fanticino Arch. Pub. di Bologna, 1399 li 14 febraro Fol. 77 Lib. del tesoriere.
Non abbiamo altro testimonio delle primiere mura facienti circondario al nostro Castello, le quali furono squassate e ruinate, se non una picolo avvanzo nell’angolo superiore al levante ove la nobile familia Locatelli bolognese, proprietaria e succeditiva nelli beni delli Conti Ramazzotti paesani, la quale circa la metà del 1600 sopra il baloardo posto in d. angolo fabbricavvi quel bel torreggiolo che vi si osserva.
La mura d’allora era compagna fatta a scalione di mattoni cotti con cordone della stessa materia su cui si alzava il parapetto colli merli per li diffensori della Terra contro gli agressori. Prosseguiva questa mura così scaglionata fino all’infimo del Castello ove nell’angolo eravi altro baloardo conforme, questo congiungevasi ad altro pezzo di mura di simile materia e struttura sino alla porta maggiore del Castello. Dalle fiancate di questo angulare baloardo si riscontra tutto ciò che abbiamo narrato.
Le dette due fiancate testimoniali sono in oggi coperte di terreno moticcio ed interrita la fossa esteriore per comodo del mercato de majali. Fra li sudd. due baloardi ve ne erano altri due conformi nell’intercapedine di essi, cioè uno ove fa angolo la mura dietro li portoni di S. Francesco e l’ultimo era più superiore ove nel terraglio interno eravi il giardino del d. (..) Locatelli.
Le nove mura poi reidificate furono, come si osserva, più internamente al Castello di quelle che erano le distrutte. La ubicazione di queste e loro costruzione si osserva tanto nella semetria che nell’edificio. Li buchi in essi fatti a regola per le armature inservienti alli ponti de fabbricatori ci fanno conoscere il tempo, (…) ebbe la materia più recente delle conquassate mura.
In conformità della primiera delimitazione vi fu lasciata la porta dietro il baloardo fronteggiante il convento e chiesa di S. Francesco che rimase interrita fino alla metà dello scorso 1600 ed aperta allorquando fu concesso il vicolo a frati minori di S. Francesco intermediante la chiesa e orto loro, la qual porta noi chiamiamo ora li Portoni di S. Francesco conforme alla sua epoca abbiamo notato.
La Cronaca Bianchetti ci racconta in quest’anno un disordine accaduto in Bologna a motivo di un armigero del nostro Castello, uomo da temere, per nome Giovanni Garbanio Corbani facinoroso e da partito non meno che bravo di sua vita e talento. Aveva egli nimicizie colli suoi compatriotti Rinieri, essi pure facinorosi, e colli Guidotti di Bologna onde, temendo di non essere tolto in aguato ed ucciso, chiese al Senato di poter caminare per la città e contado con dieci uomini armati per sua diffesa. Ottenne quanto chiese e, con suoi amici de più fedeli, con bravi del paese e suoi congiunti ed aderenti, cominciò a lasciarsi vedere per la città. Alberto Guidetti di lui capitale nemico (tacendosi le cronache la cagione), vedendolo armato con questo seguito, pensò essere per ucciderlo. Egli pure si armò e fece anco armare molti suoi amici per diffesa. Alla perfine il giorno di Pasqua di Ressurezione 30 marzo, divulgatosi questo fatto per la città ne fu tumultuata. Onde fu fatto inteso su di ciò Giovanni Bentivoglio, che ne era esule, fu rivocato dall’esilio alla città.
Riparatasi a questo pericolo e inconveniente che poteva degenerare in grandissimo disordine della città e quietato il popolo, fece il Senato dar mano immediatamente al compimento della mura del nostro Castello e così pose rimedio alla città ed un obice alla confina verso la Romagna.
Il giorno 20 lulio in quest’anno fu segnalato per li grandi terremoti che si fecero sentire per li quali le genti abbandonarono le abitazioni per non rimanere vivi sepolti sotto le ruine delli edifici. Le abitazioni del castello Alborro abbandonate, li edifici in pendenza del vicino Fiagnano e li fabbricati colle mura di Corvara, in massima parte all’oriente, crollarono onde questi castelli rimasero presso che inospiti. Non bastando questi castighi vi si aggiunse una fiera pestilenza che si estese per tutta la Italia.
Nella città di Bologna faceva strage la morte per lo che fu motivo a molti nobili e familie civili emigrare da quella e ritirarsi nel contado alle castella et alle ville ove era l’aria più purgata. Mosso a pietà di così fatte calamità un prete pio scese dall’Alpi con quantità di uomini al numero di 25 milla e, professando penitenza, venne sul bolognese per andare a luoghi santi. Nel settembre perciò passò da Bologna a Castel S. Pietro cantando lo Stabat Mater, inno composto poco prima da Giovanni XXII.
Arrivando egli a capo di strade col suo gran seguito si prostrava a terra e gridando tutti, Misericordia !, domandavano alla divina pietà la pace. Il vescovo di Bologna Bartolomeo Raimondi con molto popolo vestito di bianco, ad imitazione de seguaci di quel prete, lo accompagnò con quattro gonfaloni della città, uno per tribù, fino al nostro Castello ove arrivato introdusse il prete col clero nella chiesa principale. Quivi fece un devoto ragionamento persuadendo ciascuno alla pace, celebrata poscia il vescovo la S. Messa, soggiunse poche parole.
Il progresso di quella numerosa congregazione fu tale che niuno compariva al pubblico se non vestito di bianco professando quel divoto uniforme. Li viandanti ed il religioso vivevano di elemosine che si raccoglievano dalle genti ne luoghi ove fermavasi. Fu dappoi accompagnato fino ad Imola con soldati a piedi ed a cavallo a motivo delle guerre che vertivano con quelli di Barbiano ed altre castella della Romagna.
Giunto in Imola fece la solita funzione di ascoltare la messa nel duomo quale finita fra Alberto da Ozano, minorita e famoso predicatore in questi tempi, fece una devota predica ed esortò li imolesi a far ancor essi ricerca per la comitiva e prete sud.. La comitiva veniva denominata: Comitiva de’ Bianchi, perché andavano vestiti di bianco tutti li uniti di quella fino a piedi, portando bavaro col quale si coprivano la faccia in tempo di penitenza e disciplina.
La storia del Ghirardacci, del Falconi ed altri ne hanno già diffusamente scritto ed a questi tutti rimettiamo il curioso legitore se vole maggior pascolo.
Si vuole dal nostro P. Gian Lorenzo Vanti nelli suoi MM. SS. che la nostra Compagnia di S. Cattarina prendesse in questa contingenza l’uso della cappa bianca e ne riportasse anco il nome di Società de Battuti come ne suoi statuti. Il medesimo prete, che fu ad altri occasione di salute spirituale, fu a se stesso, fra non molto, occasione di tormento ed insania corporale poiché, convinto di eresie e di proposizioni scismatiche nel vigente scisma, accusato al vero Papa fu imprigionato in Viterbo a consegnato fino alla fiamma.
Li partitanti popolareschi che, per sfuggire la peste travaliante la città di Bologna, erano dalla medesima sortiti, essendo della loro fazione Carlo Zambeccari a S. Michele in Bosco con altri suoi compagni ivi si fortificarono, ma ne accadde la di lui morte. Con questa occasione pensarono i Maltraversi del partito contrario farsi signori della città, ma fu indarno poiché fattosi rumore parte furono uccisi e parte banditi per opera di Nanne Gozadini. Fra li banditi fuvi Giovanni Cattani da Castel S. Pietro.
In quest’anno finì la vita Antonio di Giovanni Rondani da Castel S. Pietro che lasciò alla compagnia di S. Cattarina, sua patria ed all’Ospitale novo de Devoti, come scrive l’Alidosio, terreni per rogito di Francesco Dal Porto. Codesto Rondoni, benché fosse di professione muraria ed arte mecanica, possedeva signorilmente all’uso di questo secolo.
Sebbene l’anno seguente 1400, in cui siamo mancanti di notizie dei pretori del paese, fu dedicato al Giubileo da Bonifacio nono, non per questo si spensero le fazioni e li dissidi, le ribalderie in ogni sito. Furono perciò gastighi supremi, la pestilenza si accrebbe facendo in ogni dove strage. Il scisma de pontefici facevano languida la pietà e ritardavasi la divozione e culto a Dio. Li terremoti rinovarono. Ne’ bestiami fu più fiera la lue che ne corpi umani cosichè restarono incolte nella massima parte le campagne.
Ammareggiati poi li uomini di Castel S. Pietro dalli uomini delle comunità e terre che si erano sottratte da cod. vicario e sottoposte a Liano, come si scrisse, la si tennero a mente onde perciò benespesso si urtavano con provoche e risposte. Si domesticarono tanto queste che, vedendosi in pericolo di aggressioni, quelli di Vedriano e Galegata diedero l’ultima mano a certe loro Rochette che furono poi dette Bicocche come si riscontra in autentici documenti.
Vedriano aveva la sua alla destra dell’ingresso verso lo ponente della quale fino a questi tempi se ne vede un tronco e si riscontrano li fondamenti dell’abitato che non era picolo, donde ne abbiamo estratta delineazione formata sopra quelli andamenti. Lo stesso fecero quelli di Galegata
sull’apice del monte ove era il loro castelletto assicurando il med. tanto con porte, quanto la loro picola Roca presso l’ingresso respiciente a borea il vicino Frassineto, sopra li quali castelli abbiamo noi la figura, la conserviamo con altre di luoghi diversi del contado.
Tutte queste cose fatte credevano que’ montanari essere assicurati ma si ingannarono poiché nell’aprile di quest’anno presero occasione di lite contro quelli alcuni facinorosi di Castel S. Pietro, che si nominarono da P. Vanti, e furono Gadone Ciarla, Tomaso Marozzo e Canzio di Lamberto detto Brascolo, quali alterandosi con parole in certo contralto con li avversari, il cui nome ci tace lo scrittore, si venne per fino alle prese nel Borgo. Accorsero al rumore altri montanari, cosichè sviluggati si diedero tutti alla fuga per salvare la vita.
Avuto il riporto il Vicario locale fece imprigionare Gadone e Marozzo. Fatta la penitenza e sortiti di carcere, composero segretamente una masnada di compagni et andarono occultamente a Frassineto per vendicarsi di alcuni di quel paese. Ma, avvisato, il portolano chiuse la porta del Castello onde la masnada, non potendo quivi far frutto, si avvanzò immediatamente a Galegata che, colto quel mucchio di case all’improvviso, si impossessarono li masnadieri della porta e della vicina rocchetta, che si guardava da certo Paganello di Simone Vanetti detto Cimarasa.
Ottenutosi in potere il loco, li montanari, che avevano rissato colli nostri di Castel S. Pietro, vedendosi a mal partito scesero dall’abitato loro verso il monte. Onde, non potendoli ragiungere, li masnadieri incendiarono le loro case e dappoi, partendo da quel castellacio, ruinarono le porte del med.
Ciò fatto passarono a Vidriano e fecero la stessa aggressione ma, ritrovando resistenza nel castello, ascesero li masnadieri il vicino apice del monte ove è la chiesa presentemente e quivi con sassi piombandosi sopra li castellani. Si asentarono questi dalla guardia della porta tanto che, approssinatosi Brascolo, le riescì guadagnarla coll’apporvi poscia il foco. Vedendo ciò li vedrianesi calarono ancor essi precipitosamente le mura del castello dalla parte di mezzogiorno e scendendo nel vicino rivo si imboscarono poscia sotto Montecerere.
Durò bon tempo (…) (..) ove nessuno perì miracolosamente. Avuto quel castello, furono sacheggiate le case delli Conti di quel loco e delli Mengoli. Un tanto delitto andò impune a motivo che li masnadieri erano tutti partitanti de Gozadini.
Restiamo poi meravigliati come il P. Vanti, che non solo era indagatore delle cose patrie e teneva conto delle tradizioni che fossero verosimili al vero, il quale, essendo congiunto di sangue alla casa e familia estinta del cap. Valerio Fabbri in Ginevra di lui figlia, avendo esso scartabiliato tutto il voluminoso archivio di quella familia, non abbia messo a conto una notizia e memoria attinente al paese. Forse ciò sarà stato originato dalla mancanza di conoscere li carateri antichi o dallo scrupolo di produrre cose che ha dell’impuro.
Noi però, che caminiamo col principio cioè che lo storico deve narrare tutto ciò che puole quando non ofende l’onore de viventi né insegna cose ripugnanti il culto e relligione, abbiano il coraggio di tutto esporre.
Il dott. Anibale Bartolucci, erede di quella pingue eredità Fabbri, avendone comunicato altre notizie patrie, ce ne ha comunicata ancora la suddetta che qui apponiamo ne termini co’ quali è scritta e chiudiamo il raccolto di questa seconda centuria cioè:Ricordo come questa notte 19 maggio 1400, avendo l’ebreo Banchier Salomin in Castel Sanpetro due fioi, Disach maschio e Lia femena, putta assi venusta, essendose epso invaghito Disach di notte alta, travestito trovolla en letto e sforzoe sebbene fesse forza essendo lo Zenitor essente nel tempo, che cometteva il vitium, gridò assae forte, cosichè fu inteso da visini il rumore, fuzendo po’ il fratello Disach bacucato, perdette l’anello. La mattina fu portato al (…) che interogò la putta che non savè die niente. Mostrato poi l’anello ravvisolo de suo fratelo e pianzendo fortemente tornosse a casa, donde trovato Disach presolo per li capelli e tirollo zo per la scala con ferite mortali e dappoi essendo corso ajuto se epsa col ferro isteso uccise. Dio ce guarde da simele disgrazie.
Essendo poi morto Carlo Zambecari di pestilenza a S. Michele in Bosco, tenendo egli la signoria di Bologna, naquero nel Popolo diffidi tali che, sollevata, la plebe depose le autorità vechie e ne fece altre. Nanno Gozadini in queste differenze portava la parte della plebe e Giovanni Bentivoglio quella della nobiltà e ciascuno di loro aspirava al primato della città, alfine prevalendo il partito bentivogliesco fu eletto Giovanni e si impadronì a viva forza del palazzo. Per tali contingenze furono banditi molti sia di città che del contado seguaci del Gozadino

Fine del 1400
Siegue la Centuria III

Raccolto di Memorie Istoriche di
Castel S. Pietro
Nella Giurisdizione di Bologna
Dall’anno 1401 al anno1501
Libro terzo Centuria III


Argumento
Castel S. Pietro viene assediato dal Conte Alberico da Barbiano, diffeso da Castellani. Preso e sacheggiato da Facino Cane. Ricuperato da bolognesi. Baruffe diverse. Il Papa fuggendo la pestilenza in Bologna si ritira a Castel S. Pietro con XXI Cardinali, loro domicilio e per quanto tempo. Esenzione concessa a Castel S. Pietro da tutti li Dazi e Gabelle. Angustiato poscia si ribella a Bologna e segregato dalla medesima. Dappoi reintegrato colle sue Ville e Comunità subordinate. Si divide in due Partiti. Viene occupato da Angiolo della Pergola. Diviene asilo del Legato pontificio per nova pestilenza. Si ribella di novo a Bologna e si mantiene forte per la Chiesa. Viene battagliato e diffeso valorosamente da castellani. Loro Capitolazioni e premio. Viene esentato Castel S. Pietro dalle Superiorità di Bologna. Li fuorusciti lo infestano ed occupano. Viene preso dal Gattamelata. Battagliato da Nicolò Picinino. Li Castellani riccorrono al Papa e ne hanno del Bene. Il Conte Luigi Dal Verme se ne impadronisce. Li suoi soldati sono uccisi. Romeo Pepoli fugge da Bologna con mille de suoi partitanti e Cittadini perseguitati da Bentivogli. Il Pepoli si fa forte in Castel S. Pietro spalleggiato da Castellani. Viene battuto ma non si arrende sotto la protezione de Pepoleschi, che valorosamente colli Castellani fano fronte ai Bentivoleschi ed in fine si consegna al Papa e li Paesani riscuotono grazie e beneficenze.


Per le presenti vicende di guerra siamo privi del nome e cognome del Sindico e Massaro locale del paese del primo semestre. Entrò però Pretore novo di quest’anno 1401 in Castel S. Pietro Giovanni di Tadeo Fantuzzi partitante pepolesio, come abbiamo dal Lib. Actor. Preg. C. S. P
Giovanni Bentivoglio impadronitosi pertanto del Palazzo pubblico di Bologna l’anno 1401 nel dì 14 marzo si fece poi in appresso dichiarare dal Consilio delli 600 per Signore della città. Indi dal Parlamento universale il giorno delli 28, mese istesso, fu confirmato.
All’entrare di aprile prese il possesso delle castella. Richiamò tutti li banditi e fuorusciti per cagione delli dissidi dell’anno scorso e successivamente ordinò le cose della città e condusse allo stipendio molti capitani sia della città che del contado colla paga di quindici fiorini al mese per ciascuno.
Nel numero di questi capitani troviamo Ubaldino Balduzzi di Castel S. Pietro, uomo prode e valoroso che dal Ghirardacci si nomina famoso. Mutò li castellani alle Roche. A Castel S. Pietro fu destinato Nannino Nannini per la Roca grande e Giovanni Pelliciari per la Roca picola. Il primo stabilì quivi la familia, che propagossi fino al 1600, come riscontrasi dai Codici. Il secondo nò.
Ma perché fra il Bentivoglio e Battista Baldovini erano nati alcuni dissapori onde si guardavano di mal’occhio e sospettando anco il Bentivoglio di Ostesano e Giovanni Ostesani, fratelli di Castel S. Pietro, ambo capaci di qualunque insurezione come narrano le cronache, cacciolli in Bando anco in vista che erano parziali del Baldovini, il che recò molto dispiacere ad essi.
Per tali sconvolgimenti non mancarono anco li territoriali di insurrezioni ed insobordinazioni de paesi. Fra questi sentinne li effetti Castel S. Pietro. Smembrossi dal suo vicariato Vedriano, Monterenzio, Calegata, Frassineto, Sassuno ed altri villaggi e si edificarono fortilizi li uomini delle respettive comunità, anco per il malcontento di concorrere alle spese delle nove mura di Castel S. Pietro.
Accortisi li Bentivoglio di questo ed altre cose che perturbavano la tranquillità e temendo che vacillasse il suo dominio, convocò di novo il Consilio delli 600 e si fece confirmare per Signore della città e contado. Poi, per farsi maggior partito e captivarsi di molti a se, creò cavalieri aurali assai di essi.
Indi procurò per una nova magistratura durabile per due anni che il consilio delli 400 fosse questa creata e tanto seguì. Furono li componenti della medesima chiamati di nome di Sedici Rifformatori ed esso si costituì capo de medesimi. Nel numero di quelli fuvi Floriano da Castel S. Pietro dott. di L. L.
Credendo poscia che il Papa senza alcuna difficultà lo dovesse confirmare per Signore e Vicario di Bologna, vi spedì il d. Floriano con Masolo Malvezzi ma furono rigettati. Ciò non di meno il Bentivoglio prosseguì nella signoria intrepidamente.
Astorgio Manfredi signore di Faenza, perché nella rivolta di Bologna aveva veduta la instabilità del governo di questa, se ne approfitta ed impadronissi di Solarolo spettante a Bologna. Ne addomandò Bentivoglio la restituzione, ma le fu negata. Tostamente il Bentivoglio mandò molta gente ed il Conte Alberico da Barbiano ad assediare Faenza. Essendo ormai per essere presa si interpose Michele Steno nobile veneziano per la pace e tanto seguì pagando il Manfredi quaranta milla scudi a bolognesi.
Ciò penetratosi dal Conte Alberico, vedendosi escluso dal trattato, si sdegnò tanto col Bentivoglio per questo sottomano, si perché non aveva potuto finire la guerra col Manfredi suo capitale nemico, che si rivoltò contro il Bentivoglio e, con pretesti mendicati di signoria, cominciò a scorrere il territorio bolognese facendosi da Castel S. Pietro. Dappoi vi piantò sotto il campo per averlo in suo potere, scorrendo quotidianamente ora un contado ora l’altro.
Contemporaneamente nel mese di giugno venne il Perugia messer Ottobono Terzi dalla Romagna a ritrovare il Conte Alberico che stava sotto il nostro Castello di lui grande amico avendo servito entrambi per capitani il Duca di Milano. Quivi, avendo avuto trattato assieme contro Bologna, si unirono colle genti, arrolarono molti fuorusciti bolognesi ed, avendo seco li nominati
due fratelli Ostesani di Castel S. Pietro con altri compatriotti suoi ed altri amici malcontenti, scorsero fino ad Idice traendo seco in preda uomini, donne, bestiami e vittuarie. Ma ciò che più davale fastidio era Castel S. Pietro. Ciò non di meno nel ritorno, che fecero uniti li due capitani assieme, avuta intelligenza colli partigiani delli Ostesani che erano nel nostro Castello si venne all’attacco coll’inimico.
Li castellani, sperando con freddezza, rimase l’impegno di tutte le forze in mano alli pressidi del Castello, che essendo in poco numero poco potettero sostenersi. Onde dalla furia delli sudd. capitani, coll’ajuto delli Ostesani, fu preso il Castello, fatti prigioni il Nanini, Pelliciari, Battista Balduzzi, Bastiano dalla Roda, Clemente Fiegna, come racconta il P. Vanti, furono con altri delle familie Baldi, Salvetti, Ricardi, Trapondani, Verondi e Rondoni fatti prigionieri. Seguì questo fatto il 13 giugno.
Presa la Terra riposò quivi una giornata il vincitore. Il susseguente giorno poi 15 d. ritornò alle scorrerie e bottino fino sotto Bologna. Volendo poi il capitano Ottobono passare a Milano per la Lombardia e temendo il Bentivoglio, si fece accompagnare per il Conte da Barbiano nel territorio bolognese facendo tanto la truppa del Ottobono quanto l’altra del Barbiano rubberie in ogni dove passavano.
Avutasi la relazione dal Bentivoglio di tanti danni, sortì di Bologna per la porta di Mascarella con bon numero di soldati e raggiunse il nemico al Reno, si appiccò quivi una ardente battaglia in cui rimanendo li bentivoleschi superiori, levarono al nemico le prede e liberarono li prigioni fatti in Castel S. Pietro.
Aggiunge quivi il citato P. Vanti nelle sue memorie che in tali frangenti Palemona Balduzzi sorella del d. Battista, donzella di personale e coraggio virile fornita, tenne dietro al fratello con pugnali occulti con animo di socorrerlo data la opportunità e liberarlo dalla prigionia di Ottobono. Di fatto tanto le avvenne. Mentre inoltratasi nel viaggio al di là di Bologna, sentendosi venire alle spalle il Bentivoglio con armata, sollecitò il passo ed accostatasi alla truppa nemica, si insinuò in essa al che le sentì scaravanciarsi assieme li bentivoleschi colli soldati del Barbiano e di Ottobono e, ritrovato il fratello, prese di mano una picca ad un soldato, costretto col pugnale alla mano che aveva tenuto occultato, e consegnata al fratello l’arma nemica si fecero entrambi strada fra la truppa nemica a modo che, unitisi alli altri prigioni, riescì a tutti unirsi ai bentivoleschi e con essi combattere contro il Barbiano ed Ottobono.
Infine, poscia ottenutasi la vittoria alli bentivoleschi, rimpatriare in appresso a Castel S. Pietro fra li evviva de suoi congiunti e de buoni paesani. Appoggia il citato P. Vanti questo suo racconto alle memo de familiari della familia Balduzzi, la quale fu mai sempre chiara in paese per le fazioni militari e per le sostanze fino alla fine del 1500.
Avuta questa battuta il Conte Barbiano ed Ottobono fuggì nella Lombardia. Niente però atterrito il Barbiano della perdita sofferta, riposato pochi giorni in Castel S. Pietro decampò e ritirossi alle castella di Romagna, che si tenevano per conto del Bentivoglio.
Andò imediatamente a Doccia, guardata da due capitani bolognesi cioè Marco Cattani da Castel S. Pietro e Bertolo Papazzoni da Bologna. Il primo stava nella Roca co’ sua gente e l’altro colla sua e colli castellani guardava la Terra. Quivi giunto il Conte assaltolla dalla parte di sotto a cui, non potendo far fronte il Papazzoni per la guarnigione sua, convenne ritirarsi presso la Roca. Molto più che da una parte di quel castelletto si era ruinata una parte di mura e fatta breccia in una casetta fronteggiante le rive al ponente, per la qual cosa crescendo la folla de militari del Conte, Marco Cattani che dalla Roca tutto vedeva, accolti in essa quei pochi che potette del pressidio Papazzoni, sortì questo per la porta secreta della Rocca e venne a Castel S. Pietro indi incaminossi verso Bologna.
Marco Cattani rinchiusosi bene nella Roca, benchè attacato da due canti dal Barbiano, mai si perdette d’animo e valorosamente si sostenne in essa. Avvanzatosi il Papazzoni nel viaggio scontrossi Lancellotto Beccaria che con molta gente veniva di Bologna a soccorrerlo e di volo venne a Castel S. Pietro ove passato il paese accampossi a S. Giacomo attendo quivi li ordini del Bentivoglio.
Avvisato il Conte che li bentivoleschi erano in bon numero accampati alla buca del ponte nel tereno detto di S. Giacomo, sacheggiò Doccia portando via armi, vittuaria e, non potendo guadagnare la Roca, vi incendiò il ponte levatore di legno che a quella introduceva il bisognevole. Il Papazzoni proseguendo il suo camino alla città per diffendersi col Bentivoglio, giuntovi ad esso appena fu tosto impicato.
Nel seguente lulio frate Matteo Cattani di Castel S. Pietro dell’ordine de Minori O.O. fu nel giorno 29 fatto vescovo nella Corsica ad Aci e Mariana città. Facendosi poi brevi le giornate, dopo alcuni mesi le truppe bentivolesche che erano in Castel S. Pietro, senza sentirsi alcun movimento nella Romagna, riconosciuta la inutilità dal Bentivoglio tenerle in questo loco scioperate e dall’altro canto vedendo il bisogno di fortificare la città a cui dirigevasi Gian Galeazzo Visconti signore di Milano per impadronirsene, richiamò il campo che aveva a Castel S. Pietro che prontamente fu evacuato.
Nel seguente anno 1402 fino al 1404 siamo privi delli podestà locali ed in conseguenza delli loro atti giudiciali. A motivo di tutto queste vicende il Bentivoglio, dubitando delle rivolte populari, fece per la guerra grandi apparati che poscia furono inutili poiché il Visconti, messo assieme un poderoso esercito condotto dal valoroso Giacomo Dal Verme, col quale erano Pandolfo e Carlo Malatesta di Rimini, Galeazzo Gonzaga di Mantova, Alberto Pij da Carpi, il Conte di Urbino, Facino Cane, Conte Alberico da Cunio, Paolo Savelli romano, Ottobono Terzi sudd. da Perugia ed altri valorosi capitani e con 400 fuorusciti bolognesi e del contado condotti da Gozadini, Gallucci e Pepoli, vennero fra breve tempo a Bologna.
A questi volendosi opporre il Bentivoglio, si attaccò una fiera battaglia li 26 giugno in giorno di lunedì appresso il fiume di Reno all’occidente. Restò perditore il Bentivoglio. Per tale fatto entrata confusione in Bologna, il popolo si mise in libertà il giorno seguente 27 giugno gridando: Morte, morte al Bentivoglio. Accostato l’esercito nemico alla città entrarono prima in questa li fuorusciti e furono li Pepoli, li Gozadini e poi li altri officiali. Il Bentivoglio, dopo avere combattuto tutta la notte per fuggire il tumulto populare non senza frutto, si nascose in casa di una povera donna da S. Arcangelo dove ritrovato fu nella fine di giugno dal Conte Alberico, suo capital nemico, condotto in piazza e quivi con più di 40 pugnalate fu crudelmente ucciso. Il suo corpo nudato fu posto in un mastello e sepolto in S. Giacomo in età di anni 45. Fu uomo di sottile ingegno, magnanimo, generoso ed eloquentissimo poeta.
Fatte tutte queste cose fu preso il possesso della città da Pandolfo Malatesta luogotenente di Gian Galeazzo Visconti, che poco tenne questo dominio, imperciocchè all’ingresso di settembre morì in Martignano nel milanese e cui successe Cattarina Duchessa e Giovan Maria Angelo Visconti che nel dì 6 novembre fu investito della Signoria.
Prese per esso possesso di Bologna e del contado Leonardo Malaspini. Per farsi amare poi vieppiù il Visconti da bolognesi novo signore confirmò alla città il privilegio concessole dal già Duca defunto, salve però alcune cose riguardanti alla amministrazione della giustizia ed alli offici delle principali terre e castella del contado fra le quali, nelle capitolazioni, Castel S. Pietro contasi nel modo seguente: Come ancora assai piace a Noi il Consilio delli quattromilla si faccia a Brevi ogni anno, nel qual Consilio li ufficiali si obblighino alli d. offici prima. —————- Ed a tutte le cose faciamo provisione, eccetto le porte delle fortezze e castella e delli offici utili di Castel S. Pietro, Budrio, Castel Franco, S. Giovanni in Persiceto, di Cento e Crevalcore. Non di meno se dal Consilio sarà estratto alcuno alle d. terre, che li vogliamo provedute di officiale forestiero, avrà il suo salario solito e secondo l’antica tassa.
Eccetuato il nostro Castello come li suddetti furono, nel seguente 1403 spediti li ufficiali ai medesimi dalla Duchessa e Giovanni Maria Visconti.
Morto frattanto Leonardo Malaspini, il Visconti nominò per Governatore di Bologna Facino Cane, uomo empio, bestiale e tiranno per lo che la città cominciò a tumultuare, donde poi ne vennero omicidi, nimicizie e per fino la mutazione del Governo.
Chi fossero li ufficiali di Castel S. Pietro non ne abbiamo alcuna memoria, forse per li tumulti che cominciarono a nascere per il novo governatore Facino Cane.
Crescendo questi nella città, Nanne Gozadini, avendo avuti torti dal Visconti, sollecitò il Conte Lodovico da Barbiano detto il Gran Contestabile a rivolgersi contro il Visconti a fronte di tanti benefici avuti da Gian Galeazzo. Non esitò punto il Conte mostrarsi ingrato poiché, aspirando aveva esso pure la signoria di Bologna col mezo dello stesso Gozadini e suoi partitanti che aveva in pugno la città, si collegò con Bonifacio IX Papa e fiorentini.
Vedendosi perciò in pericolo Facin Cane fuggì di Bologna. Partito, li Gozadini ribellarono Cravalcore e vi introdussero li Estensi di Ferrara. Avuta tal nova li Visconti mossero guerra a ribelli. Mandarono tosto 600 provisionali a Bologna con 3 milla fanti ed altrettanti nel contado ripartendoli a Medicina, S. Giovanni, Crevalcore e Castel S. Pietro. Cavalcò in questa turbolenza il d. Cane alla città ed a Crevalcore, guarnì Castel S. Pietro e Medicina del bisognevole.
Non ostante tutte queste cose il Barbiano acconciossi al Papa e scrisse a bolognesi et alla Duchessa li 5 maggio a nome del Papa che sfidavali alla guerra.Trovavasi sull’imolese il Barbiano col Marchese di Ferrara, che aveva avuto il bastone del generalato per questa guerra mediante il cardinale Baldassarre Cossa, nominato dal Papa per Legato della città di Bologna, quindi perciò, avuto trattato con Pellegrino Pellegrini, con li Marocchi e Rinieri di Castel S. Pietro per averlo nelle mani, passò nel giorno 12 d. maggio alla sprovista con una banda di cavalli sopra il nostro Castello per averlo secondo il trattato, che era cioè di darle un segno di fumo per farvi correre li paesani ed altri armigeri al sospetto di foco e, nel mentre che avessero atteso a spegnere l’incendio supposto questi, sarebbero stati introdotti li cavalli ed il Legato nel paese. Ma, scoperto il maneggio, non seguì la presa del nostro castello, tanto più che ritardò la venuta ed arrivo del Conte Barbiano, onde fuggirono li traditori ed essendo inseguiti dalli paesani e da villani che, uniti alla guarnigione del Castello, li diedero dietro e, quando furono sopra il ponte del Silero, incontrarono la cavallaria del Conte Barbiano con Bonifacio, Nanne Gozadini ed altri fuorusciti di Bologna.
Si appiccò quivi una calda baruffa presso la chiesola di S. Giacomo all’ingresso del ponte fra l’una e l’altra parte alla quale accorrendo perfino li borghesani e li villani sparsi nella vicina campagna, scompigliando la cavallaria del Barbiano con poco onore ritirossi alla Toscanella. Era capitano de’ castellani Ugolino Balduzzi, quale valorosamente maneggiandosi e dirigendo li paesani ne riportò lode, premio e perfino il titolo di magnifico.
La Duchessa di Milano, cui era pervenuta questa nova, mandò tostamente Cane con molti cavalli a Castel S. Pietro a cui giunse li 19 d. con una bella compagnia guarnita di tre pennoni, l’uno col di lei stema, il secondo con due montoni nella insegna, e il terzo con S. Giorgio. Quivi formarono campo per ostare alle scorrerie nemiche e fortificò da ogni canto il Castello.
Si ricercarono di novo li malfattori, ma indarno e furo saccheggiate le loro case e poi guastate. Alloggiò Cane nella Roca grande fino alli 24 donde, richiamato a Bologna, se ne andò perché li nemici si erano inoltrati dalle parti inferiori presso alla città fino ad Idice, ove avevano piantato il campo ed attendati per fare giornata che seguì poi nel successivo giugno in cui, attaccata battaglia, fu disperso il Barbiano e cacciato in fuga da quella posizione.
Ritornandosi perciò egli alla volta di Romagna oltrepassato il nostro Borgo, sortirono novamente li paesani dal Castello, colla scorta del d. capitano Balduzzi, attaccarono la truppa fuggiasca, coda defatigata dalla battalia e dal viaggio, ed appiccata nova baruffa di là dal ponte del Silaro, li tolsero bagaglio, cavalli e fecero ancora prigione una parte della retroguardia che fu condotta al Castello.
Il Conte supponendo che crescesse a lui dietro nova truppa fresca, precipitosamente arrivò ad Imola. Quivi giunto ebbe soccorso dalli Alidosi, signori di quella città. Per questo fatto crebbe in riputazione il capitano Balduzzi e li castellani colli borghesani, come narrano le croniche di questi tempi.
Adirato poi il Conte Barbiano più che mai per questa rotta contro bolognesi, avuto bon soccorso dalli imolesi, ritornossi sotto Castel S. Pietro nel seguente lulio con forte esercito. Conoscendosi il Balduzzi insufficiente alla ressistenza contro nemico potente, abbandonò l’impegno e la patria per non sagrificarla e restar essa la vittima del furore di un valentissimo condottiero d’armi che per due volte aveva nel 1403 sofferto danno e poco onore da un picolo muncipio qual era Castel S. Pietro in allora.
Reso questo loco abbandonato dai più valorosi paesani e senza soccorso di Cane ma soltanto sotto il governo del novo ufficiale del paese Gio. Francesco Marchese Sanuti, il Conte Barbiano se ne impadronì e, seguendo la bona sorte, andò colle sue genti alle castella superiori a Castel S. Pietro cioè Liano, Frassineto, Varignana e fu accolto per fino alla città coll’esercito delli Estensi e della Chiesa che si erano avvanzati per la pianura.
Facino Cane che era in Bologna, vedendosi in pericolo, fuggì nella Lombardia. Per tale fuga entrò in Bologna il novo Legato pontificio Baldassare Cossa napoletano con giubilo universale e solennissima pompa. Stabilitosi in città procurò la pace fra li partitanti e richiamò molti alle loro patrie, che si erano fuggiti per occasione delle guerre, concedendo loro il perdono.
Il Balduzzi che aveva sostenuti con decoro li suoi impegni di capitano fu reintegrato nella sua patria di Castel S. Pietro. Tanto ci anunziò il P. Vanti nelle sue memorie e ci riporta il seguente monumento:
Baltassar Cossa tituli S. Eustachi Diaconus Cardinalis Apostolice Santis Legatus in spiritualibus et temporalibus pro S. R. E. Bonon. Legatus. Mandamus omnibus et singulis Massariis, Sindicis, Capitaneis, Officialibus, ceterisque, ad quem et ques spectat et specture contigerit Comunis Bononie, cuiscumque conditionis existant presentibus et futuris ne andeant ullo quovis modo et pretextu perturbarer, inquierere nec offendere factis verbis (..) alio modo. —– Ugulinum Baldutium dedum capitaneum Castri S. P. Bononien. Diecesis.. propter factiones habitas et illatas ocaxione guerre et belli proximi preteriti et etiam ultra et ante. Sub penis indignationis nostre, aliisq. cum Rixe et suerte numquam perpetue debeant. ———– et ita. Dat. Bonon. Die XXI Julis 1404.
Terminata la fabbrica dell’Ospitale nel Borgo per li viandanti ai luoghi santi, come soggiunge il P. Vanti, in questi tempi sotto il governo della Compagnia dei Battuti detti di S. Cattarina.
Attese poi le frequenti nebbie e freddi in quest’anno di primavera, patirono li frutti e seminati in modo che fu carestioso l’anno.
Troviamo in questo tempo che nelle Roche di Castel S. Pietro e nella pubblica ressidenza vi si mantenevano affissi li stemi di S. Chiesa ed in alcune circostanze, per le convulsioni bellicose della città, venivano abbassati e dappoi alle mutazioni dei Governi riproposte onde tuttora nascevano questioni e male intese sopra le loro apposizioni. Indi su ciò il Card. Cossa Legato ordinò alle castella l’interinale sospensione.
Adì primo ottobre morì Papa Bonifacio IX, nel giorno 17 d. fu eletto Papa il Card. Cosma Miliorati da Sulmona col nome di Innocenzo VII.
La ribellione di molte città, alimentata da Gian Maria Visconti, facendo temere il novo pontefice che Bologna fosse da maligni uomini di S. Chiesa sollevata e che il Visconti, come uomo cattivo, ne tentasse di questa di novo l’aquisto, incontinenti confirmò nella Legazione Baldassarre Cossa come uomo di grande vivacità nelle cose militari. Ottenuta la conferma pensò tosto a provedere di viveri la città e contado per ovviare alli disordini. Tanto si adoperò che fece provvista grande nella Romagna di formenti e biade.
Anco in quest’anno siamo privi non che della notizia del podestà locale e delli massari, quant’anco di tutti li loro atti a motivo del governo sconvolto.
Traportandosi perciò granalie dalla Romagna alla volta del contado di Bologna per la penuria prevista dal Legato li 27 febraro 1405, come ci annunzia la Cron. Scandinari, furono prese ed arrestate in una grandissima quantità dal Conte Alberico da Barbiano, quale si teneva creditore del Legato in molta somma per servigio della guerra passata.
Inteso il Legato di questa rappresaglia spedì tosto Nicola Roberti al Barbiano per sentirne la ragione dell’aresto ed averne il rilascio. Rispose che essendo creditore del Legato voleva Faenza e Castel S. Pietro ancora oltre le granalie arrestate. Riferito ciò al Legato consultò tosto egli co’ magistrati della città. L’esito fu di far guerra al Conte nel caso si ostinasse sopra il rilascio che perciò tanto si notificasse al medesimo per ambasciata. Fu eseguita mediante Gaspare Cossa, fratello del legato, con Bartolomeo Bolognini, Nicolò Roberti ed Antonio Montecassino.
A fronte di ciò li ambasciatori non poterono ottenere altro dal Conte se non che esso voleva parlamentare col Legato a Castel S. Pietro. In seguito di questa risposta fu fissata la giornata per il prossimo marzo li 5 in cui il Legato sarebbe venuto a Castel S. Pietro, come di fatti eseguì, albergato in casa di Anibale Salvietti. Ma il Conte non venne, onde il Legato si trattenne fino alli 11 dello stesso marzo in cui venne il Conte con molta gente armata e si fermò avvanti l’ingresso del ponte sopra il Silaro, a levante ove era la chiesa di S. Giacomo ed il Legato ancor esso con molta gente armata fece lo stesso dalla parte opposta al ponente a confina del Borgo.
Stavano le parti da un canto all’altro contro li ingressi del ponte nella via reale colle respettive genti armate e schierate come se dovessero battersi. Si avanzarono il Legato ed il Conte l’uno contro l’altro per il parlamento in mezo al ponte, stando in guardia l’’uno e l’altro per sospetto di soverchierie. Quivi dopo molti ragionamenti si accordò che il cardinale desse al Conte 12 milla ducati oltre la conferma di alquante terre nella Romagna.
Nel mentre che si maneggiavano queste cose in mezo al ponte intorbidossi il tempo più che non era avvanti il congresso, cadde una gran tempesta sopra li adunati onde scioltosi il parlamento ognuno si allontanò dalla sua posizione. Tornò il Legato in Castello colle sue truppe ed il Conte ad Imola. Il dì seguente 12 marzo partì il legato colle sue genti per Bologna.
Ma perché il Conte si pentì dopo l’accordo, non volle perciò rillasciare le granalie poiché il di lui oggetto era di avere Castel S. Pietro in potere come chiave del contado e di antemurale alla città. il Legato conosciuta la notizia del Conte fece pace co’ fiorentini, co qualli era in discordia Bologna, concedendoli Piancaldoli, ricevendo ancora molti grani nelli patti per sovenire alla penuria della città.
Provedutosi a questo uopo, il Legato fece adunare il Consilio generale a cui, esposto il seguito col Barbiano e le di lui posteriori pretese, fu risoluto da tutto il parlamento che si facesse guerra al Conte offerendosi ciascun parlamentare di mantenere del proprio tanti uomini d’arme per ciascuno fino a guerra finita per non gravare la populazione.
O fortunati tempi in cui il ministero governativo era liberale né angustiavasi dalle autorità il suddito! Piaque al Legato la prontezza del Consilio perché ancor esso era sdegnato col Conte. Fu tosto a questi intimata la guerra. Ciò intesosi dal Marchese Nicolò d’Este di Ferrara e da Carlo Malatesta si infraposero per la pace. Fu quindi colla loro mediazione ordinato altro parlamento a Castel S. Pietro.
Il Barbiano mandò a Castel S. Pietro il Conte Manfredo di Faenza in sua vece con Carlo Malatesta. Quivi essendovi ritornato il Cardinale richiese del Barbiano, quale non essendovi voluto venire, il Legato perciò ricusò di concludere e capitolare. Nel dì seguente poscia 23 lulio il Marchese di Ferrara, Ugozione de Contrari si adoperarono tanto che diedero fine alle differenze loro. Fatti li Capitoli di pace tutti andarono a Bologna il giorno seguente 24 lulio. Finché stetero in Castel S. Pietro li sud. sogetti abitarono il Cardinale in casa Salvetti, Carlo Malatesta e l’Estense in casa delli Serpa.
Non ostante tale pace li uomini di Liano non volendosi arendere a bolognesi, per essere quel castello signoria de Gozadini partitanti del Barbiano e volendo perciò il Legato ridurre quel castello alla sua devozione, vi mandò li 10 agosto mille guastatori, capo del quali erano Guerra Beccaro e Leonardo Piantavigne, ma poco frutto vi facevano sicchè il Legato rissolvette presentarsi al castello con messer Carlo Maltesta, collegato de Gozadini, affine di ammolire li lianesi ed indurli alla obedienza di Bologna.
Nel dì seguente 11 agosto vennero a Castel S. Pietro, donde il giorno 12 partendo andarono colla truppa a Liano scortata da Gregorio Collina capitano di Castel S. Pietro. Si presentarono questi ai lianesi, onde indurli alla resa ma, nel mentre che parlavano assieme li deputati, narra la cronaca Secodinari, che uno di quel castello di Liano sparò una spingarda contro li parlamentari ed ammazzo il cavallo sotto il Malatesta.
Di che adirato il Cardinale, sciolto il parlamento, diede ordine alli guastatori ruinare tutto quello che potevano alla di lui presenza. Eseguirono il comando facendo ivi infiniti danni. Il Legato stette fino alle ore 22 italiane del giorno a vedere il tutto poi ritornossi a Castel S. Pietro. Finalmente nel dì 14 d. Liano si arrese salva robba e persone, toltone il malfattore della spingardata il cui nome la d. cronica, che a minuto ci ha descritto il fatto, ce lo tace. Questo infelice fu tosto condotto a Castel S. Pietro e imediatamente strozzato ed il di lui corpo appeso ai merli della Roca.
Fra le carte antiche della supressa compagnia di S. Cattarina troviamo un Beneficio lajcale fondato nella di lei capella congiunta alla chiesa arcipretale, che ora serve di sagrestia. Li uomini di quella, essendo vacante, nel dì 5 novembre presentarono D. Antonio da Ravvena al vescovo per li atti di Rolando Rossi notaio, ma non si sa poi l’esito.
Ma perché il Conte Barbiano ,trasportato dal suo bellicoso naturale cercava sempre incontri di guerra, così, essendo nemico del Legato Bessarione Cossa, cercò di provocarlo affine di impadronirsi di Bologna nel caso di superazione. Fu avvertito il Legato delle intenzioni del Conte quindi il medesimo se ne approfittò della avvertenza e nell’anno seguente 1406 fortificò le castella più importanti per conto di S. Chiesa.
Al principio dell’anno fu eletto con patente dello stesso Legato per Podestà del primo semestre a Castel S. Pietro Francesco Donducci, come si legge nel Lib. Actor. Potest. C.S.P. in sua patente.
Fortificato il nostro Castello invitò poscia il Legato il generale di S. Chiesa Paolo Orsini, uomo insigne nell’arme, a custodire più di ogni altro questo nostro come frontiera della Romagna. Favorì egli il Legato e pose la sua cavallaria quivi di quartiere. Disparve una tanta providenza al Conte perché si vedeva percluso il passo libero alla città. Non mancò per questo il Conte di cimentarlo.
Tese nascostamente un aguato sopra il Silaro li 30 maggio affine di prendere li cavalli che erano in quartiere al nostro Castello allorchè venissero ad abbeverarsi nel vicino Silaro. Tanto avvenne imperciocchè li cavalli del Conte, che era imboscato, vedendo molti cavalli dell’Orsino venire ad abbeverarsi nel fiume vicino, sortirono dall’aguato e ne presero molti, per la qual cosa l’Orsino avvisato fece dar segno colle trombe alli altri cavallieri che erano in Castello. Balzarono fuori prontamente dal Castello ed assalirono li saccomani nemici. Fece altresì chiamare all’armi li terrazzani e paesani colla stermida cosicchè, fattosi un buon numero di armati sortiti dal Castello e dal Borgo, andarono ad affrontare il nemico che si conduceva la rapresaglia.
Fra le grida e rumore delle campane scesero dalla vicina collina li villani e quelli della pianura a battere il nemico. Tanto si suportarono li uni e li altri colli paesani e genti dell’Orsino che ricuperarono bona parte del bottino e prede, facendo ancora prigioni le genti del Barbiano, che poco vi mancò che esso non restasse nella rete.
Non di meno il Conte, che pure voleva nelle mani Castel S. Pietro, radunate altre genti ed avuto ajuto dalli imolesi, sulli primi di giugno pose il campo sotto il nostro castello e presa la contrada del Borgo cominciò a batterlo.
Fu avvisato il Legato quale sul momento messo in ordine la milizia della città a bandiere spiegate collo stema della Chiesa venne a Castel S. Pietro in campo. Ritirossi perciò il Conte e si trasferì di là dal Silaro a S. Giacomo presso il ponte aspettando quivi l’Orsino a giornata col Legato. Si guardavano li eserciti uno con l’altro, come accennano le le Cronache Saccadinari e Miscella con altre, ma non si contendevano perché l’uno temeva dell’altro.
Alla fine l’Orsino spinse fuori del Castello una banda de suoi cavalli per la porta della Roca, ove non poteva essere notata dalle genti del Conte, e la diresse sopra la colina valicando dappoi il Silaro superiormente, poi calando si diresse per il quartiere del Castelletto e Lama affianco del Conte. Accortosi esso che di petto e di fianco aveva il nemico fece battere la ritirata alle sue genti verso Imola. Decampò e nel viaggio incendiò le messi e le case fronteggianti la via corriera, facendo tutti quei mali che potette. Queste cose accaddero fino a tutto li 15 giugno in cui partì il Legato da Castel S. Pietro avendo volsuto vedere il fine della incominciata tragedia.
Entrato lulio prese il possesso di Podestà di Castel S. Pietro Ercole di Giacomo Oretti. Infirmatosi fra non molto Innocenzo VII finì li suoi giorni nel dì 6 novembre al quale successe allo spirar del mese nella Catedra Gregorio XII nomato prima Angelo Corera Cardinale di S. Marco.
Sopragiunto l’anno 1407 fu eletto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Giacomo di Ludovico Monterenzi. Non fu esente questo semestre da tumulti tanto interni quanto esterni il nostro paese di Castel S. Pietro. Naquerò perciò all’interno di esso fra castellani e borghigiani delle differenze.
Da sapere che essendo morto l’anno scorso Bartolomeo Raimondi vescovo di Bologna , come narra D. Celso Facioni nelle sue memorie dei vescovi bolognesi, il novo pontefice Gregorio XII vedendo Bologna senza pastore, consegnò la dignità vescovile ad Antonio Curario suo nipote.
Le turbolenze del scisma travagliavano d’assai ogni luogo in questo frattempo, donde insorsero poscia partiti. Le promesse, accreditate col giuramento di Gregorio XII e da Benedetto XIII antipapa concernenti la rinoncia, adulterate e non eseguite che fossero, portarono grandissime alterazioni anco nella chiesa, o fosse perché non si aggiustassero li Gini fra di loro, ovvero perché ciascuno dubitasse della potenza ed aderenza dell’altro.
Il card. Cossa Legato in questo frangente, aborendo la memoria di Gregorio XII fece levare mediante suo editto in ogni parte della città e contado le di lui arme ed insegne. A chi piaque questo fatto e a chi nò. Ma siccome l’arme pontificie portavano sopra il gonfalone per capello colle chiavi, su questo punto naquero in Castel S. Pietro dei male intesi da chi non sapeva distinguere. Ne seguirono perciò risse tanto più che lo stema publico di Castel S. Pietro e sua università portava sopra le due chiavi col confalone. Corsero perciò alcuni patriotti alla ressidenza pubblica ed alla Roca grande per levare le anzidette arme e sostituirle in suo loco quelle del comune di Bologna. Andò il paese a rumore. Fu riparato in seguito da ulteriori scandali. Il Pretore locale colla pubblica rappresentanza fecero il rapporto al Legato onde schiarisse la sua mente. Egli la espose mediante suo chirografo, che trovasi anco nelli codici comunitativi trascritto, di questo tenore:
Baltassar Cossa miseratione divina. T. S. Eustachi Diaconus Card. Apostolice sedis Legatus Bonon. et etiam in spiritualibus et temporalibus pro S. R. C. Vicarius Generalis et Gubernator.
Dolectis nobis Giudice, Massario et Uniuversitati Terre Castri S. P. nostri, comitatus Bononie, Salutem in D. perpetuam. Gra… fidelitatis obsequia quae (….) impedistis, nec n. devotio et fides quam ergo Nos et sedem apostolica usque nunv gessedtis omnique vi perere conaminis, exigit ut tranquillitati vestra et quiati quantum in Nobis est consulamus. Exponi Nobis facistis per Sindicum vestrum quod ab affixionem insignis sedis apostolice in castro et fortilitio vestri nonulle questiones excite fuerunt cum periculo quem possent nasci scandala et rixe eo quia aliqui ambigebant cum Populi et Communis Bonon. au remane sedis insignia apponi debevent. Nos itaque ad ea parand que forte oriri possent, positionibus vestris inclitanti subenire et ———- volentes ille qua fungimur in hac parte seclis Romane Legati auctoritate. tenore presentium committinus et mandamus non solam in fortiliciis insignem apostolice Sadis confixa tenere sed etiam vobis, vicariis vestris pro tempore futuris (…) licitum fare et esse eo spe frati quod in devotionem Nostri et successorum nostrum pro tempore Gubernatorum magnum suscipiatis incrementum. Quapropter Dilectis Nobis Comissariis, Castellanis, Vicariis, Massariis, Sindicis ceterisque qui erunt in in Castro vestro et ad quos quo…libet in futurum spectare contegerit, precipimus atque …ndamus ne vos vestramque univeritatem ullo unqua modo hoc prohibere offinx sub pena indignatinis nostre et centum bonen. averi a quolibet contra …endum in currenda toties quolies contrafactum fuerit camere nostre applicans et ab illorum qiolibet irrimissibiliter auferre. Ita enim statuer et decernimus et observaro velle mandamus et ordinamus non obstantibus (….) in contrarium. Dat. Bonon. hac die nona marti 1407, Indictione XV Jo de Esculo I+S.
Questa dichiarazione dedotta al pubblico del nostro Castello dileguò tutti li dubbi e calmò ogni turbulenza nelli animi de paesani.
Per il secondo semestre coprì la carica di Podestà locale Alberto Lambertini nobile bolognese.
Li uomini di Vedriano che si erano sotratti dal vicariato di Castel S. Pietro a motivo del riparto per la costruzione delle nove mura del med. castello. Sofrendo di mal ochio li uomini di questo qualora davasi l’opportunità di contrariarli lo facevano.
Avvenne pertanto che, secondo il costume, quando solennizzavasi la festa dell’apostolo S. Andrea 30 novembre nella loro parocchia dedicata al medesimo facevasi nel loro castelletto, ove si erano fabbricato un rotondo baloardo in figura di Roca presso la porta al ponente, una picola fiera di castagne verdi e secche a cui concorrevano li venditori del loro vicinato ed altri individui che ne avessero voluta fare compra. Che perciò a questo loco vi si portavano alcuni di Castel S. Pietro. Furono questi malvoluti al segno che si venne a rissa onde furono costretti fuggirsene al rumore che contro essi facevasi. E siccome erano maneschi li uomini di Castel S. Pietro, cacciati che furono fuori da quel gruppo di case formanti il picolo castelletto, la di cui pianta demonstrativa levata sulle antiche vestigia conserviamo, le furono serrate le porte dietro per evitare un qualche disordine. Vennero malcontenti li nostri di Castel S. Pietro e la si tennero a mente per riffarsi.
Venuta poi la notte del S. Natale di N.S.G. li affrontati di Castel S. Pietro presero l’occasione di vendicarsi. Condussero seco Goro Ginasi, Rizzo Garetti e Verondone Malaguti, tutti e tre capaci di qualunque fazione, ad andati al castelluccio di Vedriano si rimpossessarono della porta in tempo che li abitanti di quello erano alla funzione nella loro chiesa sopra il vicino monte. Levarono le porte di quel luogo ed essendo in un corpo di 12 uomini se le portarono fino sotto le ruine del distrutto Liano. Restarono sorpresi li vedrianesi quando videro questo fatto e tosto diedero li segni al popolo mediante la loro campana pubblica, ma fu indarno il tutto perché niuno ardì cercare li malfattori e furono perciò svanite le occasioni di perire.
Questo fatto fu descritto più diffuso da Giulio Alberici di Liano nelli suoi libri di ricordi come ci fece osservare Sante Alberici discendente da quella familia, emigrato per la ruina e distruzione seguita del castello come si è detto. Il che è passato anco in tradizione de posteri.
L’anno seguente 1408 nel primo semestre coprì la carica di Podestà di Castel S. Pietro Battista di Bon Pietro Dal Lino. Antonio di Giovanni Rondoni fu estratto per il P.S. Massaro. La perdita delle carte ci toglie nome e cognome poi del secondo Massaro sotto il cui governo non abbiamo che riferire se non che, essendo nata discordia fra le due comunità di Fiagnano e Bello a noi confinanti a motivo del pascolo che dalli uomini di Bello si pretendeva sulle campagne di Fiagnano dette li Mercati perché ivi si facevano grandi fiere di ogni sorta di bestiami della montagna spettante alla podestaria di Casalfiumanese capoluogo della medesima.
Non volendo li fiagnanesi che se ne impadronissero li uomini di Bello come intendevano onde benespesso accadevano baruffe, perciò li fiagnanesi, sapendo che in Castel S. Pietro eranvi armigeri valorosi, condussero al loro stipendio Giovanni Ciarli per guardare li pascoli su quelle campagne volute dalli uomini di Bello. Tese costui un aguato in compagnia di altri tre facinorosi di Castel S. Pietro, li di cui nomi e cognomi ci tace l’instrumento di pace. Le sortì fare preda di non pochi bestiami che si custodivano da bifolchi e pecorai, questi prima di arrendersi al volere del Ciarli vennero alle mani e durò la baruffa bon pezzo di tempo senza potersi capire per chi pendesse la vittoria. Crebbe il rumore al segno che quelli del castello di Fiagnano vedendo la mischia dal loro castello sortirono da quello in bon numero armati per compiere l’aresto.
Venuto all’orechio di quelli di Bello limitrofi al comune di Fiagnano scesero armati e, facendo ressistenza alli altri nemici, riescì loro disbrigare le bestie catturate dal Ciarli. In vista di ciò il Ciarli afferò con una plavarina il caporale delli uomini di Bello e, consegnatolo ai fiagnanesi, fu condotto in Fiagnano gridando alla morte, alla morte. Ciò osservatosi da alcuni di Bello intesero chiudere il passo ai conduttieri dell’arrestato. incontrarono percosse e ferite dal Ciarli, onde fu serrato nel castello e guardato.
Portato l’affare avvanti il Podestà di Casalfiumanese fu convenuta la pena e scritta a mano dal not. Peggi di Corvara colla rimissione di tutte le recenti offese e condannati li uomini di Fiagnano al rissarcimento delle spese per l’offeso nominato Gambarino —–, come ci è occorso vedere nel Rogito di Pace presso l’arciprete D. Pietro Ceroni in Corvara allorchè esercitavasi di noi il ministero di vicepodestà nella podestaria di Casale, colla condizione giuntavi che il Ciarli fosse bandito per tre anni dalla podestaria cui dai governatori si esercitava anco il criminale. Non potette però il d. Ciarli stare oziozo nella sua facinorosità, inperocchè chi è avezzo all’arme conserva per sempre finchè vive il maneggio delle medesime.
Passiamo pertanto all’altro impegno di quest’uomo facinoroso. Ripetiamo da un processo presso noi esistente levato dal Libro de Malefici e dalle sentenze prese dal Podestà di Bologna, estratto il tutto dall’archivio segreto del Senato Lib. 4 N. 18. Li 21 giugno e N. 19 sotto li 13 giugno 1408, per li atti di Nino da Cento Not. E’ dunque da sapere che dalli uomini di Medicina solevasi nel maggio fare la festa solenne dell’ascensione di N.S.G.C. in una chiesa dedicata a S. Antonio da Padova fuori del loro castello presso la riva della fossa a cui concorrevano le genti circonvicine ad osservarla. Venne perciò in voglia a non pochi di Castel S. Pietro di portarsi a quella.
Ma perché, doppo l’omicidio commesso nel 1337, come si scrisse, nella persona del capitano Catani, non si era per anco cancellato dalla memoria delli posteri e dubitando taluni di Castel S. Pietro di incontrare affronti conformi, si pensò da alquanti coraggiosi armiggeri del paese di far fronte andando a quella festa alli medicinesi occorrendo.
Quindi fattosi capo Giovanni di Polo Ciarli unito a Antonio Bellini e Xondio —– compatriotti, congregarono a suono di campana nella pubblica strada del Borgo, in confina delli eredi Baruffi e presso l’ospizio del Domenichini che ora chiamasi la Locanda del Portone, e radunarono un guarnimento di 20 e più persone paesane e vicine, come narrano le carte processuali, ed armati tutti di arme offensive, colle bandiere del paese spiegate andarono tutte in truppa alla d. festa che facevasi nel trivio della casa accennata sopra la fossa del castello.
Quivi giunto il guarnimento sforzarono li capi sud. colli seguaci entrare in quella contro il volere delli medicinesi. Ne naque perciò massima rissa fra le parti al segno che venero alle mani entrambi. Li armiggeri di Castel S. Pietro ebbero la vittoria percotendo Giacomo Villani e Pietro di Giovanni Ruffi medicinesi, gridando dopo le percosse: alla Morte, alla morte. Li medicinesi a tale clamore e scompiglio, fatto ancor essi un guarnimento di 20 e più persone, rissando andarono ad incontrare la fazione di Castel S. Pietro ed a suono di campana e bandiere del loro paese spiegate vennero alle mani. Comessa così la baruffa fu gravemente ferito Domenico Ugolini di Castel S. Pietro detto Ugulinuccio e sucessivamente gridando ancor essi: medicinesi alla morte, alla morte si accrebbe il furore fra le genti.
Niente pavorosi quelli di Castel S. Pietro, spaleggiati da un guarnimento conforme di Budriesi, superate le forze delli medicinesi, si impadronirono della festa. Li uomini di Budrio furono questi come canta il processo.: Domenico di Giacomo Bertini, Lorenzo Fredi, Zanibonetti Andrea, (…) de Pegolotti, Filippo di Gio. Folliti, Domenico di Lenzo Gerari, Pietro Bartolotti, Giacomo di Pietro Bentivogli, Nanne Roncalli, Cechino Benni, Benedetto di Gio. Martelli, Turnio Sartori, Paolo Tibertini, Gio. Rivani Gianpietro Bertani, Pietro di Bertino Bentivogli, Pietro Sgargi, Domenico Conti, Gio Garganelli, Giacomo Muratori, Giacomo di ser. Bartolini, Pietro Schivazappa, Francesco di Geminiano Graffi, Gio. Bettini ed altri al N. di 40.
Avutasi la piazza in potere da quelli di Castel S. Pietro, li indicati di Budrio prevedendo un male grandissimo abbandonarono ogni impegno e presero la via retta che porta a Budrio. Alcuni medicinesi accaniti li andarono dietro e ne presero tre che li condussero arestati a Medicina. Furono tenuti alquanti giorni. Venuta in potere la fossa delli facinorosi di Castel S. Pietro vedendovi in essa erette alcune forche su cui pendevano certi canestri con girelle, ascesero con scale li vincitori, tagliarono queste e quello con glavarine di cui erano armati e tutto gettarono a terra e poscia rimpatriarono.
Erano in questo tempo Massari delli tre castelli cioè di Medicina Stefano Ghisilardi, di Budrio Giovanni di Cecolo Tibertini e di Castel S. Pietro Giovanni Rondoni fu indicato. Questi furono chiamati al Tribunale de Malefici a motivo delle tre fazioni. Fu fatto il processo li 21 giugno e proferita la sentenza dal Podestà di Bologna li 30 dello stesso mese nella quale furono condannati li seguenti cioè: Medicina in cento fiorini, Castel S. Pietro in fiorini 350 ed il Ciarli in fiorini 50, Exondio e li altri fiorini 50, come di tutto ne appare dalla d. sentenza a li atti di Nino da Cento.
Per il secondo semestre fu deputato per Podestà di Castel S. Pietro Pietro Manzoli che fu abilitato al ministero con patente del card. Legato dove che prima li Podestà del contado venivano abilitati dall’officio delli Anziani e Consoli di Bologna. Ciò risulta dalli Atti delle Podestarie.
Terminato poi l’anno presente 1408 ed entratosi nel 1409 fu abilitato alla Pretura di Castel S. Pietro Leonardo Ghisilieri per il P.S., il nome e cognome del Massaro si ignora per mancanza delle carte.
Perché poi le gravezze destinate alla manutenzione delle fortezze e mura del nostro Castello si sono aumentate ed addossate alle comunità del vicariato e queste soffrendosi di malavoglia dalle comuni di Vedriano, Sassuno, Monterenzio, Galegata e Frassineto le medesime alcuni anni sono si erano sottratte dall’obedienza e dal vicariato di Castel S. Pietro e si erano esse adificate nei loro castelli baloardi alla figura di Roche. La pubblica rapresentanza di Castel S. Pietro ricorse al Legato novo Baldassarre Cossa acciò provedesse al disordine. Il Legato per assicurarsi del rispetto spedì Stefano Ghislardi e Lorenzo Rossi in loco. Verificarono il ricorso il Legato nel dì 4 aprile decretò la riunione delle comunità al capo loco di Castel S. Pietro e dichiarò inutili le Roche che si erano quelle fabbricate come dal decreto seguente
(Vedi Appendice 2. Copia Decreto in data 4 aprile 1409)

Terminato l’officio del Podestà, il suo loco tenente vi appose la seguente inscrizione che è la più antica che abbiamo copiato dalla sua posizione mutilata
Jo And —-de Oratio
Locumtenen .
Pro —– MCCCCIX.
Successe al med. Floriano Grifoni al fine del di cui officio vi pose la seguente incisa in macigno ed incastrata nella gareta consolare esternamente
Florianus Grifeonius
Pro Sec. Sex Mens
MCCCCIX
Erano giunte le cose della Chiesa all’eccesso a motivo del scisma vigente che per sedar tutto fu duopo un Consiglio Generale in Pisa. Vi intervennero 300 vescovi e molti prelati e cardinali colli due papi cioè Benedetto XIII scismatico e Gregorio XII legittimo Pontefice. La conclusione si fu che riescì spergiuro Benedetto e legittimo l’altro. Li medesimi poi, per ovviare a nove turbolenze, rinonciarono entrambi al papato. Nel lulio seguente fu creato papa il card. Pietro Filardi bolognese col nome di Alessandro V.
Il Senato avuta tal nova spedì in qualità di ambasciatore e giurisconsulto Gaspare Caldarini Floriano da Castel S. Pietro e Giacomo Marescotti che scrissero eccellentemente coll’Ancarani. Furono accolti da Papa con atti di urbanità e gratitudine.
In quest’anno 1409 dominarono sempre sirocchi che resero asciutta tutta la stagione, ne le terre si potettero purgare d’onde ne divenne mortalità ne corpi umani e scarsa la raccolta de generi.
Premuroso Baldassarre Cossa di maggiormente consolidare le cose di Bologna, procurò che il papa Alessandro venisse alla città, ottenne quanto bramava. Venne nel successivo gennaio 1410, accolto nella sua patria con quelli onori che può ognuno ideare. Ma durò poco godersela poiché sorpreso da febbre lenta nel giorno sesto di marzo terminò li suoi giorni non senza sospetto di veleno propinatoli dal cardinale Cossa Legato.
Questi poi per li di lui maneggi li 17 maggio fu assunto al Pontificato col nome di Giovanni XXIII, poscia li 25 detto fu coronato.
In tale frattempo si scoprì la pestilenza nella città ma poca strage faceva perché l’aria era ancora fresca. Ciò non ostante si facevano grandi precauzioni. Questa crisi fu forte motivo che non venisse il Podestà a Castel S. Pietro il di cui nome e cognome è sepolto per ciò nella caligine del tempo come lo è il nome e cognome del Massaro locale per mancanza di atti dell’uno e dell’altro officio. Crediamo perciò che questa mancanza derivasse per la pestilenza durante la quale ognuno stava in guardia di conversare coll’altro e per le molte convulsioni in cui trovavasi il Governo massime nel nostro Castello che prosseguirono per tutto il seguente anno 1411, memorabile sempre per la università del medesimo e per le guerre passate e per la fabbrica delle nuove mura, che andavano a compiersi totalmente.
E perché il senato di Bologna andava debitore inverso Francesco e Cattoccio da Siena di scudi mille e novecento per guarnigioni, guardie e sovvenzioni somministrate da essi nelle Roche di Castel S. Pietro, né trovandosi il Senato il comodo di renderli soddisfatti, li Anziani e Consoli del Governo decretarono che tutte le munizioni da bocca e da guerra se ne rilasciassero tante quante occorressero per il loro avere di tutto il tempo che si guerreggiò fino a che fu riaquistato lo stato di Bologna e dato alla Chiesa, furono però eccettuate le due bombarde grosse che stavano nelle Rocche. Decretarono inoltre li Anziani e Consoli che niuno de Castellani, paesani e terrazzani di Castel S. Pietro si potessero gravare per debiti loro privativi e particolari per due mesi in avvenire decorrendo dal giorno 4 lulio in cui fu fatto l’assegno delle Rocche e loro restituzione con altre prerogative favorevoli ed onorifiche al nostro Castello prolissimente estesa, come ne appare nel Decreto e Capitolazioni rogate per il Not. Ottobono Ottobuoni ed anco nell’Archivio grande pubblico di Bologna al Lib +++ fol. 134. Provis. in Capreto.
Dal Senato fu parimenti in quest’anno nel dì 20 lulio 1411 concesso a Castel S. Pietro la esenzione di ogni dazio e gabella, toltone il Dazio Pane e vive, li giorni di domenica e lunedì in perpetuo per il mercato a rog. di Gio. Battagliucci Not. ella resturrazione se si fosse potuto avere l’avvessimo qui riportata.
Crescendo la pestilenza nella città in modo che morendo infinite persone, sospendendosi per fino li mercati delle vittuarie giornaliere, fu consiliato il Pontefice dalli medici abbandonarla, quindi passò a S. Michele in Bosco luogo di aria più purgata. Vi andò con cinque cardinali il giorno 4 agosto. Ivi sentendo farsi più galiarda pensossi di emigrare da quel luogo ed allontanarsi da Bologna a respirare aria più salubre, evitando così li congressi e conversie con persone che potevano recarle del pericolo.
Non ostante il sudd. decreto di reintegrazione delle comunità di Vedriano, Frassineto al Vicariato di Castel S. Pietro, titubavano sempre quelle contro il nostro Castello. Per provedere alla tranquillità comune il Senato decretò che nella nova imborsazione delli uffici loro si desse un Vicario ressidente in Frassineto. Tanto seguì nel 1417 che durò fino al 1580, come riscontriamo al N. 19 protocolli di Atti giudiciali uniti alla Podestaria di Castel S. Pietro nel qual frattempo ruinarono Vedriano e Galegata.
Crescendo vieppiù la pestilenza in Bologna e temendosi della vita del papa, consultati li medici, dubitando che se ivi stava difficilmente evitava le visite massime di nobili, deliberò portarsi col consilio di quelli a Castel S. Pietro come luogo di aere perfettissima. Perciò nel dì 15 settembre, accompagnato da tutti li cardinali e sua corte se ne venne a questo loco. Fu incontrato per la strada al Borgo dalla nostra populazione con alte esclamazioni ed evviva. Li Sindici e pubblica rappresentanza nazionale lo ricevette schierata in due ale. Catozio da Siena, castellano della Rocca grande che per anco da lui si custodiva, presentolle le chiavi sopra un bacino, che colla benedizione pontificia fu dimesso. Seguirono più sbarri delle due bombarde grosse. Passò indi il pontefice alla parochiale che si amministrava dal poeta D. Berto da Varignana che, in pluviale vestito presentata l’aqua benedetta genuflesso, fu asperso e benedetto il popolo, dappoi presa l’indulgenza passò alla canonica ove continuamente stette finchè quivi stette la sua dimora. Li cardinali poi che seco aveva alloggiarono nelle seguenti case cioè:
1) Il cardinale Minutolo per nome Enrico napoletano nel palazzo della Comunità
2) il card. Gio. Migliorati sulmonese arcivescovo di Ravenna nello stesso loco con
3) il card. Gio. d’Ascoli cancelliere pontificio, quali attaccati dal male furono trasferiti altrove,
4) il cardinale Vivariense nello palazzo comunitativo medesimamente.
5) il card. Dal Poggio francese in casa di Lodovico Fabbri,
6) il card. Pietro Frias spagnolo in casa di Gerardo Gherardacci presso S. Bartolomeo,
7) il card di S. Grisopono nella canonica della parochiale,
8) il card. Giordano Orsini in casa di Ugolino famoso capitano Balducci, che dappoi assoldato sotto la condotta del celebre Paolo Orsino capitano gente di S. Chiesa ebbe parte nelle di lui famose azioni.
9) Il card. di S. Marco in casa di Annibale Salvietti,
10) il card. Brancaccio in casa di Lodovico Baldi,
11) il card. Maranavia in casa di Giorgio Samachini alis Negri
12)il card. di S. Giorgio in casa di Lorenzo Dalla Serpa,
13) il card. Stefanesco romano in casa di Prospero Gasparini.
14) Il card. di S. Maria nova in casa di Sebastiano Morelli
15) il card. Prenestino in casa di Guido Verondi
16) il card. d’Aquileja in casa di Valerio Ronaldi
17) il card Legato di Francia in casa di Bonifacio Ricardi
18) il card. Saluccio in casa di pietro Battisti
19) Il card. Legato di Germania in casa di Gallo Battinelli
20) il card. Carillo spagnolo in casa di Gregorio Collina alis Rolandi capitano
21) il card. di S. Adriano in casa di Tomaso Lasi.
Un si luminoso avvenimento essendo stato dipinto sotto la loggia esteriore della ressidenza pubblica sotto cioè il portico all’occasione che fu ristorata nel susseguente secolo sotto il governo del Cav. Stefano Pepoli vi fu sottoposta la seguente epigrafe di Giovanni Morelli che leggesi anco nelle sue poesie latine:
Lugebat tristi vexata Bononia peste
currebatque omnes Mors inopina Vias
ocior accessit vigesimus inde Jvanuas
tertius hoc Castrum, Purpureique Patres
impreditur. Claves castri Catocius offert
senensis gemino vel fore mense manent
Porcite nunc fastus Dominantis Menia Rome
par Castrum hoc habuit pontificale Decus.
Ora mentre il pontefice stette in questo loco colla sua corte concorreva da tutta la Romagna grandissima abbondanza di pane, vino, oglio, salvaticini, carne di ogni sorte e vittuaria necessaria al vitto umano, non permettendo il Senato di Bologna che per la peste fosse portata cosa alcuna dalla città a Castel S. Pietro. In tale contingenza ciò che veniva introdotto in questo loco era immune ed esente da ogni dazio, coletta e gabella d’onde per l’affluenza de generi contrattabili e vittuarie siamo in opinione che da questa epoca si originasse l’esenzione onnimodo del mercato e che addottata da paesani per l’opulenza del paese nell’anno venturo ne addomandassero al Senato il privilegio, come a suo loco riferiremo.
Gaspare Malvezzi poi al quale con genti d’arme e come capitano l’era stato concesso guardare la parte montana sopra Castel S. Pietro dalle ruberie de fuorusciti massime nelle correnti circostanze, essendo verso le parti di Fiagnano, fu sorpreso il giorno 20 settembre da Dandino Papazzoni, detto Bolognino, capo de fuorusciti che in quei contorni erasi imboscato ed ivi, fatto alquanto di rumore, restò prigioniero del Papazzoni che tosto seco lo si condusse alla volta del fiorentino. Una tanta temerità fu ben tosta castigata poiché il 27 settembre fu preso Dandino e condotto a Forlinpopoli, fu ivi tenagliato ed appiccato.
Giovanni Miliorati sulmonese cardinale, arcivescovo di Ravenna nipote di Innocenzo VII, dottore famosissimo, essendosi infirmato in Castel S. Pietro affine di essere meglio curato si trasferì a Bologna fuori a S. Gregorio, ma aggravatosi di male morì li 17 ottobre. Infirmatosi pure in Castel S. Pietro Giovanni d’Ascoli cancelliere del papa finì quivi li suoi giorni d’onde, con molto onore fatti li funerali, fu trasportato poscia il di lui corpo a Bologna.
Passati alcuni altri giorni parve al pontefice essere tempo di riddursi alla città, onde prima di partire ordinò al Senato che provedesse alle Roche e castelli del territorio per assicurarsi dei nobili. Perciò li 22 detto si mutarono li castellani alle Roche e li capitani alle porte della città mettendovi forestieri. Chi fosse destinato a Castel S. Pietro le carte di questi tempi e le cronache che ci sono pervenute nelle mani non ce lo dicono.
Giunto il giorno primo di novembre festa di Ogni Santi il pontefice essendo nel nostro castello assistette nella arcipretale alla messa pontificale celebrata dal patriarca di Aquileia, lo che fece medesimamente il giorno de morti. In tutto questo tempo che stette il pontefice in questo loco, sempre stette alzata la cattedra nella arcipretale d’onde perciò in appresso fu decorata questa nostra chiesa del titolo di cattedrale d’onde abbiamo riscosso da autori essere così nominata.
Leggasi il Malvasia ne suoi Pittori, alla vita di Prospero Fontana, ed il Masini nelle opportunità che troverassi quanto esponiamo.
Rinfrescata l’aria ed assicuratosi il papa della pestilenza passò nel dì 4 novembre a Bologna su la chinea accompagnato dalli cardinali sudd. lasciando il nostro Castello colla apostolica benedizione che diede al numeroso popolo quivi concorso dal balcone della pubblica ressidenza che guarda la via maggiore e la porta del Castello sotto la torre, lasciando in somma consolazione e contento il paese. Li affari da esso quivi decisi e le ambasciate e personaggi che lo visitarono sono innumerevoli e chi tutti li volesse narrare converebbe fare uno spoglio delli codici che sono nel Vaticano.
L’anno seguente che fu il 1411 che sarà sempre di eterna memoria a codesta nazione di Castel S. Pietro per la singulare beneficenza nelle esenzioni dei dazi, pedagi e gabelle per le sofferte guerre passate.
Riferiremo infrattanto che essendo partito di Bologna l’ultimo di marzo il papa lasciò per suo legato Carino Minutolo cardinale napoletano. Godette poco esso governare inperciocchè, fattosi capo della plebe in Bologna certo Cossolino Beccaro uomo vile, salito sopra una nuda cavalla, inastato sopra una pertica il suo grembiale a guisa di stendardo e correndo per istrada Maggiore col gridare viva il popolo e l’arti, andò furentemente alla piazza inseguito da molta gente ed entrato nel palazzo lo mise a sacco, cacciò li magistrati e ne fece de novi ma populari in guisa che tutto andò a rumore. Imprigionati molti nobili, che cospiravano contro il novo governo, ne fece molti decapitare.
A una tanta mutazione vi tennero dietro li malcontenti delle castella e chi la pensava in un modo e chi nell’altro formandosi tante repubblichette quante erano le castella col sottrarsi dal regolamento antico. In questa crisi si ribellarono a Castel S. Pietro le comunità di Liano, Frassineto e la villa di Corneta alle quali vi tenero dietro le altre vicine del vicariato. Le Roche però di Castel S. Pietro, quantunque li oppidani fossero fra di loro divisi di partito, si tennero per la Chiesa, ma per poco poiché fino al lulio le ebbe in custodia il castellano Caltocio, né le dimise alli Anziani, Consoli e Confalonieri del Popolo et alli dodici Ufficiali di Pace se non a patti che si riscontrano al Lib. Provis. in capretto +++ fol. 134.
Il Papa considerando che il disprezzo de nobili, delle persone sensate e la perdita della città rissultava in danno della Chiesa, scrisse a Carlo Malatesta signore di Rimini, che con esercito venisse ad abbassare le temerità de sollevati. Non tardò egli punto ed ammassate genti a piedi ed a cavallo, entrò nel territorio di Bologna, cominciando da Castel S. Pietro a depredare indistintamente tutto. Non le parve al Malatesta un tale invito, quasi che non vero, per la sete che aveva di avere la signoria di Bologna. Fattosci poscia padrone del nostro Borgo fece intendere alli castellani delle Roche che stessero saldi alla devozione della Chiesa ed al ben partito della med.
Intanto li sollevati di Bologna chiesero ajuto a veneziani, alli Estensi ed alli signori di Milano li quali nel mentre che ammassavano genti si concluse la pace fra sollevati ed il bon partito. A questo effetto furono eletti dodici della maggior confidenza della città, si composero li animi ed il governo per la libertà e si fecero li Anziani consegnare perciò le roche.
Li 7 lulio fu consegnata la Roca grande di Castel S. Pietro a quelli sotto diversi patti. Ciò fattosi vedendosi li uomini ed università di Castel S. Pietro defatigati nelle spese ed esauriti di danaro ed ormai sprovvisti di beni allodiali, venduti per sostenere le spese delle guerre, addomandarono sollievo al Senato, quale trovandosi ancor esso in cattiva situazione si pensò ad un compenso.
Godeva Castel S. Pietro fino dal 13 –, come si scrisse, la prerogativa di avere una bona situazione per il traffico e mercati li quali già erano ommai distrutti per la rivolta continua. Onde all’oggetto di riviviscere la mercatura in questo suo loco che languiva non che andava a perdersi per le colette, gravezze e pedaggi ed in conseguenza al paesano non restava mezzo onde mantenersi, ricorsero per ciò li pubblici rappresentanti al Governo di Bologna acciò li sovenisse e compensasse le loro perdite mediante un mercato ed emporio imune ed esente da ogni dazio e gabella per due giorni della settimana, tanto più che mercanteggiandosi quivi generi di ogni sorte si sarebbe anco proveduto allo stato e teritoriali.
Ascoltarono li Anziani e Confalonieri la petizione e si prestarono a compiacere li postulanti, li quali avevano anco fatto subodurare un altro dono alla patria, oppure sottomettersi ai signori di Romagna, ne fu perciò fatto il seguente decreto nel dì 20 lulio che qui uniamo. (Ponetur)
Un tale decreto fu dappoi nel successivo agosto confirmato colla facoltà alla comunità di passare e far passare e misurare li capi e generi intervenienti al mercato ed il ritralto di una tenace riconoscenza aplicarlo alla cassa comunitativa. Questa beneficenza fino che è stata vegliante nel paese ha sempre prodotto familie facoltose e saldi casati ed anco il povero artiere ed ogni altro individuo viveva onestamente.
Accomodate poi le cose della città il Papa spedì un novo legato alla med. e fu Lodovico Fieschi genovese col titolo di S. Adriano che nel 1412 ne prese l’impegno. Fu Podestà di Castel S. Pietro
per il primo semestre Gregorio di Michele Rossi e per il S.S. fu Luca di Bernardo Zambecari come risulta dai Lib. respettivi delli atti loro giudiciali.
Infrattanto il Papa, che nel tempo della sua legazione di Bologna con arte, forza e con richezza si era procacciato la dignità pontificale, sembrava non sapere riconoscere altra abitazione ad esso piacevole fuori di Bologna. Determinò pertanto portarsi in essa di novo, tanto più che le cose della Chiesa erano in fermento contro di esso, avendo come antipapa Gregorio XII e Benedetto XIII. Ne sollecitò di più la sua venuta per imporre qualche freno al Legato novo che già travagliava li cittadini con carceri, morti ed esiglio. Il che fu di grande stimolo a Carlo Malatesta di Rimini voltare le spalle al Papa.
Mentre si agitavano queste cose, crescendo il nostro mercato di Castel S. Pietro di concorso di robbe, bestiami e vittuario per l’affluenza delle quali si facevano promiscuamente li trafici e non vi era destinato loco alle merci onde, nascendo confusioni, li uomini del comune destinarono la piazza e luoghi onde mercatare, come riscontriamo dalle carte antiche nell’archivio comunitativo rimaste nelle deplorabili vicende del paese per la guerra, aggressioni e sacheggi sofferti.
Destinarono pertanto alla destra del Castello dalla parte della Roca il campo delle pecore, dalla parte opposta verso il Silaro quella de maiali e nella via corriera quello de vacini e cavalli. Quanto poi alle altre merci indigenti di ricovero fu destinata la contrada del Borgo e per li comestibili minuti e portabili entro il Castello, il che da sucessivi documenti e provisioni fatte dal Senato che dalli Legati ed altre autorità.
Ancora susseguendosi le persecuzioni del Legato alli cittadini ed a comitatini nel seguente 1413, non mancarono nella città però rissentimenti e discordie avendo un partito il governo popolare ed un altro l’ecclesiatico, tramandosi in conseguenza l’uno contro l’altro vendetta e stragi. Il Legato per ciò fece imprigionare molti nobili e persone di caratere anco del contado che mostravano partito, furono altri decapitati e molti altri confinati in Toscana, fra questi furono Giacomo di Guido Cattani e Tomaso Cattani di Castel S. Pietro, uomini di gran seguito che partirono li 15 agosto.
Per tali commozioni ne seguì e susurro e malcontento nella città che ormai dependeva in grandissimo disordine. Per questo e tante altre angustie Carlo Malatesti, prendendo la parte de travagliati, mosse le sue genti da Cesena a Rimini e venne improvvisamente a Castel S. Pietro per impadronirsene, ma trovata ressistenza dal capitano Gregorio Colina, nazionale del paese, non potendo avere l’ingresso, lasciato un corpo di pedoni a questo Borgo per sua retroguardia, scorse colli cavalli fino a S. Lazaro predando tutto ciò che le dava alle mani. Fatto bon bottino se ne tornò alla Romagna.
Ma perché il Senato ed il Legato prevedeva che la tragedia qui non finiva, li 12 settembre mandò un bando che ognuno si riducesse colle robbe nelle fortezze del contado perché si aspettava guerra, molto più perché erano stati decapitati molti congiurati partitanti del Malatesta.
Non tardò questi a fare nove scorerie , imperciochè ritornato nel teritorio con molte soldatesche scorse fino a S. Lazaro ed in pochi giorni degradò quasi tutto il territorio coadiuvato da fuorusciti bolognesi. Nel nostro territorio di Castel S. Pietro fu discreto il sacheggio poiché nelle truppe del Malatesta eravi l’accennato Tomaso Cattani ed, al riferire del P. Vanti, andò esente tutta la nostra collina.
Il Papa, che già aveva destinato la sua venuta a Bologna nel giorno 12 novembre, arrivò in città accompagnato da molti cardinali. Prese intanto il Papa al suo soldo il capitano Braccio dal Montone di Perugia all’effetto di ricuperare le terre per la S. Chiesa, con molti altri valorosi capitani, ma più di tutte le altre terre premevale Bologna.
Finchè si maneggiavano queste cose il Malatesta che era avido di travagliare Bologna e levarla dalla direzione di Giovanni XXIII ed impiegarla a favorire Gregorio XII, poiché la discordia de chierici aveva ridotto la Sposa di X.to ad un mostro di tre capi, cioè Gregorio XII, Bendetto XIII e Giovanni XXIII Pontefici. Tutto questo scompiglio fece si che non si ebbe in Castel S. Pietro alcun Pretore nè Vicario fino al 1417.
E perché vedeva il Legato di Bologna prosseguire e mortificare li bolognesi con esigli e morti, giudicò che queste empietà potessero essere occasione di effettuare il suo disegno, però si collegò col Conte Lodovico Zagonara, fornito di mille cavalli e bon numero di pedoni, con il Duca Nicolò d’Este di Ferrara e colle genti di Micheletto Attendoli di Castignola ed immediatamente venero nel bolognese. Nel dì 24, secondo scrive il Ghirardacci, presero per assalto Castel S. Pietro colle Roche ponendovi novi castellani, alla maggiore delle quali vi pose certo Barbolio che serviva da comissario e governatore, uomo rigido, ne castighi inesorabile, di roze maniere e avaro nelle grazie, così che provocava a sedizioni li paesani di qualunque grado e condizione.
Poscia il Malatesta fattosi soggetto Castel S. Pietro passò a guardare il contorno. Li poveri castellani li quali avevano solamente in custodia la Roca picola all’ingresso del castello, framischiati colli pressidi malatestini, erano forzati ad ubedire al nemico potente della Chiesa e sembrava ad essi un ora mille anni il sottrarsi dal giogo di un uomo tiranno e rendersi al capo della Chiesa. Stanchi pertanto delle quotidiane crudezza, fecero noto per via secreta a Braccio che se veniva al loro bisogno le auriano data mano a cacciar l’inimico dal paese e darle in mano il Castello e le Roche per la Chiesa.
Ad un tale avviso Braccio venne di volo a Castel S. Pietro ed impensatamente nel giorno 5 genaro 1414 pose il campo, come si suol dire alla sordina, su la spianata della Roca grande a ponente del Castello. Avvedutisi di ciò li castellani cominciarono ad alta voce gridare: Chiesa, chiesa. Morte ai dazi, morte ai nemici morte, morte, (furono capi di questa insurezione Ostesano e Giovanni Trisani colli loro figli di Castel S. Pietro) alle quali voci sbigottito il castellano Berbolio al principio intese fare ressistenza, ma sentendo darsi suono alle trombe fuori del castello e ritrovarsi in pericolo di vita abbandonò la Roca grande e fuggì nella picola alla porta del castello che si teneva da malatestini e paesani che, rivolgendosi ancor essi contro il nemico, fu questi in grandissimo periglio dal quale si scampò colla fuga unitamente alli malatestini nella vicina Romagna.
Presa la Roca grande per assalto il prode e valoroso Braccio fu fra li evviva dei paesani accolto con sommo piacere del che, riempiendosi e gonfiandosi come scrive il Machiavelli nella sua Memoria di Bologna perdonò la morte alli oppidani di partito contrario. Le familie de favorevoli furono queste: Rinieri, Cattani, Zopi, Cheli, Rolandi, Salvetti, Battisti, Morelli, Fabbri, Fucci ed altri come ci lasciò notato il d. Vanti.
Una cronica anonima di Cesena M.S.S. de fatti di Carlo Malatesta, signore di quella città, esitente nell’archivio Giordani comunicataci dal nostro concitadino Lodovico Mondini che ivi finì li suoi giorni al servigio di Casa Malvezzi, trovasi questo fatto descritto in versi:
Poscia Bracio tenendo al bolognese
giunse a Castel S. Pier che il Silar bagna
e qui trattato tal v’ebbe, che el prese
senza usar forza e farvole campagna
Reggeva qui Berbolio che ù ciò intese
voltò a quei del Castello le calcagna
perché gridar, invece di diffesa,
morte ai nemici e viva sol la Chiesa
Doppo avere avuto il nostro Castello Braccio passò alle terre vicine ribelli a S. Chiesa, prese Medicina ed i luoghi aderenti che fare vollero ressistenza ne portarono la pena del sacheggio e della vita. Liano e Frassineto non furono esenti da questo infortuni, a tali disaventure che soffersero questi due paesi vi si aggiunse anco il danno de teremoti che furono terribili nell’Italia, come scrive il Bernadetti ed il Caradori Memorie di Budrio MM.SS. Nel nostro Castello ruinarono le merlature più deboli ed alte, così accadde a Varignana e le accennate castella.
Sottomesso Castel S. Pietro e Medicina a Braccio e sue truppe, convenne alli nostri oppidani somministrarle tutte le necessarie sussistenze e foraggi per li cavalli e sue genti. In questa contingenza si sottrarono dalla ubidienza a Castel S. Pietro tutte le comunità subordinate al suo vicariato, seguirono fazioni e malefici. Nel decreto della reintegrazione fatta dal 1416 che alla sua epoca riporteremo come troppo interessante, si rileva quanto fin qui abbiamo anotato.
Del corrente anno 1414 li 16 febraro Papa Giovanni venne a Bologna ove tornò solennemente e fu ricevuto colli condegni onori. Andarono le cose della Chiesa di male in peggio, stante il scisma di tre pontefici, cioè Benedetto, in Francia, Gregorio e Giovanni in Italia, come riferisce Giacomo Filippo ne suplementi delle sue Cronache al fol. 280 sotto l’anno 1413 di Christo, in modo che il mondo uscì di governo e vacillava nella religione buona per le eresie che ne insorgevano.
Perciò Sigismondo Imperatore de Germani, mosso di tanti disordini, ordinò che si convocasse un Concilio Generale in Costanza per spegnere totalmente questo scisma che erano già 19 anni che durava. Per lo che, invitate le cinque nazioni cioè francese, spagnola, italiana, germana ed anglica mediante cinque ambasciatori, si fecero molte lodevoli sessioni alle quali fu sempre presente Sigismondo. Furono in queste dannate molte eresie specialmente quella di Giovanni Vigles e delli suoi discepoli li quali, fra le altre stultizie loro, tenendo l’opinione di Dolcino da Novara, che tutte le donne fossero per uso commune ed infiniti altri errori, furono dappoi abbruciati.
Infine, ordinati molti decreti per rifformazione delli Xstiani e riformate le cose della chiesa catolica, si cominciò poi in questo tempo a consultare della nazione del novo pontefice, per la qual cosa, come dice la cronaca, fu ordinato, e massime da Sigismondo Imperatore che fu sempre presente e dalli altri prelati, che ciascuna nazione dovesse eleggere fra esse sei persone, che fossero uomini letterati e soprattutto timorati di Dio, li quali insieme colli cardinali dovessero eleggere il Papa.
Mentre tutte queste cose si operavano per Concilio, Braccio insignorito di Castel S. Pietro a nome della Chiesa, cominciò di quivi a scorrere nelle terre ribelli della Romagna sottomettendole alla Chiesa. Nel settembre passò nel riminese con presa di tutti quei paesi ribelli facendovi infiniti danni. Per questi movimenti non lasciò abbandonato il nostro Castello dove che lasciovvi sotto bona custodia Giovanni Fortebracci di lui nipote.
Entratosi nell’inverno tornossi quivi alli alloggiamenti colle sue genti alla quale occasione, come sua signoria, riscosse dalla nostra populazione il pieno mantenimento. In tale occasione fraternizossi colle familie del paese e pubblica rappresentanza in guisa che ebbe campo scoprire li pregiudizi e svantaggi del paese resi ommai insoprimibili a tutti anco li individui.
Fra li disordini fu inteso della sottrazione delle comunità soggette al nostro Vicariato e ribellatesi al med. che perciò non contribuivano più colle colette alla manutenzione delle fortificazioni del paese. Assunse egli l’impegno della reintegrazione e ne fu di parola all’occasione di patteggiare la restituzione del luogo nella quale vi incluse il patto della riunione e somessione di quelle alle forme de Statuti, aggiungendovi altre prerogative locali che a suo loco riferite ed esplicate saranno.
Ma perché non conveniva a Braccio come generale di ventura starsi quivi ozioso alle armi senza avere li stipendi decorsi, fece instanza al Papa, che trovavasi in Bologna, per esserne soddisfatto altrimenti intendeva non dimettere più Castel S. Pietro e la Roca di Medicina. Il papa che le premeva la ricupera di Castel S. Pietro come luogo importantissimo e la migliore fortezza del contado, ordinò la liquidazione delli stipendi. Fu questa appurata in 85.000 fiorini, il pagamento de quali nel seguente 1415 fu convenuto entro limitato tempo col rilascio infrattanto nelle di lui mani in pegno ed ostaggio il med. Castello colla populazione e la roca di Medicina con altre condizioni le quali, perché avessero il plenario effetto, le volle Braccio coroborate da chirografo papale e colla intelligenza ancora del Senato, il che seguì come riscontrato dall’unito documento tratto dalli Somarii di Medicina stampati in Roma ultimamente per le liti che quella comunità ebbe col Senato cioè:
Joanes episcopus servus fervorus Dei. Ad futuram rei memoriam. Decens et congruum arbitrarus ut que de commissione nostra licet vive voces oracule provide sancte dignoscinus, apostolico munimine roborenunt. Cum itaque nuper virtute commissimis huius modi dilecti fili Nicolaus de Oxana et Bernardus de Guadagnis cives Honorabiles florentini viso et posito calculo rationum eum vener. ftate Eantonio episcopo Senen.Tersauravio ustro ac regente officium Camerarius nostri, nostro et Eclesie Romane et apostolice nemine ex una ac dilectium fil. Ardellini de Montone civitatis telli Diecesis Cancell. (..). Procuratorem dilecti fili nob. viri Braci de Fortebraciis de Montone Domicelli Perastei et nonnullor gentium armigerer. Nostrar. Capitanei exadverso partitlus ex altera presuntim defugere et super stipendiis ac provisionibus et custodiis nomillorum csatrorum debitis d. Bracio et eius comitive coniuctim, vel divisim a nostra R. E. et camera presatis usque in diem iltimam mensis marti proximi preteriti ad super habitis et receptis p. ipsum Bracius, vel alius eius Not. usque in presente diem ultimas marti promissos vel alicuis ocasione, vel causa sui dependantiam ab eiusdem retulerint nosque certificaverunt Bracius presatus pro omnibus et singulis suplis que a nostra eclesia et camera ptis usque in d. diem utima marti presati quonodocumq. et qualiter cumque seu quovis Jure et actione, causa vel modo pro se, qaut comitiva huius modi prebere pobuisset, seu posset deductis habitis et receptis p. ipent, seu alium prout perfertur. Nos, eclesia et camera prefatos teneri pro ressiduo omnium premissorum d. Bracio in summa 85 m. florenos fino dectractine aut defalcatione quibuslibet ut eidem Bracio juxta modo et forma incttos. de d. suma 85 m. florenos debito satisfiat, sitique super consecutione huiusmodi sume etiam caventur, viso et itellecto p. Nos huiusmodi calcolo rationis p. d. tesaurario et Senatum oficium Cameraricus presati et audita relatione et certificatione Nicolaj et Bernardi presator, autoritate ap.lica et ex certa scientia rationem et calculum hoc modi de quibus Nobis plene constat per quos idem Bracius creditor R. E et camera presator, ac Nostri in d. quantitate ut f.a premittitur et declaratur tenere predentium approbamus et etiam confirmamus et recognoscimus Nos, Eclesiam et Camera huiddi fuisse, et esse promisse, ocasione in d. summa 85 m. florenor.ad dand. et solvens temporibus, modis, formis, et coditionibus inctis d. Bracio, et suis heredibus debitores in hanc modum videlicet.
In primis videlicet quod idem Bracius pro parte,et d. summa pred. per se vel per Pro… suumad hunc actum legitime constitutum habeat et habere a Nobis, Eclesia et Camera predictis quinque milliaria ad omnem eius petitionem et terminum et 5000 alia florenor. similium usque et per totam diem..teram mensis proxime preteriti.
Ressiduum vero tertius d. summa (…) 75 milla florenor. auri de camera sine aliqua dectractione aut defalcatione quacumque usque ad quinquenium proxime sequiturus (…) in Kal. Marti proximi propteriti et usque ——- finiens solvens quolibet Annodictu. Quinque annos quinta pertem d. sume huismodi et nihilominus satisfactione et consecutione d. summe prefati ressidui omnes et singulos fructus, reditus proventus et conventiones (…). Datis mercantie civitatis nostra Bononie, eius Comitatus darante d. quia…enio ac per ipsum quinquenium usque ad integra satisfactione d. sume videlicet pro rataspecialiter deputati, assignati et obbligati et harum ferie assignamus, deputamus et splitter obbligamus.
Inhibentes dilecti filiis gentibus d. Camera nec (..) universalis MagistratusCivitatis, Comitatus territori et districtus Bononie predictus et aliis quibuscumque ad quos potest quomodolibet pertinere ne d. Braccius aut eius procuratorem cel nuntium ad id deputatus et specialiter constitutus seu cessionarios vel jus et titolum, seu causam habentes ab eis aut eorum aliquo in premissis inspectione exactime seu perceptione d. sume prefati ressidui ut f.a exprimittur infra d. quinquennium persolventi de, aut super suartibus reditibus et proventibus d. dati quoquomodo perturbare aut inquietare presumant et si forsan ex fructibus, redditibus et proventibus d. Dati, deductis expensis quolibet anno d. quinqueni idem Bracius per se, procuram vel cessionarius huiusmodi quinta partem d. ressidui non percipiat at perserlur quod infra IV menses post completum annum quid deficiat d. quantitali prefati residui, integraliter faciem aspresolvi. ita quod quolibet anno d. quinqueni vel saltem infra d. 4 menses ut premittitur percipiet per se, vel alios ut s. exprimitur integraliter quintam partem sume d. ressidui sine dectractione quibuslibet.
Volemus etiam pro pleniori securitate et cautela d. Braci sibigi concedimus p. presentes et quousque sibi q.ta (..) fuerint observata eidem liceat loco pignoris sub modis at conditionibus inferius adnotatis Castrum nostrum S. Petri Bonon. Diocesis, ut in illo et eis territorio possit et voleat jurisdictionem omnimodo ac merum et mistum imperium exercere cum gladi potestate quam et quod exercere pssunt et debent Vicari Civitatum et Castrotum et Terram(…) ilesie de consuetudine vel de iure.
Hoc excepto quid extra d. Cas. et eius territ. in viaventu consueto d. Cas. seu Vicariatus d. Cas. directe vel indirecte seu quovis quesito per se vel p. alios quomodocumque, aut qualitercumque non possit, neque debant idem Bracius jurisdictio hui… aut eius exercituius quomodolibet exercere. Volumus etiam— quod universitatis et singularis persone d. Castri debeant accipere sal de Dohana seu salaria Bononie, volemus etiam pro cautela huid.prefato Bracio — loco signoris Rocam Castri Medicine (..) munitionibus retinendas et salvans per quem Castellanum ponere voluerit —— ac (…) quod facta integra solutione totalis sume p.te Castrum S. Petri p.tam cum (…) et territorio eius p.tis restituere teneatur. ————
Nulli ergo liceat hanc paginas. Si quo casu, quamavertat omnipotens. Quoque modo contigerit.
Dat. Bononie XVI kal. Septembris Pontificatus nostri anno V. T. de Monte Politiano in + S.
Tutto il tempo che Braccio, in vigore del suddetto chirografo, tenne in pieno potere il nostro Castello con facoltà di mero e misto impero, fino alla pena di morte contro li inosservanti le leggi e statuti, furono li oppidani costretti mantenere le di lui truppe a proprie spese e conforme ad esso parve così che non fu lecito nemeno ad alcuno emigrare dal paese ancorché l’avesse voluto per evitare il rigore di un capitano e generale tracotante il quale era infetto ancora di proposizioni e sentimenti eretici onde finì poi miseramente.
Facendosi infrattanto il Concilio di Costanza fu citato presentarsi al conclave Giovanni XXIII. Fu egli restio alquanto tempo, alla perfine fu dichiarata in quello la deposizione dal papato. Parve questa circostanza opportuna alli malcontenti del Governo per sollevarsi contro la Chiesa. Perciò Matteo Canetoli ed Antonio Bentivoglio, familie potentissime nella città di Bologna, approffittandosi dell’assenza del papa e delle truppe di Braccio, che con esso svernavano a Castel S. Pietro, ove Cambio Zambeccari con messer Ruggero da Perugia, Podestà di Bologna erano a trattare la evacuazione da Castel S. Pietro, nel dì 5 genaro 1416 mandarono a rumore la città per la qual cosa Bisetto Cossa, nipote di Giovanni XXIII, che era capellano alla porta di Galliera si impadronì tostamente della cittadella.
Cio penetratosi da Giovanello Cossa, che era capellano a Cento, si impadronì ancor esso di quella Roca. Intese queste sollevazioni, promosse ed eccitate ocultamente da Giovanni XXIII ed eseguite dalli d. Bentivogli, Matteo Canetoli, Guido Pepoli ed altri, dispiacendole al sommo al Zambeccari ed al Podestà per non essere stati ammessi al trattato, instigarono Braccio contro la città finché erano in Castel S. Pietro e fecero grande armata per rimettere la Chiesa in istato ed assalire Bologna sotto le spalle di Braccio.
Avutasi tale notizia da Braccio egli andò di volo alla città con alquante bande di suoi soldati ove si adoperò così destramente con Bisetto che fu introdotto nella fortezza, non fu si tosto entrato che se ne impossessò a nome del legittimo Pontefice dapoi, fatto prigione Bisetto lo spedì sotto bona custodia a Castel S. Pietro dove in appresso vi fu anco condotto Giovanello Cossa, castellano della Roca di Cento doppo essersene impadronito il med. Braccio.
Furono li d. Cossa reclusi nella Roca grande di Castel S. Pietro e ben guardati. Ammassatasi molta gente ed armata dal Podestà e Zambeccari andarono alla città ed entrati alquanti per la porta di strada Maggiore, fu tostamente chiusa e li presi furono banditi. Braccio che era in Castel S. Pietro, intesa questa nova temendo di maggiori, nel giorno 10 genaro andò con genti alla porta del Mercato che poco era guarnita ed entrato, vedendo li bolognesi affaciarsi per combattere, fece chiamare a se il Bentivoglio ed il Canetoli per parlamentare intorno la resa di Castel S. Pietro e Medicina, ma come che ivi non si potette sul momento concludere tutto, si venne da essi ai crociali fuori di strada Maggiore e nel giorno 12 corrente genaro seguì l’accordo e la capitulazione, la sostanza della quale fu che:
Fra tre mesi Bologna pagasse trentamila fiorini a Braccio o siano scudi 8200 e che egli in corrispetto restituisse tutte le altre castella da esso occupate o datele in pegno da Papa Giovanni ed oltre ciò fosse reintegrato Castel S. Pietro delle sue comunità cioè Villa di S. Biagio di Poggio, Comune di Casalecchio dei Conti, Corneta con sue ville, Sassuno, Calegata, Vidriano, Monterenzolo, la corte di S. Polo colle sue giurisdizioni ed obedire come anco li altri vicariati di Bologna alla forma de Statuti e non ostante qualunque altra cosa in contrario per il tempo avvanti e questo Capitolo abbia loco e vigore dal tempo che Castel S. Pietro sarà libero sotto l’obedienza di Bologna.
Queste cose furono stipulate giudicialmente avvanti Onebene Lascola fiorentino ed avvanti Gualterio da Pavaia giudici e rogito di Gio. Andrea delli Usberti, del che più diffusamente ne appare dal documento che presso noi conserviamo estratto dal d. somario.
( Vedi Appendice 3. Capitoli di Pace gennaio 1416)

Furono anco in questo tempo modificati li Statuti di Bologna.
Nel dì 13 febraro stante la preventiva rinoncia fatta del governo di questa arcipretale di Castel S. Pietro da D. Francesco da Mantua, fu presentato dalli parocchiani di Castel S. Pietro al Capitolo di Bologna D. Giovanni Mattioli e nel dì 14 marzo le fu conferita la chiesa per li atti di Rinaldo Formaglini, secondo l’elenco delli arcipreti che hanno qui governato esistente nell’archivio parochiale.
Non si sa comprendere come questo D. Francesco da Mantua investisse questa cura per intrusione o per rinoncia o per nomina legittima poiché nulla si ritrova di positivo doppo la nomina di D. Berto di Varignana fatta legittimamente. Ottenutasi dunque la chiesa da D. Giovanni Mattioli il med., che aveva davanti agli ochi la nimicizia fra paesani nata a motivo di partito, ne procurò quindi la conciliazione. Si ha nelle carte antiche in quell’archivio ritrovate una pace fatta in di lui presenza fra le familie di certo Bontempi e Bondone di Alboro, collegati contro Cenzio de Vitali e suoi congiunti: propter vulnera illata, come si esprime la carta, …uaxione Pagarum magnifici D. Barci de Montone. Ed è sciagura il laconismo in questa cosa, onde li scrittori non possono autenticare il loro asserto né saperne il diritto.
Cessati li rumori nella città, fu eletto un novo Magistrato di Governo composto di sedici cittadini, la maggior parte nobili e furono denominati Riformatori, capo de quali fu Guido Pepoli e li altri furono Lambertino Canetoli, Romeo Foscarari di leggi dottori e militari, Bartolomeo Manzoli, Giacomo Saliceti dott. di leggi, Floriano di Castel S. Pietro, famoso dottore in ambe le leggi, Antonio Guidotti, Matteo Griffoni, Facio Pasi, Lorenzo Cospi, Battista Poeti, Giovanni Malvezzi, Brainguerra Caccianemici, Floriano Cambi e Matteo Marescalchi merciaro.
In sequela delle Capitolazioni fatte fra Braccio ed il Comune di Bologna, furono nel seguente aprile riunite e sommesse come prima al Vicariato di Castel S. Pietro, mediante solenne decreto delli d. 16 Rifformatori le sudd. comunità ed altri luoghi. Oltre tale reintegrazione furono anco confirmate tutte le altre immunità e d esenzioni delli dazi, gabelle, pedagi e colette alli interrevenienti al mercato settimanamente di questo loco, la rimissione delli delitti anco per motivo di lesa maestà incorsi per le fazioni passate e finalmente oltre una generale assoluzione de reati passati a ciò inerenti per le rivoluzioni ed anco de debiti contratti colla camera. Fu anco concesso che in tempo di mercato non si potessero arrestare li intervenienti per debiti ed altre prerogative furono accordate e concesse al nostro Castello in grazia delli incomodi, spese e danni sofferti per la detenzione di esso in mano del generale Fortebraccio, come si rileva dal documento estratto dal Libro Datiorum et Pactor. Bonon. al fol. 133, conservato nell’archivio segreto del Senato di Bologna del quale, per soddisfazione del lettore de nostri scritti qui apponiamo la copia conforme
Decretum Comunis Castri S. Petri: In X.ti Nomine. Spectabilies et Egregi D. D. Sexdecim Officiales Refformatores Popularis Status Civitatis et Comunis Bononie et sui legum doct. Lambertinus de Canetulo Miles, Romeus de Foscherariis Milites et Legum Doct., Bartolomeus de Manzolis, Jacobus de Salicero, Legum Doct., Florianus de S. Pietro utriusque Legum Doct., Antonius de Bentivolis Legum Doct., Antonius de Guidottis, Matteus de Griffonibus, Facius de Pacibus, Laurentius de Cospis, Bab.ta de Poeti, Jo. de Malvitiis, Brainguerra Cazzanemicis, Florianus Cambi becarius et Matteus de Marescalchis merzarius, visa qiodam petitione presentat, eisdem D.D. Refformatoribus pro parte Comunis, universitatis et hominum Castro S. Petri Comitat. Bononie exibita et exposita, in qua in effectu expositum fuit quod jamdiu tempore et temporibus diversorum Civitat. Bononie permanebant quam plurime terre et curie subject Viacarie Terre C. S. Petri secundd. formas statut. et provis. Bononie, fuerint diversis temporibus a d. Vicariatu subrapte et ab eius obedientia sub diversi modi etiam simoniacis inta.. quod Vicariatus d. Terra remansit spoliatus sue obedientie dd. suarum Terrarum et comunibus et ob hoc cives bononienses a d. Vicariato a d. tempore citra esecti ibidem discedere et officere d. vicariatus exerxere non curavunt et ob hoc d. vicariatus pervenerat ad regimen infime.. persone et Comune et homines d. terre expensis at oneribus totius vicariatus consumabantur et eis resistere non valebant ex quo instanter petitum fuit p. eosdem D.D. Rifformatores ut adobat speciali decreto d. Vicariatu Cas. S. Petri debite reintegrari secundum formam Conventionis (..) initi cum Nob. U. Bracio Fortebraci submitti et restitui d. Vicariatui vite… Podi S. Blasi, Sassuni, Montis renzuli, Galegate, Frassinete, Casalichi comit, Vitriano, Cornete di Lignano cun suis villis et etiam Curiane et terram s. pauli et terreTrifolc et Trifolceti ead ipsum Vicariat C. S. Petriet eius obedientie reducere dignaventur et cum alias etiam eisdem comunitati et hominibus d. terre Castel S. Petri per magnificos D.D. Antianos d. Populi et Comunis Bononie mensis juli et augusti per eorum speciale decretum concessa fuerit licentia libera et expedita faciendi et tenendi et ab inde in antea ac de cetera in perpetuum facendi, tenere et exercere in Burgo seu Burgis dicti Castri singulis diebus Dominicis et diebus lune, imediato sem.. turis liberum et expeditum Mercatum, seu forum absque solutione alicujus Dati et Gabelle et absque aliquibus Datiis tracta bestiarum nec non fructum mercatiarum uliarum guarumcunque, cuiscumque conditionis, excepto Datio Macine, Vini et Panis continuere et omini tempore durantibus mercato, seu fora predictis ibidem exigi et sovi debeant et p. ipsum Decretum data et concessa fuit licentia libera et expedita quibuscumque aliter non prohibitis ocaxione condemnationis, rebellionis et bannori (…) ondecumque veniendi cum eorum eorum familiis, mercantiis annibusque aliis (..), robes atque pecuniis ad forum seu mercatum et ibidem standi, mercandi, trafficanti per pred. duos dies et …ramque eorum, indeque discedendi cum eiusdem rebus, animalibus, pecuniis et bonis aut cum altrerius generis vel sine eis absque solutione alicuius gabelle, dati vel pedagi preter datios macine , panis et vinis et prout salius in d. decreto nominato continet. sub Dat. Bon. die 20 juli 1411, rogato per Ser Jo. qd. Antoni de Battugliuccis (..) Otti. Reffor. Comm. Bonon. deputat. et ad promissa seu premisser. omnium firmitatem ad eiusd. D.D. Refformatores in ipsius comuni et universitate Castri S. Petri q.ti petitum duit, d, decretum et omnia in eo conten. approbare, ratificare et confirmare prout ipsi comuni et universitati. Cas. S. Petri pred. remansit et permanet sub devotione S. Rom. Ecclesia autequondam ipsi sudditi et supositi fuerint dominio et regimini messer Braci de Fotrbraciis de Montone quattuor mensis circa dedecem capita. Eclesia prelibate per assignationem et subiectionem de eis (..) questo magnif. D. Capitan pro suis stipendiis sibi debitis a (…) D. Papa Jo XXIII. Nonullis pecuniarum quantitatibus at d. temporibus retroactis hujudi subtractione durante cum homines et universitas d. Terre Cas. S. Petri maximo incomoda et damna gravissimaincremento sustulerint et nihilominus nunquam sunt et fuerunt infidi d. hom. et universitas C. S. P. et devotionis debite, summissionis et fidelitatis Comuni Bononie continue perseveraverunt et securi contra eorum voluntates p. assignationem facte, adstricti fuerunt prefato Bracio et suis officialibus obedire pro (…) persona, petitum fuit ut per eosdem prefatos D.D. Refformatores Autoritate sui offici in conpensationem damnos suorum predicte libere et absolute ex speciale gratoa remitti atque donare omnes et quascumque pecuniarum quantitates in quibus tam tempore pred. subditi fueriat prefato Bracio, quod ante, quocumque tempore siat vel esse repariantur vel dici possent aliqulit. obligati, ..noxi vel debitores tam in specie, quam in genere comuni Bononie eius Camere quam S. R. Ecclesiaet eius Dominis in civitate Bononie et quavis causa et occasionasque in diem presentem et successivo precipii et mandavi ad quod pertinet et spectat d,. comune, universitatem ac homines tam in specie quam in genere, (…) massar., sindicos atque fidejussor. qualunq. Ad presens seu requisiti massar questi d. terra C. S. P. et nominat.. omnes sucessores a quibuscumque datiorum solutionibus, tam ratione collectar. quam solutione (…) librar. debit. Camera Bononie et tamdam petitus fuerit pro ipsorum comune et univers. C. S. P. omnibus singulis ad omnem abundan. cautellam remitti et pretioso indulgeri omnes et quos cumq. iniurias crimine et delicta, que eisdem hominibus et universit. vel alicui seu aliquibus ex eis ascriti vel ingiungi possent, et seu per eos, vel eorum aliquem, seu aliquos dici possent comissa et perpetrata tempora d. sutractionis vel regiminis prefato Barci contra comune Bononie vel eius dominio edusq. Ad crimen lesa majestate inclusive joxta forma alterius similis concessionis, remissionis et indulgentie tam debitoras predictas quam injuriam et maleficiorr et delictor. —- per D.D. Refformat. de mense aprilis die 3 (..) visis p. ipsos D. Refformat. et Antianos statuit et povixionibus p.tis et habita informatione plenariam omnium sipradd. nec non etiam vicariatus p.ti super eius solium obedentia etiam antigua et indebita subtractione dd. terram hui.di vicariatus contra forma juris, statutor provixionum (…) bonis et gravissimum damnum et totalem consumphionem dd. universitatis et hominum d. Cas. S. Petri, attento maximequod insoportabilia ac omnia inpossibilia eisdem faret d. Cas. et eius fortilitium, muros et menia ad que ac quorum fortificationem (..) p.ta (..) terrar. ptatum pre (..) conferre teneatur ad formas statur. ac provis. comunis Bononie. —–.
Ac etiam attentis et conferatis omnibus aliis superius expressis et petitis et attenta etiam d. universitatis et hominum d. C. S. P. (…) et plena devotione in q2ua conservaverunt et continue se senservant erga civit. Bononie (…) supravisis, enarvatis et dedactis in petitione, ut pole justis et debitis dare merito annuentes in sufficienti numero congregati in eorum solita audentia ubi justitiam faciant sive in inferiori parte (..) ressidens m. m. D.D. Antianos populi et comunis Bononie aucthoritate eorum offici, arbitri et Balia et omni meliori modo et forma, nemine discrepante, providerunt, framerunt et presen.. s.gti decreto reintegraverunt et d. omnes et singulas Terras et communitates terrarum ptarum inde ad ipsum vicariatum et eius estactualem obedentiam redexerunt. Cassantes, rimittentes et ex certa scientia annullantes omnia et singula decreta, mandata et quesis alia disposita particularie hactamus p. quemcunque offisiculam it regimen Bononie facta, indulta et concessa. ——— et sucessiva d. Decretum, concessionem atque licentiam tenendi, faciendi et exercendi mercatum seu forum pred. in Burgo dies domini et lune pred. in perpetuum cum immunitatibus et exemptionibus in ipso Decreto D.D. Antianos anni 1411 contentis et cum licentia (..) venientius, venire atque discedere inde volentius cum eorum animalibus, rebus, bonis, pecuniis et (.. )et supra absegno solutione aliqua datiarum, pedagi et gabelle ptorum duorum dierum exceptis Datiis Panis muline et musti seu vini, approbarunt, ratificarint (…) (…) eorum decretum et de nova eiisdem comunitati, universitati et hominibus terre Castri S. Petri liberaliter concessurunt eorump.nti Decreto (..) eisdem comuni et universitati et hominibus Terre C. S. P. remiserunt et donaverunt (..) et quaranlacunq.pecuniarum quantitates in quibus essent dwbitores vel obnoxi tam ipsi et populi, quam ipse omnes universitates d. Terre, homines et singulares persone, sindici et massari tam congiuntim quam divisim contract, tam tempore d. subiectionis frefati (…) Braci (…) ab eo quovis tempora raproacto et etiam usg. in diem presentem. Mandantes quibuscumq. quos spectat d. comune, universitate et omnes eorum sucessores pro debitis pred. descriptis in (..) tam per Massarios quod per Comune Bononie quod R. E. vel eius Camera debeant ad omnem remisetionem d. terre aut eorum abatere et totaliter cancellare et pro liberatis et absolutis debeantur et insuper auctoritate Bailia et eorum off. providenda remiserunt eidem comuni, universitati et hominibus d. terre et singularibus personis, omnes et qua…. injuria, delicta et (…) alia crimina etiam si essent vel dici possent lese Majestatis contra Comune Bononie et persona judicum nostrar. fact seu illat aur perpetrat, inguire cognosci, condemnari vel acusare et procedi. ——–
Predictaque omnia et sempula statuentes, firmantes, decernentes, ..riterantes, concedentes, indulgentes, donantes, remittentes et mandantes non obstantibus quibuscumque aliis decretis, licentiis, privilegis, provixionibus aut dispositionibus in contrarium quocumque seu quibuscumque et quavis auctoritate fungentibus impetratis, concessis vel (…), aliosque juribus vel consuetudinibus, quibus omnibus ex singulis aucthoritate eorum Offici utiliti et bailie (..) patti eorum decrete specialiter derogaverunt. Mandantes D.no Potestate et Capitaneo Bononie atque capitaneis montanearos seu eius officialibus Comini Bon…tibus et futuris quod presens Decretum ac omnia et singula in eo contens observat et ab omnibus aliis observavi faciant. Dat. Bononie die IV decimo mensis Aprilis cum impressione nostri sigilli 1416. Lambertinus de Canetulo Prior. refformat. Jo. Usbanti Not. Offici Refform. de mand. scripsi.
Per l’anno successivo 1417 furono eletti Podestà di Castel S. Pietro Aldreando di Pietro Lucchini per il primo semestre e per il secondo Baldo qd. Alberto Combigi, suo Not. Andrea Galassi.
Nella rivoluzione ultima della città essendosi mischiato Pietro ed Andrea Garganelli di Bologna furono confinati sotto bona guardia nel nostro Castello ove stettero fino alla elezione del novo Pontefice.
Nel dì 24 aprile, inerendosi al decreto sud. fatto 10 giorni sono, fu consegnato Castel S. Pietro da Giovanni Fortebraccio dal Montone, che lo teneva in guardia per conto di Braccio di lui zio, alli sedici Rifformatori, novo Senato. All’atto della consegna, che si fece a Romeo Foscherari e Lambertino Canetoli presente il not. Giovanni delli Usberti che ne rogò la restituzione, furono pagati 145 scudi d’oro al d. Giovanni per la consegna delle chiavi delle Roche tanto di S. Prospero che di Medicina e più altri scudi 20 per la consegna delle chiavi dello stesso Castello a titolo di bonuscita. Poiché poi le accenate convenzioni avessero la maggior sussistenza legale né si potesse loro opporre surrezione ed orazione e ne fosse inteso il popolo intero di Bologna, ne fu pubblicato su ciò una Grida giudiciaria nel 22 di giugno al di cui tenore quivi giungiamo estratto il precitato summario (Vedi Appendice 4. Documento 22 giugno 1416 )

Facendosi nel Concilio di Costanza quotidianamente rifforme e volendosi venire finalmente alla elezione del novo pontefice legittimamente, entrò in Conclave inaspettatamente ed insperatamente, come riferisce nel suplemento alle sue Cro. F. Giacomo Filippo eremita, il cardinale Colonese di Roma per nome Odone ed il giorno proprio di S. Martino 1417, le 11 novembre all’ora di terza, fu eletto Pontefice ed assunse il nome di Martino quarto, detto poi V.
Tale elezione riescì di tanto giubilo che niuno de’ conclavisti volle parlarne e perciò tostamente Sigismondo Imperatore, per la somma allegrezza ancora senza alcun rispetto, entrò nel Conclave e con le lagrime alli ochi riferì grazie infinite a tutti avendo fatta una scielta così degna, ravvisando in essa la vera salute della catolica Chiesa, umilmente prostrato innanzi il novo Pontefice con grandissima reverenza, baccioli li piedi.
Il deposto Giovanni XXIII, che aveva cercata la fuga, fu restato e detruso in carcere travestito e consegnato a Lodovico Duca di Baviera che lo chiuse nel castello di Gotlebe ove stette 4 anni prigione accusatto di molti mancamenti.
Il novo Governo di Bologna, intesa la nova elezione pontificia, spedì tre ambasciatori al novo Papa eletti dal N. delli 600 e furono Floriano da Castel S. Pietro, Bartolomeo Manzoli e Matteo Canetoli che furono da esso accarezzati e condiscesi nella loro domanda.
L’anno seguente 1418 fu Podestà per il P.S. Alamanno Bianchetti e per il S. S. Ubaldo Usberti.
Volendo Martino V novello Pontefice farsi riconoscere per sovrano de Stati della Chiesa mandò a coprire li luoghi più importanti colle truppe assoldate. Tornò pertanto Braccio ad accamparsi a Castel S. Pietro ed ad insignorirsi del med. a comodo della Chiesa per la qual cosa venuto il Papa a Mantova di qui scrisse ai reggitori della città di Bologna che voleva venire in persona a farsi riconoscere o ad ottenere il dominio della medesima mandando avvanti un nunzio apostolico. Intesero li bolognesi la cosa per il suo verso e fu tutto con quiete composto mediante un annuo canone di settemilla fiorini. Tutto ciò ce lo descrisse latinamente F. Girolamo Borselli dell’ordine domenicano ed annalista bolognese in questi termini:
Anno D. 1418, Martinus V PP. maximus mantua existens nuntium bononensibus misit se velle venire Bononia et eius Dominium obtinere, ad eum missi sunt Ambaxiatores D. Bartolomeus de Manzolis, D. Folrianus de Cas. S. Petri et Mattheus de Canetulo. Conclusum est cum Pontefice ut septem milia florenos Eclesie solverant bononienes. papa autem non ulta se intromitteret de regime civitatis et hoc fecrunt quia Bratius venent cun exercitu in Comitatu et apprenderat castrum S. Petri et alia.
Si dispose a così convenire il Senato perché Braccio era venuto di febraro ad attendersi a Castel S. Pietro, dove che li nostri terrazzani, senza punto ostarlo, le appersero le porte del Castello concedendole senza ressistenza la entrata. In questa guisa si ovviò ad infiniti disordini. Stabilita ne sudd. termini la concordia furono nel seguente marzo richiamate le truppe ed alla metà del mese decamparono da Castel S. Pietro.
In seguito della Capitulazione furono stabiliti li Magistrati e li Rifformatori, che erano in numero di 16, furono ridotti a 10. Soggiunge il Ghirardacio par. 2 fol. 621, che ciò fu fatto perché durando lungo tempo in officio li 16 Rifformatori non divenissero tiranni. In appresso fu decretato Legato apostolico a Bologna Gabriele Condilmiero veneziano, quale venuto alla città la assolvette dall’interdetto in cui era incorsa per la ribellione passata. Il med. Legato conferì alli parochi del contado assolvere da ogni sorte di scomunica ancora le sue populazioni in vigore delle facoltà pontificie di sub delegare. Ciò fatto se ne ritornò il med. Legato nella sua provincia della Marca di dove se ne era partito come Generale dell’armi pontificie ed aveva devastato il territorio bolognese per sottometterlo alla Chiesa.
Aspettò il nostro arciprete la solennità di Pasqua di Risurrezione imminente a fare la delegatole assoluzione al suo popolo, quale tosto arivata nella fine del corrente marzo, escito sopra il preparato palco nella pubblica piazza, dopo esortazione al popolo a ricevere la assoluzione con tutta la riverenza, lo benedì rivolgendosi alle quattro parti dell’abitato cioè levante, meridio, ostro e ponente. Il che seguito, diede il segno di allegrezza collo sbaro delle due grosse bombarde della Roca nel modo che così fecero le altre castella del territorio.
Erano discesi dal vicino Fiagnano Ghinolfo Castagnolo con Millo da Pozodonego alla funzione sud. con altri villani di quel contorno ed avendo seco fanciulli e fanciulle accade che, all’improvviso sbarro delle bombarde, si sbigottirono questi e dando ecessivo pianto ed urli fu creduto essere nato qualche maleficio, perciò rivolgendosi il popolo allo strepito delle grida, molti che accorrevano a quello inciampandosi fra di loro ed urtandosi, vennero in seguito alle mani non distinguendosi fra la mischia ragione dell’uno contro l’altro. Crebbe al segno che Lisandro Ruzo di Castel S. Pietro con Zogolo Zogoli e Testa Naldi congiunti assieme presero le parti di chi riprendeva la inprudenza avuta da Ghinolfo e Millo onde, dato mano a coltelline, percossero mortalmente Ghinolfo e Millo restò a furia di percosse maltrattato a terra.
Altri villani del comune commiserare volendo li due feriti e riprendendo la condotta di Zogolo e di Lisandro, si attaccò altro rumore, cosichè si fecero due partiti uno di villani e l’altro di oppidani. Crebbe così forte la rissa che furono battuti li villani e vi aurebbero lasciata la vita se dal capitano Collina non si fosse posto riparo all’ardore della baruffa nella quale, trovandosi Gadone de Jano e Lovantino da Bello diedero alle gambe ed essendo inseguiti da altri paesani con armi, vedendosi quelli in pericolo, corsero alle mura del Castello dalla parte di levante e salito il torraglio si lanciarono fuori del Castello e si tornarono alle case loro. Questo fatto riferisce il Vanti averlo nelle sue memorie estratto dai Libri de Malefici locali di Castel S. Pietro, li quali a noi non è riescito ritrovarli per concordare le circostanze. Disaventura è la nostra essere nati troppo tardi per non avere potuto ne tempi comodi alli archivi, che tutto concedevano, rintracciare tante altre memorie e notizie cospicue di questo loco che certamente ve ne saranno delle molte.
Venuto a Ferrara Martino V per incaminarsi a Firenze l’anno 1419, li uomini di Castel S. Pietro trovandosi depauperati per il mantenimento della truppa, disagi e danni sofferti nel tempo che Braccio qui surrogava, ricorsero al med. Pontefice acciò colla sua clemenza volesse comiserare le loro circostanze.
Infraposero il card. Orsino come quelli che era non solo concittadino del Papa, ma anco come quelli il quale nel tempo di Giovanni XXIII sogionava quivi per isfuggire la pestilenza di Bologna, avea contratta familiarità colli Balduzzi e Salvietti nelle cui case frequentava. Egli pertanto ricevuta la suplica al S. Padre la patronizò in modo che quanto chiedevasi le fu graziosamente concesso e fu che il Papa per breve segnato li 17 febraro concesse alla università di Castel S. Pietro che il sale si dovesse a quella somministrare per quattro danari la libra.
Su questo esempio ricorsero altre comunità del Contado al benefico Pontefice, le quali avevano patiti danni ed ebbero molte grazie. Trovandosi per le contingenze passate molti ponti nel contado guasti e pericolosi, per riparare al qual disordine avutosi ricorso al papa, fu ordinato che si riattassero. Il ponte sopra il Silaro, quello della Cliterna furono accomodati, ma il ponte che era sopra il condotto della Masone da noi detto Rio della Masone fu demolito affatto come creduto di poca necessità e per li pedoni si lasciò solo una pedagna di legno poggiata sopra li grossi macigni, fragmenti del demolito ponte. Questo ponte fu poi nel 1750 per ordine del Senato di novo costrutto, omettendo li antichi fondamenti, li quali si riscontrano da chiunque si vole.
La pace che per il novo Governo Pontificio si estendeva sopra li suoi Stati, all’effetto di mantenerla e tenere in dovere le castella, il Papa distribuì il Governo delle Rocche a nome della Chiesa a forastieri, escludendo li governatori o siano castellani delle med. Roche che fossero nazionali li quali per lo più erano seguaci ora di un partito ora dell’altro, che però al cadere dell’anno ne fece la ordinazione delli offici. Quindi nel 5 decembre fu per ordine papale eletto castellano della Roca di Castel S. Pietro Marco Capella di Sublacco. Ripetiamo questa notizia dalli Indici de Argumenti estratti de Monsig. Ronconi dalli antichi monumenti presso l’arciprete di Pizzocalvo T. 4 dall’anno 1370 al 1450 così cantante:
1419 S. X.sti none X.bris Marcus Capella de Sublaco eligitur in Castel Roche Cas. S. P.ri a Martino V in tertio Pontificat. Regist. 2 Officior. Fol. 79 Dat. Rome apud S. Petrus.
Durò poco la compromessa pace mentre che le fazioni civiche scompigliarono non solo la città ma anco il contado, imperciochè l’anno successivo Antonio Bentivoglio, filio di Giovanni, prima ridusse l’una e l’altro in un miserabile spettacolo di stragi e miserie. Sappiasi che Antonio Bentivoglio, malsofrendo la soggezione della Chiesa, li 26 genaro 1420 colli suoi partigiani e per opprimere li Canettoli bene affetti al partito eclesiatico, alle ore 8 della notte corse alla piazza e al Palazzo e se ne impadronì.
Matteo Canetoli gran cittadino, ciò dispiacendole per che ne prevedeva esiti funesti, fece grossa armata e portatosi alla porta di strada Maggiore, facendo egli testa, gridando Viva il popolo e l’arti, si unì colli Ghisilieri, Usberti e Caldarini et altri e la mattina alle ore 15 andarono alla piazza con animo di battagliare, ma infrapostosi Antonio Guidotti e Bartolomeo Manzoli fecero si che Antonio Bentivoglio, che voleva per se la signoria, ne escisse di Palazzo.
Escì ma malcontento et andandosi a casa co’ suoi partigiani cominciò a beffeggiare e far petaggi dietro li canetoleschi. Malsofrendo anco questi, non valendo prudenza e stancati, misero mani all’armi e si commise una fiera baruffa nella quale, dopo molto spargimento di sangue, il Bentivoglio restò superiore, ocupò la piazza e novamente si impadronì del Palazzo e cacciò di città li Canetoli.
Avuta tale nova il Papa scomunicò Bologna. Li fuorusciti contemporaneamente querelarono il Bentivoglio ed animarono il Papa a movere le armi contro Bologna. Martino V intanto mandò Nunzi a Bologna facendo per mezo di essi sapere ai sollevati che si sottomettessero colla città alla Chiesa e che loro il Papa dava tempo a costituirsi sotto la med. fino a Pasqua di Ressurrezione, altrimenti dichiarava interdetta la città e contado, volendola in pieno dominio.
Chiamatosi il Consilio ed in esso invitati li Nunzi a sentire il sentimento comune, insorse tra li altri Gozadino Gozadini partigiano bentivolesco ed a nome di tutti impugnò la resa e concluse che quella volta il Papa non voleva stare al convenuto in Mantova con Bologna, si serviva dell’armi e della forza, che li bolognesi avrebbero provato diffendersi mentre diffendevano quella libertà che loro fu sempre conaturata.
Partiti li nunzi malcontenti riferirono tutto al Papa, quale sentendola male ordinò, mentre che stavano ostinati li bolognesi, fosse loro intimata la scomunica ed interdetta la città col contado. In questo mentre il Bentivoglio resosi despota attese a far bene difesa alle fortezze. A Castel S. Pietro aggiunse bombarde alla Rocca, baricò le vie circondarie al Castello con rivelini ed alzate di terra, variò ancora alcune strade conducenti al Castello e Roca poi invitò per generale dell’armi Cabrino Fondoli tiranno di Cremona a guardare la città. Li imolesi che già si vedevano vicino ad un paese nemico si fortificarono ancor essi e munirono la loro rocca del bisognevole.
Spirato il termine prefisso dal Papa, né essendosi sommessa Bologna, fu interdetta nel dì 9 aprile ed alla fine del mese furono affisse al nostro Borgo di notte tempo le cedole di Interdetto. Una tanta novità pose in iscompilio tutta la populazione ed un sussuro ne naque in Castel S. Pietro talmente che, rissando sopra ciò alcuni patriotti, furono questi cacciati e demolite le loro case ed incendiate. Furono queste le case de Pepoli cioè Pepolini, de Laxi e de Zani che, al furore della familia Zoppi, convenne cedere e ritirarsi nell’imolese, come ci annunzia una Cronica M.M. di Belzo Belzi.
Sentendo queste novità il Papa sollecitò la spedizione delle sue truppe condotte da Braccio Fortebracci, da Lodovico da Fermo et Angiolo della Pergola.
Marco Capella castellano della nostra Roca grande di Castel S. Pietro , nulla paventando, si tenne sempre saldo per la Chiesa, non dando accesso ad alcuno, tenendo sempre alzato il ponte levatore e le altre comunicazioni entro il Castello, ma fintamente, perché conosceva la forza che sovrastavale de bentivoleschi e, per colorare la sua finzione, spiegò tosto nella torricella interna del Castello la bandiera popolare e bentivolesca.
Arrivato finalmente Braccio nel territorio nostro colli capitani sud. cominciò a incendiare le messi raccolte, alterare edifici e demolire le torri che erano sparse nelle case rustiche, poi imprigionando uomini e donne , bestiami e tutto ciò che le dava alla mano, sacheggiando si approssimò al Castello quale, sovvenuto da militari bolognesi, non lo potette avere di punto. Lo pose in assedio lasciandovi Angiolo della Pergola e Lodovico da Fermo ed ascendendo a Liano che si teneva per li Gozadini. Essendo poco provisto quel castello, si arresero prontamente que’ terrazzani a Braccio.
Ritornando Braccio al nostro Castello ove erano venuti tutti li villani del territorio suo, mandò un araldo a castellani per la resa o per l’assalto. Li terrazzani si appigliarono alla resa tanto più che la Roca era in mano sospetta alla condizione che fosse salva robba e persone.
Stabilita la capitulazione a rogito di Ghino Zopi, alla metà di giugno passò Braccio col Pergolano al Castello ed a vista le fu aperta la Roca. Perdendosi Castel S. Pietro da Bologna, si avvanzò Braccio alla città alla metà di lulio, quale vedendosi a mal partito si arrese a capitolazione.
Il Papa che trovavasi in Firenze sentendo la resa di Bologna all’arme di Braccio ne esultò sommamente e, perché tali Capitoli si dovevano confirmare dallo stesso Papa, perciò li reggitori del governo bolognese spedirono al med. in Firenze Floriano da Castel S. Pietro, Riciardo Pepoli, Matteo Marescalchi ed altri. Li ricevette il papa con tutta la umanità e da med. inviati rinonciatole il dominio della città, tosto nel dì 25 agosto mandovvi a governarla col contado Alfonso Cariglio card. di S Eustachio detto di Castilia.
Ciò non ostante Angiolo della Pergola stette saldo in Castel S. Pietro di dove fece sapere al Papa che dessiderava la soddisfazione de suoi stipendi militari, che tante volte gli aveva richiesti. Ma il Papa dissimulando e tergiversando ora con una ragione ora con speranze, deliberò il Pergolano di volere venire a coperto delle paghe promesse tante volte, quindi nel seguente 1421 , proseguendo stare in guarnigione al nostro Castello, se ne impadronì nel mese di maggio poi, intimato un comizio generale a tutti li castellani, si fece giurare fede e sommessione a med. come signore legittimo delle terre.
Era Massaro e Sindico della comunità Bedoro Verondi, quale mostrandosi difficultoso a convocare il popolo fu dal Pergolano detruso tostamente in fondo alla Roca ove stette alquanti giorni ben guardato a motivo che temevasi di una insurgenza o qualche tradimento da suo congiunti ed amici.
Ciò fatto fortificossi da ogni canto con palancati al d’intorno delle porte della Roca e Castello. Dappoi introdusse nel med. ogni sorta di vittuaria e, sia giornalmente che di notte, faceva caminare le ronde si dentro che al d’intorno esternamente al Castello e Borgo ove, per iscoprire il nemico da lontano fece alzare a levante li terragli nelli angoli della Terra alli villani territoriali. Poscia cominciò a scorrere, come narrano le cronache, ogni giorno nelle vicine contrade fino alla Quaderna ponendo a sacco li prossimi castelli ed a foco li medali e case di campagna.
Ciò dispiacendo sommamente al Legato cercava modo di ricuperare il Castello mediante qualche trattato, finse poco curarsi di queste rubberie per indurre il Pergolano nella rete e tirarlo fuori dal Castello. Fece simulare una rivolta alli uomini di Poggio, mediante un rumore tra quelle familie ma più scaltro il Pergolano, riconoscendo in questo una finzione, stette colli ochi più aperti. Laonde, passando continui richiami al Legato, il med. mandò ambasciata al Pergolano di ammirazione che, stando al soldo della Chiesa, avesse così occupato Castel S. Pietro e così maltrattase il terrritorio onde, se avesse avuta qualche pretesa, era inconvenevole ad un bon capitano l’occultarla ed occupare le fortezze, costringere li popoli ad una servile sommessione e distruggere ciò che per niun diritto le conveniva.
A tale ambasciata rispose il Pergolano che tenendo in mano Castel S. Pietro lo si faceva per modo di sicurezza del suo stipendio nel modo che avevano praticato li altri capitani che però, quallora fosse stato soddisfatto l’aurebbe colle sue genti evacuato. Intanto per far cosa grata al legato pose in libertà Bedoro Verondi dalla Roca non però dal castello.
Tali sentimenti furono portati a Martino V, conoscendo ragionevole la domanda del Pergolano ordinò al Legato di trattare accordo. In seguito il legato mandò a Castel S. Pietro, con partecipazione del Senato, Nicola Aldrovandi. Questi si adoperò in guisa che fu capitolato in questo modo che monsig. Legato ed il vescovo di Montefiascone, gli anziani, Astolfino e la comunità di Bologna promettevano che si sarebbero osservati li Capitoli fatti li 4 lulio al capitano Angiolo Dalla Pergola ed il d. capitano liberamente restituire la Roca e Castel S. Pietro nonostante che non siano stati fatti li pagamenti al d. termine convenuti ne med. Capitoli, che li pred. vescovi di Montefiascone, Astolfino, Anziani e sindico della città di Bologna non debbino actamente né indirettamente offendere alcuno della familia del capitano, in questo per lo termine di un mese cominciando dal giorno che il d. Pergolano restituirà la Roca grande di Castel S. Pietro nelle mani di chi aurà il mandato pontificio. Li bolognesi in seguito consegnarono al d. Angiolo Pergolano per ostagi Malatesta de Girolamo Foscarari, Melchiorre di Matteo Sassi, Bartolomeo Dallafava e Domenico Bochio li quali tutti essendo custoditi furono condotti in Castel S. Pietro.
Restiamo ammirati come il Ghirardaccio il quale porta nella sua storia il sud. trattato e le conclusioni, come egli abbia ommesso due interessanti notizie in questo affare, la prima delle quali è la seguente, tratta dall’Indice de vecchi monumenti pontifici dall’anno 1370 al 1450 comunicataci dall’arciprete Corbiani di Pizzocalvo al T. 4 in cui si vede essere commissionato al Papa Martino V il solo vescovo di Montefiascone, del seguente tenore estratto dalla raccolta Ronconi per ordine di Benedetto XIV cioè:
1421 Idus Juli. Antonio Episcop. Montis fbiscini Quod de manibus Angeli Dalla Pergola recuperet Castrum et rochettam Castri S. Petri Bononien.. Ex rogest. epistol. de Curia Martino V pro Anno IV fol. 219, e l’argumento dell’altra nella quale si asserisce nello stesso regesto che, essendo ostinato Angiolo Dalla Pergola non solo a restituire Castel S. Pietro contro la data fede ma che, avendo ancora li nunzi ad esso destinati per questo affare, li aveva imprigionati. Onde fu in situazione Martino V imporre per lettera a Nicolò d’Este Marchese di Ferrara muovere l’armi contro il Pergolano, la qual indicazione è la seguente tolta dal d. T. 4 cioè:
Ex rogest. epistl. Martini V de Curia Regest . fol 217 Nicolao March. Estensis mandat ei quod dissipare curat protervia Angeli dalla Pergola, qui contra data fidem arcem Castri S. Petri restituere detractaverat ac Nuntios pontificios in carceribus detenferit. Dat. Rome apud S. M. majorem V Kal setembris, cioè alli 28 agosto. Soggiungono poi altri scrittori che nel seguente settembre nel giorno 2 sborsati novemilla scudi fu restituitio Castel S. Pietro e gli ostaggi sud. a confronto del pagamento.
Stancato per tanto traversie e mutazioni di Governo l’odierno arciprete D. Giovanni Mattioli di reggere più questa chiesa, abbandonò la sua abitazione. Avvisato il novo vescovo Nicolò Albergati, acciò provedesse al disordine, ben tosto ciò penetrossi dall’arciprete, fece alla fine di settembre la sua rinoncia.
La comunità compadrona del beneficio parochiale procedette tosto alla scielta di un novo pastore, nominò D. Nicola Gatti al Capitolo, fu accettata la nomina come alli atti di Filippo Formaglini ed il giorno 16 ottobre prese il possesso.
Il convento di questi nostri agostiniani sotto la invocazione di S. Bartolomeo, avendo sofferto de militari del Pergolano danno, fu ristorato ed abilitato a maggior numero di frati. In tale contingenza, avendo sofferto non pari ma maggiore la sorte funesta l’antico Monistero di S. Gio. Battista della Castellina nel Medesano, per modo che si era resa inabitabile, riferisce il P. M.ro Torelli nei suoi Secoli Agostiniani, che nel seguente anno 1422 essendo generale dell’ordine il P. Agostino Savatori romano, furono di la giù dedotti que pochi religiosi eremitani al convento di Castel S. Pietro, più lontano alle irruzioni e meno esposto a sacheggi.
Nella qual occasione questo convento di Castel S. Pietro, sotto la invocazione di S. Bartolomeo, fu posto ed incluso per membro della provincia di Romagna. Dove poi era quell’antico convento della Castellina di presente altro non trovasi in quel luogo che una eminenza di pietrizzi, coperti d’erba nella impresa della patrizia familia Fantuzzi estinta a giorni nostri nel chiaro scrittore Conte Giovanni Fantuzzi. Ella pure conferma la denominazione stessa Castellina.
Il numero di religiosi locali che quivi abitavano essendo di sole tre persone si aurebbe fino al numero dipplicato e cominciossi ad officiare la chiesa regolarmente. Li paesani che riscuotevano di questo beneficio spirituale, la presero in considerazione e con elemosine, offerte ed unioni si captivarono l’animo di que’ sacerdoti che loro al pari corispondevano con divozioni.
Cominciò in questo tempo a farsi sentire in Bologna la pestilenza per cui molti andarono al sepolcro. Per la qual cosa il Legato Alfonso Carillo spagnolo temendo di essere infettato pensò di isfuggirla coll’abbandono alla città e è perciò il giorno due agosto venne a Castel S. Pietro con tutta la sua corte ed alloggiò in casa de Morelli. Stando egli quivi come in sicuro asilo nel dì 9 d. venne visitato dal vescovo Nicolò Albergati. Pernottò egli nella canonica presso il novello arciprete ma, essendo il Legato volabile di sua natura ed ambizioso di magnifici quartieri e comodi come lo sono quasi sempre li spagnoli, aveva ideato tornarsene a Bologna coll’Albergati, quale dissuaso rimase in Castel S. Pietro tanto più che intendeva crescersi il morto giornalmente e l’Albergati, ancor esso pavido di funesta sorte, andossi alla Certosa. Ciò fu un motivo che il Legato si stabilì a Castel S. Pietro con tutta la familia, poi passando dalla casa Morelli alla Roca maggiore vi stette fino al 15 agosto poiché anco nel Castello si era cominciato a far sentire, onde morirono non poche persone nel seguente settembre, ottobre e novembre.
La maggior strage che facesse in questo loco, lasciò scritto il P.P. Vanti, che fu più nelle donne di meza età che nei provetti e fanciulli. L’uso dell’aqua della Fegatella, duplicato nel caduto agosto in bibite calde, contribuì molto alla salute de maschi ed il vino medicato alli teneri fanciulli.
Al cadere dell’anno si infirmò gravemente l’arciprete D. Nicolò Gatti che declinandosi a poco a poco finì la vita nel genaro del 1423. Resa vacante questa chiesa per tale morte del dì 5 febraro fu dalla comunità presentato al Capitolo D. Gherardo Gherardi nazionale di Castel S. Pietro ed ottenne come ne appare da rogiti di Filippo Formaglini. Non andò molto che il med. Gherardi sostituì alla chiesa sua D. Nicolò Damiani capellano, come ne appare da rogiti di S. Benedetto di Bologna.
Ritornatosi il Legato colla familia in Castel S. Pietro, stette quivi per altri sei mesi governando felicemente il contado e la città di Bologna. Sembrando al med. calmata la pestilenza alla fine di maggio se ne tornò alla città ma la calma fu apparente a motivo della stagione propizia, poiché entrato il mese di giugno e crescendo il caldo prese maggior vigore. Il Legato per salvarsi andò per consilio di medici a S. Michele in Bosco ove vedendosi poco sicuro per le genti che lo visitavano e molto più perché ivi attacato anco il di lui nipote haveva perduto la vita. Ritornò tosto per consilio de medici il giorno primo di agosto a Castel S. Pietro luogo sicuro dalla peste per la bontà dell’aria naturale e molto più per l’uso dell’aqua della Fegatella ottima a temperare gli umori e per altre virtudi in se continente, delle quali a lungo ne scrisse Paolo Masini nella sua Perlustrata a cui noi rimandiamo il lettore ed altresi alla Analesi MM. del dott. Antonio M. Fracassi medico del nostro Castello.
Ciò nonostante che stesse quivi senza sospetto ed in bona salute scrisse al Papa che bramava le dimissioni dalla sua legazione fattale per dieci anni. Accettò Martino V la supplica e sostituì nella legazione il card. Gabriele Condolmiere veneziano, venne questi da Ancona ed essendo il card. Carillo in Castel S. Pietro ordinò alli magistrati ed alla città che fosse acettato senza contrasto ed il dì 16 agosto giorno di lunedì arrivato in Castel S. Pietro ed accettata per di lui mano la legazione, andossi a Bologna a nome della Chiesa fino a novo ordine.
Travagliata Bologna territorio dalla pestilenza non ritrovava altro ristoro che il ricorso a Dio. Governava per ciò santamente in qualità di guardiano F. Bernardino Albiceschi da Siena il convento de M.M. O.O. di Bologna detto della Annunziata, uomo di grande divozione al SS. nome di Gesù, alle orazioni del quale concorrendo la populazione si produsse egli tostamente con predicazioni, esortando a chiedere misericordia a Dio in tanto flagello. Esso, che conosceva depravata la città nel gioco da carte e dadi, d’onde ne avevano infinite origini de risse, de bestemie, ubriachezze ed altri vizi, si adoprò tanto colle sue orazioni che in brevissimo, detestato da cittadini questo vizio, si veddero a folla correre ad incendiare nelle piazze amassi di carte e portare nelle cloache e pozzi ammassi di dadi, massime nel pozzo pubblico presso la torre Asinella.
Infinita altresì la divozione singulare al Nome di Gesù e mi fu egli l’autore di tante Compagnie nel contado sotto queste invocazioni. Si vole che nel nostro Castello si erigesse in tale ocasione la Compagnia del Bongesù all’altare di S. Biagio della familia Toni. Come noi non la apponiamo per certa questa notizia, non osiamo nemeno opporsi a questa tradizione. Egli è ben vero che una
Compagnia sotto il titolo di Bongesù anco enunziata dal P. Vanti esisteva in questa arcipretale che poi fu incorporata in quella del SS.mo SS.to, come a suo loco sarà riferito, ma non avendosi la sua fondazione sicura da questo punto, poiché si suppone prima assai fondata dal B. Giovanni Schiò, come si scrisse, nel 1233 così, credendola piuttosto riformata in questo tempo, passiamo sotto silenzio l’attribuirla a d. Bernardino.
In proposito di questa compagnia o sia unione riscontriamo dalle carte antiche che al sudd. attore non solo era aditta la Unione sud. ma vi era ancora eretta la Compagnia del SS. Rosario. Ce ne porge testimonianza ed indicazione un decreto del 1483 di un F. Bartolomeo da Vigevano dell’ordine de Predicatori in cui asserisce che, per ordine ed autorità del R.mo Francesco da Castel S. Pietro, fu promossa la Compagnia del Rosario a questo altare dedicato anco a S. Biagio al quale erano eretti anco benefici laicali, come verrà da noi indicato alle respettive epoche. A questa indicazione riportandomi, colla quale apparisce che da 60 anni addietro fu eretta la Compagnia del Rosario, si calcola appunto avere in questa epoca avuta origine la Compagnia del Rosario per la prima volta in questo altare da devoti paesani in figura di Congregazione.
Entrato il novo Legato in Bologna procurò tostamente che fossero ripurgate le case e luoghi ove vi erano stati li contagi e si sofrivano, fece purgare le strade tutte, massime da concimi sotto rigorose pene, lo che giovò molto alla liberazione secondo il consilio de più accreditati medici della città, fra quali contavasi in questo tempo Cristoforo Catani di Castel S. Pietro .
Giunto l’anno 1424 il Papa deputò per suo chirografo il primo giorno di genaro in castellano della Roca di Castel S. Pietro Filippo Janecita Papazzoni d. Janetto, come descrittosi nell’epistola data in Roma presso S. Pietro, la cui indicazione abbiamo tratta dal suo indice che canta in questi termini:
1414 Kal. Januari Philippus Ianecita de Papazunis civis roman. Castri S. Oetri Diocesis Bonone pro R. E. castellanus deputatus in arce castellan. Dat. Rome apud S. Petrum a Martino V ano VII,. Regest. 30 epist. fol. 12.
Il cardinale Legato novo intanto presa d’ordine pontificio la tenuta di Castel S. Pietro e Castel Bolognese a nome della Chiesa ed alla metà del genaro giunse il Papazzoni, che fu tosto investito nella carica di castellano. Li uomini di Castel S. Pietro avendo sofferti molti danni nella permanenza del Pergolano e suoi militari, bramosi di essere solevati ricorsero al Senato il med., esausto di danari non potendo suplire alle giuste domande delli oppidani, si ricambiò con la conferma delle immunità che godevano nella franchigia del mercato, mediante decreto delli Diffensori all’Avere coll’intelligenza del Legato nel mese di aprile. Ma ciò non ristorò totalmente il paese abbisognoso di nove fortificazioni che perciò anco a queste fu provveduto.
Aveva dunque la porta maggiore del nostro Castello, esistente sotto la torre, in questo tempo congiunta al fianco sinistro una picola roca quadrata di larghezza piedi 24 e lunghezza piedi 30 colla quale si diffendeva l’accesso alla d. porta ma perché, quando avvenivano aggressioni affolate di militari, riesciva loro con poco impegno guadagnare l’ingresso fu pensato al provedimento. Quindi pertanto, venuti li ingegneri, cambiarono la ubicazione della rochetta e la edificarono davanti la torre, chiudendovi ancora la porta sotto la med. In vece poi di questo ingresso ne aprirono un novo in mezzo la facciata della rocheta respiciente il Borgo ove ora trovasi il macello pubblico. La fornirono di ponte levatore colla bilanzia e leve, l’incastro delle quali si vede ancor oggi giorno nella parete esterna che guarda il mercato de bovini su la via maggiore del Borgo, ed all’indentro vi fecero una forte porta di grossi muri colla intercapedine per la saracinesca, le reliquie della quale si vedono nell’edificio del d. macello.
Furono alzate le mura tutte di circonferenza con li suoi merli, che oggi giorno si vedono, ed in questa guisa restò fortificata la torre ed il Castello nell’ingresso maggiore. Un simile lavoro fu anco fatto avvanti la Roca grande, che esisteva in mezo la piazza del Castello in oggi coperta dalle case Morelli, e di monumento altro non si vede che un tronco di torre, il cassaro di pietra nella fossa esterna è coperto di terreno e dentro di d. tronco di torre avvi un picolo abitacolo per un inquilino che si estende sopra un rotondo baloardo ruinoso che fu edificato contro la prima porta che introduceva alla Roca grande.
In questo stesso picolo edificio si riscontra l’intercapedine per la saracinesca e di più l’ostello a fianco del ponte levatore che ancor esso era medesimamente guarnito di bilancia e leve, le cui imposte si vedono pure esternamente nel tronco di d. torre. Furono contemporaneamente rissarcite le mura e baloardi alla cui spesa vi concorse ancora la università ed uomini di Castel S. Pietro. Tutto questo lo riscontriamo dalle cronache e dalli monumenti di questi tempi che a riportarli in copia ci renderessimo troppo voluminosi nella raccolta.
Premuroso il novello arciprete di convocare le sue pecorelle al pascolo spirituale instette presso li uomini del Comune che accrescessero la campana dell’aringo mediante il suono della quale anco li cultori della campagna si sariano al uopo più facilmente adunati in Castello. Condiscese la Comunità ed oltre la med. alla spesa vi concorse Lisandro di Corno d’Alborro che poi fu detto della Campana e col tratto di tempo vestì il cognome di Campana, dalla cui familia ne sono esciti uomini facinorosi e capitani, che a suo loco saranno nominati.
Il fonditorre fu Bonacorso da Bologna uomo insigne nelle fusioni, del quale ne parla anco il Masina. Consta la spesa ripartita all’estimo nel Campione vechio delle Possidenze nell’archivio della Comunità segnato 1492, che tanto indica per le spese aretratte.
Bachello qd. Banzo Tirtisino di Varignana uomo facoltoso, essendo stato assaltato ne contorni di quella sua patria, fu condotto entro una caviera di macigni e quivi spogliato di tutto e lasciato ignudo al mese di aprile legato strettamente con funi ad un sasso entro di quella e battuto e lasciato ivi come morto da manigoldi. Fu ritrovato accidentalmente da ragazzi, quali spaventati da una simile mostruosità di persona, avvisato il Sindico di quella Comunità, fu sciolto e portato entro la di lui casa.
Vedendosi egli per tanto in pericolo della vita emigrò da quel paese e stabilissi a Castel S. Pietro dove bene accolto da paesani e comiserato dalli Agostiniani, nonche assistito nell’anima, fece nell’ottobre testamento in cui si mostrò riconoscente coll’avere lasciato alla compagnia di S. Bartolomeo ed all’ospitale di S. Cattarina terreni come si legge nel d. suo testamento per Rogito di Pietro Ottoni nella fabb. di S. Petronio. Anco con questa notizia, ci assicuriamo vieppiù che la Compagnia di S. Cattarina ebbe se non origine dalli Agostiniani locali almeno una maggiore consistenza con la unione ed incorporazione di questa sotto l’invocazione di S. Bartolomeo in quella di S. Cattarina.
Giunto l’anno 1425, cessato finalmente tutte le scritte contingenze che impedivano il bon ordine, fu spedito per Podestà a Castel S. Pietro per il P. S. Giacomo Ariosti e per il S. S. Giovanni di Pietro Dal Lino.
Stimando Nicolò Albergati che il ritardare la medicina nelle infermità si rende pericolosa la vita, si avvide che la più perniciosa corutela nel suo gregge era la conversazione de catolici fra li ebrei, li quali non si dissimilavano da quelli punto nel trattare e vestire, massimamente nel contado ove erano ghetti. Rinovò per tanto l’ordine di Innocenzo 3° che dovessero portare sul capello una bendoluccia di color giallo rancio segnale della loro infelicità, quanto dispiacesse alli nostri banchieri in Castel S. Pietro, capo de quali era certo Sanacese che vedendosi deriso al segno di abbandonare questo loco, si lascia in considerazione al lettore.
Essendo stati fabbricati dalla pietà de buoni cattolici per ospizio de passeggeri nel contado alcuni locali, ordinò il bon vescovo Albergati mediante suo ordine che in tali locali si ricevessero anco bastardini come si legge nella sua vita e vi fossero le rote per li med. esposte al pubblico. Così accadde nel nostro novo ospizio di Castel S. Pietro. Fu però malasorte al primo che lo volle esperimentare, imperciochè in aprile di notte tempo certo Lazarello Serughi di Dozza arrischiossi portare una fanciulla al luogo destinato e non sapendo che la ruota, appena postovi un picolo peso avendo uno scattarello, dava segno al custode del maleficio fatto, onde sortito in camicia il custode gridando ad alta voce: Dalli, dalli. Si imbattè l’infelice Serughi in villani che volendolo raffermare al ponte egli si lanciò da quello e restò estinto, da processi criminali nell’arch. di Bologna tanto si rileva.
Ne si deve però in questo loco passare sotto silenzio un misfatto comesso. Narrano li ricordi della estinta familia del cap. Valerio Fabbri nel libro chiamato Gallicello che avendo Brainguerra di Canzio Fabbri contratta promessa di sposare in Imola Fulgeria di Ceruno giovane di bell’aspetto ed essendosi invaghito della med. Bonafiso de Conti della Bordella nobile di quella città, dispiacendole l’allontanamento di Fulgeria, colla quale aveva avuto domestichezza, per liberarsi di Brainguerra chiamollo un giorno di ottobre alla fine, perché vedeva inoltrarsi il matrimonio, e progettò abbandonare il trattato.
Scusossi lungamente Brainguerra ma inutilmente, Bonafiso dalla richiesta passò alla minaccia e chiuse Brainguerra in loco più recondito della casa, diede mano ad uno stilo per uccidere il drudo. A tale adito ridotto Brainguerra si prestò alli voleri di Bonafiso. Costui non contento di ciò volle la promessa avvalorata di solenne giuramento. Tanto fece l’infelice giovine. Posto in libertà mantenne la parola e rinonciò al matrimonio.
Un tale fatto disparve molto ai parenti di Fulgeria ed indagata la ragione fu accusato Bonafiso al Duca di Milano Filippo Maria che in questo tempo aveva in potere la città d’Imola che, chiamato il Conte Bordella e verificata la superchieria fu bandito dalla città. Intraposti amici si pacificarono le parti. Ma non mantenne la pace il nobile imolese che, trasportato dalla passione per la giovane e dalla vendetta, aspettò che fosse amministrato il matrimonio e, fatto aguato a Brainguerra li 23 decembre al Corechio, con alcuni sicari lo condusse circuito poco distante dalla via romana e giunto in loco, ove non potesse essere udito lo schiamazzo, li fece cavare li ochi, onde poco sopravisse l’infelice Braiguerra e Fulgeria, addolorata per tanta crudeltà e perdita dello sposo, si diede la morte doppo alquanti giorni.
L’anno seguente 1426 fu Podestà Francesco qd. Matuliano Matuliani, essendo stato confirmato per castellano della Roca di Castel S. Pietro Jannetto Papazzoni dal Papa.
Presentendo questi rumore nella vicina Romagna contro li ribelli di S. Chiesa attese a fare bone proviste di munizioni per qualunque accidente che potesse occorere, mentre si sentiva in moto la vicina città di Imola, che si teneva in potere di Filippo Maria Duca di Milano, il quale affinchè li veneziani non si inoltrassero in queste parti fece tutti li sforzi possibili perché non le fosse levata questa città ma alla fine, conoscendo esserla malagevole il diffenderla, la cedette al Papa sotto diversi patti.
Quale avendo comissionato il Card. Condolmiero Legato di Bologna ad impossessarsi di quella a nome della Chiesa, il med. in compagnia di Cristoforo Catani di Castel S. Pietro detto Caseda per sopranome, andarono con altri il giorno 14 maggio ad imposessarsi formalmente di quella, facendosi giurare da quel magistrato fedeltà a nome del Papa.
Avuta Imola nelle mani e regolandosi questa sotto il governo del Legato di Bologna si rese più florido il mercato solenne di Castel S. Pietro in ogni sorta di vittuarie e merci e le nimistà cessarono fra confine e confine per le quali accadevano frequente azioni e criminosità come erano indistintamente le storie.
Venne a Castel S. Pietro Podestà per il S. S. il Conte Giovanni di Fantuzzo Fantuzzi.
Il fervore verso Dio insinuato dalla pietà delli agostiniani locali in questo convento di S. Bartolomeo, non meno che dal paroco, e coll’esempio e colla predicazione avevano commosso in questo tempo il cuore de paesani che, fra di loro gareggiando e distinguendosi anco in faccia al mondo a beneficare li indigenti, concorrevano affluentemente nelle respettive chiese a darne colle offerte li contrassegni della loro cristiana pietà.
Fra li altri che si distinsero fuvi Antonio Di Ugolino Toni o Zoni, come in carateri di questi tempi malamente si distingue, il quale mosso di un vivo animo inverso l’onore di Dio fece nel dì 13 marzo 1427 testamento per rogito di ser Nicolò da Varignana ed ordinò fra le altre sue disposizioni che fosse di novo costrutto in questa arcipretale l’altare dedicato a S. Biagio e, per che fosse bene officiato essendovi al med. erette più Unioni, le legatò per dote due pezze di terra poste nel comune di Castel S. Pietro, una detta la Rivulla o sia Rivolta e l’altra detta li Sentieri, coll’obbligo di diverse messe da celebrarsi per il rettore del med. altare, risserbando a suoi eredi la nomina del rettore. Le quali messe per essere molte in proporzione de rediti delli d. tereni, riscontriamo dal libro della visita del Card. Paleotti, che furono con suo decreto pastorale ridotte al N. di dodici.
Furono Pretori di Castel S. Pietro nell’anno presente 1417 primo semestre Malatesta Beccadelli e per il S. S. Gaspare Lambertazzi. Fu pure in quest’anno confirmato per castellano della Rocca grande del nostro Castello Janetto Papazzoni colle solite paghe. Non volle essere meno distinto Polo di Domenico Brento di Castel S. Pietro del sud. Zoni nella pietà, imperciochè prima che accadesse in quest’anno la di lui morte fece ancor esso testamento per rogito di Francesco di Giacomo Orlandini di Casalechio nel quale, oltre le altre sue disposizioni pie, lasciò terreni alla Compagnia di S. Bartolomeo ed all’Ospitale di S. Cattarina di questa sua patria, riscontrasi ciò nell’archivio della fabbrica di S. Petronio fol. 71.
Chi volesse ennarrare tutte le opere di pietà locali accadute in questo loco saressimo stati troppo stuchevoli in cose da poco momento. Sebbene si facevano queste opere pie, non mancarono però li spiriti di turbolenza a motivo de partiti, per cui dalla città si diramavano anco nelle castella parteggiando chi per la Chiesa ed altri per la libertà.
In questa contingenza andò sussopra la quiete nel nostro Castello, non sapendosi li terrazzani a qual partito appigliarsi ed ogni picola cosa faceva ombra fra di loro. Stava il castellano Papazzoni in continuo timore e temendo esploratori venivano imprigionate le persone sospette di nimistà alla chiesa, per la qual cosa molte familie andarono alle campagne a vivere fino a che sentirono lo scopio del fermento che era nella città il quale non tardò molto, inperciochè l’anno successivo 1428 Bologna si pose in libertà mediante Giovan Battista, Galeotto e Gaspare Canetoli, famiglia potentissima nella città andando a rumore tutta la cittadinanza. In tale contingenza restò Castel S. Pietro senza pretori fino al 1448.
La città che si divise in due partiti, uno per la chiesa e l’altro per il popolo, cosichè in seguito si presero le armi. In questo conflitto, il Legato avendo abbandonato la città, né avendo alcun spavento di superiore il partito canetulesco, maggiore dell’altro, mandò a tutte le castella a farsi giurare fedeltà e ubidienza.
Castel S. Pietro fu rinuente a motivo che si vedevano a poco a poco oppressi li di lui privilegi. Per ovviare a qual male ed ad un disordine grande avutosi ricorse al governo, questi confirmò nel dì 16 febraro il privilegio del mercato, fece rinovare il decreto delli 16 Riformatori, che abbiamo già posto in avvanti all’anno 1410 e qui perciò non lo riportiamo, mentre a rogito del not. Benedetto Sagrerarzi fu rinovato e con parole della stessa forza. Li Diffensori in tutto e per tutto l’approvarono e ratificarono.
Mentre si travagliavano queste cose in Bologna, Luigi Sanseverino cavaliere di ventura essendo nella Romagna, intesa la sollevazione di Bologna e la partenza del Legato di questa città fece intendere a bolognesi che se avessero avuto bisogno del di lui ministero e servigio militare si sarìa loro prestato. Accettarono essi l’offerta e l’assoldarono ed il giorno 3 agosto in martedì venne sotto Castel S. Pietro con 900 cavalli che seco aveva e passò indi a Bologna ove le fu dato il bastone di comando anco sopra li soldati bolognesi. Mandò quindi il mercordì il novo Senato di Bologna 4 agosto a tutte le fortezze e castella del territorio per animarle essere sogette alla città e nemiche della Chiesa.
Tosto accettarono l’invito ecetto Castelbolognese, Cento, la Pieve e Castel S. Pietro ne quali paesi si erano rifuggiati li bentivoleschi nella cacciata che le avevano fatto li canetoleschi. A Castel S. Pietro venne uno de capi de Bentivogli e fu Nicolò Cavazza. Non spiaque tanto a solevati della rinuenza di Cento, Castel bolognese, quanto di Castel S. Pietro per essere stato di certo beneficato come anco per essere luogo di frontiera alli Stati della Chiesa dalla parte di Romagna, facile ad essere soccorso dalli ecclesiatici e difficile a bolognesi il guadagnarlo essendo maggiore il pericolo da questo canto.
Se ne ressentì per tanto il novo governo e si determinò col Sanseverino prenderlo a patti od a forza. Intanto le familie e villani che erano sparsi nel territorio del med. Castello furono chiamati colle robbe e persone ad assicurarsi entro il castello dalli oltraggi e nemici, su ciò fu a tempo poiché nel giorno 10 Agosto, in giovedì festa di S. Lorenzo, Luigi Sanseverino capitano generale delli bolognesi mosse il campo colle genti d’arme al nostro Castello con Giacomo dello Coreggio e Francesco Guidetti per comissari.
Posero il campo al Borgo presso la chiesa dell’Annunziata nella via consolare nel maggio del 1429. Nel med. esercito erano capitani Lodovico Micheletti, Leonello perugino, Riniero del Fresso ed Angiolo Ronconi tutti uomini valorosi. Questi a vista piantarono la batteria della loro bombarda al retilineo della porta maggiore del Castello alla Rochetta o Cassare. Cominciarono a batterla nel dì 11 d. per averne l’ingresso, richiestolo prima mediante trombetta che le fu negato. Il foco cominciò alle ore 12 e durò fino al meridio. Al primo attacco pareva ruinasse il mondo, lo spavento e la confusione de castellani non lasciava loro il campo di ostarvi ed affaciarsi alle bombardiere laterali del cassare perché di primo colpo furono da nemici battuti li merli sopra il muro della rochetta e porta, che rovesciandosi caddero intenamente al Castello, li cui materiali in questa circostanza le servirono di argine e fortezza contro l’ingresso.
Ugolino Balducci terazzano, quantunque vecchio ma bravo capitano, pratico di tali vicende e consumato nelli affari militari, doppo avere animato tutti li paesani con forte ragionamento dicendo loro che il nemico era allo scoperto e più in periglio di chi stava entro le proprie abitazioni e che aurebbe usata ogni maggior crudeltà se avesse preso a forza la terra che se le era opposta, se non avesse resistito e ribatutto il suo orgoglio tutto sariasi ricordato.
Ordinò tosto che si approfittasero li meno utili all’armi a baricare la strada maggiore del Castello con legni e robbe qualunque ed alle mura portare materiali e munizioni. Animati da ciò li terrazzani e per il concetto che avevano del loro capitano, si rifece tutta la populazione coli villani introdotti ad una salda diffesa e pronti alla sedianza.
La torre intanto era guardata da sentinelle che, battendo non solo la campana all’arme e così l’altra dell’arengo publico, denotavano dall’alta vedetta li movimenti esterni del nemico e li enunziavano ai diffensori interni. Rispondevano li nostri al nemico lentamente colle spingarde e bombarde alla batteria nemica, furono distribuiti i posti a capi d’armi del Castello. Nicolò Cavazza bolognese attendeva ad un baloardo d’angolo inferiore al levante e Lisandro Campana di Castel S. Pietro attendeva all’altro opposto superiormente ove è il portone di S. Francesco, al terzo Galvano ed al quarto vi stavano li villani. Il castellano Papazzone attendeva alla Roca colle sue veglie. E sicome il fondamento principale delle fortezze è la fede e la costanza così tutti la castellani di ogni
età e sesso gareggiavano fra di loro alla diffesa.
Alcuni de nemici si arischiarono fuori della trinciera ma ne pagarono il fio colle spingarde. Vedendo il nemico non potere fra breccia nella porta e Roca, quantunque da poco tempo edificata, divise la bateria in due, una pose al baloardo orientale verso il Silarol’altra alli incidentata porta ma indarno. Solo al giorno 13 agosto, ripigliato il bombardamento fu vano quello dalla parte di levante perché disamano alla posizione contraria. Il baloardo ocidentale guardato da Isandro Campana perdette di molto, quantunque fosse ajutato dalla vicine Roche grande e picola.
Riescì il nemico rompere la palata ed approsimarsi alla fossa ma Gregorio Colina, salito sulla torre, le spingarde ivi aposte ne 4 angoli le rivolse tutte contro il furore nemico che già si avvanzava per la presa ma rovesciandone molti nella fossa.
Conoscendo arduo questo passo richiamò Micheletto li suoi soldati poscia il doppo pranzo Leonello perugino ed Angiolo Roncone mossero il campo e piantarono le trinciere contro la mura del Castello fra la Roca grande ed il suo baloardo e nel dì 18 novamente si cominciò l’attacco al quale novamente rispondendo la Roca grande della quale ne era fatto capo il Balduzzi e Colina. Fu in situazione il Sanseverino (usando) la cavalaria con una scorsa fino alla porta della Roca e della Torre inferiore ma Nicolò Cavazza e Raimondo Cattani, con gettito di materie e perfino con fascine acese dalle donne, faceva allontanare li cavalli che, spaventati dal foco che li disperdeva con fascine e fiacole fra loro disordinandosi, molti pericollarono e lasciarono la vita nella fossa.
Adirato vieppiù il Sanseverino e Lodovico Micheletti raddoppiarono i colpi di bombarda alla mura, che per ogni canto era ormai conquassata. Quanto più dovevano intimorirsi li terrazzani, tanto più di ardore prendevano, quanto maggiore era il pericolo e li villani facevano più gagliarda la diffesa di quant’altri si fossero.
Avvisi erano già andati al Papa della sollevazione di Bologna e della valida diffesa che si faceva dalle castella e fortezze che si tenevano per la Chiesa e del pericolo in cui era Castel S. Pietro. Scrisse mons. Capranica che era nella Romagna che consolasero li nostri paesani a mantenersi forti per Santa Chiesa che ne sarebbero stati riconpensati.
Li capi tanto del paese che delli altri armati fatti intesi di questo, soggiungendo che era imminente il soccorso onde poco più rimaneva essere travagliati e gloriosamente liberati mercè li vicini imolesi che da mons. Capranica si assoldavano. Fra le providenze che in questa imergente prese il Balduzzi su la proibizione di non acendersi alcun foco nelle case ma solo nella pubblica piazza, col solo prepararsi nelle case del carbone acceso per evitare li segnali per occulti tradimenti, se vi fossero stati. Proibì pure il suono delle campane eccetuate le Roche che senza ordine del Papazzoni castellano non si fossero potute battere ne suonare sotto pena di morte. Stanchi ma non avviliti li castellani e tutta la populazione annelava vedere giungere il soccorso.
Vedendosi ritardato cominciarono a titubare di lusinga. La disperazione in mezzo al bollore dell’armi conduce spesso a precipitose deliberazioni. Tanto accadde ne nostri paesani che vedendosi depressi né arrivare alcun ajuto pensarono alcuni gettarsi coll’armi in mezo del nemico e farsi strada colla fuga o colla vittoria per non perire vergognosamente. L’ufficio di un bon capitano è l’essere animoso, prudente e compiacente. Lodò Balduzzi l’animosità di quelli che pensavano farsi strada coll’armi ma si mostrò prudenzialmente compiacente perché il uopo lo richiedeva.
Si unirono per tanto li valorosi Gregorio Collina ed il Campana con Nicolò Cavazza ed altri bravi paesani e consultarono il modo di fare la sortita dal Castello. Ad inganno del nemico finsero internamente un rumore rivoluzionario in guisa che il nemico esterno corresse da quella parte ove fosse ecitato per averne la presa del Castello e nel mentre che il nemico accorreva a quel rumore, dalla parte opposta al levante del Castello ove era conquassata la mura, da qui, colla dilatazione di una posterula, sortissero col massimo silenzio Bartolo Cattani giovine animoso più del padre e con esso Riniero e Bittino Fabbri con 50 giovini villani de più coraggiosi e se ne andasseno sulla vicina collina ove era la torre di Faciolo Cattani in modo da essere ivi veduti. Poscia quindi fingessero fra loro una baruffa, per portar fuori dalli alloggiamenti il nemico il quale occorrendo a quella mischia avesse motivo di soccorrere li azzuffati.
Tanto seguì nel dì 24 agosto nella notte precedente alla festa di S. Bartolomeo in cui esclamandosi contro la Roca Grande nella piazza: Morte ai Bentivoglio, morte, morte, con fragore di armi, fu creduta per vera la sollevazione populare. In questo mentre li animosi Bartolo Cattani e Bittino Fabbri sortiti colli 50 villani dalla parte del levante dietro al baloardo di mezzo ove era una posterola dilatata e quivi colata la fossa salirono dietro la costa del Silaro su la vedetta della torre Cattani ora d. Torre de Moscatelli. Qui si finse l’attacco di una forte baruffa in cui chiamando ajuto e soccorso si spiccò uno staccamento di soldati dall’assedio che teneva si esternamente alla roca maggiore del Castello ed essendo condottiero di questo Leonello Perugino fu fatto prigione con alcuni soldati e li altri avedendosi del fatto e stratagema si diedero alla fuga. Temendo poi il resto delli assedianti li sudd. castellani fosse il soccorso del Capranica, arrivato mentre gridavano: Viva la Chiesa, Chiesa, Chiesa, decamparono dalle loro posizioni. Onde tornarono in patria li sudd. castellani tutti gloriosi con spoglie ed armi de fuggitivi nemici. Questo fatto lo riportiamo dalle memorie della familia Fabbri e dalle carte del P. Vanti che prima di noi forse l’aveno descritta.
Divenuti li nostri paesani da ciò più orgogliosi tanto più che avevano intesa la scomunica papale ai ribelli bolognesi e che avevano inteso approssimarsi 10 milla combattentii condotti dal valoroso Nicolò da Tolentino e che in conseguenza il Sanseverino si è ritirato ad Idice.
Data la nova non volendo affatto essere svergognato tentò egli nove sorprese a Castel S. Pietro ed alli primi di settembre piantò una Bastia nelle nostre vicinanze superiori, come narrano le Cronache, per asalire comodamente il nostro Castello, ma sopragiunto il Tolentino scortato da nostri paesani andò alla nova Bastia. Quivi si appiccò una forte baruffa in cui rimanendo socombente il Sanseverino si diede alla fuga. Fatti prigionieri li capitani che erano nella Bastia con non pochi soldati, li mandò ad Imola nella Roca ove era il Governatore di Bologna collà riffugiato.
Dalle congetture che abbiamo crediamo che questa Bastia fosse fatta nella pianura eminente di un podere detto : la Collina, sopra il nostro Castello sulla confina del nostro comune col comune di Liano di spettanza della casa Malvasia di Bologna che conferma il nome di Collina, d’onde comodamente si vedono li movimenti del nostro Castello.
Questi vedendosi intanto a mal partito per li danni sofferti, molte familie emigrarono da esso. Riccorsero li capi del paese al Legato Capranica per averne il promesso ristoro e per evitare una totale spopulazione del paese che era iminente non concedendo il condegno ristoro mediante la concessione delle addomande.
Riconoscendo il Legato poi apostolico quanto fosse giusta la addomanda, non meno per conservare Castel S. Pietro in fede a S. Chiesa, quant’anco per allettare li altri popoli sottoposti al governo di quella, prese in considerazione le petizioni in forma di Capitoli fra le quali eravi quella di essere esentati da ogni superiorità di Bologna, ne segnò in Imola il dì 9 settembre la grazia, che noi qui riportiamo tratta da una Bolla di Eugenio IV che a suo loco riportemo. Eccone il tenore di quelli:
Dominus Elachis Firmanus pro SS.mo in X.to Patre at D. Martinus divina providentia P. P. V. et sacrosancta R. E. Bononie, exarcus Ravenne et provincia Romandiole cum plene Legationis officio Gubernator genovalis.
Egregiis et prudentibus Viris, Massario et Hominibus sive comuni Castri S. Petri diecesis Bononie Salutem in D.no.
Iter curas que in hac gubernatione Nobis incumbent, nulla magis ex anino complectitur quod ut de SS.mo D. N. et R. Eclesia benemeritos quod possumus beneficiis, comoditabibus et honoribus prossequamur. Sic enim facientes nostro debito satisfacere et eorum quibus ex benfacto premia reddantur exemplo, alios ad similia faciendum invitare existimamus. Cum itaque proximis temporibus contra rebellas Bononie in hobedientia SS. D.D. N. et Rom. Eclesoa magno cum rerum ac personarum dispendio animose perstitericis et agrorum vastationem osidionemque usque ad mutarum conquestationem diu viriliter perpessi fuoritis, cugientes iis que nobis possibilia sunt aliqua ex parte volis retribuere et visis et giligenter examunatis patitionibus vestris quas per infrascta Capitula portexistis eis prout infra patebit, respondimus petitiobesque ipsas cum subscriptionibus nostris ut majorem habent Aucthoritatum in hanc formam redigi et nostro sigillo reboravi mandavimus.
Riscontrasi da questa intestazione quanto sin qui è stato da noi annoverato tanto per il lungo assedio, quanto per il devastamento delle campagne e la conquassazione delle mura non meno che la valorosa diffesa de paesani, onde li Capitoli sono li seguenti, che furono poi anco confirmati da Martino V nel seguente anno 1429, cioè:
I) Che li abitanti presenti che d’avvenire di Castel S. Pietro e sua corte fossero in perpetuo imuni ed esenti da qualunque dazio e gabella, pesi reali e personali fu accordato, ecetto l’obbligo di far la guardia al Castello, quanto ai dazi fu diminuita la paga al Dazio Sale.
II) Che li Uomini e Villa di Poggio fossero sempre soggetti a Castel S. Pietro fu accordato
III) Che li possidenti di qualunque condizione ancorché forestieri fossero tenuti al pagamento delle colette imposte e da imporsi per il Massaro ed uomini della Comunità di Castel S. Pietro, mentre molti per sottrarsi da questi aggravi erano andati a Bologna.
IV) Che li uomini di Sassuno, Monterenzio, Galegata e Casalechio de Conti, li quali non vollevano essere subordinati a Castel S. Pietro dovessero per sempre esserlo e concorrere come le altre Comunità alle spese per Castel S. Pietro.
V) Che li uomini di Castel S. Pietro potessero senza dazio e gabelle condurre le loro derrate a Bologna.
VI) Che non potessero essere condannati a certe spese e che il loro Giudice fosse il Vicario e Podestà di Castel S. Pietro
VII) Che al pagamento de residui debiti fosse accordata la dilazione di un quinquennio e così pure per altri debiti del Dazio Macina e bolette.
IX) Che ciascun Podestà che vorrà coprire la carica in Castel S. Pietro sia tenuto dare al Comune senza spesa una balestra grande a staffa col suo molinello, mediante il quale si caricava di materie per lanciarle contro il nemico e lasciandosi lo scrocco volavano al punto ove erano dirette, ed oltre ciò anco un tarpone, quale instrumento era una specie di mazza ma spianata che serviva da offesa e diffesa il di cui valore fosse almeno di lire quindici di Bologna altramente non potesse avere il salario e viceversa la Comunità non potesse ricavare il valore in contanti.
X) Che li ribelli banditi non potessero essere novamente banditi senza il consenso della Comunità né accostarsi al Castello per trenta milia.
XI) Che la Comunità di Castel S. Pietro si potesse edificare un molino ove le fosse piaciuto nel suo territorio liberamente senza alcuna licenza mentre sin qui si macinava a forza di pistrini.
Finalmente che li uomini del Comune si potessero fare li Statuti ed altre cose più a minuto le quali in parte furono amesse ed in parte corrette come dall’originale si riscontra il quale qui accludiamo per essere registrato nella Bolla di Papa Eugenio IV.
Non dispiaque tanto al regime di Bologna la diminuzione del Dazio Sale a Castel S. Pietro quanto la indipendenza dalle autorità della città per la sindicatura civile e condanne, d’onde ne vedeva che prosseguendosi su questo piano andava la città a perdere insensibilmente ogni diritto sopra il nostro Castello.
Cominciarono per tanto le le Autorità de Magistrati bolognesi a cavillare la onde, ciò rincrescendo al segno a terrazzani ed a tutta la popolazione subordinata a Castel S. Pietro, la pubblica rappresentanza ricorse con nove supliche a Martino V onde colla autorità suprema avvalorasse le già ottenute grazie. Il med. sensibile della fedeltà avuta a S. C. da queste genti, non meno che alle attenzioni per esso riscosse nel 1410 allorchè in questo loco per la pestilenza soggiornava in casa del cap. Balduzzi, si prestò amplamente alla conferma di quanto le fu richiesto ed allo schiarimento delle grazie concesse. Riscontriamo questo dal VIII regesto sotto il dì 12 febraro 1429 anno XII del di lui pontificato in lettere testimoniali Dat. Rome apud S. Apostolos.
La fonte della Fegatella che dalle truppe del Sanseverino era stata guasta ed interita e con imondizie per così dire inutile a bestiami ancora. Fu ripulita et ad uso ridotta come dalli mandati de riparti di spese publiche ritroviamo notato.
Fu contemporaneamente dalla pubblica rappresentanza di Castel S. Pietro preso il dissegno per un condotto d’aqua all’effetto di costruirsi il concesso molino delle grane. Fu questo incominciato lungo il Silaro dalla parte di ponente quasi un tratto di saetta sopra la indicata fontana e caminando per il saletto vicino e ripe fronteggianti il fiume, fu dissegnato fino all’incontro dal capo strada che dalla porta del Castello inferiore si discende nel Silaro ove dappoi vi fu fatto per una mole il suo edificio e di quanto si riscontra dalle carte antiche fu ubicato ove ore è la pellacanaria. Luogo opportuno per la diffesa dalle incursioni nemiche e comodo alli abitali del Castello e Borgo. Il cavo del condotto o sia canale fu cominciato dopo ottenuta da Martino V la grazia della conferma delli acenati Capitoli. Si spesero in questo lavoro lire trecento settanta sette, come da una nota antica reportata nel libro primo dei Diversi nell’archivio comunitativo. Non ci indica però questa carta se la spesa sia per la fabbrica o per il cavo.
Restava solo alla Comunità per la esecuzione delli Capituli sudd, la elezione del Militem damnorum dator, vale a dire di un saltore o come vogliono alcuni di un visitatore de danni ricevuti, che però su questo punto noi non ritroviamo di positivo nelli atti della Comunità, consecutivi a questo secolo, che la Comunità a capo d’anno elegeva due soggetti della pubblica rappresentanza, la incombenza de quali era di visitare col Ministrale li danni ricevuti, de quali ne fosse stata data l’accusa, secondo la perizia de quali si procedeva alla condanna tanto civile che criminale per il Podestà locale. In seguito delle quali cose ne venne fra poi pochi anni la formazione di uno statuto locale, come riferiremo a suo loco, ritrovandosene nell’archivio comunitativo una copia registrata e copiata dal suo autentico medesimamente esistente in quell’archivio fra li altri documenti.
Ma perché le fazioni ed i partiti in Bologna e suo contado erano rimasti sopiti ma non estinti, cominciarono di novo a ripollulare e si sentivano perciò stragi nella città e contado. Prodizioni, assasini, morti e traddimenti non mancarono, massime nel contado, de quali se ne farebbero volumi a chi tutti li volesse narrare riscontrandosi dai Libri de Malefici.
Dalle memorie MM. SS. di certo Balotta da Corvara nell’archivio di quella chiesa arcipretale di S. Martino abbiamo che li uomini di Fiagnano, cimentati da quelli di Dozza a motivo de confini, commisero fra di loro molte volte baruffe. Ma una fu la maggiore che intendendo li Serenari e Valloni di Dozza preocupare quelli di Fiagnano, conteziati con alcuni delli Tordini di Castel S. Pietro, ebbero coraggio andare alle porte di Fiagnano ove, difendendo li Ceruni di Ravaglia da Corvara in ajuto di Fiagnano, seguì fra loro una mischia tale che, come dice la memoria, multos vulneraverunt per quod mortui fuerunt senza altro indicarci da qual parte accadesse e che la presa, come si accenna, fatta della porta di Fiagnano fu per tradimento de certo Baletto portolano che ne aprì il portello ed introdusse travestiti uomini della fazione dozzese.
Si erano talmente dimesticati li delitti ed iniquità ed uccisioni in Bologna e contado che Dio stancato mandò una mortalità d’uomini e creature in quella e nel contado per cui perirono molte genti. Sebbene però tutto era in travaglio, non ommisero per ciò li uomini di Castel S. Pietro di provvedere al ristoro della nova circondaria al Castello e riffare quella parte che era conquassata, furono perciò rifatte e fortificate. La spesa non fu lieve poiché nei riparti delle colette sopra li terreni la vediamo nel Campione del 1492 prosseguirsi ancora.
Giunto l’anno 1430 fu nel cadere del genaro funestato questo loco dalla morte dell’arciprete locale D. Gherardo Gherardi per lo che nel dì 27 febraro il Sindico ed uomini del Comune presentarono al Capitolo di S. Pietro il detto D. Nicolò Damiani di Firenze che ne era l’attuale capellano del defunto arciprete. Il Camerlengo di quel Capitolo a nome de canonici lo accettò e lo presentò al vescovo Albergati che lo elesse pe paroco, come nelli atti di Filippo Formaglini Not. al Protocollo 25 fol. 168, poco però gustò la intrapresa cura poiché fra pochi mesi finì la vita.
Per la influenza comune sortirono la stessa sorte il cap. Ugolino Balducci, Andrea Cheli, Morello Morelli, Nicola de Nicoli, Verondo Salvetti, Cenzo Bombasari. Sebbene la morte si faceva sentire più nella città che fuori non si arresero perciò li turbolenti, anziché stimare il castigo cominciarono a perturbarsi fra di loro con tumulti e machinazioni anche contro li quieti e taciti del Governo pontificio. Si propagarono per ciò le disfunsioni pel contado onde fa duopo in questo loco che noi portiamo la origine.
Si divise per invidia la città in due partiti, il primo fu di Battista Canetoli, Bartolomeo Zambeccari detto l’Abbate, Matteo Griffoni, Baldassare Canetoli ed altri. Il secondo partito fu per Antonio Bentivoglio quale per vedersi di seguito inferiore abbandonò prudentemente la città. Di ciò avvedutosi il partito canetolesco tentò per due volte la sommessione e sollevazione della città. Nella prima furono uccisi molti amici de Bentivogli, ma molti emigrarono e non accadde la sommessione loro, la seconda fu di invitare il populo a rumore per sottrarsi dal governo pontificio.
Il Legato che era Lucido Conti romano, simulando il tutto senza farne ressentimento, partì dalla città improvvisamente col pretesto dell’influenza e senza che nessuno se ne accorgesse, lasciando per suo Vice Legato Giovanni Cassarelli romano il quale, vedendosi ancor esso poco sicuro, abbandonò la città col pretesto di visitare le fortezze del territorio e le riparazioni che si facevano a Castel S. Pietro. Quivi giunto animò li castellani a mantenersi forti nella obbedienza di S. Chiesa che ne sarebbero stati contenti, indi passò a Imola poi incaminossi a Roma.
Accortosi li Canetoli della partenza del Legato si impadronirono del palazzo pubblico ove essendo restato custode solamente Bartolomeo Rigo ragazzo storpio, conforme acenna la Cron. Bianchetta, non vi fu duopo di armeggiare. Giunto infrattanto il Legato a Roma fece tocar con mano al Papa che se bramava por fine a tanti mali era duopo avere l’assoluto dominio della città, tanto più che il contado era poco contento delli Canetoli.
Allegrò il Papa la proposizione e gustolla in tal guisa che fece sapere al Senato volere egli l’assoluto dominio della città e territorio per governarla ad altramente li minacciava guerra a cui rispondendo alteramente il Senato che non avendo violato le convenzioni era pronto farli ressistenza.
Sdegnato Martino V di tale risposta ordinò tosto che si mandasse l’armata a danno de bolognesi, facendo comissario di guerra Giovanni Boschi fiorentino chierico di camera e Giacomo Caldora eccelente capitano Generale delle armi alle cui genti si arrolarono li Bentivogli co suoi partitanti. Mentre si attivarono queste cose in Roma da una parte, li Canetoli da quest’altra immediatamente e colla massima sollecitudine attesero alla diffesa e fortificazione delle fortezze del contado sia di fabbriche, munizioni che di guerrieri.
A Castel S. Pietro indilatamente fu spedito Matteo Griffoni del partito canetolesco con grosso pressidio quale, arrivato al luogo, fece rimettere prontamente li palancati ruinati di circonferenza e assodare le porte e levatori e finalmente arginare la terra tanto internamente che esternamente dove abbisognava. Non andò molto che si sentirono sfilare dalla Marca e Romagna le genti pontificie nel mese di maggio.
Nel decorso maggio essendo morto l’arciprete D. Nicolò Damiani, alla fine dello stesso cioè il 30 fu da parocchiani e uomini del nostro Castello presentato D. Gerardo Fabbiani al Capitolo ed alli 9 giugno le fu conferita la Chiesa dal vescovo per rogito di Giacomo Graffi Protocol. 1430 fol. 66.
Arrivato infrattanto Giacomo Caldora nel contado stavasi dalli oppidani di Castel S. Pietro ad ogni momento in aspettazione di essere assaliti dall’esercito eclesiatico che danneggiava e battagliava li circonvicini luoghi, de quali ne aveva presi bona parte. Non per questo si ometteva dal Griffoni l’introduzione in Castel S. Pietro di munizioni e raccolti. Finalmente giunto il mese di lulio l’esercito eclesiatico venne sopra Castel S. Pietro dove essendo Matteo Griffoni, conoscendo di essere di poche forze e che li terrazzani pendevano più per la Chiesa che per il regime di Bologna, abbandonò il paese lasciandolo in cura alli uomini di quello.
Ove arrivato l’esercito nemico le furono aperte le porte ed entrando li conduttieri dell’arme pontificie furono fra plausi e con voci giulive accolti e condotti alle piazze e Roca a rumore di alte eviva. Così dovevano eseguire per ogni capo e molto più per le recenti beneficanze avute da Martino V. Tenevasi pertanto Castel S. Pietro come tutte le altre castella conquistate per conto della Chiesa in piena divozione della med. e restava solo la città a sottomettersi, la quale già non potendosi reggere, destinò per essa Legato Nicolò Acciapaccio quale venendo a Castel S. Pietro per esser dappoi in quella introdotto, si cominciò a trattare di pace.
Li bolognesi per tanto non si prestarono totalmente a riconoscere alcuno per Legato quandochè, dibattendosi nel genaro 1431 la Capitulazione, si produsse fino a febraro nel quale il giorno 18 in domenica alle ore 4 di notte morì Martino V. Una tal morte rasserenò alquanto li bolognesi mercè la quale, finché si faceva il novo Papa, pensarono di recuperare le fortezze perdute e con truppe e milizia fuori della città tenevano in continuo moto il Caldora ma questi, poco attendendovi, malmenava il contado ora in un luogo ora in un altro.
Passato una gran parte di febraro senza alcuna conclusione ogni paese titubava delli danni che pativa, giunto finalmente il giorno 3 marzo fu eletto in Papa il card. Gabriele Condulmiero col nome di Eugenio IV il quale, essendo stato due volte al governo di Bologna, la città gli mandò ambasciatori col trattato di pace la quale li ottenne sotto diversi Capitoli favorevoli anco al contado fra quali il Cap. XX confirmava tutte le esenzioni concesse dal antecessore alle Comunità e persone del contado in questi termini:
Confirmamus et approbamus exempiones et alia concesse p. comune Bononie alicui Communitati et persone nec non approbanus concessiones per Bonifacius VIII facta Com. Bonie.
E finalmente al Cap. 17 accordò che fosse lecito a qualunque persona si citadina che del contado fabbricar pane da vendere pubblicamente senza pagamento di dazio e gabelle.
Fatta la pace e firmata le Capitolazioni, non essendosi volsuto da bolognesi accettare per Legato Nicolò Acciopacaio, il Papa spedì a Bologna Giovanni Bosco a manifestargliela li quali, ricevutolo con onore, fu pubblicata per tutto il contado indi passò Giovanni Bosco a S. Giovanni in Persiceto ove era il vescovo di Conturbia ——- colle genti pontificie a manifestarle il tutto. Ma il Conturbia non volle accettare il manifesto dicendo che aveva diversi rincontri da Roma.
Li uomini di Castel S. Pietro, attesa la mutazione del novo sovrano temendo che ancor da questi fosse avvalorata la Capitolazione del card. Capranica e di Martino V. ricorsero al novo pontefice per la conferma. Questi non esitò punto e per sue lettere Papali confirmò li privilegi del di lui antecessore, come abbiamo dal seguente estratto dei registri di Eugenio IV cioè:
1431 18 marzo ex Regest. epistol. Eugeni IV de Curia epist. Universitati C. S. P. de Bononia V Kal. Aprilis regest. 12 anno fol. V. Confirmabis privilegiorum que q.to Castro concesso fuerunt a Martno V inter que adest exemptio ab omnes superioritate Bononie. Da. Rome apud S. Petrus.
Il Conturbia però non aveva volsuto prestar fede al Legato, venne a Castel S. Pietro e lo solevò contro Bologna. D’onde ne avvenne che il Bosco ove scrisse al Papa e colle amplissime facoltà che aveva dal medesimo deliberò reaquistare Castel S. Pietro e fu disposto a battagliarlo, onde adunati soldati in Bologna li mandò in assedio al nostro Castello. Vedendo li terrazzani in realtà che il vescovo di Conturbia aveva degenerato dal vero ed ingannati, essendo astretti dall’assedio, senza più opporso alle genti del Bosco si arresano a patti di perdono il giorno 19 giugno.
Per questa cosa il Bentivoglio con li altri fuorusciti coalizati col Conturbia furono banditi, parte de quali si ritirarono nella Romagna e parte in Lombardia. Venne in seguito nel dì 18 agosto Bando a Castel S. Pietro che niun terazzano ricoverasse o desse mano a fuorusciti il che fu anco esteso alle altre castella sotto pena della testa e confiscazione de beni. Tal Bando fu osservato molto più perché li fiorentini erano ogni giorno nel contado con disturbo della Chiesa e di Bologna e li castelli che frequentavano erano Castel S. Pietro e Castel Franco. Ma perché li fuorusciti co’ fiorentini si erano ostinati ed intendevano insignorirsi di questi due castelli di repente il Governatore Bosco spedì la truppa di Bologna a Castel S. Pietro li 15 settembre e lo battagliarono fino alli 20.
Li Bentivogli che colli altri fuorusciti erano quivi e si erano fatti forti nella Roca grande, vedendo non potere lungamente ressistere, vennero a patti fra quali vi fu convenuto che fossero rimessi in patria li banditi, che il Consilio delli 20 uomini cittadini consilieri in luogo delli 16 Rifformatori fossero riguardati da cittadini, come pure le porte della città.
Ciò approvatosi fu di consolazione alla città e nel dì 26 si arrese il resto del nostro Castello di dove partirono tostamente li fuorusciti bentivoleschi graziati che erano ritornati coll’ajuto de fiorentini. Per queste vicende furono demolite le case delli Cuzzani, Forni e Gherardi, perché tenevano la parte bentivolesca, ma il danno loro fu ristorato dalli stessi fuorusciti.
In marzo a questi travagli non si intiepidì punto il culto divino, poiché abbiamo nelle carte del supresso convento di S. Bartolomeo che li agostiniani facevano esercitare opere di pietà alla unione de paesani eretta nella loro chiesa dove ne tributtarono, in solievo di que relligiosi, cento lire per acomodare il convento loro che aveva assai patito per le guerre de fuorusciti e malmenati que relligiosi.
Legeva in questo tempo in Ferrara Floriano da Castel S. Pietro l’Inforziato e, bisognosa Bologna di un tanto professore a petizione della pubblica scolaresca, fu richiamato dal Governatore di Bologna alla città mediante Battista Magnani nobile e di grande autorità il quale, colla giù trasferitosi, si adoprò in guisa che Floriano venne a Bologna nel 1432. Si era egli colà stabilito anco per evitare li sospetti di fazione essendo aderente a Bentivogli.
Nel dì 6 aprile venne una tale e tanta brina nel contado che abbruciò tutte le biade non solo ma le foglie agli arbori e li pampini alle viti, produsse tal freddo che sembrava di verno.
Perché poi li villani di Castel S. Pietro insolenti di quando in quando danneggiavano con rubberie il territorio imolese, parte per bisogno di viveri, parte per avidità, ne furono avvanzati ricorsi dalli imolesi maltrattati al Governatore di Bologna messer Santino Dandolo, che ne era divenuto tale in loco di Giovanni Bosco acciò riparasse a tale diisordine. Non potendo egli colle sue forze reprimere la malvagità di coloro, perché spalleggiati da Canetoli bolognesi in mano de quali era la prepotenza fazionaria, trattò pertanto il Governatore Dandolo col Gattamelata, che era condottiero dell’armi venete in Imola per S. Chiesa, di introdurlo in Bologna e fermare l’audacia de Canetoli col darle la porta di S. Stefano.
Ma scopertosi il trattato, Lodovico Canetoli corse alla porta dove non era per anco ancora arrivato il Gattamelata li 26 genaro 1433 e quivi si fece forte il Canetolo. Avvisato per istrada il Gattamelata ritornò indietro ed il dì 22 d. prese Castel S. Pietro ove, lasciato bon pressidio, ritornossi a Imola. Il Governatore vedendosi in pericolo della vita la mattina delli 28 con Delfino Gozadini fugirono a Castel S. Pietro.
Il Papa fatto inteso di tutti questi movimenti, richiamato Dandolo dal Governo, mandò a Bologna per governatore Mario Condolmiero vescovo di Avignone quale, di qui passando nel dì primo aprile scortato dalle genti del paese, fu accompagnato fino a Bologna per diffesa da fuorusciti dove incontrato dalli Anziani fu onorevolmente condotto a Palazzo.
Appena preso il Governo, cominciò a pensare come introdurre il Gattamelata in città per sottometterla in tutto al Papa. Ciò venuto all’orechio del Senato il 22 maggio 1434 fece Consilio e determinò di dimettere affatto il Governatore della Chiesa. Quindi il dì seguente 23 d. armati alquanti cittadini andarono al Palazzo di quello ed ivi stettero sempre a fianco di esso dimodoché niente poteva fare senza loro veduta ed udito ed era come carcerato.
Il Gattamelata, conduttiero di mille cavalli veneziani a posta della chiesa che era a Castelfranco d’alloggio, fece intendere a bolognesi che voleva parlare al governatore, che se lo avessero negato gli auria pigliate le altre castella e scorso il contado. Il Senato ributtò l’ambasciata ed il Gattamelata venne tosto a Castel S. Pietro al primo di giugno senza perdere tempo e mandato un trombetta avvanti in nome della Chiesa, dando ad intendere a terrazzani che era fatta la pace, voleva pure prendere per momenti l’alloggio. Al che credendo, moltopiù perché avevano scoperto da lontano le bandiere pontificie spiegate, ebbe egli, col mezo di Rinieri e Fabbri, l’ingresso nella terra e con tale stratagema se ne impadronì.
Tosto vi introdusse 300 fiorentini che erano assoldati dal Papa per colorare meglio il suo inganno. Intesa il Senato la presa di Castel S. Pietro e che non solo vi erano in questo li fiorentini ma che il Gattamelata teneva nel Borgo molti cavalli, li bolognesi chiesero soccorso a Filippo Maria Visconti Duca di Milano.
Non tardò egli a soccorrerli imperiocchè nel dì 28 agosto mandò a Castel S. Pietro Nicolò Picinino che era nella Romagna con duemilla e cinquecento cavalieri ed altrettanti fanti. Questi tostamente mise il blocco al paese e scorrendo al d’intorno non lasciava penetrare al Castello cosa veruna di Romagna.
Da quest’altra parte faceva lo stesso il Gattamelata non lasciando portarsi a Bologna alcun genere di vittuaria e specialmente li grani e castellate le quali robbe ritrovando si trasferivano al campo di Castel S. Pietro il quale era in mezo a due fochi. Stavano pertanto le due armate l’una in sospetto dell’altra et ad ogni momento si aspettava un fatto d’arme ma niuno si moveva dal suo campo.
Il Picinino era superiore di genti ma alla scoperta, il Gattamelata inferiore di armati era però in situazione di meglio diffendersi. Mentre così stavasi in sospeso per un fatto decisivo, li bolognesi stancati dalle scorrerie che si facevano fino alle vicinanze dalla città, spedirono oratori al Papa, che era in Firenze, per trattare accordo.
Intanto il Picinino, per divertire il Gattamelata dal quartiere e sua posizion arischiava li suoi cavalli ad aggressioni momentanee nelli vicini luoghi che si tenevano per la Chiesa. Si adroprò tanto che, senza accorgersene il Gattamelata, approssimò il campo al Silaro in faccia al nostro Castello che si teneva saldo per la Chiesa. Quindi li 25 d. dopo avere piantata la sua artiglieria cominciollo a bombardare ed, avendolo si fortemente battuto e fatto gran danno, decampò dal Borgo il Gattamelata.
Doppo cinque giorni di batteria, il giorno 31, vedendo malparata la cosa, come narrano le Cronache, li terrazzani cominciarono a bisbigliare e fatto fra loro consiglio determinarono trattare accordo col Picinino. Mandarono perciò Andrea Rinieri e Marcello Pirazzolo al campo e conclusero a nome de terrazzani di vendersi in questo modo cioè: Che li villani li quali si erano introdotti in Castello pagassero 12.000 scudi, che il giudìo, che prestava a tutti li forestieri, fosse messo a saccomanno e finalmente che li castellani dessero in mano del Picinino il Vicario fiorentino il di cui nome ci tacciano li scrittori della Cron. Miscella e Bianchetta che tanto nelle sue carte ci hanno lasciato.
Conclusa così l’arresa, furono abbassate le armi ed introdotto il Picinino in Castello. Li 300 fanti fiorentini che pressidiavano quivi la terra, furono tutti svaligiati, il Vicario fatto prigioniero e l’ebreo banchiere fuggissi, ne fu sacheggiato che ne soli capitali domestici.
Avutosi Castel S. Pietro dal Picinino, questi prontamente lo mise in diffesa quindi li 8 settembre partì per Bologna ove giunto consegnollo al Senato. Avuta in potere questa terra invece di trattarla umanamente fece l’opposto, cominciolla ad angustiare nelle colette, ne dazi e specialmente nel Dazio Sale, volendolo quivi smerciare come nelle altre castella. L’infastidire li popoli con li agravi sopra li capi di prima necessità è lo stesso che cimentarli alla rivolta, imperciochè vedendosi questa populazione i Castel S. Pietro tolto l’indulto di Martino V di dovere dare il sale due quatrini di meno la libra, di quello che vendevasi nelle altre castella, eccitò nella plebe e ne villani una comuzione tale che poco mancovvi che il paese non andasse a rumore.
Furono però le familie più facoltose della terra che inpedirono, cioè Fabbri, Nicoli, Ghirardazzi, Rinieri e Salvietti colla persuasiva a mali intenzionati contro li venditori sale di un pronto provedimento, al quale effetto, fattosi Consilio nella Terra, furono deputati oratori al novo Papa li seguenti: Lorenzo Dalla Serpa, Battista de Battisti, Nicola Fabbri e Rolando Colina che tostamente cavalcarono a Firenze ove, esposto il contrasto accaduto ad Eugenio IV per li chirografi di Martino V sopra il Dazio Sale ed altre immunità, il med. confirmò quanto aveva operato il suo antecessore, rilevasi dal Regest. VII fol. 118 di Eugenio IV, che noi omettiamo perché nel principio dell’anno venturo trovasi tutto in Bolla amplissima confirmato.
Rimpatriati li 4 oratori col chirografo confirmatorio, non si persuasero ne aquietarono li bolognesi alla providenza eugeniana, anziché vieppiù insistevano nella loro sovranità, onde, crescendo l’amarezza de terazzani di Castel S. Pietro, stava per iscopiare un irremediabile disordine caminando le genti armate e le più disperate e corragiose.
Non interposero dimora li sud. oratori ed immediatamente tornarono a Firenze al Papa facendole constare l’iminente pericolo di andare la Terra a precipizio, sul cui esempio avrebbero proceduto altre Terre. La partenza da Castel S. Pietro delli sudd. ammansò in parte li animi esacerbati sull’aspetazione che in pochi giorni sarìa tutto deciso. Non deposero però le armi i malcontenti. Finalmente ritornarono in patria alla metà di genaro 1435 con amplissimo chirografo apostolico in figura di Bolla incontrastabile che chiuse la bocca a bolognesi e ne seguirono perciò alte allegrezze copia della qual Bolla è la seguente.
(Vedi Appendice 5. Bolla di Eugenio IV, gennaio 1435)

Ciò riportiamo dalli ricordi Fabbri.
Questo fatto fu un pungolo a Bolognesi per ridursi alle bone col Papa ed una animazione al teritorio di sottoporsi maggiormente al medesimo. Ne seguì pertanto in appresso la pace, quale concordata, dichiarato per novo Legato di Bologna Daniele Scotti da Treviso di lui nipote, che tostamente venne alla città, condusse anco seco per Podestà Baldassare da Ossida marchiano, uomo crudele e di naturale tirannico. Dubitando perciò li Canetoli di un qualche sinistro accidente, si tolsero spontaneo esilio dalla città conducendo seco altri suoi amici.
Rimesso poscia alla città Antonio Bentivoglio con partecipazione e volontà del Papa dopo 15 anni che ne era stato assente volontariamente. Su li primi di aprile 1435 cominciò a frequentare le visite al Legato e Governatore, il quale mostravale ciera grata ma che fra 15 giorni, essendole andato a visitare in Palazzo lo fece prendere all’improviso e, subito turatala la bocca perché non parlasse, gli fece trocare il capo. Prima che si pubblicasse la morte fu fatto prigione ancora Tomaso Zambecari detto: l’Abete, e segretamente ancor questo fece strangolare in una camera. Una tanta crudeltà comessa li 23 aprile, quanto fece di ribrezzo alla nobiltà di Bologna, altrettanto ne fu di amarezza.
Avute tale nove il Papa, sembrandole essere sicuro di Bologna per la fuga de Canetoli e per la morte de due sogetti sud., affinchè li bolognesi non mutassero poi governo, fece il Papa riedificare la fortezza a Galliera e risarcire anco le fortezze del contado. Nel mentre ciò si faceva il Picinino, che era nella Romagna la quale era pacifica e vedeva le cose di Bologna imposte col Papa, simulando non curarsi di questa città, d’improvviso corse a Castel Bolognese e Castel S. Pietro e colti alla sprovista se ne impadronì, poscia fece sapere al Papa che se voleva d. castelli voleva 2.000 ducati perché in tale somma andava creditore contro bolognesi per stipendi passati.
Il Papa vedendo equa la domanda la fece sborsare nel dì primo decembre il danaro, in seguito di che furono restituiti le d. castella a bolognesi.
Per queste turbolenze non si aveva un momento di quiete onde per ciò crescevano anco le gabelle e li dazi per li quali ricorsero li uomini di Castel S. Pietro al Papa ed egli, che comiserava la situazione del nostro Castello, si prestò a beneficarlo colla esenzione del pagamento di gabella per il sale e per il corso di un anno come da chirografo dato in Firenze presso S. Maria Novella al Regest. VIIII De Brevi Eugeniani.
Giunto l’anno 1436 Papa Eugenio fece intendere a bolognesi che voleva venire in città per confirmarsi maggiormente nella signoria della medesima e di fatti, conforme narrano tutti li nostri cronisti di Bologna, venne nel mese di aprile dove stette fino al 1438.
Non intendiamo però come possa sussistere questa narrazione quandoché nell’estratto fatto dal Ronconi per ordine di Benedetto XIV ritroviamo in quest’anno al regesto delle epistole di S. Officio N. 2 fil. 106 sexta juli, che Castorne Andruini di Castel S. Pietro di Bologna fu fatto castellano della Roca di Monte Misiano contado di Citta Castellana, se egli era in Firenze presso S. Maria Novella, come anco si riscontra nel regesto dei suoi Brevi N. 9.
Come poteva essere in Bologna e quivi trattenersi fino al 1438, epoca nella quale sono concordi il Ghirardaccio, Tomo 3 MM. SS., Cro. Papi. Il Masini et altri ? Noi certamente non sappiamo sciorre questo enigma e ce ne confessiamo inabili. Lasciasi pertanto questo nodo disciorre a chi di noi è più oculato e scientifico e basti al lettore averne questa solo notizia.
Venuto poi il Papa in Bologna, seguendo noi la serie de nostri scrittori, riferiremo che parve questo il tempo a terrazzani di Castel S. Pietro e lo fu certamente, di dare esecuzione al rimanente della Grazia pontificia enunziata nella precedente Bolla.
Si concede in essa al cap. XII che possino li uomini di Castel S. Pietro formarsi li Statuti e provisioni, onde perciò furono determinate le misure e li assagi per li tereni, fu dichiarata la tornatura di tereno misura di Castel S. Pietro di tavole cento a diversità di quella di Bologna. Di questa misura vedasi la tabella stampata in Bologna nel mille e seicento di tutte le misure del contado per il Ferroni che ne riscontrerà se vero o nò ciò sia.
Oltre ciò fecero ancora la forma delle pietre di fabriche e delle tegole o siano coppi di terra nel modo che furono incise ed impresse nel magistrato de Tribuni di Bologna e nella parete del Palazzo pubblico contro la fonte nelle pubblica piazza. Così fu anco operato da nostri castellani e tali misure furono impresse e segnate a comodo pubblico ed a vista di tutti nella parete della pubblica Ressidenza locale ove ora è la picola torre dell’orologio, che all’occasione di edificarvi la med. furono distrutte da fabbricieri contemporanei poco curando un si bel monumento di autorità ed antichezza. Pure furono d’ivi levate le anelle per la tortura, la berlina ed altre cose che se non avessimo ognora la tabella accennata, saressimo privi di queste notizie e si ritrovarebbero anco questioni legali, mentre nelli instrumenti di compra ed aquisti fatti in quelle epoche che ci sono capitati abbiamo ritrovato enunziarsi: una pezza di terra lavorativa, oppure una possessione di Tornature N — misura grande di Castel S. Pietro ed in alcuni altri rogiti abbiamo trovato così indicato : di tornature — misura picola di Castel S. Pietro della quale la tabella accennata nulla si riscontra.
Restava solo alli uomini della Comunità formarsi li loro Statuti e Provisioni per il governo politico e questi pure furono effettuati. Alla loro compilazione furono eletti otto del Consilio de più acreditati che unirono le leggi scritte alle consuetudini del paese. Furono questi Galeotto Cheli, Biasio Balducci, Giovanni Rinieri, Antonio Fabbri, Francesco Dal Sarto, Pietro Battista, Nicola Nicoli e Bartolomeo Ruzo. Rilevasi ciò essere stato fatto all’uso di questi tempi ma con qualche direzione legale, per quanto ci sembra, e furono ultimati li 20 genaro1437 ed indi pubblicati, copia de quali ne auressimo riportate se la prolissità de med. non ci avesse fatta impressione per la loro derogazione colle leggi posteriori. Nell’archivio comunitativo avvi l’autentico in caratere di questi giorni ed un Riporto o Registro ancora fatto nel Campione de Documenti a quale si deve riportare il curioso lettore.
Il Senato, che vide essere poggiate le funzioni statutarie ad una vegliante consuetudine non opposte alla rettitudine e godere Castel S. Pietro della valida protezione del Papa che soggiornava in Bologna, nulla si interessò a questa vicenda, anziché mostrò considerazione del paese e sua populazione lasciando correre la pubblicazione a suono di aringo, come ne appare di questo alli atti di ser Ghino Zopi not. bolognese, ma originario di Castel S. Pietro e quivi dimorante che forse di questi tempi doveva servire di Cancelliere o segretario la sua comune, come deduciamo da altri di lui rogiti per affari pubblici .
Essendo adunque il Papa in Bologna con dodici cardinali dichiarò per Legato in questo anno 1437 il cardinale Giovanni Rupescilla francese che assunse il Governo della citta e contado quantunque vi fosse il Papa presente. Egli dopo alquanti mesi di legazione morì ed il Papa pose di nuovo in Governo Daniello Scetti di lui nipote coll’Offida tiranno.
In tale frattempo il Papa dichiarò volere dalla città e contado 30.000 ducati per un Concilio, che disse volere fare a Bologna per unire la chiesa greca alla latina. Una si fatta imposizione dispiaque a tutti e si sussurrava massime da partigiani del morto Bentivoglio. Le ingiuriose maniere del dominio de ministri attizzarono le antiche faville di libertà nel cuore de bolognesi, particolarmente di Rafaele Foscari, Carlo Malvezzi e Gerardo Ramponi di Modona li quali, per vendicare la ingiusta morte dell’amico non che per liberarsi da quell’agravio di gabelle che isacerbavano anco il contado, presero occasione di eseguire il loro dissegno.
Il Papa che aveva subodorato qualche cosa, si ritirò nel novo castello alla porta di Galliera, poi segretamente se ne andò a Ferara. La partenza del med. animò maggiormente li malcontenti della città non che del contado ove sollecitati li più facinorosi cercavano di romperla. Fu invitato Filippo Maria Visconti Duca di Milano che mandasse il suo esercito governato da Nicolò Picinino per introdurlo in Bologna.
Anibale Bentivoglio che trovavasi al soldo di Micheletto Attendoli da Cotignola d. poi lo Sforza, condottiero di genti pel Re Riniero sotto il comando di Jacopozzo Caldora capitano generale di d. Re contro il Re di Aragona per occupare il Regno di Napoli, avvisato ed invitato al dominio di Bologna e contado vi aderì ed abbandonato l’esercito venne per le parti di Romagna.
Non mancarono in questo corso di tempo sedizioni e cimenti per avere motivo di sollevazione. Certamente in Castel S. Pietro non furono esenti nemeno li imparziali delle provoche di armeggiare contro li nemici al partito di libertà, inperciochè essendo stati rimessi dal Bando in patria Pirro Zogoli, Zenone Adamanzio, Tono Dalzano e Goro Bendini uomini per loro natura turbolenti, come riferisce il P. Vanti nelle sue mem., per li molti reati e deliiti commessi, non potettero stare in quiete, avvegnachè avvendo intesa l’accrescimonia del Dazio Sale con cui pagare a proporzione della populazione una tassa onde formare li 30 milla ducati richiesti dal Papa, titubavano sfacciatamente contro una tale gravezza.
Alli loro titubamenti si accrebbe l’aderenza delli più infimi del paese e massime de villani. Li boni cittadini delle familie Fabbri di Christoforo e di Bittino abitanti nel Borgo, delli Nardi e Salvetti procurando ammansare li torbidi che crescevano, furono presi in diffidenza e quindi il partito di Zogoli, rotta la faccia e perduto il rossore, cercavano motivo di venire a capo di un loro dissegno ed in fine mettere il paese in rivolta, ma non le riescì per la prudente condotta delli boni.
Ciò non ostante lo tentarono con questo fatto. Attesero che un di loro partitante prendesse del divisato sale e scoperta mediatamente il med. la maniera con cui si esitava alla Scassa del paese, che amministravasi da Andreuccio Levoli commissario della Camera, andarono al di lui banco e, quasiche fosse il med. l’autore della gravezza, lo insultarono in modo che rispondendo egli arrogantemente, fu di lancio preso per la gola e strascinato fuori dal banco. Accorsero al rumore li boni paesani per evitare un disordine in tutta la Terra e con dolci maniere liberarono Andreuccio malmenato e li Nardi colli Fabbri lo salvarono in casa loro in Borgo. Un tale accidente partorì che fu saccheggiato tutto il sale.
Conoscendo li turbolenti essere soggetti ad un novo castigo per cui le sarebbe andata la loro testa, tantopiù che Andreuccio era protetto dall’Offida tiranno, cominciarono quelli a caminare in conventicole, delle quali non fidandosi il castellano della Rocca tenne per molti giorni chiusa la porta maggiore della med. internamente al Castello, ricevendosi solo li interessati per il portello sul levatore esterno della med. Roca e del Castello.
Giunto poi l’anno 1438, non avendo timore alcuno, li bolognesi si sollevarono e misero in libertà, conforme il dissegno e sul piano fatto nell’anno scorso, di ricevere per capo della facenda Anibale Bentivoglio, al quale fu scritto che sollecitasse la venuta. Intanto che si facevano questi maneggi fu assicurata la Rocca di Castelbolognese e quella di Castel S. Pietro.
Il Zogoli che pure anelava con Goro Bandini di vendicarsi contro quelli che l’avevano fatto sloggiare dalla patria per le fazioni passate, pressentendo che si riffugiavano per lo più nelle vicine colline, cercavano perciò ogni strada di comentarli. Di ciò avvisato Cechino Galvano e Nanino de Santino, si rifugiarono al monte più alto nella terra di Corneta di Liano ove stettero fino a che tornò il Governo pontificio.
Questa terra di Corneta era posta sopra una alta colina alla destra del Silaro, consisteva di sei fabbricati in un abitato di poche familie, aveva la sua mura di circonferenza colla sua cisterna di aqua, l’ingresso era rivolto a borea, come ora, appresso del quale eravi un forte maschio, indizio di una picola rochetta, su di questo monte si vedono le vestigia. Di questi giorni era luogo forte per la sua situazione come oggi giorno si vede. Aveva pure questo villaggio un altro (…) sottoposto dalla parte di borea che in quest’epoca chiamavi Corneta di sotto. Dipendeva tale villaggio nel governo de uomini di Liano, come riscontrasi dal decreto del 1416 da noi riportato in avvanti sopra la reintegrazione del Vicariato di Castel S. Pietro in cui si memorano tutte le comunità componenti colle loro ville il Vicariato pred. Da mappa dimostrativa che conserviamo fra le altre nostre carte e comunicataci dal cittadino Bartolomeo Sabatini possessore di ambe le Cornete, si appare la sua dimensione.
La chiesa di S. Giacomo e Filippo presso il ponte sopra il Silaro a confina dell’antico ospitale che, col med. già abbandonato, minacciava ruina, fu ridificata da fondamenti cosiché ai primi di maggio vi si poté celebrare. Ristata adunque la med. essendo sul labbro della strada, essendovi concorso di popolo, venne nel giorno festivo della dedica un impetuoso vento che, portandosi le tegole di terra cotta, restarono alquante persone offese. Seguì fra ore una dirottissima pioggia al monte che producendo una corrente assai impetuosa salirono le aque sopra il suolo inferiore all’ospitale, ove si trovano pezzi di selciato romano e fecevi una aluvione ed interimento vistoso, cosichè quel giorno fu totalmente abbandonato.
Li frati Eremitani di S. Bartolomeo in questo loco governati da F. Orazio priore della familia Fabbri li 24 agosto, facendo la loro festa, si incendiò ed ebbe molto danno al che vi fu riparato dalle familie Fabri di Borgo e Castello, in compenso di che donarono que frati alle d. familie il comodo della sepoltura, come si ha nell’archivio di d. familie in questa sua chiesa.
Stancati li bolognesi delle crudeltà e tirannidi che si facevano dall’Ossida e presentendo il rimpatriamento del Bentivoglio, andò la città a rumore onde fuggirono li governatori pontifici. Abbandonata la ressidenza furono anco supresse le altre autorità, fu indi fatto un novo magistrato di X Savii che furono chiamati dalla Bailia. Ciò inteso Annibale Bentivoglio sollecitò la venuta cosichè nel principio di settembre venne per la parte di Romagna a Castel S. Pietro dove era atteso da suoi benevoli. Fu, poscia qui arrivato, incontrato e ricevuto da Ferrabosco e Benvenuto Scaramuzza uomini d’arme di Bologna oltre tant’altro, come riferisce la Cron. Bianc. Soggiunge il P. Vanti che quivi preso ristoro, fu riverito da terrazzani di Castel S. Pietro per signore di Bologna, dalli Zogoli poi e Nardi fu anco accompagnato alla città.
Entro quest’anno abbiamo dalla Cronaca Gozadini che seguirono due illustri sponsali, cioè di Giovanna di Tomaso di Lambertino Cattanei di Castel S. Pietro che collocossi con Tomaso delli Azoguidi di Bologna, e così pure di Tadea di Riniero Cattanei di Castel S. Pietro che maritossi con Muzio di Nicolò Marescalchi.
L’anno poi seguente 1439 ripetiamo, dal primo libro de mandati del Carrati estratti dal Mandatorum Senatus Bononie, che fu Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Alessandro del sig. Graziolo Accarisi e pel secondo semestre Podestà Xtoforo di ser Pietro Camaro.
Da questa epoca in appresso auremo più pingue di notizie patrie il presente nostro Raccolto, mercè l’instancabile cittad. Conte Baldassarre Carrati che colla massima gentilezza ci ha favorito fino al principio del 1800 con infinite notizie.
Avendo poi Filippo Maria Duca di Milano donata Imola in questo tempo a Guido Antonio Manfredi signore di Faenza, ne prese li 27 aprile alle ore 5 di notte la tenuta. In gratificazione di tanto si assoldò il Manfredi col Duca con N. 500 cavalli. Li Malatesta di Rimini sentendo ciò di malavoglia intimarono e ruppero guerra co’ Manfredi. Il Conte Francesco Sforza di Cottignola si collegò per ciò co’ Malatesti e coll’armi investì la Romagna bassa e, doppo aver preso Mordano, passò nel bolognese.
Il primo fatto d’arme fu che pose il campo sotto Castel S. Pietro nel seguente maggio e tentando la presa le fu fatta contesa onde, lasciatolo in blocco danneggiando le messi e le campagne con infiniti danni, passò il giorno 3 giugno alli borghi della Quaderna con 400 cavalli ed altrettanti fanti. Strinse il bloco all’assedio e convenne alli abitanti cedere alla forza.
Erano debitori li uomini di Castel S. Pietro in verso del capitano della Roca nella somma di 100 fiorini di Camera fino dal 1435 per la recupera della med. Roca di mano al Picinino che se ne era impossessato con Castelbolognese, come si scrisse, ed avendo più volte fatto instanza al Senato per avere tale somma fu da questo rissoluto che dalli uomini della università si dovesse porre il partito sopra tale pagamento, acciò ne fossero intesi, onde farne in appresso il riparto al Vicariato. Fu ciò eseguito e successivamente, ottenutasi la rissoluzione, fu presentata al Senato che ne ordinò tosto in sequela, dall’atto fatto per rogito di ser Ghino Zoppi not. di Castel S. Pietro, il pagamento. Ciò lo ripetiamo dal L. 1 de Partiti estrati dal questo citt. Carati così cantante:
1439 aprile. Partito di ser Ghino de Zopi da Castel S. Pietro a nome del Comune e (…) sud. di Castel S. Pietro fiorini di Camera 100 d’oro senza detrazione alcuna per altrettanti spesi e sborsati dal castellano ressidente nella Roca sud. di Castel S. Pietro per lo Stato della Chiesa ne tempi sud e ciò per recuperazione di d. Roca.
Chi fosse Castellano ce lo taciano le carte e la particolarità ancora del pagamento ed in mano di chi fosse in allora fatto.
Francesco Picinino, che colle truppe del Duca di Milano era in Bologna, sentendo approssimarsi alla città lo Sforza, sortì colle sue genti per incontrarlo e venire a fatto d’arme ma lo Sforza, sentendosi inferiore di forze, abbandonò l’impresa ed evacuò tostamente ancora Castel S. Pietro, al quale venendo Nicolò Picinino, padre del d. Francesco, con molta gente vi lasciò buono pressidio e vi stette fino all’autunno prossimo di dove li 17 settembre, richiamate le truppe, in giorno di giovedì spedì per comissario quivi Giacomo Dal Lino affinchè poscia alloggiassevi Merigo da San Severino condottiero di genti.
In questi torbidi divenero più animosi li facinorosi, li tiepidi nel culto divenero lo stesso gelo, il rispetto alli eclesiatici fu posto in oblio e solo regnavano le vendette. L’interesse si anteponeva colla avidità dell’altrui alla equità e carità del prossimo poiché le autorità erano instabili e fatte con passione. Il partito de’ Zogoli prendendosi in sospetto li Forni ammazzarono Tideo.
Adiratosi certo Nonno Salvigni di Casola Valsenio con F. Lorenzo eremitano per contratto di vittuaria nel Borgo diede mano ad una ronca che aveva al fianco per percuoterlo, ma fuggendo egli nella vicina chiesa di S. Pietro inseguito dal malfattore, che non ebbe rispetto alla chiesa, lo ferì mortalmente onde, furente costui per vedersi assoldato contro molta gente che le veniva per raffermarlo, ferì ancora altri, cosiché , al riferire delle Memorie Villa, frenato il di lui impeto a forza di sassi, restò vittima del furore populare sulla piazza della d. chiesa. Molti altri accidenti si potrebbero quivi narrare che essendo di lieve momento li omettiamo.
Possedevano in questo Castello e Borgo alcuni cittadini di Bologna case ed abitazioni le quali per occasione di alloggi a genti d’arme li Massari ed uomini del Comune, trovando questi località vacue, se ne approffitavano coll’allogiarvi entro li militari e così sollevare dalli incomodi li altri paesani, tanto più ciò facevano poiché fra tali possidenti vi erano familie emigrate dal paese per occasione della guerra e delli partiti che in questi tempi regnavano.
Onde li casamenti erano per lo più guasti dalla presenza militare che però ne fu fatto da proprietari il ricorso al Governo di Bologna il quale provide a tanto disordine, sotto pena al Massaro, Sindico ed altri officiali di Castel S. Pietro di lire cinquanta per ogni volta e per ogni casa sud., aplicarsi parte al Giudice locale parte alla Camera ed ad altre persone con altre pene, le quali disposizioni si legono nel libro Fantino fol. 89 Arch. Pub. di Bologna nel giorno 22 genaro 1440 come sull’unito documento.
(Vedi Appendice 6. Documento 22 gennaiop 1440)

Furono poi Podestà di Castel S. Pietro in questo anno per il primo semestre 1440 Gabriele Lugari e per il secondo semestre Antonio de Gibaldini.
Il Duca di Milano, ad oggetto di mantenere i Bentivoglio in Bologna ed assicurarsi egli di questa signoria, si collegò colla Savoja, colli Duca di Ferara, di Mantova, Monferato, fiorentini, chiamando ancora nella Lega li veneziani, questi però non si volero unire, onde Francesco Sforza che era al loro servigio si licenziò e colegossi con Nicolò Picinino Generale della Lega.
Il Papa era di già passato da Ferrara a Firenze senza avere potuto collà giù fare cosa per il proposto Concilio, onde dispiacendole molto la perdita di Bologna tentò di riaverla. Spedì perciò nel contado Baldaccio d’Anghiari capitano con due milla fanti nel bolognese a travagliare questi popoli dalla parte di Romagna.
Li bolognesi non furono negligenti alla diffesa che perciò fortificarono tutte le castella, mandarono a Castel S. Pietro munizioni da bocca e da guerra e animarono li terrazzani alla diffesa, sicuri di essere non che compensati ma rimunerati nel loro valore. Giacomo Dal Lino, eletto commissario per quest’affare, introdusse tutti li grani possibili entro la Rocca, poi ordinò con sua Grida che tutti li villani introducessero la loro robba e bestie entro il Castello acciò il nemico vicino non li depredasse. Tanto ne seguì e si pose la terra in forte diffesa.
Restava il solo Borgo alla scoperta, ma a questo pure vi si provide. Fu tagliata la via coriera e, con forte alzata di terra all’ingresso dalla parte di levante, vi fu fatto uno steccato ad uso bastia cosichè se l’inimico voleva di qui avanzare doveva in pria rompere questo allogiamento. Tutte le altre strade di confina al Castello e Borgo furono barricate con ripari di terreno ed altre distrutte. Susseguentemente posero li bolognesi in ordini bon numero di soldati per l’anno veniente 1441 nel quale troviamo Podestà nel primo semestre Tomaso di ser Nicolò Agochi not. e per il secondo semestre Carlo di Gardino Papazzoni.
Intraprese il suo ministero Tomaso Agochi il giorno 7 genaro 1441 di Podestà locale e, stabilitosi nella ressidenza pubblica, la prima cosa che egli operò fu quella di chiamare a se tutti li sindaci delle Comunità sogette a questo suo Vicariato e farsi giurare di fedeltà a Bologna nelle presenti circostanze di guerra, cosa che per lo avvanti non troviamo iscritta in alcuna carta, fuori di questa nelli ricordi Fabbri.
In seguito per tanto delli ordini papali Balduccio d’Anghiari capitano della Chiesa, discendendo dal fiorentino, venne nella primavera ne contorni di Castel S. Pietro colle sue truppe e vi pose il blocco, durante il quale tentarono avere il Castello nelle mani mediante trattato e quivi poscia fortificarsi, allorchè vi avessero potuto le med. truppe introdurre il loro capitano con soldati per meglio infestare il territorio.
Il trattato si ebbe, come scrivono le Storie del Ghirad. T. 3 M.M. S. e la Cron. Bianch., ma sul più bello che già veniva ad effetto, essendosi scoperto maneggiarsi con Pietro e Goro sud., il di cui cognome non si manifesta da scrittori, e con Bartolomeo di Ranero terrazzani per introdurne il nemico, furono pigliati li traditori e condotti a Bologna ben custoditi, dove furono tosto condannati alla tenalia ed alla manaja, ma nel mentre si era per venire alla esecuzione della sentenza, arrivarono lettere di forte premura dalli Manfredi per salvarli onde fu solo a Pietro salvata la vita.
Trovavasi in questo tempo esule per Bando a Castel S. Pietro Antonio qd. Giacomo Lenti per delitti commessi contro Francesco d’Argile, bramando comporsi, pacificarsi e rimpatriare per li suoi interessi, chiese al Senato salvacondotto, prestata sigurtà si compose la condanna come pure li delitti, come ce lo manifesta il Libro de Partiti Senatori di Bologna.
Nel mese di aprile di quest’anno compì la vita il famoso nostro Floriano da Castel S. Pietro detto dappoi da San Pietro e fu sepolto in S. Domenico di Bologna con lapide sepolcrale.
Juris consulti magni Floriani de S. Petro sepulcrum sacrum L. + S.
MCCCCXXXXI XVI Aprilis diluculo
Le opere legali di questo insigne giurisconsulto sono indicate dal Caval. Conte Giovanni Fantuzzi nella sua Opera de Scrittori bolognesi al suo articolo, che però a quello rimettiamo i lettore de nostri scritti.
Divenuti franchi li bolognesi della guerra, pensarono rimettersi sotto il Papa e ne intavolarono le loro intenzioni, ma perché Castel S. Pietro con altre fortezze del contado erano colle porte della città in mano de Picinino, così il Senato mandò ambasciatori al med. Gaspare Malvezzi e Givi di Manzolino il giorno 13 novembre ad effetto di accordare con esso, non essendo il Senato contenti di più restare in di lui mani.
Li ambasciatori andarono li 20 d. e tornarono colla risposta che il Picinino voleva 15 mila ducati in tre rate ed in tre anni, che egli auria tostamente lasciato in libertà la città e contado a risserva però di Castel S. Pietro, Castelbolognese, Cento, la Pieve, Castel Franco, Crevalcore e S. Giovanni fino al pagamento compito. Piacciuto al senato il partito, furono stabilitili patti il dì 21 novembre in seguito de quali, posta la città in libertà, pose per governatore di d. castella il Conte Luigi Dalverme, che di mano in mano ressiedette in esse ad arbitrio e secondo il bisogno.
Nella Cro. de Matrimoni nobili scritta dal Gozadini, troviamo in quest’anno che Masina di Antonio Comelli di Castel S. Pietro collocossi con Giacomo di Bartolomeo Zoppi. Di questa familia Zoppi sin dal principio di questo nostro raccolto ne parlammo che poi cambiò il cognome in quello de Castelli per dirli dal Castello, della quale ne parla il sud. Fantuzzi all’articolo Zoppi.
Passando poi all’anno 1442, non avendo ritrovato altro di rimarchevole nella serie de scrittori da noi osservati che portammo a capo della presente scrivenda, seguiremo che il Podestà di quest’anno fu Pietro Canparrazi.
Seguita la pace e Capitulazione col Picinino furono tosto mandate ad effetto per la di lui parte. Ma ciò dispiacendo al di lui nipote Francesco Picinino, volle egli rimanersi in Bologna alla custodia della città con dispiacere de cittadini. Accortosi egli di questo temendo di avversità, con tradimento e senza veruna causa, fece prigione Anibale Bentivoglio, Achille e Gaspare Malvezzi, mandò il primo nella Rocca di Varano nel parmeggiano e li altri due, uno nella Rocca del Pelegrino e l’altro a Val di Tarro, ma poi Galeazzo e Tideo fratelli Marescotti con altri tre loro confidenti partiti di città liberarono il carcerato Bentivoglio e segretamente l’introdussero in essa ove stette nascosto per poco. Il modo col quale fosse liberato non lo scriviamo, poiché abbastanza è stato scritto elegantemente da Gaspare Bombaci nelli suoi Uomini Illustri e molto più che ciò non interessa molto il nostro Raccolto.
Prosseguendo intanto Francesco Picinino a tiranneggiare la città avendo per suo governatore Fantino —-, adducendo che egli non voleva dimetterne il governo senza l’ordine del Duca, cometteva perciò ogni sorta di tiranidi, ingiustizie, estorsioni e malefici onde sembrava a bolognesi un ora mille anni di pena ed annelavano una rivolta.
Alla metà di genaro poi avendo preso il possesso della sua carica di Podestà di Castel S. Pietro e di lui Vicariato Pietro Campanazzi e volendo egli seguire l’ordine introdotto dal suo predecessore, mandò alle Communità sogette alla di lui autorità la Grida di doversi presentare al di lui officio li respettivi sindici di quelle e promettere con giuramento di osservare la fedeltà e l’osservanza delle leggi. Era troppo necessario in questi tempi tenere quest’ordine, acciò li massari e sindici, a cui era affidata la sorveglianza della sua nazione, tenessero dietro alla med. e ne facessero relligiosamente li dovuti ricorsi al Governo secondo il uopo.
Un manuale antico della chiesa di Vedriano mutilato e perduto dalla antichità del tempo, comunicatoci dal paroco D. Matteo Vivarelli, ripetiamo in questo proposito la seguente memoria: (la quale ci maravigliamo come l’autore del Dizionario Corografico di Bologna Serafino Calindri non abbia riportato nelle sue stampe e sarà forse stato per avere anco omesso la memoria della villa di Corneta accenata il di cui suolo tutto è in potere del citt. Bartolomeo Sabatini poco distante dalla chiesa di Vedriano, li di cui autori ne fecero l’aquisto ducento anni sono) Essendo stati ammoniti dal Vicario di Castel Sampetro li uomeni di Corneda a ricognoscerlo in Potestatem et cum non fuissent obedientes, misit ad illos militem suum et cumque pervenisset sursum alla porta della terra cicarunt cum sustibus et faxis et cum vertissat se in fugam precipitoxam, se ipsum salvum fecit. Iratus Potestas misit illis alios milites et cum fuissent illic proicerunt portas et ingressi secum fecerunt magnum in terra et fuit dixigata poi maxenatam Castri Sanpetri Captus ostia portinarus fuit popolatus et in dicto Sampetro lagueo suspensus..
E’ sciagura non essere nominato l’infelice portolano e le altre cose che ne accadero in quella contingenza. Dobbiamo però contentarci di questo poco ancorchè scritto rozamente, mentre li preti di questo tempo, che avevano la cura spirituale e li benefici eclesiatici, era previdenza che qualche cosa sapessero, ancorché rozzamente lo esprimessero e fraponessero anco il toscano fra il latino quando le mancavano li termini, il che ci acaderà anco in appresso riportare nelle sanzioni e mandati del Senato, quantunque al di lui servigio stessero persone culte. Doveva essere anco forse lo stile di quei giorni per disbriga della scrivenda.
Essendo state frequenti le nebbie in questo anno e le brine, il gualdo che era il maggior oggetto di rendita nel comune di Castel S. Pietro andò a male e fu scarsa la raccolta.
Trovavasi a Castel S. Pietro la truppa di Lodovico dal Verme in guarnigione onde, essendo sfrontata divenuta della libertà del condottiero e de capitani, non vi era campagna che non molestassero ne frutti e ne prodotti. Avvegnachè due temerari soldati sortiti dal Castello si portarono nella superiore collina dove erano vigneti, (che noi suponiamo al Dozzo essendo questa costiera a proposito e dove nelli instrumenti publici abbiamo ritrovato) e quivi guastando e derubando le uve vennero a questione col vignaiolo che se ne doleva. Eglino mal rispondenti a quello lo assalirono e percossero in modo che restò opresso di spiriti. Ciò credutosi alli altri villani poco distanti calarono alla via in aguato alli soldati ed assaliti nel mentre se ne tornavano li ammazzarono. Furono denunziati al capitano, quale non potendo cosa alcuna scoprire di certo impose la taglia di 100 fiorini d’oro a chi avesse manifestato il malfattore ma non ebbe la sorte di saperlo, poiché erano troppo concordi li paesani malcontenti della truppa che giornalmente derubbava e percoteva anco le fanciulle alla campagna che non volevano acconsentire, colli pretesti di besteggiamenti e pestaggi.
L’anno seguente poi 1443 vedendosi poco sicuro in Bologna Fantini, governatore di quella per Francesco Picinino, stante certe assemblee che le erano state supposte, prese il partito di assicurare la vita ed impensatamente se ne fuggì a Castel S. Pietro come accenna F. Bartolomeo Borselli domenicano scrittore contemporaneo in questi termini:
D. Fantinus Bononie gubernator sibi timens causa nescitur, a civitate oculte fugiens ad Castrum S. Petri pervenit et Bononie amplius non reversus est.
Lodovico Dal Verme trovandosi a Castel S. Pietro con 400 cavalli e duemila pedoni per servigio del d. Picinino dimorrante in Bologna come in sua signoria, presidiava il nostro Castello colla maggiore oculatezza che mai, perché aveva poi presentito la liberazione di Annibale Bentivoglio dalle carceri di Parma, ove era distinato nella Roca di Varano.
Quand’ecco improvvisamente Anibale Bentivoglio con seguito di nobili e da suoi partigiani e da quelli de Marescotti, prodottosi al popolo che era stanco della schiavitù del Picinino, corse alla piazza con infinito seguito e quivi, preso il Palazzo, imprigionò il Picinino e, legato con funi, fu esposto al popolo sopra la ringhiera ove lo fece stare per bona pezza spettacolo all’amutinata gente che gridava: Ammazza, ammazza il tirano.
Non condiscese il Bentivoglio all’impeto popolare, perché voleva la liberazione delli altri prigionieri Achille e Gaspare Malvezzi, Baldassarre Canetoli et altri boni cittadini, ed in questa guisa aquietò il tumulto populare ed in appresso, per cambio, rimpatriarono li relegati.
Li terazzani di Castel S. Pietro, infastiditi ancor essi dalla truppa che da lungo mortificava la Terra, non pensavano ad altro che alla liberazione ed attendevano il momento per fare una insorgenza, avendo già occultamente spedito Simone Rondoni e Polo de Fabbri a Bologna, ma non potetero effettuare il loro disegno perché Guido Antonio Manfredi signore di Faenza, intesa la sollevazione di Bologna, venne li 8 giugno a Castel S. Pietro con gran gente.
Essendo caduta nello scorso maggio neve con tanto impeto che avendo fatto gran danno alla campagna ed alli uccelli, che caddero morti perfino le rondini, li arbori e massime le quercie furono diramati e sradicati in alcuni luoghi, onde li legnami in queste critiche circostanze bellicose servirono poi di ristoro, massime nel nostro Castello ove ne furono introdotti centinaia di carra come contestano le memorie de Fabbri.
Circondato Castel S. Pietro dalle genti del Manfredi in figura di bloco e con l’avere ocupato le vicine eminenze e la pianura tutta dalla parte di Romagna per conto del Picinino, temendo che li Bolognesi venissero oltre, fece intendere a castellani che, sloggiato Lodovico Dal Verme che fosse dal Castello, per liberare il Picinino dalle carceri di Bologna voleva esso Manfredi entrare o a patti o a forza, giacché aveva inteso volere li terrazzani imprendere ancor essi le armi, molto più che nelli assoldati da Bologna vi si trovano capitani del paese. Non potettero li castellani ostare ad una forza imponente non avendo chi li ajutasse, onde cedettero alla domanda del Manfredi salve le sostanze e persone. Furono introdotte le guarnigioni faentine. Su questo esempio fecero lo stesso le altre castella del contado men forti di Castel S. Pietro.
Creati li novi magistrati in Bologna, cominciossi a pensare di redimere le fortezze. Nel numero di valorosi capitani condotti al soldo fuvì Cristoforo Casavoda da Castel S. Pietro, doppo detto de Capitani, che nel dì 16 lulio fu appatentato, come riscontriamo dai Libri delle Paghe e Mandati del Senato in questi termini decretato: 17 lulio ordino alli segrestanti e not. della Condotta delli Stipendiati di Bologna che ne loro Libri: Scribatis Christophorus Casvoda de Castro S. Petri conduct. ad stipendia nostre Comunitatis cum paghis sexagintapeditum, sua persona in his computatis cum stipendio et aliis consuetis pro tempore beneplaciti nostri imperii.
Il Senato poscia per mantenere la città in libertà col contado, mandò ambasciatore Battista de Cattani di Castel S. Pietro alla Signoria di Venezia et altri a Firenze. Ne riportarono la coalizione per anni cinque per la qual cosa li fiorentini mandarono Simonetto Dall’Aquila perugino e li altri Gottifredo —— , il primo aveva 500 cavalli e 200 fanti e l’altro 500 cavalli e ottocento fanti. Questi passando segretamente da Bologna senza perdere tempo sull’imolese, lo pose a sacco poi se ne tornò alla città. Simonetto fece lo stesso sopra il territorio di Castel S. Pietro perché si teneva per il Manfredi. Sommamente ciò dispiacendo a terrazzani scrissero destramente a Bologna che li mandasse gente in quantità che le aurebbero data la Terra.
Il Senato abbracciò il partito e ne addossò l’impresa ad Annibale. Questi, unitosi segretamente con molti amici, sortì di notte dalla città e nel far del giorno 18 agosto, arrivato a Castel S. Pietro colse innaspettatamente li soldati del Picinino e quelli del Manfredi che in tutto erano 200 lancie. Quindi cominciando a battersi, sortirono li castellani in ajuto e dando alla coda del nemico fecero più male li castellani che le genti del Bentivoglio, cosi che dopo sanguinosa battaglia restò vincitore Annibale, cacciando li nemici parte nella Romagna e parte uccidendone, fece ancora gran bottino.
Restavano solo le Roche del Castello da prendersi onde li oppidani con accette correndo alle porte furono prese alla disperata. Pietro Navarino che era imprigionato nella Roca grande, come si scrisse, e si guardava gelosamente per conto di Luigi Dal Verme. Assalito il custode della carcere da Domenico Tedeschi e Fantone Zogi ambi di Castel S. Pietro a quali volendo fare ressistenza non che chiudere l’imprigionato Pietro, fu fermato nell’impeto della diffesa e tostamente scannato da questi due coraggiosi terrazzani e fu liberato il detenuto.
Liberato Castel S. Pietro da si forti nemici che travagliavano non meno li paesani che la campagna coll’impadronirsi anco delle vittuarie de poveri villani, fu tostamente pressidiato il nostro Castello da bolognesi con molti soldati. Successivamente il Senato destinò per castellano a questo loco Ridolfo da Gesso uomo fido e valoroso come riscontriamo nel Libro de Partiti del senato per l’anno venturo 1444 in questi termini: 21 genaro 1444. Patenti a favore di Ridolfo di mastro Giacomo da Gesso in Castellano e Castello della Roca di Castel S. Pietro con quella stessa paga, arbitrio e Podestà, che aveva Ser Pellegrino di Giacomo delli Ingrati, suo antecedente per un anno da principiarsi il primo entrante.
Dovendosi poi fare la nova imborsazione delli cittadini per li ufici utili della città e contado, conosciuto l’impegno del posto di Castel S. Pietro, pensò il Senato di aumentare il salario in proporzione del merito al Vicario novo che non ci riescito iscoprirlo.
Aveva Pietro Novarino il suo convoglio in Castel S. Pietro nella massima parte ed, attesa la di lui liberazione dalla Roca, temendo di essere predato ricorse al Senato onde il med. nel dì 28 genaro ordinò non solo che fosse la persona diffesa ma anco ordinò a quelli uomini che avevano convoglio nelli alloggiamenti presenti del Navarino di lasciarli stare ne quelli impedire per nessun modo.
Fu tanta la neve che cadde in questo mese che venne alta quattro piedi onde convenne pontelare le case e molte ne caddero ancorchè puntellate.
Era creditore Xtoforo Casavoda da Castel S. Pietro, assoldato per Bologna fino dalli 16 lulio anno scorso in cui fu preso a servigio con 60 uomini, come riscontrasi da Mandato di Napulione Gozzadini commissario in Varignana, né avendo potuto avere il soldo pattuito, ricorse al Senato e con animo di dimettere la sua carica di capitano se non veniva saldato, fu imediatamente nel primo febraro saldato e così prosseguì nel soldo.
Li uomini della Compagnia di S. Cattarina di Castel S. Pietro governandosi a piacere né avendo alcuna positiva legge ne seguivano fra di loro disordini, onde avutane notizia il vescovo formò a quella li suoi Statuti. Radunavasi ella per lo più in S. Bartolomeo ed alle volte nella parochiale secondo il bisogno e perciò avendo la med. il governo dell’ospitale de Viandanti d’onde fu poi detta: La Compagnia dello Spedale, ricevette le Regole necessarie.
Riscontriamo nell’Archivio segreto del Senato T. 7 fol. 23 un lavoriere di fabbrica in questo anno intorno et appresso la parochiale fatto eseguire dalli uomini del Comune per mastro Giacomo della Croce da Imola e Bartolomeo di Antonio Malavena alias Dal Pozzo muratori a rogito di Giacomo Scanelli, che fu dappoi assignato alla chiesa. Crediamo perciò dai contesti dell’istrumento che questo lavoro fosse l’ambiente che servì dappoi per capella ed oratorio della d. Compagnia, che lo abbandonò fra non molto e serve ora di sagrestia alla parochia.
Le nevi copiose cadute nello scorso genaro avevano devastato talmente la chiusa al molino recentemente fatto dalli uomini del Comune che, essendosi fino a giugno diferito l’accomodo onde non potendosi macinare, accadero rumori nel paese contro la pubblica rappresentanza.
Le conventicole promosse da Marco Bendini seniore e dalli Samachini facevano temere di qualche fatto micidiario. Testa Gozadini che era castellano della Roca picola ebbe non poco a fare per ammansare le torbulenze, fece constare la irragionevolezza de riclami, li quali venivano eccitati contro li Ghirardacci e li Balducci, quale facevano essi sempre le carte ne pubblici comizi, coadiuvati dai Zopi, Fabbri e Mazza, così che questi sempre sortivano belle loro massime e non si prestava ascolto alli altri, onde cercavano perciò sempre motivo di rifare li Bendini e Samachini, che avevano di seguito anco li Rondoni, non vedendosi mai attesi nelle loro proposte.
Timoroso il Gozadini per ciò di qualche scandalo, essendo la Roca stata spogliata nella massima parte d’armi da foco, fece instanza al Senato che fosse di novo guarnita onde così seguì, come riscontriamo nel Lib. de Partiti Senatori in questi termini: 1444, 12 giugno. Si diano a Pelegrino di Giacomo delli Ingrati, Commissario nostro a Castel bolognese con provisione di fiorini 15 al mese d’oro. Fiorini 45 di sua provisione di mesi tre, cioè aprile, maggio e giugno presente e poi se li paghi l. 28 da lui spesi de nostro ordine sex decim schiopettorum compratorum et positum partim in Roca Castri S. Petri et partim in Roca Castri bolognesi. Fu perciò con queste spingarde più assicurato il paese.
Facendosi Anibale Bentivoglio amare sommamente da suoi cittadini, fu preso in invidia da Canetoli, onde cominciarono a tramare contro esso. Egli non di meno usava loro ogni bona grazia, ma questa le fu piuttosto nociva che propizia onde perciò cominciò a stare in guardia e, temendo di rivolta nel popolo, fece bone proviste di munizioni di ogni sorte alle fortezze del contado.
Per mantenersi poi vieppiù l’affetto de cittadini, sapendo che li med. li quali possedevano stabili ne castelli di Cento, Pieve, Castel S. Pietro, Medicina e S. Giovanni venivano forzati da uomini delle d. castella a pagare quelle stesse colette che pagavano li uomini di quelle, per la qual cosa procurò che venissero esentati e tanto fu poiché nel dì 8 febraro fu fatto decreto dal Consilio generale delli 600 che non potesero li nobili e cittadini di Bologna dimoranti nella città essere gravati ne sogetti alle colette ed imposizioni sud. , come risulta da documento nel Arch. Segreto del Senati Lib. +. C. N. 25 il secondo.
Non per questo si sottrasse ed esentò lo sventurato Bentivoglio dall’odio canetolesco anzi vieppiù si accanirono li di lui emuli e pochi mesi andarono del seguente anno 1445 che vi lasciò proditoriamente la vita, come a suo loco riferiremo per concatenazione della storia avendo influenza il fatto nel nostro Raccolto.
La sudd. Compagnia di S. Cattarina detta dell’Ospitale, ottenute le sue regole dal vescovato, fu in seguito ancora unita alla parocchiale nel dì 23 maggio per decreto del vicario del vescovo a rogito del Not. Rolando Castellani ed ai di lui atti. Onde per ciò cominciò ad ufficiare e si elesse un capellano che ebbe poi il titolo di beneficiato sotto il titolo di S. Maria nell’arcipretale sotto l’obbligo di diverse messe.
La infelicità di questi tempi bellicosi non lasciando alla Compagnia modo di avere un sogetto che assumesse un tal carico di capellano, ricorse al Vicario onde provedesse, poiché l’entrata di soli dieci fiorini per le messe non era sufficiente onde il Vicario unì la capellania alla parochiale.
Riferisce Bernardino Corio nella sua Storia di Milano fol. 691 che in questo anno, col quale concordano li altri scrittori, Bologna, naturalmente pronta alla sedizione, mutò stato a motivo della sopita ma non estinta malevolenza de Canetoli inverso li Bentivogli, quali fra loro ad altro non cogitavano che tramarsi insidie. Furono a tal segno nutri che Baldassarre Canetoli, uomo di grand’animo, tentò ultimarlo come fece. Trattò co suoi fautori contro Anibale Bentivoglio, quindi prese l’opportunità di un comparalico di Francesco Ghiselieri col d. Anibale, al quale andatovi fu ucciso da congiurati lo sventurato Bentivoglio. D’onde ne naquerò poi tali movimenti nella città e contado che si commisero molti saccomani ed infinite uccisioni.
Finalmente prevalendo il partito bentivolesco furono cacciati li Canetoli e le case de Ghiselieri furono robbate, guste ed arse e Battista Canetoli causatore della morte del Bentivoglio fu preso fra non molto, strascinato per la città ed arso. Aggiunge poi il Corio esserne stato il motivo perché li Canetoli volevano dare Bologna al duca di Milano ed in questa parte li nostri scrittori bolognesi contemporanei a questo fatto riferiscono tutto all’opposto, dicendo che la signoria di Bologna si voleva dalli Canetoli per essi loro e per la patria libertade e non per alcun altro.
Il misfatto proditorio seguito fu commesso nel giorno 24 del mese di giugno che doveva seguire li 29 dello stesso mese. Fu universalmente spiacciuto ed abbominato per il tradimento enorme e crudelissimo che così viene descritto da un diarista coevo e da tanti altri bolognesi storici cioè: che Battista Canetoli invidioso con altri di sua casa delle grandezze di Anibale, per vendicarsi de Marescotti, fecero questa trama, che avendo Francesco Ghiselieri tratenuto un di lui putto natoli due mesi prima di Giacoma Bolognini sua moglie, invitò Anibale Bentivoglio a tenerlo al S. Fonte. Tenuto che ebbe il bambino al battesimo invitò il Ghiselieri il novo Compare a visitare la Comare alla propria casa, che era dove al presente è la chiesa di S. Gregorio. Appressatasi a questa, nella rivolta che dicesi ora de Barbari sotto il portico che fa di facciata alla chiesa allora del cittadino Conti, si scopersero Baldassarre e Bertozzo Canetoli armati onde Annibale vedendo che si avventavano contro di esso volle dar mano alla spada ma intortenuto dal traditore Ghiselieri, dicendoli bisogna Compare che per questa volta abbiate pazienza, fu in quell’istante con molte pugnalate ucciso l’infelice Anibale nel cantone della casa accenata de Conti. Sortirono in quell’istante dalla casa del Ghiselieri 25 armati in ajuto.
Seguito questo fatto fu sparata una spingarda per dar segno che si unissero molti altri nascosti per ammazzare tutti li Marescotti cioè Giovanni, Luigi, Galeazzo ed Antenore appresso la chiesa delle monache di S. Giovanni Battista dove si faceva la festa. Furono tutti assaliti e fuggendosi solo Galeazzo ingegnosamente si salvò per la casa delle monache di S. Mattia e li altri tra di lui fratelli restarono vittime della crudeltà de Canetoli.
Melchiorre Marzoli che era delli Anziani, che per accidente era a Palazzo, armò la piazza di momento. Galeazzo Marescotti, che l’era riuscito scampare tosto unitosi a suoi amici perseguitando li Canetoli, ne uccisero in tal giorno cento nemici fra quali il traditore Ghiselieri e Baltozzo Canetoli. Battista salvossi in casa di Nicolò Be…dori, ma ritrovato fra poco fu posto su di un carro, tanagliato e condotto in piazza ed ivi amazzato, levatoli il cuore ed il fegato fu questo portato al fine ove fu tradito il Bentivoglio ed ivi inchiodato e ben guardato da sentinelle acciò servisse di esempio a malfattori, il resto del suo corpo fu arso e quel che non consumarono le fiamme fu dato ai cani. Furono per ciò sacheggiate 50 case della fazione Canetola. Quelle però de Canetoli che erano di rimpetto a SS. Gervasio e Protasio con quella del Ghiselieri furono abbruciate ed atterrate.
Più deffuso auressimo esteso questo fatto se fosse stato di preciso oggetto al nostro Raccolto il quale così laconico abbiamo narrato acciò il lettore sia a giorno in qualche modo della catena del nostro racconto. Chi brama sapere il minuto si riporti al T. III del Ghirardaccio inedito, alli annali di Alamanno Bianchetti et ad altri scriture ancor stampate.
Li Canetoli che avevano chiamato in soccorso il Duca di Milano per il giorno 29 cadente giugno, avendo avuta troppa furia non compirono il loro dissegno. Ciò non ostante il Duca tentò la presa di Bologna fintanto che la città era in due fazioni per darla poi al Papa come narrasi, poiché, di consenso dello stesso Papa, Taliano Forlani condutiere dell’armi ducali passò con 1500 cavalli e 500 fanti alla Romagna.
Giunto li 17 lulio a Castel S. Pietro scorrendo e rubbando la campagna fu motivo che sortendo dal Castello la guarnigione con molti de più bravi oppidani, assalì il Castello e se ne impadronì tostamente colli fazzioli della fazione canetola. Impavorite le altre castella di tutte queste strane vicende si arresero senza contrasto a nemici.
Pietro Dalbambo di Castel S. Pietro, che era stato investito di castellano nella Roca picola, cedette alla forza e, col patto di essere fedele ai novi conquistatori colli suoi uomini che aveva seco di guardia, fu lasciato alla custodia della stessa rochetta e porta del Castello dal quale nessuno lasciavasi sortire né introdurre se non colli debiti passaporti. Tanto è ciò vero questo che abbiamo dal Libro de Mandati del Senato di questi tempi il seguente documento: Licentia Jo. Ghirardacio de Castro S. Petri eundi in campagna Tuliani, Jurliani per se vel alium causa holendi salvum condut pro vendemiando eius uvas in cavia Castri S. Petri et hascondia d. Castrum ad beneplaciti 30 augusti 1445.
Il fondo Tuliani o Jurlani oggi detti: Il Tujano, nel Comune vicino di Casalecchio continuano questa denominazione.
Non è meraviglia che la vendemia fosse così sollecitata, poiché ciò facevasi per evitare il devastamento delle truppe. Sebbene Pietro Dalbambo era castellano della Roca picola di Castel S. Pietro, la quale aveva promesso custodirla per il conquistatore, non di meno veniva salariato dal Regimento di Bologna. Riscontriamo questo dallo stesso T. 3 de Mandati estratti dal Conte Carrati fol. 36 così canta: 1445, primo settembre. Che Pietro Dalbambo da Castel S. Pietro sia scritto in Castellano della Roca picola di d. Castello con paghe sei la sua persona ed una morta compresa, colli soliti salari da aversi per cominciati li 15 lulio scorso nel cui giorno si portò collà per ordine del Reggimento.
Contemporaneamente temendo il Senato di insorgenza in Castel S. Pietro per li partiti che qui vi regnavano, ad effetto di tenere in freno li partiggiani dell’una e dell’altra fazione, fu spedito a questo castello Lodovico Malvezzi con comitiva e fu commesso al Massaro ed uomini che somministrassero ad esso tutti li vittuali necessari di biada, fieno e viveri finché stesse quivi colla sua comitiva.
Mentre si operavano tutte queste cose in appresso il Duca di Milano mandò in soccorso de fuorusciti per la parte di Lombardia il Conte Piero Sanseverino con 5 milla persone sul bolognese dove pose l’assedio a Bologna per la qual cosa li bolognesi scrissero a fiorentini che li mandassero Simonetto Dall’Aquila, prode guerriero di questi tempi con 500 cavalli e 200 fanti, onde perciò intimorito il Conte Luigi abbandonò l’assedio.
Divenuti stanchi li bolognesi piuttosto di guerreggiare per necessità di quello che per genio, cominciarono a trattare col Papa. Intanto il Duca di Milano pensava per maggior conforto de fuorusciti di Bologna spedire nova armata nel successivo anno 1446. Perché poi fosse governato a dovere Castel S. Pietro da un soggetto di vaglia nelle correnti circostanze, il Senato elesse in comissario di quello Lodovico Bianchi uomo nella città di gran riputazione ed onestà. Ripetiamo questa notizia dalle Rissoluzioni delli 16 Rifformatori estrata dal comendato Carati così trascritta: 1446. Primo febraro electio Ludovici de Blanchis in Commisar. Castri S,. Petri et montibus in partibus illis.
Scrive Bernardino Cori nella sua Storia di Milano che nel principio di quest’anno 1446 il Duca mandò in Bologna per ajuto de fuorusciti Guglielmo de Monferato e Bartolomeo da Bergamo con fresca truppa per sottomettere la città, al cui governo aspirava, lusingato dalla fazione canetolesca.
Non per questo si perdettero di animo li bolognesi e trattando la loro sommessione al Papa fortificarono le loro fortezze e di uomini e di vittuarie poi, avendo al loro soldo il Sanseverino, lo spedirono alla visita della frontiera contro Romagna.
Venne perciò all’entrare di aprile a Castel S. Pietro Boezio Gozadini a farne la mostra delli uomini d’arme ed indi, visitato il tutto, passò a Medicina per lo stesso effetto. Ce lo assicurano le carte dell’Archivio Segreto del Senato in precise parole ove riscontriamo il pagamento delle vetture al d. Gozadini: 1446. 7 aprilis. Solvas Boetio de Gozadinis superioribus diebus transmisso Medicine et castro S. Petri ad faciend. monstram Petro Sanseverino —- , et pro vectura equitum solid. 32.
Sebbene erano nel nostro Castello stipendiati alla guardia, non mancavano perciò le turbolenze e li trattati di partito. Francesco Dal Sarto, Antonio Comello con Antonio Fiegna da un canto avendo invitati in domenica Lascarino e Bellone Dalle Balle, parziali de Canetoli, portarsi sul confine dell’imolese per trattare negozi, furono presi in sospetto da Testa e Marco Frassini onde nel ritornarsi in patria furono affrontati con nome di traditori al che, replicando coragiosamente li altri, si venne alle mani.
Furono da Morello da Pavia spartiti e rinchiusi in una di lui casa nel Borgo per salvarli dalla furia popolare ma arrabiata questa posesi foco alla medesima cosichè, crescendo le fiamme, Ercole dal Bruno con altri suoi aderenti, fingendosi nemico delli circondati dal foco appiccatosi dalla parte d’avanti nella via corriera, fece sortire li assediati dalla parte opposta che, valicando la fossa del Borgo, si ascosero ne vicini seminati e salvarono la vita.
Era questa casa come si riscontra dal Campione del 1492 in Archivio della Comunità Fol. 41 posta presso la ripa della fossa che tutt’ora a questi tempi esisteva e circondava il Borgo dalla parte di Borea che così ci viene descritta: Morello da Pavia si ha su la nostra corte in luogo d. al Borgo un caxamento ad uxo d’orto, ed una caxetta suso appresso lo spedale di S. Cattarina, appresso la fossa del Borgo, appresso la strà. Tale casetta poi consunta dal foco non fu più risarcita, colla descrizione presente riscontriamo che anco in questo tempo sussisteva ancora la fossa del nostro Borgo.
Eseguirono questo incendio li tre Colghi sudd. con tanto coraggio alla metà di maggio poiché non avevano alcun comissario in paese che potesse loro in qualche modo porre freno alla loro tracotanza, avendo abbandonato il suo ministero Lodovico Bianchi, come riscontrasi da mandato che a suo loco registreremo. Una tanta iniquità ammarreggiò il parentado de fugitivi e li loro aderenti, per cui ne seguirono in processo di tempo risse ed uccisioni mendicate come riportano li Libri de Malefici contemporanei.
Questa criminalità diede molto nell’ochio al Governo per modo che, rimanendo banditi per il taglio della manaja, li incendiari spatriarono. Il Senato poi provide tostamente di un egregio comissario per il seguente secondo semestre fornendolo di amplissime facoltà e fu Vezzolo Malvezzi eletto nel primo di giugno ed era ancora attuale Commissario del Paese. Ecco il decreto delli XVI Refformatori estratto dalli Atti e Partiti pubblici cioè: 1446, Primo giugno. Vicarius Castri S. Petri Vezzolus de Malvitiis fuit hodie electus in Comissar. d. Terre ad placitum sine aliquo salario, cum potestate percipiendi et providendi ea omnia que sunt necssaria et utilia pro conservativa status nostre libertatis et etiam puniendi et codamnandi in pecunias omne delinquentes inhobedientes. Act, XIV Refformator.
Lodivico Bianchi poi che aveva servito di Comissario di Castel S. Pietro ed aveva contemporaneamente anco servito il Senato per approvigionare il territorio, per li alloggi ed altro occorrente alle truppe dalla parte di Savena fino alli nostri confini di Romagna come pure nelle superiori montagne, fu indennizato dal Senato a ragione di scudi sei o siano l. 30 mensili per il tempo che aveva servito. La giustificazione di ciò si riporta nel seguente mandato estratto dal T. 9 Mandat. Carati:
1446 26 lulio. Constat virum nobilem Ludocicum de Blanchis Bonon. Civitate Anno presenti per officium nostrum fuisse electum et deputatum in Comissarium Castri S. Petri et in omnibus partibus mantanearum a flumine Sagine altra pro allogiando stipendiares et alia narria faciendi pro statu, cum salario l. 30 singulo mense cui off. deferuit duobus mensibus et ultra, vid. februari et martiis etiam pro aliis rebus
Perché poi li uomini di Castel S. Pietro si intromettevano nella riscossione dei dazi pubblici e colette alli quali essi socombevano per vederne la erogazione del Retratto, pretendeva Pietro Dal Bambo, castellano della Roca, che li uomini non avessero a mischiarsi in tali aziende. Ne fu avvanzato ricorso al Governo con lagnanze tali che facevano temere di insorgenza, onde per ovviare a scandali il Senato scrisse al castellano che non entrasse se non in affari della Roca. Econe il testimonio tratto dalli atti di quel magistrato. 2 augusti. Fuit scriptus Castellano Roche Castri S. Petri quod non impediat in aliquo modo Homines d. Terre ne se intromittant in aliquibus Datiis et aliis non pertinentibus directe ad custodia d. Rocha. Act. T. 9 fol. 144.
Per le angustie passate militari trovandosi esausto l’erario pub. di Bologna prese in prestito da Nicolò Ajmerici l.1092, da Budrio l. 600 e dal comune di Castel S. Pietro l. 888 e più per altri l. 309 all’effetto di pagare Simone e Giacomo Calderini creditori, colli quali danari essendo stati soddisfatti, furono rinborsati nelle tasse ordinarie.
Possedevano nella Romagna Pietro di Simone Rondoni e Giovanni Zoppi di Castel S. Pietro terreni e non potendo avere li suoi rediti se non con salvo condotto de nemici che alloggiavano nell’imolese il quale per averlo faceva duopo impetrarlo da essi onde, per non esser quelli processati e riconosciuti sospetti, chiesero licenza al Senato di Bologna di potere impetrare tale salvacondotto per vendemiare e condurre l’uva a Bologna. Conosciuta la domanda giusta ed utile nel dì 26 agosto le fu concessa la richiesta licenza.
(Vedi Appendice 7. Copia Licenza per Rondoni e Zoppi 17 agosto 1447)

Stavasi in continuo sospetto de bolognesi non che da nostri castellani di improvise aggressioni dal vicino nemico onde perciò all’avanzarsi della stagione si accrebbero le guardie ne posti di frontiera. Alla chiesa per ciò di S. Giacomo eranvi 6 Paghe vale a dire sei uomini li quali in tempo di notte scura tenevano fiamma viva di foco per scorgere da lungi l’inimico onde, avvanzatosi un corpo di 20 cavalli caneroleschi misero in dispersione le guardie e ruinarono collo stesso foco la chiesa.
Appprossimandosi la fine dell’anno pensò il senato di provedere le castella di novi ministeri ed officiali, fu quindi nel dì 14 X.bre eletto per comissario di Castel S. Pietro il dott. Giovanni Inglesio Tomari come così ciò lo ci contesta l’atto autentico del Senato in questi termini: 14 X.bre. Egregius Doctor Jo. Inglesius de Tomariis electus fuit Comissarius Terra Castri S. Petri et aliarun terrarum sibi statuens et edclarans per DD. XVI cum plena potestas et juristione amnia faciendi pro conservatione d. Castri ad honorem Comunis Bononie et presenti status prout latius in litteris sub dat Rome die XV 1446, cum revocatione quorumcumque Comissar. hactum ibibem constitut. pro quovis regimine.
Restava solo alli uomini di Castel S. Pietro la elezione del novo Massaro per l’anno 1447 onde, essendo stato estratto Magnano de Magnani castellano, né piacendo questo ad alcuni per li motivi anzidetti dal partito de Cometti, ne naquerò risse formidabili e scandali nel comizio tenutosi il 22 cadente decembre e poco fuvvi che il paese non divenisse un macello se la destrezza di Vezzolo Malvezzi colla sua autorità di Comissario non vi avesse posta mano.
Fu in seguito della seriosa altercazione e rissa portato al Senato il fatto. Il med., temendo di una rivolta del paese tantopiù che era in vicinanza del nemico, elesse quattro cittadini de più autorevoli e li spedì a Castel S. Pietro che, usate le più dolci maniere colli più rabbiosi, fu tutto composto e confirmato di autorità senatoria Magnano per Massaro del solo primo semestre 1447. Rissulta ciò dal Tomo 3 delli Partiti del Senato nel modo seguente con cui chiudiamo l’anno.
29 X.bris Gaspar de Malvitiis Prior refformatorum cun consensu omnium elegit D. Ludovicum de Calvis, Ludovicum de Bentivolis et Rinatum de Ariostis presentes, quibud dederunt potestatem providenti super differentiis noviter ortis inter homines d. terre Castri S. Petri et quoscumque repertos scandalosos, rixosos puniandi.Idem 29 X.bris 1446.
Elessero Magnano da Castel S. Pietro in Massaro di d. Terra per li primi sei mesi del 1447 con ordine che lo accettasse e lo esercitasse ad onore dello stato del Comune di Bologna, con ordine a tutti li uomini di d. Terra che per tale lo accettassero sotto pena della loro indignazione e ciò per tutti li 14 voti favorevoli ottenuti.
Prosseguendosi per ciò a trattare col Papa la dedizione mediante Antonio Ranucci e non concludendosi cosa alcuna, prosseguiva il Duca a travagliare li bolognesi ma con poca gente onde, essendo restati solo li Canetoli con 700 armati assistiti da Albero Pij signore di Carpi, pensarono li bolognesi prendere al soldo Francesco Sforza di Cottignola colla speranza di liberare il territorio de nemici, ma indarno poiché crescevano li tumulti.
All’entrar di genaro intraprese l’ufficio di Massaro per il primo semestre 1447 Magnano Magnani alla forma del sud. decreto. Oltre ciò, riconosciutosi dalli 16 Rifformatori, che il salario consueto darsi alli Vicari di Castel S. Pietro era tenue in proporzione della briga, determinò in questi termini per l’avvenire: 7 genaro, per occasione dell’imborsazione da farsi delli uffici utili, si determinò, per tutti li XVI voti niuno eccettuato: che li Vicari in avvenire da eleggersi al Vicariato di Castel S. Pietro e Castelfranco abbiano al mese per cadauno l. 30, supplendosi dalla Camera allo smanco fino a d. somma che non dà il Vicariato.
Avevano due anni sono li uomini della Comune di Castel S. Pietro somministrato a Lodovico Malvezzi e sua comitiva per ordine del Senato ogni sorta di viveri cosiché ne era in credito la cassa comunitativa di riguardevole somma in questi tempi in l.116: 12, ne fecero perciò instanza al Governo per il rimborso onde nel dì 18 genaro di questo anno decretò il Senato in questa forma.
Ci consta che del 1445 del mese di settembre fu commeso al Massaro ed uomini di Castel S. Pietro che di nostro ordine sovenissero Lodovico Malvezzi e sua comitiva, che ivi era alloggiata per sicurezza di quella terra, che li somministrassero tutti li vittuali necssari, biade, viveri il che fecero spendendo l. 116: 12 delle quali ne sono stati pagati,onde oggi avendo ricorso, si ordina di defalcare a d. uomini per il Dazio del Sale levato e che leveranno per d. somma.
Proseguendosi il trattato di pace con Papa Eugenio, il med. infirmatosi nel seguente febraro finì la vita nel dì 22 febrato in giovedì dopo sedici anni di papato e sessantaquattro di vita. Non andò molto che vi tenne dietro Filippo Maria Duca di Milano disturbatore della pace de bolognesi e fomentatore de fuorusciti.
Radunati li cardinali in Conclave elessero tostamente nel dì 5 marzo in domenica per pontefice Tomaso da Sevezana, che fu già vescovo di Bologna, che assunse il nome di Nicola V, questi era eccellente fisico e miglior teologo, di che ne diede saggio ne Concili di Ferrara e Firenze. Fu di umili natali.
Eletto dunque il Papa il Senato di Bologna mandovvi ambasciatori di ubidienza fra quali Battista filio del famoso Floriano da Castel S. Pietro. Si adoperarono tanto che Capitolossi la dedizione di Bologna alla Chiesa e nel maggio furono fatti molti Capitoli, che furono poi nel seguente agosto confirmati per Bolla, nel giorno 17 agosto.
In questi Capitoli il più interessante per il nostro Castello e università di Castel S. Pietro avvi il terzo col quale restano confirmate tutte le disposizioni, decreti et imunità concesse dal Senato al contado del seguente tenore cioè:
Et quod populus, comune et singulares persone Civitatis Bononie, eiusq. Comitatus, fortiis et districtis ac Diocesis prenarie observantur ab omninio et toto quod dare, traddere et sovere deberent Camera R. E. vel sanctitati vestre. Et quodomnia. singula,gesta, firmata, provisa. statuta at ordinata etiam circa Remissionis. Placet.
Come più diffusamente leggesi in d. Bolla stampata fra tanti altri documenti nel 3 Tomo de Statuti di Bologna compilati per l’avvocato Sacchi, alli quali si riporti il lettore che ne bramasse vederli tutti.
Fatta tale pace se ne diedero tanto nella città che nelle castella testimonianze pubbliche con fanali, suoni di tamburi e trombe, indi si spiegarono le bandiere ecclesiastiche. Giovanni Fabbri che era il sindico attuale della Comunità, come narrano le memorie di questa familia, che avendo sortita una bona raccolta fece pane per li poveri e la focaccia per li passaggeri che fermavasi al novo ospitale.
Abitavano in questo paese da molto tempo addietro, di che non se ne ha precisa la memoria se non nel 1376 come si scrisse, li ebrei e tenevano quivi banco onde, se volevano domiciliare in questo loco e dare ad usura, faceva duopo patteggiare colla Comunità. Onde in questo tempo, volendovi abitare certo Giudeo Isacco da Modena ebreo come altri, fu duopo convenire certi patti a rogito pubblico del notaio Bartolomeo Zopi col Massaro odierno Bartolomeo Zoni ed altri uomini della Comunità li quali, avendo concordato alquanti Capitoli nel dì 15 agosto anno presente, furono stipulati mediante Giovanni Fabbri Sindico della Comunità li quali sono li seguenti tratti dal Lib. Provis. di Nicolò Mamellini cioè: (?)
Da questo autentico documento rilevasi dal lettore il Governo di queste epoche e perché si rendeva pericolosa la setta ebraica alla nostra relligione a motivo non solo di contrattare ma di conversare continuamente colli X.tiani, coabitando nelle case de medesimi in questo paese, come riferisce il P. Vanti.
Fu dalla Comunità destinato un locale appartato nel Borgo sopra le ripe o siano terragli interni del med. lungo la via consolare alla destra andando verso Bologna dalla parte di occidente. Quivi fabbricata una comoda abitazione fu dappoi nominato il Ghetto, che alli presenti tempi del 1801 conserva indelebile la sua nominaglia. Quivi si chiudevano come in seraglio, alli tempi opportuni e se ne vedono tuttora li portoni e le mansioni per più di una familia e dippiù riferisce che a suoi giorni il d. P. Vanti vi si leggeva sopra la porta la seguente dedicazione: Judeorum contubernium con altre lettere e parole ebraiche da esso trascurate annotarsi. Questo fondo ora è in proprietà de Conti Massimiliano Gini di Bologna.
Stabilita la pace tra bolognesi col Papa, fu mandato a Bologna per Governatore nel 1448 Astorre Agnensi napoletano. Si ristabilì il Governo, le autorità abolite furono repristinate, le sospese reintegrate. Quali fossero quelle di Castel S. Pietro le circostanze di questi tempi ce le tengono sepolte nelle tenebre dello sconvolgimento civico. Non potiamo che congetturare quella di Pietro Dalbambo in castellano per la cacciata che ne subì nella rivoluzione prossima da narrarsi d’onde sentesi appostato.
La chiesa vescovile finora rimasta vedova del suo pastore fu provista dal novo pontefice Nicola V col destinare alla med. Filippo Calandrini archidiacono della cattedrale di Luca. Al suo arrivo in Bologna notificò a tutte le diocesi il mantenersi fida a S. Chiesa e molto a que’ parochi che vacillavano nel ministero, attendendosi perciò di estirpare li spiriti della turbolenza, che regnava nel contado. Furono ricuperate le castella che erano in potere de fuorusciti da Nestorre Manfredi signore di Faenza condotto al soldo bolognese.
Fatto prigione Bettozzo Canetoli, che aveva ucciso lo sventurato Anibale Bentivoglio, fu condotto alla città, fu fatto morire ed in fine appeso per un piede alla colonna presso cui era seguito l’omicidio del Bentivoglio. Prosseguendosi a ripurpare il contado furono presi sul confine imolese al Sesto Ansarino Dalzano di Castel S. Pietro, Jacone Bandini micidiali con altri suoi aderenti. Condotti in patria furono strangolati avvanti le lor abitazioni. Lippo Leali con due suoi compagni, che le carte non ci dicono il nome, furono banditi sotto pena della testa dal contado per trenta milia in perpetuo.
Terminato il mese di giugno fu promosso alla carica di Vicario di Castel S. Pietro Alessandro Curialti che la terminare dell’anno, avendo servito per il secondo semestre, seguì lo stile de suoi predecessori col fare apporre nella pubblica ressidenza il suo stema colla soscrizione seguente
Alexander de Curialtis Vicarius
Pro se… semes MCCCCXLVIII
Doppo questo Vicario troviamo sprovvisto il paese di Giudicente e ciò a motivo delle frequenti agressioni.
Sembrando al Governatore Agnensi essere poco stimato in Bologna per la riverenza grande che portavasi al Bentivoglio e la poca osservanza ad esso, prese il partito di abbandonare la città e lasciare per suo locotenente Antonio Arconato che, non potendo ancor esso governare la med. conforme il bisogno per rispetto al partito bentivolesco, andossi a Roma e restò Bologna senza il ministro pontificio et alla volontà di Sante Bentivoglio tutore di Giovanni Bentivoglio picolo fanciullo di anni 3 filio dell’ucciso Anibale.
In questo contratempo D. Gherardo Fabbiani, sentendosi poco sicuro delli Muzza e Fabbri di Castel S. Pietro per certi contrapunti accadutili, che la memoria di quest’ultima familia le ocultano, penso abdicarsi dalla cura di questa arcipretale senza che lo penetrasse la comunità e per fare meglio il suo interesse. Andò per ciò egli nel dì 14 genaro 1449 al capitolo di S. Pietro di Bologna. Rinonciò la sua carica a D. Pietro Mingoli e ne procurò l’approvazione. Li canonici presentarono senza più cercar altro il rinonciatario nel dì 18 d. al Vescovo e Vicario colla dichiarazione di fare tale presentazione senza pregiudicio della Comunità per questa sol volta, come ne rissulta alli atti di Filippo Formaglini ed a suoi Rogiti Protocol. 8 fol. 16 e 18 verso.
Quanto dispiacesse alla università di Castel S. Pietro questo sottomano converebbe descrivere e sapere tutte le angustie e contrapunti che furono fatti in appresso da paesani al novo arciprete, quale vedendosi da ogni canto mal sofferto si accorò tanto, come scrisse il P. Vanti, che sopravisse poco alla Cura. Non per questo che fosse amareggiato il paese.
Ommisero li buoni cittadini di eseguire li atti di pietà che perciò Francesco Zoni, o Toni come si vole, inerendo alle disposizioni paterne di Bartolomeo, assegnò in dote all’altare di S. Biagio eretto nella parochiale alcune tornature di terra, acciò fossero celebrate alquante messe al med. Ne fu fatto il decreto a rog.per il d. Formaglini come al Prot. 8 fol. 22 verso, dichiarandosi per il patronato del d. Zoni.
Li 21 febraro fu proveduta la Roca grande di castellano e fu Giovanni Dal Verde che ne prese il giuramento di fedeltà. Atteso l’abbandono della città di Bologna fatto dal locotenente Arconato, Nicolò V nel dì 22 febraro costituì legato alla med. Filippo da Sarazana di lui fratello.
Ma poiché dopo l’uccisione di Annibale eravi rimasto il filio sud. Giovanni d’anni tre, veniva questo da boni cittadini e nobili amato onde, ricordevoli del bono governo del di lui padre, avevano chiamato il sud. Sante da Firenze, bastardo del già Ercole Bentivoglio, abitante in Poggi castello.
Esso vi venne ma, dimenticato delli avvisi paterni che il gran Cosimo de Medici li aveva dati, avvelenato dalla passione di farsi signore della città, declinò in guisa che fu la sua rovina, imperciochè vedendosi da tutti riverito, si abusò e, proteggendo li cattivi, non si sentivano altro che risse, omicidi e malefici di chi era sotto la di lui ombra.
Li onori ed omaggi sono a guisa dei monti che quanto più alti tanto più sono scoscesi, dirupati e precipitosi. Non potendosi perciò più tollerare dal Legato la condotta di Sante e li abusi che ne derivavano ne diede l’avviso al Papa il quale, condolendosi co’ bolognesi bentivoleschi amorevolmente, non furono curate le paterne ammonizioni, così che il Legato vedendovi poca sua convenienza, col pretesto di fuggire la peste che affligeva la città andò a Spoleti ove era il Papa e restò la città di Bologna alla discrezione di Sante.
Vedutosi ciò da boni cittadini fra quali Alberto e Nicolò Masotti, Giovanni Fantuzzi, Nanne e Francesco Vizani e Romeo Pepoli più di ogni altro, vennero fra di loro ad una secreta e matura conferenza nella quale fu conchiuso di tentare la liberazione della patria dalle mani di Sante. Radunò in appresso Romeo Pepoli in propria casa molti altri gentil uomini e fu conchiuso di cacciare Sante dalla città. Collo stesso pretesto che aveva usato il Legato di fuggire la peste fu rissoluto venire a Castel S. Pietro, luogo fortissimo e per la sua situazione e per la solidità delle Roche, per le guarnigioni e per essere a portata della Romagna, ove ricevere ajuti e per altri motivi.
Tanto più che Fabbrino Montacheti ressiedeva in questo Castello in qualità di Podestà per il primo semestre, uomo fido e di loro amico sincero e che poscia di quivi si procurasse da Carlo da Campobasso vicerè di Napoli, che si trovava in Romagna con grande esercito, dal quale come liberale ne speravano socorso e che finalmente aurebbe avuto da castellani favorevoli il maggiore soccorso per le imposizioni del Bentivoglio da essi mal sofferte.
In seguito di tale apparato a poco a poco, con finzione di fuggire la pestilenza, venero a Castel S. Pietro prima del terminare di giugno. Il Podestà Montacheti, senza punto addimostrare la scienza della tela ordita, prosseguì il suo ministero a capo del quale manifestossi poscia ai coalizati cittadini.
Giovanni Fantuzzi a cui la fortuna offeriva occasione di tentare quel che bramava, avendo trovato in Castel S. Pietro Giovanni di Agostino Purgatore detto il Mosca, capitano della porta di strada Maggiore, trattò seco di avere d. porta aceso se accoresse. Il Mosca ciò convenuto partì co’ suoi figli ed andò a Bologna avendo avvertito di ricevere il Vicario di Napoli, caso occorresse, in città, ma tradito da uno de suoi soldati che ne era di tutto inteso fu preso ed attenagliato tosto co’ suoi compagni, che tutto palesarono.
Il Bentivoglio, inteso che Romeo e Giovanni Fantuzzi col restante de gentilomini volevano sotto detti ed altri pretesti introdurre Carlo da Campobasso Vicerè di Napoli in Bologna e cacciare fuori di Bologna lo stesso Bentivoglio colla sua fazione, si adoperò in guisa che il Senato assoldò Astorre Manfredi di Faenza con 600 cavalli de quali ne introdusse 300 in città. Poscia fece decapitare il Mosca co suoi partitanti, ciò lo ci contesta un contemporaneo scrittore delle cose di Bologna: Romeus de Pepoli cum suis fratribus et Ioannes de Fantutiis cun multis aliis in Castrum S. Petri, pestem fugientes, dominium civitatis mutare conebantur et totaliter Pontifici tradere civitatem. proditione detecta, capitaneus state majiris d. Joannes Purgator sive: Il Mosca, cum quibusdam sociis in platea puniti sunt.
Ciò fatto il Senato proscrisse come ribelli li Pepoli e Fantuzzi sacheggiandole le case e dappoi le furono abbruciate come lasciò scritto Bernardino Corio, il che accadde anco a quella che aveva in Bologna Jacomo Muzza da Castel S. Pietro, detto Jacomazzo, uomo facinoroso d’arme del Duca di Milano il quale si era colegato con essi. Furono pure proclamati per ribelli della patria e decaduti dalla cittadinanza tutti gli altri aderenti a questo partito, così prosseguendo il Borselli: d. Romeus de Pepulis cum fratibus et Joannes de Fantitiis cum multis seguacibus de d. castro eiecti, tamquam rebelles Civitate privati sunt.
Doppo ciò fu mandato a Castel S. Pietro Carlo di Giovanni Malvezzi con bona scorta d’uomini a fare intendere a congiurati, da parte di Sante Bentivoglio e del Senato, che in termine di un ora si dovessero partire lasciando libero il Castello e Roche sotto pena della vita. Si presentò Carlo alla porta del Castello e domandata parola si affacciò Romeo e li altri colegati a quali in simil guisa parlò Carlo: “Se non fosse officio giusto e dovuto ad ogni uomo, che tale si stima, o sia di lasciare il proprio commodo per li amici e per la patria, io non verrei al presente innanzi a voi gentiluomini ad esporvi la commessione datami da miei concittadini, né in questi passati giorni aurei operato con ogni sforzo che la mia patria si ridducesse a vivere in libertà e governata da cittadini. Ma poiché è cosa tanto chiara quanto la luce del sole che il bene della patria deve essere amato sopra ogni cosa umana, perciò mi aurete per iscusato se io, che per parentado con molti di voi sono congiunto e che lungo tempo vi ho favorito, venga ora a fare l’opposto ed a dirvi per parte del Senato e del Bentivoglio che abbandoniate questo loco e lasciato il governo del med. e la signoria a chi di ragione si spetta. Vi deggio fare intendere ancora che si è consultato in quel palazzo dove rissiedono le autorità che dipartiate subito da questa terra.
Non sono mancati di quelli e non pochi, che abbiano confiscato non già che vi dipartiate sicuri da questo loco, ma che sopportiate ancora quella pena che si conviene a chi tiene l’altrui robba e le altrui dignità oppresse. Ma la più parte di quei cittadini, rivoltisi alla clemenza verso di voi, hanno unitamente conchiuso che se vi partirete di qui e consegnerete nelle mani de commissari della città codesto Castello e le fortezze sarete accompagnati fuori sicuramente, porterete seco le vostre robbe e manterete le vostre familie e sostanze illese come per l’avvanti, il che non conviene a cittadini ribelli. Fin qui si estende la commissione della mia ambasciaria. Come amico vostro poi mi offro garante e paratissimo a mettervi la vita per iscudo a tutti li insulti e pericoli che vi potesero accadere purché dal canto vostro non si manchi a nulla. Avvertite alla sicurtà, all’utile che ne aurete se apprenderete questo mio consilio ed al danno che ne patirete se all’opposto. Il mantenere le facoltà paterne e la vita soprattutto dolcissima è cosa degna di onore, è cosa da uomo prudente, ma il perderla con vergogna, come potrebbe accadervi sarà per voi inutile il pentimento di esservi procacciato un male che Dio voglia non vi incontri”.
Se ne risero li cittadini e nobili di un tale ragionamento, ma come che conveniva darle una adeguata risposta, Romeo Pepoli come uomo coraggioso ed eloquente respose in questi e simili termini.: “Converebbe o cittadino Malvezzi certamente al vostro discorso tanto pensato avere più tempo a dirlo contro, oppure di essere di tanto acuto ingegno come voi a chi volesse a minuto confutare le vostre proposizioni, ma io privo dell’uno e dell’altro soccorso in Dio, a nome anco di questi gentiluomini ed amici, che fin qui abbiamo aderito al Governo passato fintanto che è stato maneggiato onestamente ed utilmente al pubblico ed al privato ed a tutti ne è piaciuta le libertà e non la tirannide. Ma qual novo accidente interviene che vogliasi ora sagrificare la patria e tutti al piacere di un solo o retto o indiretto che sia? Si pensa forse colle minaccie troncare li nostri dissegni? Nò certamente. Direte che a sostenerci siam deboli di forze, ma se sono deboli come vi pensate, sono perciò spenti tutti li condottieri di armi? Manca forse il coraggio per sostenere l’impresa a cui ci siamo aggregati? Non credeste giammai che questi miei coleghi ed altri che nosco si uniranno siano per arrendersi alle vostre comminatorie. Siamo bene tutti ammirati del vostro messaggio e di chi ve lo ha imposto col pretendere mediante un vile comando farci abbandonare con disdoro questa nostra Terra e sue fortezze delle quali ne siamo tutti egualmente padroni. Che perché pensando noi tutti di potere stare in Castel S. Pietro, come ogni altro buon cittadino, siamo rissoluti e di animo costante di qui non volere partire se non cacciati a forza e coll’armi impugnate. Noi tutti con questa fida e prode nazione di Castel S. Pietro, stancate dalle Avvanie, dalle gravezze indebite e da tant’altre infinite angustie che l’opprimono, attendiamo il momento di vedere scosso quel giogo che ha oppresso finora e di vedere a tutta prova l’animo coraggioso di chi tanto vi ha commissionato”.
Un tale ardente risposta animò tanto li gentiluomini e li castellani che si erano affollati a sentire l’ambasciata dell’oratore bolognese, che riscosse un plauso universale e divenuto il popolo come furente si animavano li uni colli altri a fare la più valida diffesa possibile.
Fu indi chiusa la porta del Castello e dato il suono alla tromba, fece Romeo spiegare in un baleno la bandiera della Chiesa e collocarlo in ambo le torri delle Roche del Castello, acciò anco di lontano ognuno la potesse vedere. Ritornato il Malvezzi a Bologna riferì il tutto a Sante et al Reggimento, il quale sdegnato dichiarò Castel S. Pietro con Romeo per ribelli.
Giacomazzo ed Ermete Muzza di Castel S. Pietro che avevano bona parentela nel Castello animati dal Pepoli col quale avevano fatto partito, allo spiegare della bandiera gridando: Viva la Chiesa e moja il mal governo, fecero prendere il solenne possesso a quello della Terra ed entrando nelle Roche vi costituì per castellani Giovanni Caretti e Giovanni Dal Verde a quali glie lo consegnò con giuramento e pose boni pressidi.
Indi Romeo scrisse a vari di lui amici che venissero a soccorrerlo con armi e forze. Non perdette tempo ancora a fortificare il Castello per ogni dove, rinovò li palancati ove erano deboli, fece alzare di terra a capi strade che menavano alla Roca grande, ordinò ai lavoratori del comune che ritirassero le robbe loro e familie in Castello. Invitò poscia li Canetoli, Ghiselieri ed altri fuorusciti che erano nella Romagna ad associarsi seco. Scrisse ancora contemporaneamente al Papa di quanto accadeva e che ciò era per liberare la patria dalle mani bentivolesche e da altri che la tiranneggiavano, con animo di riddurla all’obbedienza di S. Chiesa al quale effetto si era già spiegato la bandiera della med. in d. Castello e sue Roche ove tutti ora esistevano con animo di consegnar tutto al Legato venuto che fosse.
Il Bentivoglio che ciò lo dispiaceva col Senato, temendo ancora della città, chiamò in guardia della med. Astorre Manfredi signore di Faenza che venne con molta gente e fu spedito in oste a Castel S. Pietro con Achille Malvezzi comissario con molti fanti e colla bombarda grossa la quale tostamente fu drizzata dalla parte di ponente contro la mura del Castello al disotto della Roca grande. Cominciossi quindi a bombardare il Muro e si fecero assai prove per avere il Castello, ma era in tal modo guarnito e bravamente diffeso da quei di dentro che ogni prova riesciva vana. Finalmente avendo atterrato un bon pezzo di mura, ove ora si estendono li orti dell’eredità Calderini, de Bergami e Toschi fino presso al bastione dell’angolo inferiore, si rissolvettero darli l’assalto.
Romeo colli altri ciò penetrato ricorse a stratagemi. Mandarono fuori alcuni uomini de più esperti del Castello cioè Domenico Toschi, Cosmo Serga, Ermete Mazza e Giovanni Rondoni facendoli credere di essere fuggiti di nascosto e che avessero ancora volontà di trattare accordo co’ bentivoleschi e Senato. Andarono tosto da Carlo Malvezzi per colorare lo stratagemma e chiesero salvacondotto per entrare in città senza però concludere in essa cosa alcuna, come fecero che tale era l’insegnamento di Romeo perché, guerreggiando allora Alfonso Re di Napoli contro li fiorentini, era in Toscana con grosso esercito e Nanne Vizani era ito per le poste a pregarlo che volesse soccorrere li bolognesi fuorusciti che erano in gran periglio se da lui non erano ajutati.
Quel Re che era molto liberale e bramoso di far servigio, udito Nanne e fattale grata accoglienza lo inviò con lettere in Romagna a Carlo Canpobasso suo Vicerè ove era con molti soldati. Al med. giunto Nanne e presentati li dispaci regi, prontamente mandò alquante bandiere col Vizani al Pepoli in diffesa di Castel S. Pietro.
Infrattanto che si facevano queste cose, temendo il Bentivoglio di avversità perché il popolo sollevava, procurò una tregua nel qual tempo il Papa mandò a Bologna Giacomo Vanucci a trattare la pace e nello stesso tempo il Papa si unì col Duca di Urbino che nel settembre venne alla volta di Castel S. Pietro premendole assai questa impresa e di liberare anco Medicina dai ladri e fuorusciti banditi che infestavano quel paese e la si riffugiavano. Spedì indi il Papa a Bologna Francesco Luiverta al Senato facendole sapere che voleva assolutamente la liberazione di Castel S. Pietro e fuorusciti che in quello soggiornavano.
Il Senato che conosceva benissimo quanto di ragione aveva il papa, gradì l’inviato e per contestarle il gradimento, regalò il med. Luiverta inviato di dodici braccia di panno rossato, cioè scarlatto, come rileviamo dal Libro de Partiti Senatori sotto il giorno 10 ottobre cioè: X ottobre 1449 alli regolatori del Gius di Camera. che dai danari della prestanza esatti e da esiggersi da qualunque entrata di Camera Assignari faciatis Francisco Luerte Signifero et Famulo SS. D. N. Pape et pro eius servitite Bonon. misso pro concordia sieu de Castris Madicine et S. Petri comit. Bononie brocchia duodecim panni rossati, vulgar menso scarlatto, que brachia 17 panni rossati ex cortis, justis rationabilibus ausis sibi tradi mandavimus.
Ma la facenda non concludendosi, li fuorusciti scaramucciavano qua e là per divertire l’assedio di Castel S. Pietro fintanto che fosse arrivato novo soccorso. Con questo motivo il Manfredi levò campo da Castel S. Pietro et andato a Medicina ebbe trattato ivi colli medicinesi e fuorusciti che si tenevano quella Terra e furono stipulati li Capitoli nel dì 21 ottobre come ripetiamo dal lib. de part. del Senato 1449 in questi termini: In primis preghemo e domandemo che tutte le persone e robbe le quali si trovassero entro Medexina siano salve e segure cioè: Commissario Podestà ed ogni uomo della Terra sia salvo e seguro l’avere e le persone. Placet damodo Potestas non intret in Castrum S. Petri et Castrum Crevalcori et maxime Jo. Ungarus
Avuta in suo potere Medicina il Manfredi ritornò a Castel S. Pietro con ordine del Senato in assedio, secondo ci viene dettato dalli stessi partiti senatori li 25 ottobre: Quod Castro ponentur antea et adversas Castrum S. Petri Civitatis Bononie rebello et quod omnia sian per quod d. Castrum redducatur ad devotionem Comuni Bononie. Con tale contingenza ancora ordinò il Senato nel dì 27 ottobre che le spingarde le quali erano in Medicina fossero date al Manfredi:
Item mandamus quod schiopetti qui sunt in Castro Medicine concedantur mag. D. Astorgio Manfredi usquequo durabit guerra contra Castrum S. Petri et quod liceat d. magnit. conducere uomine Communitatis Bononie 24 schiopettarios ad stipendia florentin. decum in mense pro qualibet eorum quos ipsis solvere debent d. D. Favent et ea postia restitui debent per hanc Magnifica Comunit. Bononie
Erasi infirmato a Castel S. Pietro Lodovico Lodi nelle presenti circostanze quale, premendo al Senato, fu concesso a Galeotto Regosia celebre dottore e maestro nella medica di poterlo curare quivi abbandonando la città: Item inter eos partitum ad annus sabis albis dederunt licentia Magistro Galeotto de Regosia Medico ut ad Castruo S. Petri se conferre possit ad medicando D. Lodovicum de Laude, cioè Lodi, infirmus non obtabtibus aliquibus in contrarius. Quale fosse il caratere di questo sig. Lodi ce lo tacciono le carte.
Sinchè si operavano dal Manfredi intorno Castel S. Pietro scorrerie, arrivò il Vicerè di Napoli con tutto l’esercito e mandò avanti un tronbetta a Nestorre Manfredi sfidandolo a battaglia per lo che, temendo questi la peggio, si ritirò a S. Lazaro poco distante da Bologna. Il Vicerè arrivato a Castel S. Pietro prevenne con sollecito avviso Lodovico Gonzaga signore di Mantova che prontamente venisse a Castel S. Pietro in soccorso delli assediati e che procurasse sbaragliare le genti di Nestorre. Avuto l’avviso il Gonzaga drizzò il suo viaggio con 3 milla cavalli e due milla fanti che aveva in ordine verso il bolognese.
Militavano nella spedizione delli bolognesi a Castel S. Pietro Achille Malvezzi capitano di cavalleria e Pietro Dall Bambo di Castel S. Pietro con quindici lancie e fanti, essendosi arrolato a questa truppa perché ne era stato cacciato da Castel S. Pietro, ove era castellano da Jacomazzo Mazza onde, essendo tanto il Malvezzi che Dalbambo creditori del Senato, fu per loro rimborso fatta la seguente determinazione della quale il lettore del presente raccolto rileverà la cagione: 8 novembre Item spectabile (….) D. Achillis de Malvitiis per regimen nostrum misso in campo conta astrum S. Petri cum nonnullis equitibus pro expensis sibi et eius comitive l. 47: 10 prout sastum esse consemus 25 9.bre. Si diano al magn. Lenzio de Lanzi e suoi compagni fiorini 42 per prezzo delle sudd. lanze tenute ad uso de pedoni, che armigeri a cavallo alle genti del Comune venduto alla camera e prima per N. 200 lancie ab armigeris equestris destinatis magnif. Astorgio de Manfredis da escomputarsi d. fiorini ne suoi stipendi ed altro, e più per 15 lancie a pedibus datis et traditis Petro Dalbambo per nos mille cum nonullis sociis in campo contra Castrum S. Petri l. 7: 10.
Ritornato dappoi il Manfredi a Castel S. Pietro in assedio, pensò il Vicerè di venire ad un fatto d’arme, per lo che aspettò il Gonzaga per vieppiù assicurarsi della vittoria e di fatti andò a Medicina e quivi giunto si abboccarono assieme e trattarono il modo con che battere il Manfredi e liberare Castel S. Pietro come di fatti sucesse, poiché giunto il Gonzaga alla Ricardina sul Medesano, trovati li soldati del Manfredi che venivano ad incontrarlo, si attaccò una fiera battaglia, dove restò rotto Nestorre ed, in tal guisa inseguito, restò libero Castel S. Pietro e li fuorusciti che vi erano dentro.
Il Senato di Bologna avendo inteso la rotta, cominciò a trattare di proposito col pontefice l’obedienza, quale accettata il Vicerè tornò in Romagna ed il Gonzaga a Mantova.
Li fuorusciti che erano più di mille nobili di queste familie ed il fiore della nobiltà di Bologna furono: Pepoli, Canetoli, Ghiselieri, Fantuzzi, Isolani, Vizani, Rangoni, Lignani, Anticonti, Usberti, Felicini, Albergati, Conte di Panico, Muselli, Mazovillani, Mondini, Olivieri, Bonfigli, Cuzzani, Gombruti, De Campeggii, Boccaferri, Melini, Muzzarelli, Cazzetti, Da Villanova, Ambrosini, Pizzani, Bombaci, Berri, Alberici, Cortellini, Piatesi, Monteceneri, Guastavillani, Vitali, Conti, Leprosetti, Giovanetti ed altri moltissimi.
Terminata questa guerra pensò il Senato a soddisfare chi per essa aveva operato intorno a Castel S. Pietro fra quali ne segnamo alcuni ritrovati segnati nelli Libri Mandati del Senato come siegne.

  1. 9 X.bre si diano allo Spettabile: Solvas Spectabili civi et Colege nostro dilectissimo D. Scipioni de Gozadinis olim Comissar nostro in campo contra Castellum S. Petri cum provixione florenos 30 singula mense floren. 18 ac pro esto eius proviximis sibi debit a tempore quo stebit in campo nomine huius Civitatis.
    Item 1449 11 X.bris Informati per relatione delli otto oficiali della guardia di Bologna che: Lorenzo Broco da Varignana lapicida = tagliapietre è creditore di camera per sua mercede, fatica e fattura in beneficio della nostra Repub. cioè p. 45 opere manuali, sive in palatio nostre ressidentie prestita in fabbricando ballottas a bombardis ad rationem solid 10 pro singula opera in l. 22: 10. Item in alia perte per operis 40 per eum prestitis etiam super enpensis in campo contra Castrum S. petri similiter fabbricando ballottas predictas al rationem solid 12 pro singula opera in l. 24. Si ordina saldartor.
    Stabilita la soggezione a S. Chiesa, il Papa mandò tosto a Bologna l’anno 1450 per Legato Bissarione Niceno cardinale di nazione greca, uomo di grande dottrina e segnalata prudenza con autorità che egli, giusto il suo giudizio, accomodasse le cose tutte di Bologna a bolognesi, come difatti fece.
    Restava solo Castel S. Pietro che si teneva da Romeo Pepoli e collegati in guarnigione per la Chiesa e non lo volevano dimettere al Senato se non erano assicurati di vita e robba, onde il Senato scrisse al Papa che il Legato teneva per se e S. Chiesa Castel S. Pietro onde sembravale cosa indebita a non dimetterlo al Senato di Bologna, per la qual cosa il papa rispose che tanto Castel S. Pietro che Crevalcore si teneva dal suo Legato per ovviare a tanti pericoli che sovrastavano, come rilevasi dal seguente chirografo riportato anco dall’avvocato Vincenzo Succhi ne le sue annotazioni allo Statuto di Bologna, nel Tomo delle lettere apostoliche ed altro:
    Dilectis filiis Antianis et Sexdecim Rifformatoribus Status Civitatis Bononie nostre Nicolaus Papa V Dilecti fili salutem et apostolicam Benedictionem. Cupientes paci ac quieti status vestri ac totius civitatis paterna charitatam providere, scandalique et periculi imminentibus quantum possumus obviare decernimus pro bono et pace d. civitatis Castra S. Petri et Crevalcori comitatus Bononie ad manus nostras pro preventi recioere. Sollecitans vobis per presente ut intelligatis Nos. Capitula inter nos et vos alias conclusa observare velle que etiam per presentes confirmamus dicta castra infra duos aut tres menses si Legato nostro cautionem prestiteritis de non ossendenda quovis modo in persona, vel aere homones d. Castrorum, vobis abere restituere, firma spe fiduciaque. Freti quod d Castra sub vestro regimine humaniter tractabuntur ut felicia suscipiant, incrementa pospositis odiis ac diffensionibus que fortassis hactemus extitissent et in ita nostra intentionis est Dat. Rome S Petrus. sub annulo Piscatoris die 3 marti Pontificatus nostri anno tertio Petrus de Noxeto.
    Indi il Papa spedì un Breve al Legato diretto a Romeo Pepoli e Gio. Fantuzzi col quale avvisava che partissero e lasciassero il Castello in mano del Legato. Questi che aveva un tal Breve nelle mani, usando della sua prudenza, aspettò darle esecuzione al dì 20 marzo mediante un chierico di camera che spedì poi a Romeo Pepoli e Giovanni Fantuzzi quali tenevano la Roca e torre del Castello.
    Questi, letto il tenore del Breve, tosto ne diedero la tenuta al comissario che fu posto in posto e fu Giovanni Andrea Medavia per castellano, questo per tale fu eletto da Nicolò V come abbiamo dal Regest. epistol. Nicolò V anno 3 fol. 303 tertia nonas Marti.
    Fattosi dare le chiavi al Massaro, il di cui nome e cognome lo dessideriamo essendo mancanti delli atti communitativi e tacendoselo la storia, fu tostamente comiatato Romeo Pepoli colli altri fuorusciti sotto gravissime pene e censure. Il Massaro consegnò la torre e Romeo la Roca ed il giorno 6 aprile partirono tutti. Romeo andò a Lugo, il Fantuzzi a Ravenna dove piantò casa, Alberuni fece lo stesso in Cesena e così di altri in diversi luoghi, toltone il Mondini Giuseppe che per essere infermo restò costì col permesso del comissario dando bona sigurtà lo che fu motivo di radicare quivi la familia, del quale ne venne suso Francesca, come piace al P. Vanti nelle notizie della familia, che passò poi al monastero della B. Cattarina Vigri d. da Bologna sotto la quale visse santamente, come abbiamo anco ne nostri Elogi stampati in Imola per Gio. Dal Monte la prima volta ma serviti malamente.
    Li 16 maggio l’accennato chierico consegnò poi Castello e Roca in governo al Senato ove li 21 d. fu spedito per Comissario e Vicario Virgilio Malvezzi come da lapide così cantante.
    Virgilio Malvitio Commissario
    et Vicario C. S. P. MCCCCL
    Questa spedizione di un partitante bentivolesco in commissario disparve molto a castellani onde intendendola male si titubava. Il novo Legato per ciò avvisato di questo scrisse e comandò alla università del Castello sotto gravissime pene di doversi prestare quietamente all’ordinato come da documento nell’Archiv. della legaz. così: Bissarion episcopus Tuscolanus Sacrosancte R. E. Cardinalis Nicenus in civitate Bononie Provincia Romandiole Exarcatuque Ravenne apostolice sedis Legatus ac in spiritualibus et temporalibus V. C. et Gubernator . Dilectis Nobis in X,to Massario Comunis et hominibus Terre Cas. S. P.ri Comitatus Bonon.. Salutem in D.no.
    Cum al Nos relatum preterius Diebus pervenerit quod — Ideo mandamus votis omnibus et singulis quotenos visis presentibus aut latis et legere factis, ne audiatis quovis modo obstare spectabili viro Virgilio de Malvitiis urbis dede in Comissar. seu Vicar. electi, quod faciat et operat ea omnia que sunt sui Muneris seb penis indignationis nostre —- aliique arbitrio insirent et ita n. solum sed et omni. Dat Bon. (….).
    Queste cose ed altre che vennero in seguito posero ancor Crevalcore in briga, onde il Senato mandò ambasciatori al Papa tantopiù che il legato, prevedendo disordini, si riprese il governo di Castel S. Pietro e Crevalcore facendo in essi inalberare novamente l’armi e bandiere della Chiesa non esclusiva di quella del Senato.
    Il Papa dopo avere ordinato a fuorusciti la evacuazione di Castel S. Pietro, ordinò ancora a bolognesi ogni rispetto possibile alle familie di questi che però, avendo ottenuta licenza e salvocondotto di riportare le proprie robbe in città, come riscontriamo da licenza segnata ne’ Libri de mandati del Senato così cantante: Salvacondotto a favore della nobile e generosa sign. Elisabetta dell’esimio Dott. di Leggi Romolo Pepoli consorte con cinque ragazze con un putto suoi figli e parte nipoti, come pure alla figlia Costanza moglie già di Testa Gozadini con nipote del sig. Ludovico Favari, una serva ed una schiava con un familio di potere venire dalla Terra di Castel S. Pietro in Bologna con 4 carra di noviscie. Vaglia per 10 giorni.
    Così essendo nati novi torbidi, differirono fino a questo tempo anco in riguardo alla staggione il restituirsi alla città. Pietro Dalbambo poi di Castel S. Pietro, per li suoi boni servigi prestati al Senato nella rivoluzione scorsa essendo stato dichiarato Contestabile, come rileviamo dal seguente monumento tratto dalli atti di questo Senato, fu rimborsato delle sue provisioni e di quelle di settantacinque uomini che aveva al suo servigio cioè: 20 maggio solvatis Petro de Dal Bambo de Castro S. Petri Contestabili Comunis Bononie cum paghis septagintaquinque peclitum eius persona et una paga mortua in his computatis collo stipendio di l. 5 per ciascuna paga al mexe l. 187: 10 che sono per suo salario di 15 giorni cominciati il primo genaro e finiti li 15 d. mese colle obbligazioni.
    Doppo poi avere il Papa ascoltato di bon animo e con quiete li ambasciatori bolognesi sopra la restituzione di Castel S. Pietro e Crevalcore, passati alquanti giorni, senza punto rivocare l’operato del Legato Bisarione, rispose al Senato che per allora, senza tema di ricorrere in ulteriori scandali, sembrava che al Senato non si dovessero questi castelli ma dovessero piuttosto lasciarsi nelle mani del Legato col porvi però Governatori persone non sospette. Che a tempo opportuno, calmati e raffreddati li bolori, li aurebbe restituiti alla città come membri della med. e così congedò li ambasciatori colla seguente risposta riportata pure dal d. Sacchi: Nicolaus P. V. Dilecti fili, salutem et apostolicam benedictionem. Venerunt nuper apud Nos nobiles Oratores vestri presentiam exhibitores qui sibi commissa p. vos diligenter exposuerunt et cum omni diligentia apud Nos prossecuti sunt. (…) ipsorum petitionibus quantum cum honore nostro potuimus et vestrum fuit expedire paci ac quiete vestra, et que restant agenda curibimus loco et tempor dinplore , quod poteritis merito contentari. Et certe sine devotiones vestre, quod omne dessiderius nostrum est ut civitas illa pace et tranquillitate sonatur et inter vos omnes, qui unius voluntatis esse consuevestis unitas et bona concordia seque quod putamus maximum Status vestri quam nostra reputamus firmamentem. De facto Castrum S. Petri et crevalcori non videtur nobis quod pro nunc rebus se stantibus aliqua alia mutatio, seu novitas fieri possit absque magis scandalis nos procurare omni arte et ingenio quod d. Castra pro nunc in manibus nostris que etiam fieri possa non putamus absque difficultate, in quibus habuerimus ponimus personas vobis non suspectas sed gratas et postmodum rebus omnibus pacificatis, non intendimus d. loca ab illa civitate cuius membra sunt segregare, sed unire cum …pite, ac quietam vestra et status vestri concorrant et ita pollicemus vobis. Sicque hortamus vos hoc moleste non ferabit, sed bono et quiete sitis animo, quia ex parte nostra nihilunqua ommissuti sumuss quod ad officium boni Patris governeat; et si divotiones vestre affectibus nostris respondebunt, complectemus vel omnes in finu charitatis et precipua dilectione prossequemus prout plenius prefati oratores vestri de optimo erga vos voluntate nostra informati referre poterunt quibus velitis tanquam nobis plene credere. ceterum. Dat. Rome apud S. Petrum sub annuko Piscatoris Die 16 X.bris 1450 Pontificatus nostri anno 3° P.
    Li Capitoli poi seguiti fra il cardinale Legato colli Anziani e Refformatori per rogiti delli notari Nicolò Peretti, Bartolomeo Bongianini e Gregorio Paselli conservato nell’Arc. Segreto del Senato nel Tomo unico delle Bolle fol. 7. Si riscontra in questo a proposito di singulare che: In primis promisit et solemnit. convenit prefatus R. D. Card. Legatus dare et libere assignare prefatis MM. DD. XVI Refformat. possessionem et dominium Castrorum, arcium Castri S. Petri, Crevalcori Comitatus Bonon. cum omnibus jurisdictionibus, juribus et pertinentiis suis ad regendo et jubendum per ipsos DD. vel per alios per ipsos deputatos juxta seriam et continentes Capitulorum concordie inter prefetus S. D. N. ac populum bonon.
    In contingenza che le truppe del Manfredi assediavano Castel S. Pietro, devastavano le campagne, ruinavano edifici ed incendiavano ancora le messi, le possidenze delle familie castellane niuna andò esente come non andarono esenti anco quelle de cittadini. Tra queste fuvvi la possidenza del Conte Anteo Nobili che per essere ristorato ricorse al Senato et al Legato, che fu poi con privilegio indennizato, come riscontrimo dal seguente documento tratto dal libro de Partiti Senatori di quest’anno cioè: 1450, 28 agosto. Privilegio e Decreto del Card. Tusculano Legato a favore del Conte Anteo qd. ser Pietro Nobili cittadino di Bologna, a causa che certa sua possessione con casa che l’anno scaduto fu da stipendiari che tenevano campo contro Castel S. Pietro demolitam penibus et conquassatam. Era la possessione di tornature 100 circa, di terra olivata, arborata e vitata nunc vero (…) preteritorus discrimine pro maxima parte salde et bedeste, positi in curia p.ta Castri S. Petri in finibus territor Bonon. at juxta Comitat. Imole , e che serviva per la copiosa di luifamiglia alimentare, ora ciò non potendo fare, cum ex ea ob guerras que in partibus illis potissime vigerant, tunc ob domus p.ter demolitionem. né ricavando da d. stabile che altro stabile d. Conte più non tiene per potere la sua familia alimenatre né modo avendo di poterla fabbricare. Quindi è che esenta tutti li coloni lavoratori di quella possessione da qualunque imposizione della città o territorio da qualunque dazio e gabella per sei anni futuri.
    Su questo esempio riclamando anco li uomini di Castel S. Pietro per li danni patiti molto più per essere stati fedeli a S. Chiesa, ricorsero ancor essi al Legato ed al Senato per essere indennizzati dalle sofferte disgrazie e danni per la passata guerra. Prese il Legato in considerazione non meno la giustizia che la impossibilità dell’erario pubblico a rifondere li danni patiti. Chiamò a consulta li capi del paese e chiese loro il modo con che compiacerli, che tale era l’animo di quel liberale Legato. Conosciuta la proclività del med. li uomini del Comune, invitato un generale Comizio nella piazza pubblica non essendo sufficiente la località della Ressidenza, fu fatto presente al popolo la disposizione del Legato da un canto e la impotenza pecuniaria dall’altro canto nelle presenti contingenze, fu perciò concluso che si addomandasse la conferma generale delle immunità dei dazi e gabelle per li giorni di mercato e di tutto quanto contenevasi nel decreto delli 16 Rifformatori del 1416 , giacchè si vedeva volersi opprimere quell’amplo Privilegio che era l’unico sostentamento del paese. Laonde se ne fece in seguito la petizione al Legato, il quale per assicurarsi di tutto ordinò l’estratto di quel documento dal Campione de Dazi di Bologna per procedere con comune convenienza e concordia.
    Nella ellezione delli Uffici Utili del contado essendo stato estratto in Vicario di Castel S. Pietro per il seguente 1451 Pietro Campanazzi, fu altresì ancora nel dì 12 genaro 1451 eletto in castellano di Castel bolognese con dodici uomini, ma perché egli non poteva optare due pubblici ministeri il Senato così provide con suo partito: 12 genaro Quod Petrus de Campanatiis fit Castellanus Castri Bolognesi cum paghi 12 ad stipendia consueta computatis in his eodem persona pro uno anno proximo futuro, ita tamen quod renuntiat officio Vicario Castri S. Petri ubi extractus fuit.
    Egli si appigliò al partito primo, come da lapide confitta nella pub. ressidenza così cantante:
    Petrus Campanatius
    Vic. Castri S. P.ri 1451
    Andava creditore della Camera di Bologna Pietro Dal Bambo di Castel S. Pietro, contestabile per paghe arretrate dovutele qual castellano della Rochetta di Castel S. Pietro, fece egli perciò le sue premure non volere ripetere dalli castellani il suo stipendio che perciò il Senato nel dì 14 aprile decretò che si pagassero a quello li suoi averi per la custodia di d. Rochetta e dippiù se le aggiungesero l. 28 in gratificazione del bon servigio.
    Inerendo alli ordini del Legato intorno alla petizione fattale dalli uomini di Castel S. Pietro sopra le imunità loro cancellate del 1411 e confirmate nel 1416 dalli Rifformatori, li odierni Diffensori all’Avere fecero fare l’impronto di quel documento e nel dì 20 maggio per essi confirmato fu tosto presentato a Bisarione, quale nel successivo 21 maggio 1451 fu approvato solenemente.
    Eccone la testimonianza a capo del med decreto che noi qui amettiamo avendolo già esposto nell’anno suo 1416 in questo racolto.
    Ego Isandrus Ser Pregrini de S. Venanzo Not. Bonon. Civis Pub. imperiali ac Comuni Bononie Authoritate Not. et nunc alter ex notariis ofici D.D. deffensorus haveris hujus Camera Communis Bononie specialiti deputatus, suprad. Decretum Exemptionis et Immunitatis Homines terre Castri S. Petri ea omnia sustum de verbo ad verbum prout in d. canoplono inveni, fideliter de Commissione et Mandato orandem DD. deffensor. haveris transumptavi et in hanc publica forma redegi, in quorum fidem et rolur etiam cum pubblico et solito meo sigillo suscipsi et sub impressione id. D.D. deffensorum sigillo ad confirmatione muniri sub die 20 mensis maij MCCCCLI Ind. XIV.
    Sucessivamente il med. Legato espose così la sua conferma.
    Bissarion Tusculanus Cardinalis Legatus. Mandamus vobis D.nis Potest. Bononie, Capitanei montaneorum et ceteri omnibus Officialibus, Massariis Comunis Bonon. cujuscumque. Conditionis existant presentibus et futuris qualie suplam decretum et omnia singula in eo contra in omnibus et per omnia effactualie …servetis ac si decretum ipsum a vobis in presenti concessum esset et extat et ab omnibus inviolabilit facientis observare sub pena nostra indignationis, et alia pena nostro arbitrio inserenda. Dat. Rome in palatio nostre ressiderelie, die 21 maj MCCCCLI (…).
    Tale decreto fu poscia per ordine del Legato med. fatto in autentica forma riporre anco nell’Archiv. del Senato. Fu poscia pubblicato ed intimato anco alla Comunità del Vicariato acciò non avesse motivo di novamente insorgere per la loro subordinazione al Vicario di Castel S. Pietro essendo in quello tutto espressamente nominato.
    Erano così audaci divenuti li uomini di Castel S. Pietro per le fazioni passate che non avevano ribrezzo anco per cose da nulla mettere le mani all’armi nella stessa città di Bologna e far nascere rumori, fra li molti esempi che possiamo quivi addurre ne riportiamo uno che ce lo esibiscono li Partiti del Senato.
    E’ da sapere che trovandosi in Bologna Baldassare dalle Rote di Castel S. Pietro, avendo avuto interesse con Giovanni Penazzi macellaro in Bologna sopra certi conteggi ed avendone richiesto li suoi averi Baldassare, si oppose il Penazzi rimproverandolo di essere stati aboliti mediante lacerazione delle carte. Baldassare diede in impeto tale che avendo a fianco la sciabla la evaginò. Nulla temendo il macellaro assistito da suoi coleghi con armi da taglio, si cominciò a farsi far largo e, cresciendo il rumore, nessuno bastava l’animo di fermare l’ira e furore di Badassare. Accorso al rumore il Conte Antonio Pepoli e, dimezando l’attacco, restò egli ferito. Finalmente spartita la baruffa il Conte Antonio si condusse a casa Baldassare, qual fra non molto fu catturato. Ma perché Baldassare fu uno di quelli che albergò in Castel S. Pietro li Pepoli ultimamente nella fazione di Romeo, essendo divenuto bandito Baldassare, si interpose per l’accomodamento della condanna e con la pace si accomodò il tutto facendo apparire al Senato ingiusta la sentenza proferita dal Podestà.
    Eccone il documento estratto dal Lib. de Partiti Senatori: 1451 10 lulio constandoci pe relazione delli spettabili uomini ed esimi Dot. di Leggi sig. Scipione de Gozadini Cavaliere e Conte sig. Gaspare Ringhieri a quali fu concesso di informarsi e rifferire circa Baldassarre di Girolamo dalle Rote da Castel S. Pietro inijusta et iniqua per D. Cecilia de Spoleto hunc potestatem Bononie, che sia liberato da qualunque pena come al d. bando quale era colla condanna delle forche perché d. Baldassarre venuto a rumore con certo Giovanni qd. Bartolomeo de Penazzi beccaro di Bologna ed ivi abitante ad alcune parole per occasione di certo lacerato libro di conteggi, d. Baldassarre, animo irato posuit manam ad coltellinum, quod habebat ad latus et ipsa evaginata incepit a menare contra ipsum Joannem animo ipsum vulnerandi et Antonium qd. D. Guidonis de Pepuli Bononie civis voluit se intromittere et ipso dividere, Antonium pred. vulneravit cum puncta et ferro ipsius coltelle in manu cun sanguinis effusione. Che sia cancellato dal bando, avendo ottenuta la pace da d. Antonio, tam reale che personale, nec non provixionem. Lib. Partit. T. 4 fol. 2.
    Essendo poi venuto a morte D. Pietro Mengoli arciprete locale di Castel S. Pietro più per angustie sofferte da paesani che per morte naturale, divenne questa chiesa vacante ed, essendo discordi nella elezione di un novo paroco li uomini di Castel S. Pietro, li Canonici di S. Pietro, acciò la chiesa non patisse lesione, conferirono nel dì 9 agosto d. chiesa a D. Giovanni da Imola, come ne risulta dalli atti di Giacomo Graffi e da suoi rogiti Protocol. 1451 fol. 57. Protestandosi li Canonici di ciò volere aver fatto per questa sol volta all’effetto non fosse lesa la chiesa, onde nel dì 15 d. prese il solenne possesso e terminarono tutte le differenze.
    Casalecchio de Conti, subordinato a Castel S. Pietro, non volendosi prestare all’obedienza delle disposizioni del Senato questi mandovvi tostamente molti guastatori a ruinarlo. Cominciossi il dì 12 ottobre il guasto nel fervore del quale molti di quelli oppidani volendo fare ressistenza vi lasciarono la vita. Li più prudenti si diedero alla fuga, onde in seguito fu totalmente distrutto, nulla lasciandovi intatto che la porta di levante e la chiesa, le quali fabriche ancor esse in quel conflitto patirono ma furono dappoi ristorate come a suo loco riferiremo. Altre di quelle famiglie si ritirarono in Varignana, altre ne vicini castelli ed in Castel S. Pietro alcuni de Conti, Ferlini, Bondij, Giappi, Baroncini e dalla Costa, come riscontriamo da pubblici Rogiti.
    Li Statuti della Comunità di Castel S. Pietro, fattisi fino dal 1431, non volendosi da alcuni osservare, li uomini della Comunità, per ovviare ai disordini e sotterfugi che si usavano da chi non voleva osservarli, ne chiese la conferma di quelli al Card. Bisarione Legato il quale benignamente annuì, come si legge ne med. la seguente approvazione: Bissarion Episcopus Tusculanus Suivosancte R.E. Cardinalis Nicenus in Civitate Bononie Provincia Romandiole Exarcatusque Ravenne apostolice Sedis Legatus a SS. D.N.D Nicola (…) faventi Papa V in spiritualis et temporalis Vicar.Generalis et Gubernator. Cupientes sunnopere consulere astutiis et cavillationibus que sepe sepius accurrunt at perspicacitatem tantum Hominum in contractibus, aliique qua in evidens damnu et pregiudicium universitatis hominum Castri nostri S. Petri eiusque Comitatu cotingi quotidie dignositur cumque propter multa illicita que auras nostras perculierunt commissa fuerunt, et comitti quotidie intellexerimus super observatione statutorum universitatis pred: Quocirca animas oertentes esse offici offici nostri leges et provixiones que ad recte boneque vivendum sunt confecte manutenere et conservari facevi. Ideo volentis accurrare, fallaciis, dubiisque circa valetudinem statutorum apprime factorum per universitatem Castri pred. que inferuntur et de die in diem meditantur, ea igitur Nos apostolica, qua fungimur, auctoritate. Tenore presentium tratuimus, decernimus, refformamus et approbamus et pro approbatis et confirmatis haberi volumus statuta et provisionis in c.tas universitatis nostre Castri S. Petri tenoris sequentis videlicet: A laude e Gloria.
    A capo di questi Statuti si legge la spedizione ed ordine diretto alli Podestà, Vicari ed autorità locali di quelli osservare e fare inviolabilmente osservare, signato sotto il dì 4 decembre 1451.
    Entrato l’anno 1452 di nostra salute, entrò anco Vicario di Castel S. Pietro Tomaso Agochi. Il primo pensiero che egli si mise fu di fare costruire un novo molino da granelli ed in luogo più sicuro e comodo dell’altro il quale nelli assedi ultimi era stato distrutto dalle truppe di Nestorre Manfredi. Fu adunque protratto il condotto dell’aqua adesivamente alla riva fronteggiante il Borgo fino alla via consolare ove esiste tuttora l’edificio a questo uso. La spesa non si fece coll’erario comunitativo perché esausto ma con prestiti delli uomini componenti la pubblica rappresentanza, tanto ci lasciò scritto il P. Vanti che riferisce nelle sue carte avere ciò letto nelli ricordi di Isonio Buldrini nazionale abitante nel Borgo di Castel S. Pietro, d’onde poi prese anco il nome la vicina adiacenza denominata la Boldrini.
    Egli è certo che una familia Boldrini esisteva in questo Borgo che durò lungamente a stanziarvi e solo la troviamo perduta fra il 1600 all’epoca del 1700 nei libri battesimali e necrologi di questa arcipretale, come anco in pubblici rogiti che ci sono dati alle mani.
    La fonte della Fegatella pure che era stata devastata e resa inservibile fu ripurgata e rimesso il pozzo della med..
    Godendosi la pace ed avendo ottenuta la Comunità la conferma de suoi privilegi dal card. Legato Bissarione, cominciarono a farsi nel Borgo novamente più floridi li mercati di ogni sorta merci, le più abbondanti però erano il gualdo, li grani e li bestiami. Li gualdi erano il maggior provento di questo territorio nel quale erano molti piccoli molini e serbatoi qua e là sparsi, d’onde ne viene che si vedono molte moli in questo contorno nelle case rustiche ed anco in Castello.
    Era Castellano della Roca grande di Castel S. Pietro Antonio Ingrati, il quale andando creditore delle sue provisioni non avendola potuta avere dal sindico comunitativo ricorse al Senato che nel dì 29 marzo ne segnò il seguente mandato, che dal Lib. Mandat. Senat: abbiamo estratto cioè: Che ad Antonio Ingrati Castellano della Roca di Castel S. Pietro per tutto il periodo 29 marzo 1452 venghi pagato e venghi scritto nella condotta de stipendiali e che di mese in mese le siano pagate le sue bolette.
    Il novello arciprete D. Giovanni da Imola riconoscendo il poco gradimento di sua elezione fattasi dal Capitolo senza che la Comunità vi avesse avuto mano, temendo perciò delle durezze che vedeva in alcuni paesani che lo avevano seguito, cominciò quindi con altro mezo proccaciarsi l’amore de populari. Si appigliò al partito di guadagnarla colla liberalità. Non affacciavasi alla sua casa povero che non ne partisse scontento. Le di lui maniere che con tutti usava erano una attrattiva per farseli amorevoli. La dispensa di elemosine erano un seminato per avere copiosa la messe, dicendo di più per fargliela gustare, che ad un ricco paroco più si conveniva ad essere povero, che giammai lasciare che li bisognosi partissero dalla di lui casa senza soccorso. In cotal guisa portandosi, in breve divenne l’ogetto più amato del paese. Fece egli perciò che la Comunità si mosse a circondare il Cemetero di un muro, rissarcirne la canonica che aveva patito colla chiesa nella passata rivolta.
    Si cominciarono frattanto a sentire movimenti di armi del Turco contro la Cristianità onde perciò egli sollecito indusse il suo gregge a penitenze.
    Passando poi al governo temporale riscontriamo che, essendo il nostro Castello ruinato nelle mura, che in parte oltre essere state squassate erano anco in altra parte aperte per le breccie fattavi nelli ultimi assedi e battimento onde il Senato cominciò quindi a farle rimettere ove abbisignavano di ristoro ed a reidificare le demolite, il tutto a spese del vicariato.
    Altro il Senato non vi appose che la spedizione delli ingegneri ed il ristoro della Roca, furono questi Aristotile Fioravanti con altri che ci tacciano le memorie di questi tempi. Alla mura dalla parte di levante ridotta a tre facciate vi aggiunse in tre angoli bellissimi torrioni de quali uno solamente ne esiste ed è quello che fa angolo nella parte inferiore del Castello a mattina che ora serve da ovile. Da lavori interni può ognuno riconoscere la maestria di questo uomo che per la sua ecellenza fu dappoi chiamato in Ungheria dove fabbricò sopra il Danubio bellissimo ponte.
    Li altri due torrioni, ma di minor mole, furono costrutti uno presso il portone ora da noi detto di S. Francesco e l’altro più superiormente nell’angolo dell’orto Locatelli del quale non si riscontra altro nella eminenza di quella mura rifatta da Locatelli che un rimasuglio di un cordone, conforme alli altri cordoni del citato torrione angulare, e per la sua estensione si riscontra la sua circonferenza nel suolo esterno ove l’erba giamai o poco ripullula. Fu questo torazzo totalmente demolito nel mille e seicento dopo X.to nato come a suo loco diremo e fino a giorni nostri si sono veduti nella riva della fossa pubblica grandi massici di quella ruina. Durò la fabbrica a perfezionarsi fino alla fine del 1454,che vedutala completa l’ingegnere partì nel 1445 alla volta dell’Ungaria.
    Ricorendo la festa di S. Bartolomeo apostolo si prevalsero di questa contingenza li nostri agostiniani di Castel S. Pietro per fare un devoto triduo al S. Apostolo titolare della loro chiesa per implorare la divina Misericordia per li grandi progressi che faceva l’ottomano contro la Cristianità verso Costantinopoli. Era quivi priore del convento Giacobello Ghirardaccio che, bene inteso di lettere non che della pietà, fece per tre giorni, con sermoni eloquenti e discipline edificanti, orazioni come abbiamo riscontrato dalle carte dell’archivio locale.
    Giacomo di Ugolino Del Bello per li di lui servigi ottimamente prestati al governo di Bologna ed ora alla S. Chiesa della quale ne era conduttiere di 55 pedoni e col titolo di Contestabile, avendo ottenuto una esenzione dei dazi di Bologna e cominciandosi questa a volersi opprimere, ricorse al Senato per la conferma. Conosciutasi la giustizia fu così decretato dal Senato: 1452 14 X.bris. Cum per decretum quoddem exemptionis comessa Jacobo Ugolini e Bello ne eius familie abitat in terra astri S. Petri et ad presens Contestabile peditum 55 D.ni N. Pape conceditur exempio a gabellis, volentis iddem decretum pred. Jacobo Observare.
    Ordine ai dazieri delle moline e del vino della città e territorio del 1453: Jacobum cum eius uxore vel filiis aut quoncumque è familia eiusque ascendentes ad personas octo ocaxione gabellie aut alicuius solutionis daliacum ratione dd. datiorum, nulla temus copatis aut molestetis non obstantibus. Lib. Mart. T. 1 Carrati fol 152.
    Avendo poi compito il suo ministero di Vicario di Castel S. Pietro Tomaso Apochi, né potendo avere il suo salario dalli uomini della Terra di Castel S. Pietro ricorse al Senato il quale tostamente estradò il seguente ordine: 1452 15 X.bre,. Ordine che si paghi a Tomaso Agochi cittadino di Bologna e Vicario scaduto della Terra di Castel S. Pietro con salario di l. 12 il mese, cioè del salario che pagano li uomini di d. Terra l. 24 per salario dei mesi di maggio e giugno scorso.
    Non ritrovando poi chi fosse Vicario per il secondo semestre passeremo all’anno 1453 in cui fu per il primo semestre eletto Vicario di Castel S. Pietro Carlo di Gaspare Bargellini.
    Erano rimasti debitori li uomini di Castel S. Pietro verso la Camera di Bologna di bona somma per la tassa de vaccini e terreni della quale ne furono assegnate l. 820 a Cristoforo Ariosti e, non essendo questo stato pagato, fu frattanto passata la notizia al Senato dell’estremo bisogno di riparare la Roca picola di Castel S. Pietro necessitosa di ristoro che però fu decretato dal Senato che di d. somma di l. 820 se ne spendessero l. 300 nella riparazione di d. Roca conforme avessero divisato li rispettabili cavalieri e senatori Sante Bentivoglio e Virgilio Malvezzi a questo effetto deputati come dal seguente decreto risulta cioè:
  2. 20 febraro, constando che li uomini e Comune della terra di Castel S. Pietro gli fosse asignato a dovere pafare a X.toforo qd. Rinaldo Ariosti l. 820 sopra le tasse di d. Comune e vacini e cioè per resto di maggior somma a d. X.toforo dovuta dalla camera di Bologna et cum intelligemus valde necessarium esse providere reparationi et fortificationi Rochete d. Terre castri S. Petri decretimus ut l. 300 ex d. l. 820 in quibus d, comune et homines sunt debitores d. X.tofori per ipsos Comune et homines expendantur et expendi debeant in reaptatione et fortificatione d. Rochete prout spectabilibus viris D. Sancte de Benivoglis et Virgilio de Malvitiis videbitur, quos in officiales nostros super de rogaratione deputavimus, non obstantibus.
    Essendo poi stato dannegiato al sommo Melchione Azoguidi cittadino di Bologna dalle genti di Nicolò Picinino nelli anni andati, come pure li uomini di Castel S. Pietro da quali ne aveva estorto e con soverchiarie fattisi pagare dodicimila ducati d’oro, ricorse l’Azoguidi al Senato per la indenizazione di un di lui fondo detto il Dozzo pel quale ne obtene un decreto di imunità dalle colette ed, essendo questo decreto poco osservato, fece instanza onde fosse confirmato. Onde il Senato nel corente febraro fece la seguente disposizione, che per essere estensiva in quanto al fatto acaduto a Castel S. Pietro qui la apponiamo come canta cioè:
    1453 febratio. Dilecto nobis in X.to Melchioni de Azoguidis Civitatis et Notar. Bononie , Salutem in D.no. Moretur tue devotionis affectus quem ad Statum SS. D. P.P. et prefate eclesie atque Nostrum parere comprolasti ut in damnis tibi benigniter saucurramus ut in suo huiusmodi favore devotionis accensus in eo ferventius insistas et fortius animeris, exibita quidem suplicatio series continebat quod cum Nicolaus Picininus gentium armotum capitaneus hostiliter devicit et subjugavit Castrum et homines Castri S: Petri Comitatus Bononie et eos et eorum bona in preda habuit, pro qua et corum ac suorum bonas, redemptione ab eis entorsit ducatos duedecim mille auri vel circa. Tibi per gentes armigeras presati Capitanei ex causa predicti., demolita fuit una domus cupata et taxellata et cum medale quam et quod habetas super quodam predio quam in Guardia, seu pertinentiis d. castri possidebas et possides in loco d. el Dozzo et quod nunc d. predium incultum et desertum remanetet et sibi inutile redderetur et d. domum et medale non fine sua jactara, gravissimo incomoditate ex expensa reidificare fecisti et postea de anno 1449 tempore quo regimen presenti status exercitum hostiliter immiserunt contra d. castrum et homines eiusdem hunc devisos ab hobedientia et subjectione regiminum per gentes armigeras d. exercitus et pro eorum necessitatibus et maxime pro reparationibus et fortificationibus bombardarum cum quibus d. castro debellarum, d. medale parte danno constructum, iterum destruxerunt et legnamina et cuppos exportaverunt in gravissimum eius damnum e perciò d Predio rimase sterile ed inutile per d. nova atterrazione per il di cui danno a sua familia anche propter gravem impositionem taxarum seu impositionem noviter impositam in Comitato bononie4 et propter onus et expensarum datii molendinorum de recessa colonorum seu laboratorum d. predi et si recederunt non posse sine magna difficultade alios reperire colonos. Nos itoque huis meritis et suplicationibus inclinati. Rendemo esenti li soci de d. predio si presenti che futuri dal d. pagamento del Dazio Moline della città e contado di qualunque imposizione e tassa per occasione de pagamenti e ciò per 10 anni da incominciarsi alle Kal. di genaro 1454. Fol. 176 e 177 Mandat.
    Nella primavera seguente poi si cominciò a porre mano alla fabbrica della Rochetta e fu ridotta a quel termine ed aspetto che ora si vede appresso la torre del castello.
    Ridotto in quiete lo stato di Bologna non che tutta l’Italia poco si potette gustare, imperciocchè Maometto ottomano filio di Amoratto Imperatore de Turchi avendo preso doppo l’assedio di pochi giorni Constantinopoli ove, essendo Costantino Paleologo Imperatore, fece orrendo macello de med. e di tutta la nobiltà crudele spettacolo, per il che venuta tale notizia essere ciò seguito li 29 maggio e che quel crudelissimo turco minacciava il resto della cristianità, si mise questa in grande spavento per il che afflitto il Papa diede in malattia, che rapezzossi ma per poco tempo.
    Carlo di Gaspare Bolgattini giunto ommai al termine del suo vicariato di Castel S. Pietro e chiamato alla città per altri suoi affari, partì al primo di giugno ed essendo in città non ostante avesse completo il suo ministero, ordinò il Senato che nel dì 4 giugno che se le pagasse il suo salario di l. 12 mensili cioè l. 72 che doveva avere dalla Camera.
    Successe ad esso in comissario di Castel S. Pietro Ercole Malvezzi. Perché li uomini di Liano sopportavano di malavoglia la sogezione al Vicario di Castel S. Pietro, cercavano ancora tenerlo perturbato nella giurisdizione per lo che ne accadevano rumori, risse e baruffe in guisa che fu necessario ricorrere al Senato per una providenza.
    Fra le altre cose che pretendevano ella era quella di estendersi sopra il territorio di Castel S. Pietro nella parte superiore ed oltrepassare la via della Torre de Cattani ora Moscatelli per la qual cosa fu ricorso al Senato, quale prevedendo che protraendosi la questione nel tribunale il contenzioso ne sariano derivate ancora criminalità oltre il dispendio vicendevole, onde fu conpromessa la questione in Carlo di Gio. Malvezzi ed in Virgilio di Gaspare Malvezzi li quali, ponderate le respettive ragioni, pronunciarono il loro laudo che si dovesse stare nella provisione e dessignazione fatta per li agrimensori pubblici li 29 aprile 1300 così descritta: Curia terre Liliani, dessignata, terminata, data et pronintiata fuit esse incto modo et forma videlicet. Quod omnes possesiones que sunt in via Roncopoli supra usque ad revum Gaibe juxta nemus de Oriis a latere superiori versus Liglianum confinando d. Curia Ligliani cum Curia dessignata, data et terminata commune terre Burgi Novi, ut supra continetur in dessignatione Curie Terre Burgi Novi et a Via Roncopoli supra eundo per d. Viam de Collian usque ad possessiones Facioli de Cabancis, ubi est quedam Colombaria que fuit Monasteri S. Pauli de Imola et a d. possesione supra ab omni parte d. Vie de Collina eundo inferius juxta d. possessionem versus flumen Silaris capiendo nemus de Butrighellis et eundo inferius usque ad Viam de Viaro juxta Domum Schissati ex opposito d. Via. Onde poi in seguito li lianesi si aquietarono per lungo tempo.
    Essendo stato necessario alla Camera di Bologna prendere in prestito l. 6290 per pagare li stipendiati e per riparazione delle Roche di Castel S. Pietro l. 400, decretossi nel dì 16 ottobre dal Senato di pagarle subito nell’aprile 1454 a chi ne aveva fatto il prestito, che fra li altri furono li Bargellini, Felicini, Lugari, Ingrati ed Orsi, come risulta dalli Lib. Mandat. del Senato fol 214 ed 215 Estrat. Carati, e senza più terminossi l’anno al quale succedette il 1454.
    Il Senato poiché avessero maggiore forza la statutarie disposizioni municipali ricorse al Legato apostolico Bisarione il quale prontamente aderì alla richiesta approvazione fattale dalli Anziani fra quali eravi Nicola del fu Antonio da Castel S. Pietro.
    Eletto Podestà di Castel S. Pietro per l’anno presente, conoscendo il bisogno che aveva di riparazioni la Roca grande, Alessandro Sassoni la fece riparare e fu tostamente pagato. Il libro primo de mandati del caval. Carati, che ci somministra questa notizia al fol 222 non ci indica la spesa e molto meno la natura della riparazione.
    Fra li pedoni stipendiati e presi al soldo dal Senato troviamo Battista Soldini da Castel S. Pietro al quale, per ordine del regimento, fu scritto nel dì 15 febraro che le paghe in avvenire ad esso e sua comitiva si volevano da oggi in avvenire avere incominciamento.
    Concluso poi il matrimonio tra Sante Bentivoglio e Ginevra filia naturale di Alessandro Sforza, di età d’anni 12, da Cotignola fratello del Duca Francesco signore di Pesaro, essendosi determinato di condurla a Bologna nel mese di maggio come fece, furono perciò fatti grandi preparativi nella città a quali vi concorsero tutti li comuni del contado con offerte, come si legge nella Storia del Ghirardaccio inedita, per contestarle il loro omaggio.
    Quindi nel dì 9 maggio fu incontrata a Castel S. Pietro da molti nobili e gentil donne dove ebbe li primi onori di Bologna. Regalò la Comunità di Castel S. Pietro a Sante una vassella di isquisito vino di questi nostri vigneti sopra il quartiere del Dozzo, della cui qualità se ne parlò fino al principio di questo nostro Raccolto.
    Sentendo Nicolò V continuamente le crudeltà che si emettevano da Mehemet tiranno turco in Costantinopoli e nelle altre città di questo impero in ogni età e che, col più impuro delle sporchezze maomettane, contaminava li S. Tempi ed inoltravasi ancora nelli altri stati catolici, non potette nascondere il suo ramarico. Inquieto d’animo, spossato di forze, sorpreso dalla domestica sua infirmità di podagna e da esso poco stimata, si rese in tal modo a sè nojoso che, sopragiuntole una forte febre, durò poco a sopravivere.
    Il Legato, che si attendeva ad ogni momento la nova della morte, cercò di provedere li uffici del contado di buoni ministri e fidi a S. Chiesa perciò elesse e deputò Boezio Gozadini li 25 giugno per Vicario di Castel S. Pietro. Corrispose il med. alla elezione non solo ma anco si fece distinguere a castellani nelle sue protezioni imperciocchè andavano debitori per fino dall’anno 1450 al Dazio Molino di l. 150 onde egli maneggiossi tanto presso il Senato che venne condonato il debito, come riscontriamo dal Lib 1 Mandat. fol. 95 in questi temini: 1454 2 X.bre. Ordine a Giacomo Montechi, conduttore del Dazio Moline del presente anno che sia rimessa e donata alli uomini di Castel S. Pietro e Comune l. 150 per il Dazio Moline dovuto per il loro macinato del 1450, fol. 95.
    Così beneficato Castel S. Pietro ne segnò ampla la memoria.
    Prosseguendo la malattia santa l’anno 1455 al Papa Nicola, finalmente dovette soccombere nel dì 24 marzo vacò la S. Sede quindici giorni e li 8 aprile in martedì alle ore 16 fu eletto Papa Alfonso Borgia valentissimo di nazione spagnola col nome di Calisto III d’anni 80. Appena creato Papa dichiarò Legato di Bologna Gio. Lodovico Milani vescovo di Valenza, uomo di commendata vita, di lui nipote che nel di 29 giugno venne a Bologna.
    In questo mese circa la metà si levò un vento greco ostro che portò freddo tale che nevicò di modo che ognuno si vestì colli abiti da verno e stava accanto il foco. La neve fece grandissimo danno come riferisce Federico Guidotti nella sia Cron. M.M., che le raccolte andarono a male e quasi tutte le viti si schiantarono, li arbori e li castagni andarono tutti a monte.
    Li avvanzamenti del turco sempre più cresceva. La fortuna stessa sembrava che non sapesse secondare le sue vittorie. Calisto novo pontefice conoscendo il Castigo di Dio, per riscuotere il danno che ne sentiva la Chiesa, bandì e pubblicò una crociata contro gli infedeli. Fu pubblicata in Bologna in S. Petronio da certo F. Paolo romano agostiniano, con tanta facondia che infiniti furono li cittadini che volontariamente si offersero al soccorso. In Castel S. Pietro di primo balzo fu commissionata la pubblicazione al paroco, il quale conosciuta in se la insufficienza di perorare per un tanto bene invitò il F. Giacobello Ghirardacio a predicarla.
    Li terremoti che col loro spavento ammolivano li cuori più duri non che ad una pace fra paesani e paesani ed a pensare in talluni l’andata alla guerra. Racconta il P. Vanti che un Antonio Fabbri con dodici uomini di Castello a proprie spese andarono in campo. Dietro a questi presero il soldo molti altri sotto capitani imolesi e bolognesi volontari che si andarono poi a Mantova ove facevasi l’ammasso dell’esercito a farsi ascrivere.
    Chi fossero li Vicari di Castel S. Pietro non ci è bastato l’animo di iscoprirli ne meno ne Libri de Mandati e Partiti del Senato. Troviamo bensì tra questi che nell’anno presente al dì 7 settembre fu eletto Aldrovandino Malvezzi castellano della Roca picola per compiacere Lodovico Cazzalupi. Eccone il monumento tratto dall’autentico de Partiti: 4 settembre. Ad complacentiam D.ni Ludovici Cazzalupi per omnes albas fabus elegerunt et deputaverunt il Castellanum Rochette Cast, S. P.ri Aldrobandinum de Malvitiis cum paghis et stipendiis consuetis pro tempore di un anno intero da incominciarsi il dì primo genaro prossimo.
    Scarseggiava talmente la città di grani che temendosi di nascondili ed incettamento da quelli di Castel S. Pietro, il Senato venne in sentimento di mandare visitatori a Castel S. Pietro, perciò nel dì 15, come abbiamo dal d. Libro de Partiti, vennero eletti Nicolò da Castel S. Pietro, Lodovico Boccaferro, Gio. Gabrielli e Voradino Bonetti con facoltà di vedere e ricercare li formenti ed altri esistenti in Castel S. Pietro soggetti alla introduzione per tutto il mese prossimo onde trasferirlo in città. Fu seguito poi dall’elezione fatta dal Senato per castellano di Aldrovandino Malvezzi. Il med. prontamente venne alle calende di gennaro 1456 a prenderne il possesso della Rochetta.
    Nemeno in questo anno sapiamo chi fossero li Vicari governatori di Castel S. Pietro. La visita fatta delli sud. deputati per iscoprire li grani non tradotti in città, partorì bisbiglio nella populazione e timore di fame, si presero perciò le opportune providenze, le quali qui si omettono non interessando Castel S. Pietro, in particolare essendosi quietata la cosa in città, vi tenero anco dietro alle med. quelle del contado.
    Imperciocchè li principali cittadini spronati dalla divozione ed impavoriti dal castigo superno che li spaventava con una stella cometa di straordinaria grandezza la quale con larghe striscie illuminando il mondo pronosticava un funesto evento, riccorrendo a Dio con orazioni e sovenzioni alla povertà e luoghi pij, molti ancora passarono al chiostro, alla penitenza.
    Cosiché preparato un sacro ritiro a suor Cattarina Vigri, come fu poi santa, quasi orto ben chiuso alle spose del Signore, si diede il concorso a molte devote fanciulle e vergini, onde collà dentro menar santamente la vita in penitenza. Fra queste fuvi Francesca Mondini di Castel S. Pietro figlia di quel Giuseppe Mondini che anni sono fu altro delli emigrati e seguaci di Romeo Pepoli, non potendo per malattia sloggiare da Castel S. Pietro radicò in esso il suo casato che fino al 1793 si è costì sempre mantenuto, come rilevasi anco dalli atti comunitativi, onorevolmente.
    Questa tenera vergine innamoratasi delle virtù di Suor Cattarina, che tanto sentivasi comendare, si determinò passare al concorso delle altre che aspiravano a quel Sacro Ritiro e ne ebbe la accettazione e fra mesi ne passò al monastero, ove visse santamente come più diffusamente ne abbiamo scritto nelli nostri Elogi alli uomini e donne di S. Vita stampati in Imola per lo stampatore camerale Giovanni Dal Monte l’anno 1801 a quale dirigiamo il lettore e chi altro dessidera maggiore contezza su questo articolo.
    Allo spaventevole pronostico della stella cometa si aggiunsero li terribili teremoti onde sembrava crolasse il mondo, le malattie pestilenziali, la penuria de viveri e le aggressioni del turco ne accrescevano il cordoglio e li lamenti de cristiani. Quali penetrando l’intimo di Calisto 3°, ricorse egli alla gran Madre di Misericordia M. V. SS.ma ed ordinò per Breve apostolico che in tutto il Xstianesimo alle ore del mezo giorno, avvisato il popolo col suono delle campane, si recitasse l’Angelica Salutazione.
    Non bastò questo che fra non molto ancora ordinò e comandò che ogni prima domenica mensile si facesse in ogni parrochiale la processione dell’augustissimo SS.to. Tutte queste cose ammolirono li cuori più duri delli uomini. Cominciossi per tanto a Castel S. Pietro il suono della Angelica Salutazione nel dì 15 agosto in sabato, giorno dedicato al titolare di questa arcipretale di Castel S. Pietro. Quanto poi alla processione del SS.mo fu differita all’anno venturo.
    Vertevano differenze e questioni fra il vescovo d’Imola ed il Senato di Bologna sopra questo nostro torente Silaro onde ne erano nati assordi ed anco baruffe fra li uomino del bolognese e quelli dell’imolese verso il Sesto, onde per evitare maggiori sconcerti nel dì 8 ottobre scrissero li Anziani al vescovo d’Imola, che mandasse li suoi commissari a Castel S. Pietro per trattare l’affare. Non corispose il vescovo alla pronta inchiesta, onde venuti a Castel S. Pietro li deputati bolognesi restarono delusi e partendo senza alcuna decisione fu differita la discussione dell’affare ad altra giornata da fissarsi.
    La esecuzione poi del decreto pontificio intorno alla processione del SS.mo abbiamo dalle Mem. della Compagnia che fu in appresso instituita, che la prima processione seguì il giorno 3 genaro 1457
    alla quale per farla maggiormente decorosa vi intevennero ancora li frati agostiniani del paese e tutto il Corpo della Comunità laicale il di cui capo pro tempore fu in avvenire poi chiamato Priore. Vi intervennero ancora la Compagnia di S. Cattarina che per essere distinta dalla corporazione comunitativa, cominciò in questo tempo ad usare la sua insegna colla Santa sua tutelare. Tutto ciò ci riferiscono le carte e le tradizioni della Compagnia del SS.mo nell’archivio parochiale, comunicateci dall’arciprete dott. Gianbattista Bertuzzi di eterna memoria.
    Prosseguendo la pestilenza a travagliare la città e contrade morirono molti sogetti di vaglia. Scrive l’Alidosio al T. III pa. 2 che Battista da Castel S. Pietro e Gaspare Ringhiera, ambi dottori di grande ingegno e di molto utile alla Repubblica essendo del numero delli XVI Rifformatori della città, convenne loro soccombere in questo comune conflitto. F. Girolamo Borselli nella sua Cron. MM. SS. ce lo contesta in questi termini: D Baptista di Castro S. Petri Doctor Legum magnus et il d. Gaspar de Arengheria Doct. et Miles de XVI Regentibus civitatem peste mortui, sepulti sunt in S. Domenico.
    In queste lagrimevoli circostanze il sommo pontefice non mancava di ajuti spirituali, dispensava però a chi ne chiedeva amplissime indulgenze. Ne ritrovammo una diretta a questi P.P. Eremitani di Castel S. Pietro diretta a frate Adeodato priore nell’archivio de med., in cui concede indulgenza plenaria di anni 100 alli visitatori della chiesa di S. Bartolomeo colla recita di 5 Pater ed Ave all’Augustissimo SS. e un Deprofundis in requie di quelli che auranno soconbito di peste.
    Quella vita che questo sommo Pontefice, al riferire di un eloquente scrittore, che nel suo pontificato se gli era dichiarata ogni momento travagliosa, nell’ultimo di sua vechiezza, con nove provisioni contro il Turco ed altre profittevoli alla Chiesa, pensava ringiovinire nel più debole delle sue forze, restò dalla morte ingannato.
    Cadette il fato li 6 agosto 1458 compianto da tutti. Scrive Alberto Carradori che nel dì 23 agosto venne un terribilissimo temporale e furioso di venti impetuoso, nel che concordano le Memorie Vanti, che cadendo molte case nei luoghi esposti pericolarono anco persone. Aggiunge dippiù che una familia de Zanoli a Castel d’Alboro nella Ghisiola restò sotto le ruine ed appreso il foco restò totalmente incenerita. Li focolari delle case nelle nostre colline tutti ruinarono e così anco nel Castello alquanti merli ne torrazzi.
    Li 29 agosto poi fu assunto al pontificato Enea Picolomini di Siena col nome di Pio II che a tal grado lo trasportò la sua virtude. Riferisce l’Alidosio, T. I fol 58. ne suoi Dottori, che in questo tempo si distingueva nel pubblico Liceo di Bologna Francesco di Bartolomeo Facci da Castel S. Pietro poiché leggeva pubblicamente in Logica poi in Filosofia morale li giorni festivi. Io credo che il cognome di questo chiaro filosofo sia errato, mentre questa famiglia di Facci in niuna epoca del nostro Castello, per quante carte abbiamo rivolte, non ci è capitato sotto l’occhio. Crediamo siasi che dovesse dire Fucci e non Facci e la lettera u sia stata cambiata dall’impressore in quella della a che nulla avvi di più facile. Il casato Fucci lo troviamo memorato in questi tempi ed anco prima dell’occorente anno. Che però sia non ciò di sostanza ed a noi basta che questo soggetto sia nel ruolo delli uomini illustri di Castel S. Pietro. Duro questo Lettore nel suo impiego fino al 1461 come riferisce lo stesso scrittore.
    Aveva nel comune di Castel S. Pietro Antonio di Lojano terreni fronteggianti il condotto della Gajana e, trovatosi il comodo di edificarvi un molino da grane, chiese colla partecipazione della Comunità di Castel S. Pietro il permesso al Legato ed al Senato onde edificarvi tale molino per utile di quel contorno. Il Senato atteso il consenso della Comunità e del Legato ne segnò nel dì 28 giugno 1458 la grazia come riscontrasi dal T. V Partito. Car. fol 13.
    Dallo stesso Tomo V, fol. 218, riscontriamo come, avendo la Relligione de Crociferi una casuccia nel Borgo di Castel S. Pietro ove si albergavano li viandanti, aveva di molto patito nelle guerre passate che però ne addomandava un qualche sollievo al Senato ed al Legato, li quali riconosciuta l’indigenza furono compiacenti alla domanda che fu del seguente tenore: 1458 (..) X.bre Angelus Episcopus Reatinus Bononie Gubernator.— Venerabili in X.to Patri D. Antonio de Recanate magistro Generali Ordinis Cruci feros et Priori Monasteri S. Maria de Morelo d. ordinis prope Bononiam salutem in eo qui est vera salus vostris supplicam Vobis libenter annuimus, illis pre sertima qui pro comodo peregrinantius et utilitate eclesiasti corum providetur etiam sine incomodo Camere Bononie petictione …que sua Nobis exposuit nuper quod suum hujus modo Monasterius S. Maria de Morello abet apud Castellum S. Petri Comitatus Bononie quandam domus positas in suburbiis d. Castri juxta Bona Petri Furlani, vias publicas a tribus lateribus et aliis in qua Domus confectuam est Hospitalitatis et tabernam teneri et observari, verum quia riunosa erat, necesse fuit gravem inprensam facere ut fructes aliquem Monasterium posset habere. Atque domus difficulter locari possit propter pubblicanorum evitantiam, multo magis quod conditio domus erigatur cum damno taxata. Ideo suplict.—– tassare per il Dazio Vino e sgramignato in perpetuo l. 2.
    Fu fatto per ciò il decreto favorevole a norma della domanda. E’ da notare che questa casuccia serviva da albergo a viandanti e però fu congiunta all’Ospitale de Peregrini allorchè fu supressa la relligione de Cruciferi il di cui instituto era antichissimo fino dal ’80 ed era loro impegno albergare i pelegrini.
    Finalmente abbiamo in quest’anno che compassionevole Antonio qd. Soldino Soldini di Castel S. Pietro inverso la miseria de viandanti che albergavansi nel d. ospitale di recente fabbricato fece testamentaria disposizione a favore del med.. Non si può equivocare tanto della sua epoca di erezione quanto della spettanza del di lui governo mentre abbiamo dal testamento di questo Soldini esistente nell’archivio della fabbrica di S. Petronio la seguente indicazione: Antonio Soldini di C. S. P.ro lasciò per testamento all’Ospitale di S. Catta. novamente costrutto in d. castello alquanti terreni e così pure ci annunzia il Carati T. 9, fol. 223 delle sue colletanee.
    Chi fossero li officiali di Castel S. Pietro nell’anno presente 1459 ce lo occultano le tenebre della antichità nello sconvolgimento delli archivi. se non sapiamo chi fossero li Governatori di Castel S. Pietro in quest’anno sapiamo bensì dall’Alidosio che nelli Anziani di Bologna vi fu Antonio —— da Castel S. Pietro.
    Aveva il defunto pontefice Calisto 3° lasciato doppo la di lui morte centoquindici milla scudi nell’erario della Camera di Roma affine di fare la guerra contro il Turco che molestava la X.stianità e volendo Pio 2° novo pontefice eseguire tale intenzione fece intimare un Concilio per mandarlo ad effetto. Decretò che si facesse in Mantova dove sariasi intervenuto ancor esso. Fece perciò noto a tutti li Principi d’Italia questa sua intenzione invitandoli ad una Lega, aderirono essi e sucessivamente partendosi di Roma il Papa, in solenne figura pontificia, venne a lunghe giornate alla volta di Bologna per la Romagna via nella primavera avvanzata.
    Prevenuti li bolognesi dell’arrivo vennero la sera delli 8 maggio a Castel S. Pietro molti nobili contemporaneamente a mille cavalli di Galeazzo Maria Sforza, filio del Duca di Milano, e furono alloggiati nel Castello e Borgo. La nobiltà addattossi alle case migliori nazionale delli Rondoni, Salvetti, Battisti, Balduzzi, Dalla Serpe, Zopi, Forni, Fabbri, Ghirardacci, Antonelli, Cheli, Morelli, Nicoli, Samachini, Dalle Robe, Leali, Bambo ed altre familie che lungo saria l’elenco e per essere di minor lustro le passiamo sotto silenzio.
    La mattina seguente delli 9 venne il Duca Galeazzo colla sua comitiva riccamente vestita in un con esso col manto ducale ed aveva 2 milla fanti tutti bene armati. La sua comitiva era di 380 persone ricamente addobate, come ci descrive la relazione di uno scrittore anonimo comunicataci dal Conte Giulio Sassatelli di felice memoria che, con altre notizie e Cronica imolese di Alessandro Sassatelli, gentilmente ci diede il comodo di osservarla e trarre ciò che fosse occorso.
    Arrivò il Pontefice a meza mattina a Castel S. Pietro accompagnato da tutti li principali nobili di Romagna e colli confalonieri d’Imola. All’apparire sul ponte sopra il Silaro fu salutato collo scoppio della grossa bombarda che si trasportò a questo effetto sul teraglio a levante del Castello, si diede il segno alle torri delle Roche. Il popolo, disceso dalle vicine colline e dalla pianura, copriva le strade che a guisa di torrente inondavano le genti sfilate nel lungo tratto di strada.
    Precedeva il Papa uno stuolo grande di vescovi, esso poi, sedendo sopra una candida chinea, portava avvanti di se il tabernacolo con l’Augustiss. Sagram, entrovi chiuso e circondato di lumi sotto baldachino cremesino portato da palafrenieri e chierici di camera. Seguivano indi li cardinali tutti a cavallo, in fine vi erano tre cavalieri su tre cavalli abbardati alla divisa del Pontefice, ciascuno di loro portava una bandiera spiegata. Nella prima eravi una croce d’oro, nella seconda le chiavi incrociare, antica insegna della Chiesa, e nella terza bandiera vi erano cinque meze lune incastrate entro una croce, stema della familia Picolomini.
    In ogni luogo dove passava dava la benedizione. Fermatosi per tanto nel Borgo, rivoltosi al Castello, consolò tutta la populazione colla benedizione papale alla quale seguì uno strepito di bombarde ed una acclamazione di voci che assordivano l’aria e, quantunque il tempo indicasse pioggia, volle partire et andare alla città, approssimatosi alla quale sucedette dirottissima pioggia colla quale entrò così in Bologna.
    In questa contingenza vi furono chi mostrossi con fatti e con parole plausibili, come di ciò ne accennano le cronache. Fra questi fuvi Ermicio Cajada poeta latino inglese che trovandosi in Bologna fece un erudita poetica composizione, alludendo allo stema pontificio nella sua venuta, col quale pronosticava gloriosa la vittoria contro il turco nelle quattro lune incastrate nella croce e ristrette nella stessa, pronosticando glorioso l’abbattimento come avvenne a Belgrado contro li oltraggi della luna maomettana che minacciava influssi di crudeltà all’universo.
    Nel mentre però che si facevano queste funzione a Castel S. Pietro tutte consagrate al Vicario di X.to, non mancò lo spirito immondo di funestare questo nostro clima, imperciochè nelli contorni d’Alboro in quella foltezza di boscaglie, assalita Gulielma de Lanzi da scelerato uomo fu violata onde dolente ritornandosene all’albergo comunicò l’accadutole a suoi congiunti, quali tostamente inseguendo il fuggiasco fu raggiunto e con un laccio al collo condotto alla sponda del Silaro sopra un vicino balzo. Fu precipitato col medesimo laccio a cui erasi unito un grosso macigno involto e così il disgraziato finì la vita. Questa memoria la ripetiamo da un MM. SS. ritrovato nella libreria delli Marchesi di Pistoja Celesi Dal Gallo che lungamente hanno tenuto al Castelletto fino a giorni nostri.
    Arrivato a Bologna il Papa ebbe maggiori li onori entrando nella città alle ore 21 colla pioggia, ove stette sei giorni poi se ne andò a Mantova. Aveva il Papa seco ancora truppa la quale era condotta da Giovanni da Tolentino il quale nel suo ritorno con grande comitiva fu trattato al nostro Castello.
    Abbisognosa la Roca di Castel S. Pietro di riparazione nelle serrature fu tostamente rissarcita da Paolo Zordi che medesimamente trattò il Tolentino come nell’anno veniente e non sappiamo se questo Zardi fosse castellano oppure artefice, non individuando il libro de Mandati e Partiti qual fosse il suo officio.
    Erano tali li assordi che nel coprimento delle cariche de Castellani, Vicari e Podestà, solite darsi ogni anno, a motivo che li vicariati, capitaniati e podestarie ed anco alcuni simili offici della città si davano per partito alle persone che avevano o più o meno di protezione ed era favorito ed aveva maggiore seguito di parenti od amici. Onde il Senato per ovviare a tale assordo decretò nel dì 16 maggio che per l’avvenire si facessero le imborsazioni di tutti le magistrati ed Uffici Utili e che quello sortisse il dì 16 X.bre di ogni anno ottenesse l’officio. Piaque tanto al popolo questa providenza che fu motivo di evitare l’invidia ed escludere l’occasione de partiti e fazioni.
    Nello stesso giorno 16 maggio 1460 ordinò il pagamento a Pavolo Zardi l. 25 quas exposuit, dice il decreto, in reparatione Roche Castri S. Petri e più a d. Paolo Zardi l. (1)00 per un pranzo fatto al sig. Giovanni da Tolentino quando di qui partì colla sua comitiva in Castel S. Pietro.
    Lodovico Malvezzi, che era al soldo de veneziani volendo passare nella Romagna per andare al soldo pontificio, chiese licenza al Senato del transito per il contado di Bologna con 800 cavalli. il Senato glie lo accordò ma, poiché temeva di un qualche strattagema, guarnì Castel S. Pietro di 200 fanti ed altrettanti cavalli ed ingiunse alli terrazzani di stare oculati.
    Fece altresì il Senato riattare al d’intorno la Rocca nelle mura ove era sgrollata e si spesero l. 200. Pressiedettero a questo lavoro Virgilio Malvezzi e Nicolino Poeti, il pagamento della qual somma fu estratto dalla cassa dei dazieri delle moline secondo l’ordine così cantante: 1460. 30. Augusti. Ordine ai Dazieri delle Moline di Bologna del presente anno che de danari di d. Dazio si paghino l. 200 pro fabrica seu reaptatione Terre castri S. Petri Comitatus Bononie illis personis at eo modo prout vobis ordinatum fuerit per spectabilas vires Virgilium de Malvitiis et Nicolinum de Poetis sicur pecunias ipsos obbligati solvere estis ex forma Capitulorum Dati.
    Presentitosi poi dalla Comunità di Castel S. Pietro che alcune comunità subordinate al Vicario di Castel S. Pietro avessero idea di sottrarsi alla nova giusdicenza per motivo del decreto ultimamente fatto intorno alle estrazioni de novi ufficiali come che una novazione di Statuto, ricorse la Comunità al Senato per la conferma del decreto fatto l’anno 1416 tante volte confirmato e ratificato acciò di novo venisse reiterato e fossero altresì confirmati li Statuti della Comunità.
    Il Senato si prestò alla giusta domanda e nel dì 13 X.bre doppo avere confirmati li Statuti della Università di Castel S. Pietro ancorchè approvati dal card. Bisarione, reiterò lo stesso decreto del 1416 con partito, ratificando altresì il mandato del cardinale che era opposto a piedi del med. Decreto, con tutti li atti sucessivi fatti nel modo seguente, come si legge nell’autentico di tale decreto nell’archivio comunitativo, che ci risparmiamo qui ripetere, e solo annotiamo l’ultima conferma senatoria del seguente tenore col quale chiudiamo l’anno 1460 cioè: Suprascriptus mandatus per supradictum D. Legatus factum et omnia in d. decreto peracta approtata etconfirmata fuerunt per Magnificos D.D. Sexdecem Refformatores Status Libertatis Civitatis Bononie. Dat Bononie XIII mensis X.bris MCCCCLX. R. A. Parisius Cancell. L. +. S.
    Precisamente chi fosse il Podestà estratto di Castel S. Pietro per l’anno avvenire in questa prima estrazione delli 16 cadente X.bre non lo abbiamo in alcuna carta trovato notato. Abbiamo bensì nel Libro de Partiti che prima di scadere l’anno, per assenza del superiore locale, fu ascesa e scalata la mura del Castello da fuorusciti del med. e deduciamo che capo di questi fosse Zanotto e Benedetto Denti di Pietro da Castel S. Pietro poiché il med., essendo giovinastro coraggioso, volendo liberare dalla carcere Bolognino Bolognini di d. Castello, lo aveva tentato più volte coll’atterare le porte della carcere ma indarno, onde perciò fuggiasco dalla patria scalasse le mura. Cosadichè abbiamo documento che l’atteramento della porta fu poi comesso dal di lui fratello Benedetto Zanone nell’anno successivo.
    Entrato adunque l’anno 1461 il sud. Denti, essendo per altri malefici esule dalla patria volendo pure liberare Bolognino suo amicissimo, né fidandosi di operare un fatto da esso premeditato di escarcerarlo notturnamente, unitosi con altri fuorusciti paesani e forestieri ascese le mura del Castello e, non potendo riescire nell’intento per che discoperti, fugirono per la stessa scalata. Ne fa fatto il riporto al Governo e furono sentenziati a morte ma dappoi, interposti protetori, fu comutata la pena afflittiva in pena pecuniaria nel giorno 3 genaro 1461 come riscontriamo dal Lib. de Partiti così: 1461. 3 genaro. Cum hid proximis diebus nonnulli homines ascesero la mura del Castello S. Pietro con altri forestieri armati e dovendosi punire di morte, quarum caput erat Dantis de eodem castro. Furono condannati in l. 500 per ciascuno e li fuorusciti assoluti. La condanna poi da farsi fu ridotta a soldi 10 per ogni l. 100 alla camera fra un mese e per cadauno e salvo l. 2 per la fabbrica di S. Petronio. Fu poi prorogato il tempo per tutto agosto come rilevasi dal Lib. de Partiti.
    Non è meraviglia se accadevano li malefici sud. ed altri di maggior rilevanza imperciocchè, partito dalla legazione di Bologna il Legato Angelo Capranica romano circa la metà dell’anno scorso coll’avere lasciato per suo Vicelegato e Luogotenente Giovanni Venturelli di Amelia, poco e nulla de malviventi curavasi la di lui autorità e bastava loro avere solamente la protezione de nobili per divenire all’eccesso insolenti.
    Avevano alquanti uomini di Castel S. Pietro e sua giurisdizione commessi risse, crassazioni, insulti, tumulti ed amutinamenti a guisa di fazioni fino dall’anno scorso, li nomi de quali ci taciono le carte del Senato, cosichè resi insolvibili per la temerità loro,onde perciò fatto ricorso al vicelegato acciò provedesse a tanto disordine, il med. nel dì 9 marzo fece la seguente ordinazione, estratta dai libri de Mandati e partiti sanatori, dalla quale il lettore rileverà in fonte la infelicità di questi tempi e le contingenze di Castel S. Pietro cioè: 1461. 9 marzo. Jo. de Amelia Bononie R. Locumtenens justis causis moti et maxime deliata ne remaneant impunita, mandamus votis mag. D. Potestatis Bononie cun consensu et voluntati MM. DD. sexdecim Reffor. Status Libertatis Civitatis Bononie qd. ex officio vestro iquirere et absque exceptione alterius denuntie per viam inquisitionis procedre debatis contra omnes et quoscumque de terra et seu vicariatu castri S. Petri Comitatus Bononie qui a die discessus R.mi D. Legatus a Civitate Bononie aliquas condamnationes Hominnum et armaturum et seu guardanimenti, rixas, insultus, condamnationes, tumultus et alia delicta fecerunt, comiserunt in terra et vicariatu pred. et illas demum et quamlibet ipsorum punire et condemnare debeatis secundum forma juris e statutorum communis Bononie. Sub pena ducatorum 100 ea vobis sine aliqua remissione conferenda tempore sindicatus vestri. quamquam ex predictis contra quemcumque usque ad comdamnationem inclusive per vos et seu Curia vestram ut supra inquisitum et processum non fuerit non obstantibus.
    Non per questo si avvilirono li spiriti della turbulenza anzi fatti più audaci comisero altre risse e insorgenze per lo che si vide il Senato in necessità di ordinare al Podestà nova inquisizione contro li delinquenti li di cui nomi ci occultano il Libri de Mandati. Ma ciò non ostante, in giustificazione di questo nostro asserto, ne vogliamo quivi apporre il documento tratto da quelli affinchè non si imputi una nostra invenzione. Eccone il mandato: 15 aprile. Ordini al Podestà e suoi Giudici e Curia. Quaternus contra homines Castri S. Petri Comitatus Bononie procedere debeatis occasione Commisse Inquisis. Fugere eos fugerentibus diebus prout in Inquisitione, usque ad condemnationem inclusive Iustitiam ministrando, volumus tamen ut sententiam ipsam condemnatoria incamerare per spatium unuius mensis proximi a die late ipsius sententiw condemnatoria, sed non in suspenso teneatis, intra quem mensem d. homines de Castro S. Petri sint supra condamnand. cum fuerin comdamnatti solvere debeant Camere Bononie per eorum quamlibet l. 10 pro omni centenario summa. Pecuniarum incursarum statim condamnati at l. 2 pro omni centenario di d. lire alla fabbrica di S. Petronio di Bologna e niente più e ciò per giusta causa. Il resto gli viene graziosamente condonato perché dentro detto mese e constando che d. somme siano state pagate vogliamo pure siano liberati. Ma passato tale mese e non pagate siano pure condannati conforme porta la giustizia. fol. 143. Partiti e Mandati.
    E perché dispiaceva alli inquisiti e condannati restassero perpetuamente viva la sentenza per la quale, se veniva archiviata, restava denigrato il loro bon nome e riputazione, onde perciò non si sa chi fossero questi turbolenti che fecero istanza che si suspendesse nella archiviazione o sia incamerazione, in seguito della quale instanza ordinarono li Anziani nel d. 5 giugno la supressoria mediante il seguente atto che qui trasportiamo tolto dal d. Libro fol. 144 cioè: 1461. 5 giugno. Ordine al Podestà e sua corte che debba suspendere dalla incamerazione o sia archiviare le sentenze condamnatorie da esso pronunciate contro li uomini di Castel S. Pietro per 15 giorni continui per il termine già accordato.
    Sicome la sentenza non era ancora stata pronunziata in forma, ricorsero di bel novo li inquisiti e chiesero tempo alla pronunzia onde il Senato accordò il termine di 15 giorni sucessivi alli sud. primi come canta l’ordine segnato li 10 giugno in questi termini : Al Podestà e sua corte che oltre la suspensione delli 15 giorni accordata, debbano suspendere ancora la sentenza da esso pronunzianda contro li uomini di Castel S. Pietro per tutto il mese di agosto futturo, con questo che essi condannandi e ciascuno di loro debbano dare sigurtà fra 15 giorni futuri di pagare la condanna sud. emanatada il dieci per cento per tutto il d. agosto dandone riscontro al depositario in Camera di essere contento di d. ricevuta somma e le loro sigurtà vedute siano ed approvate dal magn. sig. Lodovico Cacccialupi al presente Confaloniere di Giustizia e li sig. Cristoforo Caccianemici e Giovanni Dall’Armi a quali ciò si comette. Passati li quali 15 giorni ciò seguito non sia, si procederà secondo la sentenza ed incamerazione e ciò per l’ultima volta. Fol. 145.
    Conviene in questo caso credere che li processati adempissero pontualmete alle determinazioni sud. e si addattassero a questa economica giustizia, poiché non trovandosi la incamerazione di questa sentenza è forza che li d. tre Deputati ne facessero la totale abrusione, per la quale siamo al bujo de fatti seguiti, con dispiacere di non averli quivi potuti annotare.
    Non ostante queste providenze si aquietarono li animi bellicosi non dirò di Castel S. Pietro e suo vicariato, ma anco di Castelbolognese luogo più facinoroso del nostro per essere quella nazione lontana alle autorità superiori e per essere quelli individui un miscuglio di faentini ed imolesi non che delle poco distinti castella produtrici di armigeri. Tanto è ciò vero quanto che vivendosi in quel paese irregolarmente intorno alla criminosità che si comettevano, non si poteva porre freno, fu fatto ricorso al Senato acciò vi provedesse. Alla quale instanza unendosi li richiami delli uomini di Castel S. Pietro vi fu fatto dal Senato la seguente statutaria provisione criminale che noi abbiamo estratta dall’Archivio Pubblico di Bologna nel Lib. novarum Provisio. fol 286 il di cui tenore qui apponiamo.
    (Vedi Appendice 8. Documento 10 lulio 1461)

Trovavasi la Roca grande di Castel S. Pietro abbisognosa di riparazione, come deduciamo da contemporanei annalisti, nelle fortificazioni esteriori ne fu fatto il riparto dalli uomini del Castello al Senato. Il med. perciò pensò al provimento, quindi nel seguente agosto fece la seguente determinazione cioè: 1461. 20 agosto. Dederunt (cioè li Rifformatori) Commissionem Galentio Marescotti, Virgilio Malvezzi et Nicolino Poeti di far riparare la Roca di Castel S. Pietro colli danari da esiggersi dalli sud. malfattori fatta però la relazione al Legato quanto sia la spesa necessaria. Li Malfattori furono quelli che scalarono le mura. Furono poi pagate alla Camera l. 200 come al Lib. Partit. fol. 22.
Nello scorso lulio essendo accaduto in Castel S. Pietro una notabile rissa fra Giovanni Muzzoli da una parte e Gaspare Pirazzoli dall’altra per cui si erano fatte due fazioni ed essendosi promossa fra med. una tregua all’effetto di pacificarsi, come viene indicato in pubblico instrumento rogato per il Not. Bartolomeo Zoppi nel quale stanno enunziati li rissanti, avenne che fu rotta la tregua e restò in una mischia ferito mortalmente Pietro Muzzoli fratello del d. Giovanni, li quali dopo il maleficio ne riuscì fuggire dal Castello, coll’ajuto di Lodovico Nardi, alli malfattori Gaspare Pirazzoli e Domenico Bellini onde andò sossopra quasi tutto il paese. Ne andò quindi la relazione al governo il quale tostamente, affinchè non nascessero ulteriori disordini, fu comessa la causa al Legato per la dilucidazione del fatto che pretendendosi non essere così enorme per la frazione della pace. Laonde il V. Legato Giovanni Balvi vescovo albandese prese la seguente Providenza dalla quale si rileva il massimo della fazione: 1461. Die 19 Novembris. Pater Episcopus Albanensis Bononie Locum tenens. Cum de anno presenti et mense Juli ob quasdam rixas et contentiones que fuerunt inter nonnolos homines terre Castri S. Petri Comitatus Bononiè, ventumque p. eos postea ad certam treguam sub ceris pegnis, modis et conditionibus, de quibus et prout latius constat pub. Instr. rogat. per ser Bartolomeum de Zoppis Not. inter quos in d. tregua intervenerunt Petrus Joannes Muzzoli ex una parte et Gaspar Perazzoli, Dominicus Bellini et Ludovico Jacobi Nardi eiis auxilium dederunt post maleficium commissum fugiendi da d. Terra Castri S. Petri ubi ipsum Petrus Mazzoli vulneraverunt prout clare de omnibus constat et per conseguens d. treguam fregerunt. Licet non fractam esse dicetur, cum afferant fidejussores suos ob eam causam prerbitos alias comparnisse coram Vexillifero Justitie et d. treguam disdixisse. Licet eam nonnullamodo ————-.
Nos et quontum in Nobis est malignitati et pervarsitati rusticorum providere intendentes Justitia mediante, ne quotidie insolentia quadam, unus in alterum ad vulnera et cedes exurgant mandamus Vobis magnifico D. Potestati Civitatis Bononie quod contra homines Terre Castri S. Petri quatenus p. denuntias factas vobis treguam ipsa sorgisse constabet, procedere debratis et eos punire et condemnare in penam in ipse tregue instrumento contentam, que est ducatorum quinquagentorum auri appilicans ut in eo instrum. declarantus ex nunc auctoritate Offici nostri de consensu et voluntate Magnific. D.D, Sexdecim Refformat. Status treguam ipsam dislecta non esse et propterea in penam reciclisse. Et ita. T. V Partit. fol 164 et 165.
Essendo poi stata concessa anni sono la Roca grande di Castel S. Pietro a Galeazzo Marescotti, come si annotò alla sua epoca, ed avendo impegno Giovanni Bentivoglio per Verardino Benetti, fece tali premure al Senato che ne fa ad esso Bentivoglio salda la concessione per due anni avvenire doppo che avesse terminato il suo tempo Galeazzo Marescotti e ne fu fatto il decreto in questi termini come a Lib. de Partiti. cioè: 1461. 23 novembre. Concesserunt Refformatores Bononie Castri S. Petri, Jo. de Bentivolis pro Verardino de Benitti pro 2 annis proxime futuris post finitum tempus quod illa concessa fuit D. Galeatio Marescotti.
Bramosi li uomini di Castel S. Pietro di vieppiù avvalorarsi l’oservanza de loro Statuti ricorsero al Senato per una nova conferma. Aderì il med. al ricorso e nel dì 23 cadente decembre 1461 ne fece la seguete approvazione come in calce del med. apertamente si legge: Suprascriptas Leges et Statuta per homines Castri S. Petri sibi factas et facta et omnio in eis contenta approbaverunr et confimaverunt et pro approbatis et confirmatis haberi voluerunt MM. DD. XVI Reformat. Status Libertatis Bononie. Dat. Bononie Die XXIII Decembris MCCCCLXI.
Essendo poi stato estratto per Commissario di Castel S. Pietro dalla Borsa delli Uffici Utili della città di Bologna e suo contado Sigismondo Aldrovandi per l’anno avvenire 1462, il med occupò la carica alli primi di genaro.
Abisognando di riattamento il ponte d’Idice il Senato nel dì 5 genaro commise al Achille Malvezzi e Carlo Bianchetti di imporre una coletta di l. 50 alla Comunità di Castel S. Pietro e suo vicariato.
Li 11 giugno essendo stati condannati prima li sud. Gaspare Pirazzoli e Domenico Bellini a pagare la condanna per la frazione della pace ed essendo altresì quella stata incassata nell’Erario de Malefici, il Senato ordinò che fossero pagati scudi 500 d’oro sopra la d. condanna per impiegarli nel riattare le porte della città. Furono poi eletti per li mesi seguenti di lulio ed agosto li Anziani, Angiolo della Serpa per Confaloniere , fu esso di Castel S. Pietro.
Morì in quest’anno Sante Bentivoglio signore di Bologna.
Comechè li uffici utili della città e contado si cavavano di sei mesi in sei mesi ordinò il Senato che da qui in appresso si cavassero ad anno, mentre li Podestà e Vicari del territorio non avevano appena cominciate le cause che, sortendo d’officio, nascevano sconcerto fra litiganti e perdevasi il tempo inutilmente.
Fu perciò al cadere di X.bre estratto Podestà di Castel S. Pietro Francesco Sebaldini per il 1463. Sotto questo Podestà, che servì nelli anni addietro, avendo fatto imprigionare Giacomo Bolognini di Castel S. Pietro per maleficio, né volendosi dimettere, Benedetto Zanone Denti filio di Pietro con un fratello del distenuto per nome Bolognino Bolognini, come al Lib. Mandat., fece instanza al Senato per un salva condotto e l’ottenne. Dalla petizione per esso fatta e notata nel d. Libro in questi termini riscontriamo anco il lasso di tempo accordato, eccone il testo: Bendetto Zanone di Pietro Denti di Castel S. Pietro filio di familia, ex quo prestibit auxilium cuidam Bolognino de Bologninis di Castro S. Petri ad deponendum quodam hostius domus habitationis Francisci de Sibaldinis tunc Podestates Castri S. Petri in qua domo erat detentus frater d. Bolognini pro certo maleficio et ipse Jacobus da d. domo exierunt contra voluntatem d. Sibaldini, supplicat ut sibi datur salvas conductus per anni 10 veniendi Bonon. Li fu accordato.
Erano venuti in discordia li Manfredi di Faenza colli Alidosi di Imola (cioè Astorre Sig. di Faenza e Tadeo Sig. di Imola) per modo che fra l’una e l’altra parte erano seguite ostilità perciò il Senato di Bologna, temendo di una qualche irruzione verso Castel S. Pietro, spedì quivi a visitare le fortificazioni Giovanni Malvezzi ed a fare altre indagini e, trovato il tutto in quiete, se ne ritornò alla città. La sua permanenza fu in agosto per pochi giorni. Risulta ciò dalli atti del Senato in questi termini: 1462 primo X.bre. Ordine di pagare a Gio. Malvezzi Commissario di Castel S. Pietro l. 118 per essere stato quivi nel mese di agosto con due cavalli propter quasdam suspiciones in illis paribus existeantes de bellum existens nunc inter D.D. Faventie et Imole pro eius provixione dierum 12 ad rationem l. 5. 15 in die pro quolibet equo.
Giunto poi il giorno 16 decembre venne estratto per Podestà di Castel S. Pietro per l’anno venturo 1463 Francesco Sibaldini quale alli primi di genaro prese il possesso della sua carica. E comechè il medesimo veniva di poco bon ochio veduto da Bolognino Bolognini per accidente occorso, come sopra abbiamo narrato, stava il med. sempre fra se meditando come riffarsi, tanto più che si vedeva non essere perduto di vista dal med. Sibaldini.
Aspettò Bolognino l’occasione di provedersi di sale per il bisogno di sua famiglia e colla trama di attacare rissa col Sibaldini sopra la vendita e compra del sale, così che portandosi la justanza al Sibaldini qual Giudice per essere indennizato dal venditore di sale locale col che non avendo avuto il giusto, aspettando il decreto lesivo, vendicarsi con questo mezzo. Fa duopo sapere che nelli Capitoli dei Dazi del 1460 li 17 X.bre e segnatamente del sale fu convenuto che al Comune di Castel S. Pietro si dovesse dare ed assegnare corbe 110 sale toccando ad ogni testa quartiroli 2 di consumo l’anno ed il daziere fosse obbligato darlo al prezzo di quattrini nove, avvertendosi che ciò era in vista che non si commettessero contrabandi.
Le persone della università di Castel S. Pietro furono raguagliate 880 secondo il calcolo di quartiroli 2 per testa onde a quattrini 9 la libra veniva a pagare Castel S. Pietro all’anno l. 280: 50 moneta nostrale de pavoli X per scudo. La onde dunque Bolognino avendo comprato il suo assegno di sale dal venditore destinato nel paese, nel riportarselo via scemò il peso, poi giunto ad una botega fatto l’esperimento del peso, trovossi mancante di un grossa meza libra.
Ricorse tostamente Bolognino al Podestà Sibaldini onde avere la giustizia. Fu chiamato in giudicio il venditore per la condanna. Rifiutò questi il ristoro tanto più che il peso era stato fatto a bilancia di peso e contrapeso e non di marco a mano. Crebbe la contesa al segno cosichè Bolognino adirato gettò il sale in faccia al venditore imputandole il nome di usurpatore e fraudolento.
Ora il venditore, che aveva nome Gorro Zabarella , rissentendosi non solo della imputazione ma anco della offesa fattale col gettito del sale, avvanzò una furia di pugni al Bolognino, quale data mano ad un colteletto, che era solito tenere il Sibaldini nella tavola presso cui si assiedeva, avvanzò vari colpi al Zabarella. Infrapostosi a dimezare il Comissario Sibaldini la mischia, credette questi il tempo opportuno di riffarsi il Bolognino ed infatti lanciò un colpo gagliardo alla gola del dimezante, simulando averlo diretto al Zabarella. Restò offeso il Comissario in faccia.
Dopo tal fatto sortito il Bolognino dalla abitazione e dal luogo del comesso reato si diede alla fuga ma giugendo alla porta del Castello, volendo il portolano chiuderla acciò non fuggisse, incontrò ancor egli una ferita e convenne lasciare libera la fuga al Bolognino. Ciò riscontriamo e ripetiamo da un M.S. presso il sacerdote Vanti che con altre notizie e documenti ci ha gentilmente graziati.
Jacomello Degnitti abitante nel Borgo essendole ruinata una casa da fuorusciti imolesi nel quartiere della Lama in suo luogo detto Piombarolo, chiese ristoro alla Comunità nel riparto delle Colette straordinarie ma, essendo denegato, fu motivo di rumore contro Zanone Topi che se le oppose, onde si l’uno che l’altro a motivo del rumore ecitato in paese furono banditi.
Scrive il Marchesi nella sua Storia di Forlì che, avendo li Ordelafi, principi di quella città, stabilito il matrimonio fra Lucrezia di Cecco Ordelafi con Pirro Marsigli di Bologna, furono fatti grandi apparati e che congiuntasi in matrimonio venne a Castel S. Pietro dove fu accompagnata da molte gentil donne forlivesi ed ottanta cavalli e quivi, ritrovate tante gentil donne bolognesi apparecchiate a riceverla, fu complimentata secondo la di lei condizione.
Noi aggiungiamo di più, secondo le memorie del P. Vanti, che tutta questa signoria fu introdotta in casa di Morello Morelli ove ricevette una santa ricreazione il giorno 5 giugno, nel che concorda quanto al tempo collo storico Marchesi, ove dappoi vi andarono ad ossequiarla anco le principali spose del paese che furono Lucrezia Silvetti, Angiolina Fioravanti, Flaminia Comelli, Copina Morelli ed Antonia Fabbri con Lenina dalla Mazza, che furono tutte egualmente accarrezzate. La comitiva de cavalli stette nel Borgo. Terminata la ricreazione partì sull’ora fresca per Bologna.
Il plauso populare delli oppidani non fu di lieve momento, poiché fu alimentato con generosità dalla sposa novella che li profuse a larga mano riscuotendo plausi ed universali li eviva.
Dietro questo illustrissimo matrimonio ammogliossi ancora Giovanni Bentivoglio conducendo per isposa con licenza apostolica Ginevra Sforza vedova del defunto Sante Bentivoglio. A questo luminoso sposalizio le comunità del contado bolognese ne diedero contrassegni del loro giubilo con offerte e regali al Bentivoglio come si legge nel T. 3 del Ghirardaccio MM.SS. distintamente.
La Comunità di Castel S. Pietro presentolle una vassella di prelibato ed esquisiti vino delli vicini vigneti del Castello. Zola da Castel S. Pietro, bene affetto al Bentivoglio, come scrisse Alamanno Bianchetti nella sua Cron. di Bologna, presentolle venti coppie di capponi ben pasciuti. Il plauso che ne riscosse la Comunità di Castel S. Pietro per la delicatezza del vino, si può vedere in una colettanea di composizioni latine di autori diversi esistente nella Biblioteca di S. Giacomo.
Nel dì 31 lulio una grossa tempesta caduta, che dissipò universalmente le campagne del contado, produsse una pestilenziale influenza che percotendo infinite familie molte ne restarono estinte. Ne racconta tre il P. Vanti delle più chiare di Castel S. Pietro e furono li Lenzi, Corniani e Cereti.
Li fuorusciti d’Imola per le differenze Manfredi già passate, in una masnada riffugiata nella boscaglia del territorio di Castel S. Pietro sul confine, non vi era iniquità che non comettessero. Li stupri, rappresaglie e rubberie erano quotidiane. Non furono però tanto indolenti li uomini di Castel S. Pietro che non dissipassero tanta audacia. Imperciocchè, fattosi capo di alquanti paesani Jacono Zupoli con Giliolo Campana, trattarono accordo colli villani poco distanti dalla imboscata ove, per trarvi fuori di quella li fuorusciti, diedero foco ad un vicino medale nel dì 27 agosto. Per ismorzare il quale, avendo mandato ragazzi alli imboscati per averne ajuto, corsero incautamente alquanti de med. fuorusciti che, nel mentre travagliavano intorno all’incendio, Jacono e Giliolo unito con que’ villani che si affacendavano intorno al foco, rivolsero le loro forze contro li fuorusciti ivi accorsi e li fecero prigioni. Dappoi andati alla boscaglia ove erano li altri che non si aspettavano altro che il ritorno de suoi amici stando intorno a preparare il vitto, furono circondati da paesani e si venne ad una fiera baruffa alla quale non potendo ressistere li fuorusciti si diedero alla fuga. Così liberato il quartiere, fu tagliata tutta la selva per levare il nascondiglio a malfattori.
Li 3 settembre venne un furioso temporale che, misto a grandine e lampi, cadde una saetta nel fenile de frati di S. Bartolomeo contiguo al convento onde, accorsovi popolo, restò vittima delle fiame F. Giovanni Luelli da Bologna e Bindino Bindini con Lucio Astorri, muratori, restarono soffocati dal fumo. Il fettore che accompagnò il fulmine fece abbandonare poi alquanti giorni il convento ai frati et a quelle familie di contorno. A rissarcire il danno riccorsero li frati alla Comunità la quale le diede l. 50 e li legnami tutti d’avanzo che le erano restati nella fabbrica ultima del molino.
Un avvanzo di carte, ritrovato nell’archivio scomposto di questo convento supresso nelle mutazioni del Governo, ci avvisa di questo accidente nella lista delle spese occorse nel reidificare l’edificio incendiato che dappoi divenne parte di questo convento.
Allo spirar di novembre, essendo venuti a questione nel Borgo Paolo Toschi ed Antonio Graldi e Pasquale de Pasquali tutti di Castel S. Pietro a motivo di certo contratto e non essendosi fra loro potuto comporre la differenza del dato ed avuto, si venne alle mani. Crebbe talmente il rumore che sollevossi tutto il Borgo, cosiché fu in necessità il Massaro adunar popolo col suono dell’aringo pubblico per lo che, accorendo la gente, riescì a Pasquale Pasquali ajutato da alcune doniciuole fuggirsene dalle mani delli due suoi avversari contendenti.
Incamminandosi poi alla volta di una casa sua nel comune di Casalechio in compagnia di altri villani, provocò acremente con contumelie li uomini di Castel S. Pietro. Per lo che fatto altro complotto di oppidani, si diedero ad inseguirli per la via romana, il che vedendo li villani deviarono ed ascendendo la collina si imboscarono finchè arrivarono sicuri alle loro abitazioni.
Li uomini di Castel S. Pietro non se la dimenticarono, inperciochè aspettata la notte della vigilia di Natale, adunati in bon numero si ascosero in poca distanza della chiesa di Casalechio, alla quale doveva andare il d. Pasquali. Difatti, scostatosi dalla propria abitazione, quando arrivò al loco dell’aguato fu inciampato e con un laccio al collo fu condotto a Castel S. Pietro alle carceri. Aveva il d. Pasquali altri reati commessi per li quali il Podestà locale di Castel S. Pietro ne aveva fatto processo onde, mutatosi il med. Podestà conforme il consueto, per l’anno venturo 1464 fu Podestà Nicolò Castelli. Fu di novo processato il d. Pasquale Pasquali, come riscontrasi dal T. 2 Partit. fol. 102 nel quale così sta esposto: 1464. 12 genaro. Antonio Pasquali carcerato nelle carceri di Castel S. Pietro, esendo bandito, avendo rotte le carceri fu esiliato in perpetuo dallo Stato. Secondo questa determinazione senatoria, conviene credere che fosse costui un uomo tristo.
Nel med. giorno 4 genaro furono confirmati li Capitoli fra li uomini di Castel S. Pietro e Bonaventura Dattili di Pesaro ebreo a rogito del Not. Tomaso Mengoli di Liano. Questi capitoli sono conformi alli ultimi stipulati per il Not. Zoppi in addietro, da noi portati.
Richiamato dalla sua carica di Vice Legato di Bologna Giovanni Balvi albanense, fu sostituito in di lui posto Lorenzo Acciajoli fiorentino, quale investì la carica tostamente nell’anno presente 1464. Rifformò egli molte cose con intelligenza del Senato. Intorno a Castel S. Pietro, trovandosi le carceri per li malfattori poco sicure, le fece fortificare con la duplicazione delle porte, come si ha nell’archivio comunitativo.
Dalle carte pertinenti alli Elogi delli Uomini Illustri di casa Malvezzi riscontriamo in un opuscolo M.M.S., che con altre memorie conserviamo, titolato Fasti della nobile familia Malvezzi di Bologna, che concordano con altri autori, essere stato tanto benemerito di Pio secondo Jacono Virgilio primo Malvezzi, che in quest’anno nel mese di giugno fu creato Vicario di Castel S. Pietro con mero e misto impero. Ce lo assicurano le Memorie di alcuni uomini illustri della famiglia Malvezzi stampato in Bologna per il dalla Volpe l’anno 1770, per il Confalonierato di Alfonso Bonfilioli Malvezzi alla pag 40 let. D e fol.42 ed altri ancora.
Le discordie intestine nelle quali era immersa la maggior parte dell’Europa, avendo animato maggiormente a movere di novo le armi contro la Christianità Maometto gran Turco, svegliarono ancora li principi cristiani ad intraprendere ancor essi l’arme per la diffesa del Cristianesimo. Papa Pio II che si trovava di agosto in Ancona adunò un poderoso esercito per incaminarsi contro il comune nemico, ma sopraggiunto da grave malattia ed avanzatosi il male il giorno 14 d. di martedì ad ore 13 di notte nel stesso anno del suo pontificato finì la vita. Fu il suo corpo portato a Roma e vacata la S. Sede pochi giorni, fu eletto nel dì 30 dello stesso mese in pontefice il card. Pietro Barbo veneziano nipote di Eugenio IV, che assunse il nome di Paolo II.
Nella fine dello scorso lulio essendo accaduto che certo Benolo, forse sollevato dal vino, aveva insolentito gravemente contro un corsore pontificio che da Roma veniva con dispazi diretti al Senato, fu questi perciò chiamato alla diffesa sotto pena della testa onde costui, non essendo voluto comparire e domesticandosi nel confine del nostro territorio, fu preso e tostamente strangolato ad un arbore sul confine nella fine si settembre. Il suo reato e condanna sta in questi termini esposta nei Libri del Senato: 1464. 2 Augusti. Cum contiperit his proximis diebus Cursorum quemdam SS. D. N Pape personaliter Bononiam transire pro negotiis sua Sanctitatis eiusdemcum Brevibus eius deferente Buculum sive Macicam competen ofiici sui. Quidam Benolus molendinarius tunc existens in Burgo Castri S. Petri Comune Bononi, filius iniquitatis veniens ad contentitionem cum d. Nuntio, verba tam scelesta et obscena non semel sea sepius in gloriossimam V. Mariam probulit ut ea referre horrendam sit et insuper verbis scelesctibus et maledictis prorugit in persona eiusdem SS. D. N. et cum armis Nuntium ipsum offendit, non curans nec cosiderans quam grave sit maledicere glor. V. M. que humani generis advocata est in majestatem principis prorumpere quod crimen, Legis Julia lese majestatis commisit. Si ordina al Podestà citarlo a comparire fra tre giorni e che sia punito e che non comparendo sia punito della testa.
Avuta la nova della elezione del novo Pontefice se ne diedero universalmente segni di allegrezza. Fu però di mestizia a Castel S. Pietro poiché, facendosi gran focolare nella piazza di Saragozza che ora noi diciamo di S. Francesco, le faville del foco incendiarono la casa di Cheli e Battisti.
Per li mesi di novembre e decembre furono fatti li Anziani fra quali Nicolò da Castel S. Pietro.
Erano di novo tornati in discordia fra di loro li Manfredi di Faenza ed Imola onde essendo fra loro seguite ostilità pensò il Senato di Bologna guarnire di munizioni le Roche di Castel S. Pietro e Castel bolognese, la onde troviamo ne Libri de Mandati le seguenti providenze: 1464 10 Decembre. Sexdecim Refformatores. Si ordina a Francesco della Sega Massarolo delle munizioni del Comune di Bologna che di d. munizione dia liberamente e consegni liberamente N. ventiduemilla e quattrocento polvere da bombarda a Carlo Bianchetti e a Christoforo Delli Ariosti per mandarli a fornire la Roca di Castel S. Pietro. T. 7 Mandat. Car. fol. 138.
E perché ciò non bastava ma conveniva ancora riattare le mura del Castello con non indifferente spesa fu perciò tassato Castel S. Pietro e suo comune per l’anno avvenire in l. 900 per il Dazio del Molino da convertirsi ne riattamento delle mura, al che furono deputati Galeazzo Marescotti, Nicolosio Poeti e Cristoforo Ariosti, con questo che si spendino solo l. 300.
In oltre fece il Senato il seguente comando: 1464. 10 X.bre Sexdecim Refformatores. Commandiamo a te Christone Dalpuozo che della polvere da Bombarda del Comune di Bologna che è appresso di te debbi dare e liberamente consegna a Carlo Bianchetti ed a Cristoforo Delli Ariosti libre 245 per la roca di Castel S. Pietro e lib. 131 per la roca di Castel Bolognese, la qual polvere avemo commessa che per loro sia mandata a d. Roche per munizione e bisogno di quell. Fol. 138.
Da questi monumenti irefragabili vedesi quanto era di premura Castel S. Pietro al Senato. Si deduce ancora che doveva essere a questi tempi ben guarnito di artiglieria, lo che indicano ancora le bombardiere aperte ne torrazzi e per la quantità che vi si tenevano e per il loro calibro onde perciò vi voleva assai munizione. L’invenzione delle bombarde si vole introdotta fino dalla metà del secolo scorso.
Passando poi all’anno 1465 essendo carestioso di viveri cominciavasi di qui a titubare dal popolo sopra il Governo onde al Papa, che premeva la quiete di Bologna, ne fu fatto il rapporto. Egli perciò spedì tosto Angelo Capranica cardinale per Legato, sucessivamente, essendo stati confirmati li Capitoli fra la S. Sede e Bologna che dal precedente Nicola V erano stati fatti, ordinò che non più il regime di Bologna fosse di XVI individui ma bensì di XXI, che durasse a vita e che loro capo dovesse essere Giovanni secondo Bentivoglio, il che gli aprì la strada a farsi Principe colla facoltà ancora di usare due voti nelli partiti e decisioni. Ciò eseguito il Bentivoglio nominò li XX Senatori. Ognuno si può ideare come fosse la nomina.
La città infrattando vivendo col contado tranquillamente si attendeva in ogni sito a beneficare li fabbricati ed altresì ad attendere ai solazzi per li quali in alcuni luoghi naquerò scompigli. Abbiamo nelle memorie del canonico Carl’Antonio Villa originario di Castel S. Pietro che, essendo inofficiosa la chiesa di S. Pietro in questo Borgo di Castel S. Pietro a motivo di essere stata profanata dalle irruzioni de nemici e da fuorusciti goduta, fu ristorata e resa abbile al santificare la festa.
Giunto il giorno 29 giugno fu ribenedetta dal paroco D. Giovanni di Imola che a questa funzione vi volle aggiungere ancora la processione del SS.mo SS.to che di qui portandolo alla chiesa maggiore interna del Castello con molti lumi fu ricevuto collo scoppio delle colombrine della Rocca picola, una delle quali per la soverchia carica uccise il bombardiere Zanotto de Topi e ferì molte altre persone.
Li torrazzi del Castello che erano sfasciati e sgrottoli in alcuni luoghi furono ristorati e così seguì della mura. Soggiunge ancora il d. canonico Villa che in questo tempo si abolì l’uso di sepelire li cadaveri di Borgo nel contorno di d. chiesa, la quale per essere senza diffesa il cemetero della med. diedesi campo ad alcuni cani dissepellire un corpo umano e divorarlo. Molte altre notizie si legono di questa chiesa che essendo di lieve momento si omettono in quest’anno, nelle venturi ne annoteremo quelle che crediamo abbiano degno di essere esposte. Ne siamo in obbligo del favore de deffunto Lodovico Mondini sucessore del detto Antonio Villa che fu canonico poi di S. Petronio come alla sua epoca riferiremo, se Dio ci dà tanto di vita.
Li 24 agosto solenizandosi la festa di S. Bartolomeo di questi agostiniani e facendosi il baccanale del Corso all’Oca, naque rumore fra li castellani e borghesani locali, cosichè si venne fra loro alle mani ed alcuni rimasero mortalmente feriti: Cum nonulli H.H. de Castro S. Petri et de eius Burgo inter se contentionem fecerint superioribus diebus pro certo ludo et mortaliter fuerint nonnulli vulnerati. Per ciò si faccia inquisizione et per Potestatem puniantur sint. Lib. Maleficio. 1465. 1. 7.bris.
Un simile rumore accade nel giorno 29 corrente agosto in Castelguelfo, facendosi la festa di S. Giovanni Battista decolato tutelare della chiesa di quel castelluccio, nel qual rumore essendovi mischiato Giulio Tedeschi di Castel S. Pietro, detto Salamandra, con altri suoi coleghi furono questi rinchiusi entro il castello ma, fatta forza col prendere di mano ad uno di que solevati la ronca, il d. Salamandra si fece strada prendere il portello di quel loco e così potette con Giulio da Corneta e Polo Bonora di Castel S. Pietro fuggire.
Quanto dispiacesse un tal rumore a Virgilio Malvezzi, che ne era Conte di quel loco per chirografo di Pio II e Vicario a vita di Castel S. Pietro come si scrisse, si lascia in considerazione mentre egli, portando affetto all’uno e l’altro loco, non volle fare uso di rigorosa giustizia, soltanto bandì da Castel Guelfo li d. tre uomini di Castel S. Pietro per anni 10.
Viceversa non arrischiandosi li uomini di Castel Guelfo venire alli mercati di quest’altro loco per tema di un qualche sinistro evento, fu fra non molto fatta la pace fra li uni e li altri , come si riscontra da Pub. Rog. di ser Melchione Samachini stipulato nel dì 20 decembre anno presente che così incomincia: An.mo SS.mo et individue Trinitat. 1465 Exeunte Decembi Die XX . Regnnte Paulo II S. R. E. Pont. Cum de preterite augusti mense inter homines nunnullos Castri Guelforum et alios de Castro S. Petri exorte fuerint rixe et contestationes propter quas magnus rumor insonuit et eo mortalia fuit vulneratus Antonius Mia de Castro Guelfo et alios eius socios a Julio Tedeschio d. Salamandra de castro S. P.ri, ideo charitatis. ——- medio amplexa et osculo pacis ad invicem se se solverunt et absoluti esse voluerunt a quibus vis injuriis, contumeliis, percussionibus et vulneribus, illatis super quibus.
Nulla altro in quest’anno ritrovato avendo, passeremo all’anno 1466 di X.to nato in cui cominciarono a rivivere le fazioni e li partiti per evitare li quali le familie sloggiavano dalle castella ed andavano a cercare la quiete o nelle città, se pure potevasi in esse ritrovare fra le emigrate da Castel S. Pietro, la emigrazione delle quali fu interinale, troviamo quella de Samachini, così per sopranome detta ed originata da Pietro del fu Giovanni Neri, che composta di cinque colonelli ottenne la cittadinanza di Bologna dal Senato nel dì 21 maggio, come riscontrasi dal libro de partiti e della Civilità così notato: 1466. 21 maggio furono fatti cittadini di Bologna li seguenti di Castel S. Pietro, Melchione Notaro, Antonio Tentore, Nerio pellacane, Andrea e Domenico calzolari tutti fratelli e figli di Pietro qd. Pio Neri alias Samachini della terra di Castel S. Pietro colla condizione che non possino essere ammessi alli Uffici utili, ma solo li suoi dipendenti.
Item fol. 201 22 Agosto Ser Pietro Paolini di Castel S. Pietro not. Coadiutore all’Off. del Calcolo, rinoncia nelle mani di Antonio Garganelli.
Riscontrisi da questi due atti pubblici quali erano le familie civili di Castel S. Pietro. Nelle due notari Samachini e Paolini, l’ultima delle quali questa è la prima volta che la ritroviamo ne pubblici codici. L’avere più di un notaio questo luogo manifesta se era piazza da contratti o no e se era nulla in vista Castel S. Pietro e di quale lume.
La chiesa parochiale, che fino a questo tempo era stata senza sepolcri sotteranei interni alla med., troviamo nelle carte dell’archivio che Baldassarre Rota si fece un avello in quella colla inscrizione sopra Baltassar Rota, sibi suique 1466.
Chiamato poi il Legato Capranica a Roma per importanti affari dal pontefice, fu lasciato in Bologna per suo Locotenente e Governatore nell’anni 1467 Gio. Battista Savetti romano.
La pestilenza che, fino dal 1464 cominciata, serpeggiava qua e là e facendo gran danno. Morirono più persone vecchie che giovani sì nella città che nel territorio. Fu perciò terribilissima come raccontano li storici prossimi a questi tempi, più di ogni altro loco in Castel S. Pietro, Budrio e S. Giorgio di Piano all’entrare di primavera onde, al riferire di Alamanno Bianchetti nelle sue Cronache, dice che le d. tre comunità restarono presso che desolate di abitatori. Dietro questa turbolenza troviamo il paese mancante di questi cognomi Blavatini, Preti, Chini, Barbelli, Vitali, Nardi e Zanpolini.
Insignoritisi di Firenze Pietro Medici e cacciati fuori li avversari, ricorsero questi a veneziani onde esser sovenuti per espellere li Medici. Li veneziani condiscesero alla chiamata e spedirono molte genti sotto la condotta di Bartolomeo Coleoni da Bergamo affine di rimetterli in città e cacciare li Medici passando pel bolognese. Pietro Medici co’ primati della città scrissero ancor essi a bolognesi et al Re di Napoli, suoi colegati, per averne soccorso. Non furono tardi li uni né li altri imperochè li bolognesi assoldarono Federico Feltrio Conte di Urbino ed il cavaliere Orsino conduttore delle genti del Duca di Milano.
Questi tutti fecero la massa delle genti a Castel S. Pietro al numero di 13 milla combattenti che nella fine di marzo cominciarono a radunarsi. Durarono tutto il mese di aprile alla fine del quale andarono sul territorio di Faenza fino alla Cofina, danneggiando tutto quel paese nel formento e biade perché Astorre Manfredi signore di Faenza aveva ingannato la Lega bolognese. D’indi il dì 3 maggio andarono a Solarolo facendovi assai danni e dappoi li 13 d. levarono d’ivi il campo e venero a Castel S. Pietro l’Orsini ed il Feltrio, pernottarono quivi fino al giorno 17 seguente ed andarono ad Idice per più sicurezza temendo Bartolomeo da Bergamo che se ne veniva celeratamente.
Il Legato, che temeva un assalto a Castel S. Pietro, deputò Giovanni Malvezzi per commissario a fortificarlo e fare ostacolo al Bergamasco con ampla facoltà, come riscontrasi al Lib. + 15 N. 26 Arch. Senat.
Tanto fu, poiché li soldati veneziani tenendo la parte del Medesano, fecero campo alla Ricardina alla quale venendo li coalizati bolognesi per queste parti di Castel S. Pietro con assai truppa andarono ad incontrare ivi il bergamasco Bartolomeo ed attaccata una fiera battaglia fu sbarragliato per rispetto di certi pezzetti di artigliaria ed alquanti archibugi che cominciarono ad usare in campagna, dove che prima non si erano veduti se non pezzi grandi da batteria.
Ottenuta questa vittoria, perché Astorre Manfredi si faceva forte in Faenza ed aveva intenzionato venire in campo a Castel S. Pietro, il Senato, perché non prendesse maggior forza, tosto spedì sotto Faenza il Conte Feltrio colla bombarda grossa nel mese di settembre indi rivoltossi ad oppugnare Riolo Secco. Non si potette effettuar l’ingresso a motivo di una dirotta pioggia che li fece ritornare e trattenere a Castel S. Pietro di dove poi più non partì a motivo dell’inverno che si avvanzava.
Alla fine del settembre essendo morto in Castel S. Pietro di male pestilenziale D. Giovanni da Imola arciprete, si fece loco alla nomina del paroco, procastinandosi questa, il Capitolo di S. Pietro avido di spogliare la Comunità di Castel S. Pietro dal Jus presentandi, nominò nel dì 2 novembre D. Francesco Rossini alias Orsini con dichiarazione però di non pregiudicare alla Comunità per le venture nomine, alla quale spetta il Jus nominandi et al Capitolo il Jus presentandi, come si legge al protocol. 19 fil. 4 N. 72 di Albice Dulioli in questi termini: Ad quod Capitulus colatio et provisio Rectoris d. Eclesie S M. de Castro S. Petri de jure et de antiqua hactenus observata consuetudine spectat et pertinet. Quanto dispiacesse questo alla università di Castel S. Pietro non è possibile narrarlo, poiché di quivi cominciarono novi livori al paroco e rumori nel paese che alla opportunità riferiremo.
Li 4 decembre Giacomo Sibaldini fu eletto dal Senato per castellano della Roca di Castel S. Pietro per tre anni prossimi da incominciare il primo genaro venturo 1468 e Gabriello Ingresio de Tomasi fu eletto castellano della Roca picola per anni tre incominciati l’anno presente 1467 con sigurtà.
Essendo stata bisognosa di certi lavori la chiusa di Reno per la città di Bologna, fu tassato Castel S. Pietro per l. 40 come si riscontra al Lib. de partiti senatori.
Sino a quest’anno essendosi eletto in Confaloniere della città uno fuori del ceto senatorio, fu decretato, come scrive la Cron. Galassi, per l’avvenire dovesse essere uno del ceto senatorio. Tutto ciò fu manovera di Giovanni Bentivoglio onde li cittadini la sentirono male vedendosi concentrata nelli solo XXI Rifformatori questa carica, di cui non era partecipe la cittadinanza e non la sola nobiltà patrizia.
Attesa la guerra sud. il Senato per assicurare vieppiù la città prese al soldo Antonio Trotti di Alessandria e Giacomo Rossi parmeggiano l’anno seguente 1468.
Il papa che vedeva crescere la ostilità fra suoi suditi e li esteri si infrapose per la pace. Intanto che questa si maneggiava non cessavano le baruffe ed aggressioni, contribuzioni ed aggravi a suoi popoli.
Li uomini di Castel S. Pietro mal soddisfatti del sottomano fattole dal Capitolo di S. Pietro nella nova elezione del paroco, trovandosi le serraglie non meno della di lui abitazione che del campanile per modo che erano le prime di un facile ingresso a derubbarlo, non si vollero mai prestare ad assicurarlo in casa, cosichè il giorno 5 genaro venendo alli sei di nottetempo introdussi in questa Irondio Fontanella con certo Malaguti, lo svaliggiarono. Fu ciò un forte motivo onde ricorrere per il ristoro, atteso che non si era mai volsuto dalla Comunità prestare alla sicurezza della canonica ma, perché le instanze fatte dal paroco non erano state che verbali, toccò alla Comunità soltanto l’accomodo alle seraglie infrante ed al paroco soffrire il danno del furto.
Quanto poi al campanile per essere indefeso, il minor male erano le lordure. Accadde posteriormente al furto sudd. che, dovendosi in questo tempo fare una festa a S. Biagio, beneficio di pochi anni in qua eretto nella parochiale, furono la notte antecedente forzate le porte delle campane e levati li battigli alle campane, così che non si potette sentire per alquanti giorni il suono. Fra non molto catturato Irondio fu punito della tortura in Castello.
Ruinato come si disse in addietro Casalecchio de Conti, avendo ancor patito danno la chiesa nel fabbricato dal furore de guastatori, Pavolo Conti che ne teneva la signoria di quel muchio di case e di quei pochi abitatori in quel casale picolo, d’onde ebbe il nome di Casalechio anticamente de Conti, comiserando lo stato in cui trovasi quella chiesa dedicata a S. Michele, dove si soministrava dal beneficiato di quella li sagramenti, fece fabbricare la capella maggiore. Ciò lo sapiamo non solo dalle carte antiche e pub. rogiti ma anco da un monumento maggiore di quante carte si trovano ed è lo stema che usavano allora li Conti padroni di quel castellucio, rapresentante in sculto macigno un Rampante, simbolo di signoria e grandezza, mentre a questi tempi solamente da chi era Signore si usava, colla seguente sottoscrizione a lettere romane che noi qui apponiamo, sebbene scritta da altri istoriografi.
Paulo de Conte
De Conti da Casa
lechio fece fare
Questa Capella
dell’anno 1468
Il sudd. castelluccio mai più fu ridotto alla semetria e fortezza di cui lo era per l’avvanti.
Da un rimasuglio di quell’antico fabbricato e dalle vestigia che si vedono si riscontra che questo piccolo casale aveva la sua porta, mentre tutt’ora vediamo esistere un antico voltone che dava l’ingresso e sortita a quell’abitato a fianco del quale doveva esservi una discreta fortificazione proporzionata al Conte, che distrutta dappoi e rimastovi il puro abitato padronale, fu il suolo di quella ridotto ad orto nel 1538. Avendone anco di ciò altra simile prova da una descrizione in verso, sculta ed esistente in loco visibile sotto d. voltone, la quale qui riportiamo, sebbene da altri forse trascritta ora si possiede dalli Cavazza di Bologna
D. O. M.
Tenpora ne Comitum consumant nobile Nomen
Hos Hortes fecit quos spectas Concta Jacobus
Anno Virginei partus MDXXXVIII
Questa famiglia di Conti poi diramata in più stipiti se ne ridussero due a Castel S. Pietro, li altri propagati in varie altre familie, colla replica delli stessi nomi di Paolo e Giacomo, si sparsero nelle superiori montagna la di cui genealogia facile sarebbe il farlo dalli rogiti che abbiamo veduto.
La chiesa acennata più non esiste ma l’altra più bella fatta in quell’apice sotto il governo del sacerdote D. Bubelli si vede.
Ritornando al nostro discorso di Castel S. Pietro soggiungiamo che essendo bisognoso Castel S. Pietro di rimettere in patria li suoi fuorusciti e li più coraggiosi, massime nelle presenti circostanze in cui si aveva di confina un potente nemico che era Guidazzo Manfredi signore di Imola e filio di Tadeo Manfredi signore di Faenza, furono molti richiamati a casa fra quali abbiamo Zanone di Pietro Denti che trovasi nel Lib. de Partiti senatori di quest’anno assoluto e cancellato dal Bando. Furono contemporaneamente rimessi in patria Flisco Zambella, Zano de Zani, Pietro Gadone e Pippo di Julo Marsigli. Non furono si tosto rimessi al postliminio questi soggetti che ne diedero le dovute riprove alla populazione, inperciochè stante la Lega che sussisteva fra li fiorentini e bolognesi per la sud. guerra, essendosi collegati li Manfredi di Faenza e d’Imola contro li coalizati di Pietro Medici, non andaMa quando erano in pochi e se ne poteva accorgere, Zenone faceva loro l’aguato per lo meno le dava co suoi compagni la caccia. In questo proposito abbiamo da alcune memorie di Dozza, comunicateci dal dott. Paolo Dalmonte, bibliotecario della Biblioteca Imperiale di Roma e nostro concitadino come a suo loco diremo, che avendo Guidozzo d’Imola spediti alcuni uomini d’arme a Dozza per fare guarnigione contro li vicini castelli del bolognese, arischiarono questi venire alla confine per predare ma, ritrovati alcuni di Castel S. Pietro fra quali eravi Jodano da Corneta e Giovanni Bonora da Castel S. Pietro che erano con altri imboscati al Machione, si venne fra loro alle mani e nella baruffa fu eguale la perdita poiché di quelli della guarnigione dozzese perdettero due cavalli e quelli di Castel S. Pietro alquanti bestiami minuti e l’uno e l’altro si portarono il vicendevole bottino a propri alloggiamenti, ciò si descrive nel maggio di quest’anno.
Pressiedeva in Castel S. Pietro in qualità di comissario Giovanni Guidotti il quale, temendo alla giornata di avere un attacco di scorreria dalli imolesi per il fatto sud., scrisse a Bologna che faceva luogo guarnire anco le superiori castella del vicariato comechè solo da terrazzani erano guardate. Aggiunse dippiù che conveniva riparare la Roca picola di Castel S. Pietro che nel cassare et aderenze era poco sicura. Favorì il Senato, fu rimesso al med. Guidotti il riattamento nel quale si spesero l. 150 come rileviamo dal Lib. Mandat. in questi termini: 1468. 29 novembre. Expondantur in reparatione Roche Castri S. Petri l. 150 per Jo. Guidotti, e fu a tempo proveduto.
Inperciochè accaniti li uomini d’Imola per non avere potuto battere li nostri, come si scrisse, anziché con lora vergogna levati li cavalli, Guidazzo mandò una truppa d’imolesi novamente a danni de bolognesi per modo che, sopragiunti alla pianura sotto strada alcuni villani che travagliavano la terra furono presi e fatti cattivi e di più oltre li bestiami , svaligiarono anco le case al Cereto ed alli confini e condussero a Imola le persone, robbe e bestiami. Ne fu portata la relazione al Senato acciò provedesse, mentre erano divenuti frequenti ancora altri malefici che si perpetuavano dalli imolesi fino al ponte sopra il Silaro, cosichè temevasi di un qualche disordine. Il Senato perciò in decembre commise a Giovanni Pavolo Volta, Galeazzo Marescotti e Virgilio Malvezzi di prendere la vendetta e fare tutto ciò che avessero creduto contro Guidazzo ed imolesi come abbiamo dal seguente Partito, T. 2 fol. 247 cioè: 1468. 8 X.bris. Cum D. Imole fecerint insultum in Territorio Bonon. cum suis gentibus videlicet in territorio Castri S. Petri et nonnullos captivos dexerit et multa bona pauperos homines vi rapuerit, que preter jnjustitia commisit, cadit in maximum dedecas hujus civitatis. Nolentes DD. Reformatores tantam injuriam multum pati sed cum vi ulcisci intendentes, existentes insufficienti N. congregati in Camera solite Ressidentie. Eligent per omnes fabus albas infrassotos quattuor di N. dictorum XVI videlicet D. Jo Bentivolus, D. Paolum Dalla Volta, D. Galetium de Marescottis et Virgilium de Malvitiis, quibus plenissimam commissionem dederunt omnia faciendi in ultionem tante iniquitatis ac temeritatis, ra…. et firmum habere quidquid p. eos in predictis factus, gestus ac conclusus fuerit.
Venuti perciò a Castel S. Pietro fecero intendere a Guidazzo che dimettesse li prigioni e ciò che avevano tolto le sue brigate a Castel S. Pietro, altrimenti se le intimava la guerra. Fu a principio rinuente Guidazzo ma, vedendosi inferiore di forze, furono restituite in appresso hinc inde le rapresaglie fatte e nel successivo anno 1469 si pacificarono li Manfredi co’ bolognesi.
Perché fino dall’anno 1467 si erano fatte non poche spese intorno ad ambe le Roche di Castel S. Pietro in somma di l. 253: 10: 6 le quali per anco non erano state soddisfatte, ricorsero li uomini di Castel S. Pietro al Legato acciò facesse in guisa colla sua autorità pagarle dal Senato. Egli vedendo una si fatta durezza ordinò nel dì 17 febraro 1469 che fossero tostamente pagate, ne fu quindi estradato il seguente decreto ed ordine che noi trascriviamo quivi colla susseguente determinazione del Senato cioè: 1469. 17 febraro. Jo Battista Sabellus Bononie Gubernator. Cun nobis constat Comune et Homines Castri S. Petri Comitatus Bononie de anno 1467 raprasse et fortificasse Rocas ambas, videlicet magna et parvam d. Terre Castri S. Petri de Commissione Regiminum, quia summa reparatione indigebaret et propterea eos creditores esse in l. 553: 10 bonon. ut constat per relationem magistri Aristotelis ingegneri cui ratio laborerioros dd. videnda et examinanda commissa fuit. Volentes satisfieri liotis expansis Comunis et homines ut super est providere tenore peresentis nostri Mandati d. l. 553: 10: 6 iis assignamus super pecuniis extraordinariis estius Camere exeuntibus dei 10 juni et die 10 juli proximi futuri. Mandamus R. P. D. Episcopo avinionensi Comunis Bononie Tesaurario, ceterisque ad quos spactat quod d. Comune et homines Terre Castri S. Petri in at pro creditoribus d. Comune descri … debeant et solvere facere debeant videlicet medie tutum die 10 juni et aliam meditatum die 10 juli ut supra.
Immediatamente avutosi questo decreto fu presentato al Senato che nello stesso giorno improntò il seguente ordine: 17 febraro 1469 attesa la spesa fatta dal Comune di Castel S. Pietro e uomini per la riparazione delle due Roche ascendenti a l. 553:10: 6 decretarono li Rifformatori che si pagassero dalla camera metà in giugno e metà in lulio prossimo.
Su questo esempio Gaspare Rondoni ed Oliviero Calanchi ricorsero ancor essi per il pagamento delle loro manifatture intorno alla Roca grande, che il mandato non ci esprime quale e quanta fosse la spesa, l’ottenero perciò in questi termini nel dì 15 marzo come siegue cioè: Che si paghino a Magistro Gaspare de Rondoni da Castel S. Pietro et ad Oliverio de Bartolomeo Calanchi magistri legnaminis per parte di loro mercede dovutale per la riparazione e lavorieri da loro fatti di Commissione de Regimine in Roca Magna Castri S. Petri.
Infrattanto seguì a mediazione del Papa la pace fra la sud. Lega de veneziani e fiorentini co fuorusciti ed ognuno ritirò le armi a casa.
Tristano Sforza che era delli associati a Bologna sciolto dal soldo venne nel dì primo settembre a Castel S. Pietro accompagnato da Alessandro Poeti con tre cavalli dove stette per tre giorni. Ciò lo rileviamo dal Lib. de mandati in questi termini: 1469 Primo settembre. Si diano allo spettabile Cavaliere Alessandro Poeti spedito con tre cavalli alla provisione di soldi 15 per cadauno ad allociandum illustrissim. D. Tristanum Sfortiam ad Cstrum S. Petri, ubi stetit tres dies a die discellus usq. ad radim.. Il motivo di tale venuta ce lo tace il mandato.
Crescendo il Bentivoglio in autorità e seguito in Bologna, il che vedendo il Governatore e perché non poteva reggere la città come conveniva, attesochè il Bentivoglio era in tanta riputazione, che veniva riverito e tenuto per principe, si partì l’anno seguente per Roma ed il Papa deputò tostamente per Legato Francesco Gonzaga. Zanone Denti, che per anco non aveva avuto l’ordine di sicurezza benché richiamato a casa, fu per convenienza dal tribunale tassato in solo l. 25 per il di lui reato capitale. Eccone l’ordine: 1470. 2 genaro. Fu pienamente assoluto Zanone di Pietro Denti da Castel S. Pietro in pena del taglio della testa dal 1462 ex eo auxilium prestitit cuidam Bolognino da D. Castro a deponendum tostius habitationis Francisci de Sibaldinis tunc Potestatis Castri S. Petri ut extraheret ex ea domo Jacobum fratrem d. Bolognini ibidem pro maleficio detentum et sic eum extraxerunt conta voluntatem d. Potestatis solutis prius l. 23 infra mensem.
Essendo stato estratto di novo per Vicario e Podestà di Castel S. Pietro Alessandro Poeti per il primo semestre all’adempimento del qual ministero pochi si prestavano di bona voglia e quivi domiciliare cosichè si introduceva l’abuso di sostituire un giusdicente anco riguardo alla materia per cui si giudicava, così il Senato accrebbe la facoltà giudiciaria fino a l. 25. Rileviamo ciò dal T. 3 Partit. Car. fol. 1 in questi termini: Decretaverunt XVI quod D. Alexander —– Miles extractus novit. ad Vicar Cas. S. P.ri pro primo semestri 1471 ministrare possit ac jus reddere usque ad summam L. 25 et ac stante d. D. Alexander personalit. ad officum et non aliter, non obstantibus quod eius jurisdictio exercere non debeat l. 10: 6 cui pro hac vice derogant. Solo nel venturo anno 1471 venne all’officio.
Nel dì 9 genaro poi 1470 furono rinovati li capitoli fra Bonaventura ed Ughetto ebrei da una parte, li uomini di Castel S. Pietro dall’altra col metodo antico come si è veduto in addietro alla condizione soltanto aggiuntavi che non potessero li ebrei far credito in giorno festivo della Chiesa.
Li 28 genaro, essendo castellano della Roca grande di Castel S. Pietro Giacomo Sibaldini, fu confirmato nel suo ministero per opera di Giovanni Bentivoglio e Christoforo Ariosti fu confermato Castellano per anni tre della Roca picola collo stipendio di l. 5 mensili.
Giovanni Bentivoglio che reggeva la città ed il contado tutto, vedendo li abusi che comettevansi da commissari e giusdicanti nelle ore destinate a rendere ragione pensando che si rendeva a capriccio, ordinò che alli uffici de giusdicenti si dovesse tenere presso le porte campanella onde invitare li aventi bisogno di giustizia, ciò tosto fu eseguito nelle principali Terre, Vicariati. Budrio, Castelbolognese, Castel Guelfo e Castel S. Pietro ubidirono all’ordine ma avenne che in Castel S. Pietro in tempo notturno si sentisse dappoi, in ischerno, tuttora il suono della campanella. Fu levata questa e collocata fuori della finestra del giusdicente, cosichè levato il trastullo delli poco rispettosi della autorità restarono bensì in essere quelle di Castelbolognese e Castel Guelfo come tuttora sì vedono.
La grande aridità del tempo e le successive eccedenti pioggie in quest’anno produssero frequenti e spaventevoli terremoti in ogni dove onde crollarono edifici. La torre antica di Facciolo Cattani da Castel S. Pietro più volte reidificata e ristorata patì molto. Le torri pure di Virgilio Corniani e di Rondone Rondoni in Castello crolarono, nel Borgo si apperse la chiesa di S. Pietro e restò così alquanto tempo finchè dall’abbazia di S. Stefano fu fatta ristorare, secondo le memorie Villa.
Quantunque tale flagello fosse spaventevole non di meno quietavano li rissanti. Abbiamo perciò, nelle memorie de Fabbri, che, venuto a parola certo Palanca con Marco Andrini a motivo del Baccanale dell’Oca, il giorno 24 agosto ne seguirono tante le percosse fra l’uno e l’altro che appena potette ritirarsi in loco sacro il primo che, inseguito dal secondo ancorchè esso ferito di coltellina per il gran seguito di parenti. Lasciò l’infelice Palanca la vita in chiesa, per la qual cosa l’arciprete volendo chiudere le porte al favore delli ultimi incontrò ancor esso insulti. Fu col suono della campana inseguito il micidiale, ma fattosi largo fino alle mura verso il fiume, le riescì saltarla ed imboscarsi nella vicina collina ove stette fino alla mattina delli 25 non essendo potuto più oltre andare a motivo della perdita di forza per il sangue. Fu arrestato e fra giorni morì. Il Bentivoglio avvisato di tanto rumore, volle che l’Andrini sebbene morto servisse di specchi ai vivi malfattori e lo fece appendere con un laccio al collo alla fenestra del giusdicente.
Li frati di S. Bartolomeo furono in seguito interdetti il dare per l’avvenire al populo un tale divertimento senza licenza del Governo.
Suor Francesca Mondini di Castel S. Pietro, come riferisce il P. Vanti nelle sue memorie, fu in questo tempo fatta abbadessa del suo convento del Corpus D.. Crediamo per ciò che egli abbia errato nell’anno mentre diversamente trovasi scritto in altri istoriografi, che sia ciò non è di sostanza, bensì ella era dalle sue compagne tenuta in esistimazione santa.
L’anno seguente poi 1471 fu Podestà per il P.S. Alessandro Poeti. Li Podestà successivi ci mancano li atti fino al 1474.
Trovandosi inabitabile l’ospitale di S. Giacomo e Filippo al ponte Silaro non tanto per la trascuraggine in rissarcirlo che per la sua antichità di fabbricato e per li terremoti passati onde era inospite totalmente e tuttora in questo si facevano nascondili, che però, fatta instanza al vicario vescovile, fu applicato colli terreni a S. Sigismondo parochia di Bologna che si regeva in questo tempo da D. Lorenzo Pisi come si riscontra in questo archivio parochiale e dalla visita sucessiva pastorale.
Li beni sottoposti a questo ospitale furono anco in tale contingenza applicati alla chiesa sud. di S. Sigismondo che ora si godono in enfiteusi dalli sucessori di Vincenzo e Lodovico Mondini. Raccontano le memorie di questa familia che, essendo accaduto ivi la morte di un peregrino e dall’ospitario che era un certo Nerio dal Bambo non essendosi volsuto sufragarlo col danaro ritrovato al defunto, sopravennero alcuni di Macerata a chiederne il certificato della morte colle sue carte ma, avendole ricusato l’ospitario, formarono quelli di notte tempo una profonda fossa, appresso il cadavere dell’estinto e dappoi con destrezza condussero il med. ospitario colla bocca turata alla buca e quivi fattolo discendere vivo lo seppellirono lasciandolo solo il capo fuori dove stette fino a giorno, crudeltà inaudita.
Nino Cabruzzi imolese, essendosi fatto capo di altri fuorusciti ed assassini, faceva assalti alle persone ed erano anco poco sicuri li villani che andavano a travaglio rurale. Essendosi costui fatto ardimentoso al segno che veniva con armati fino al ponte, Alessandro Volta, che era stato dichiarato commissario di Castel S. Pietro, le spinse dietro nel dì 27 maggio alquanti paesani de più corraggiosi. Onde vedendosi Cabruzzo un tumulto di gente inseguirlo, diede indietro ma, sortiti li villani da vicini campi, nella fuga che egli faceva verso Imola fu fermato ed imprigionato con due suoi compagni condotto nella Rocca picola del Castello dove stato alquanto tempo fu dappoi spedito a Bologna.
Avvisato il Senato che dalla Romagna veniva Alessandro Sforza con comitiva per andarsene a Milano, fu incaricato il Conte Andrea Bentivoglio a trattarlo a Castel S. Pietro, venne altresì ad incontrarlo Piero Malvezzi, quale arrivato fu accarezzato, introdotto in Castello nella Rocca grande e quivi onorevolmente trattato. Rillevasi ciò da un partito de regimento sotto il dì 19 giugno del seguente tenore: 1471 Die 19 Juni. Solvantur 8..9extraordinariis Co. Andrea de Bentio ducat. 8 auri, quos de Commisione Regiminis solvit Perro de Malvitiis pro honorando Ill.mo D. Alexandro Sfortia in Castro S. Petri dum Mediolanum venieret.
Li 25 lulio Paolo II dopo aver governato la Chiesa sette anni morì in Roma alle ore 8 di notte di mal di gotta. Vacò la S. Sede pochi giorni così che li 9 agosto fu eletto Papa il card. Francesco Dalla Rovere dell’ordine de M.M. O.O. col nome di Sisto IV.
Il convento delli Agostiniani che aveva patito per li terremoti fu riparato con sovvenzione della Comunità. Medesimamente fecero li borghesani intorno alla chiesa della Annunziata.
L’anno poi che seguì 1472 fu copioso di nevi e pioggie tali che, gonfiando li torrenti, dannaggiarono le fronteggianti campagne. Si ha dalle memorie Vanti che il Silaro al cominciar di genaro per un sirocco ecessivo, squagliando le nevi, produsse una orribil piena inaspettata che rovesciò un lungo tratto di ala al ponte sopra la via romana.
Eletto per Commissario di Castel S. Pietro Sigismondo di Bernardo Aldrovandi appena giunto in Castello si diede il pensiero di fare fortificare la carcere grande, corrispondente nella strada che esisteva sotto la di lui abitazione e si spesero l. 57: 3.
Princivalle e Nicolò Pii signori di Carpi, essendo stati cacciati in una rivolta di quella città, per mettere in sicuro la loro vita, avendo amistà colla familia Fabbri, Campana e Muzza di Castel S. Pietro si ricoverarono quivi. Alla fine di genaro, preso un poco di ristoro non mancarono di avere intelligenze in quella loro patria per esserne rimessi.
Il Duca di Ferrara che loro portava avversione, penetrato questo, fece alto impegno con Giovanni Bentivoglio acciò li facesse sloggiare da Castel S. Pietro. Ebbe il suo intento poiché nell’aprile il senato loro intimò la partenza da Castel S. Pietro in seguito del decreto fatto così cantante: 13 Aprile 1472 D. Princivallis et Nicolaus Piis, exules Carpi qui ad prevens habitant in Castro S. Petri, mandatum infra decem dierum discessisse debeant de jurisdictione Bononie sub pena eorum indignationis(quell’eorum è riferibile alli rifformatori che ne fanno l’ordine) attentis maxime scandalis qui per eos quotidie comittuntur adversus D. D. Carpi raccomandatos Ill.mo D. Duci Ferrarie, de quibus eius donatia super conquesta fuit.
Il fatto per cui fossero esiliati non lo apponiamo per non essere stuchevoli e non interessare il nostro racconto. Partiranno per tanto solo al cadere di aprile.
Antonio Saraceno bolognese poi, per la amicizia che aveva con Sigismondo Aldrovandi commissario del Castello, trovandosi quivi ed avendo contratta amistà stretta colla familia Balduzzi, al cui servigio stava un di lui familio da lungo tempo, questi andando alla caccia incontrò una giovinetta ed, avvinta, la forzò. Fu ritrovato ed accusato al commissario quale, benchè fosse suo amico, ne ordinò l’arresto cosichè consumato l’ordine fu immediatamente spedito a Bologna. Chi fosse la stuprata il Lib. Mandat. del Senato non ce lo racconta, solamente in questi termini ci dice il fatto: Aprile 20 Antonio Saraceno violò una donetta in Castel S. Pietro, fu errestato e spedito a Bologna.
Essendo poi passati nel decorso maggio alquanti pedoni che seguivano Alessandro Sforza Duca di Milano già nell’anno scorso passato, ebbero quivi il loro beveraggio e tappa e ,come che intercedeva amicizia fra lo Sforza e Bentivoglio, fu ordinato a Francesco Petri oste nel Borgo di Castel S. Pietro il pagamento della sussistenza e fu commissionato Sigismondo Aldrovandi che pure pagò anco una picola spesuccia interno alla Rocca fatta da M.ro Lodovico Rimondini, come riscontrasi dal mandato senatorio in questi termini : 1472. Giugno. Si paghino a Francesco Petri oste di Castel S. Pietro la spesa per certi pedoni del Duca di Milano e più si paghino a Lodovico Rimondini l. 14: 5 per spese fatte nella Rocca di Castel S. Pietro.
Per il secondo semestre fu Comissario di Castel S. Pietro o sia Podestà Giovanni dell’Armi.
Accade in questo tempo che li dazieri pubblici intendevano di riscuotere le gabelle e dazi sopra le robbe che da Casalfiumanese e sua podestaria, della quale ne era Vicario Cristoforo Ariosti, si portavano al mercato di Castel S. Pietro il che, essendo un angaria, fu fatto ricorso al Senato e al Legato li quali, riconoscendo iniqua la pretesa, ordinarono che per l’avvenire potessero trasportarsi al mercato di Castel S. Pietro franche le merci di Casale, ne seguì il decreto al principio di decembre come così riscontrasi dal Lib. Partit. Car. Fol. 51 li 5 X.bre 1472.
Giovanni Dall’Armi e Christoforo Ariosti ottengono la Dichiarazione dal Senato che li uomini della podestaria di Castel Bolognese e Casalfiumanese non siano tenuti pagare cosa alcuna ai conduttori dei Dazi per le robbe e viveri che portano al mercato di Castel S. Pietro, quam Relationem D. Legatus approbavit ut in suplicatione, e così da qui in appresso si cominciò più affluentemente portarsi il pane e li altri comestibili da quei popoli al nostro Castello onde il mercato riescì più florido di ogni alto loco.
Chi fossero li officiali di Castel S. Pietro nel 1473 le carte che abbiamo rivolte non ce lo manifestano. Gran cosa è per un povero scrittore in non avere tutto quello che le sarebbe necessario per condurre a qualche vista la sua leggenda, conviene pertanto rasssegnarci alla qualità de tempi e uniformarsi come infiniti scrittori alle vicende mondane e segnare quel poco che si ritrova.
La familia di Cosma Serpa, non meno dedita alle armi che alla pietà, fondò in quest’anno nella chiesa arcipretale di Castel S. Pietro ad un suo altare juspatronato Serpa e un beneficio lajcale nel dì 8 maggio a rogito di Nicolò Beraldi, sotto la invocazione di S. Lorenzo. Era questo altare alla sinistra della chiesa ove ora è l’altare di S. Antonio Abate. Fu dappoi tale beneficio incorporato colla sua dote nelli altri beni spettanti alla d. chiesa, come a suo loco nella trascrizione delle visite pastorali.
Lodovico Malchiavelli di Castel S. Pietro che fu padre di D. Aldrovando paroco della chiesa di S. Vitale ed Agricola di Bologna, come riscontrasi da un atto pubblico fatto li 16 genaro 1475 nella fabbrica di S. Petronio , avendo trasportato in Castel S. Pietro un fardello di polvere per uso delle Roche ed avendolo lasciato inavedutamente sopra uno scanno domestico, accadde che un di lui fanciullo, avendo preso alcune granelle di quella materia e compiacendosi vederlo sintilare nel foco, ne prese una picola porzioncella per divertirsi ed, essendosi il genitore assentato per un breve
momento, temendo il fanciullo di essere scoperto nella sua sottrazione, gettò la polvere nel foco che scopiando imediatamente accese il resto del fardello e conquassò tutta la casa sua che era in via Framella. Per tale scoppio, che fece una sensibile comozione al fabbricato vicino, sembrò che ruinasse da quella parte il Castello onde accorsovi popolo armato, credendo qualche fatto straordinario, ritrovossi l’infelice fanciullo che ardeva e fu tostamente salvato.
L’invenzione della polvere da canone e della artigliaria è di Bartolomeo il Nero, conforme lasciò scritto Preto Mattei nella sua Storia di Luigi IX Re di Francia al fol. 780. Questo Bartolomeo monaco alemanno alcuni lo mettono nel 1330 altri nel 1354 ed altri nel 1380. Io mi attengo alla ultima epoca poiché ritroviamo in questi tempi edificate le mura di Castel S. Pietro con baloardi che hanno le loro bambardiere per uso di cannone, come egli è da vedere nel torreggiotto angolare del nostro castello, detto il torreggiotto Locatelli, unico testimonio della prima mura che circuiva in questi tempi cioè nel 1398 il nostro Castello. Entrasi nell’interno dell’orto Locatelli e si osservi il torrazzo, che si vedrà se male ci apponiamo.
Li portoghesi, conforme prosiegue il d. Mattei, trovarono nel reame di Pegù de pezzi di artigliaria che li chinesi vi avevano portato cento anni avvanti e li chinesi attribuiscono così fatta invenzione ad uno spirito maligno che l’insegnò al loro primo Re nominato Vitai per difendersi contro li tartari più di mille anni avvanti X.sto nato Salvator nostro.
E chi non sa, massime ai nostri giorni, che il cannone e le bombarde hanno dichiarato deboli tutte le fortezze, che li antichi tenevano per inespugnabili. Non avvi alcuno che non tema questo fulmine. Egli fa de colpi così terribili li quali sono di maniera fuori dell’uso delle antiche machine, che ha mutato tutte le antiche forme delli assedi e battaglie. La polvere e li fuochi artificiali sono moltiplicati e variati in tante guise dalla perspicacità e finezza inglese che sono pervenuti a si grande perfezione che la guerra, la quale per l’addietro non si faceva se non col ferro, oggidì non si fa se non col foco.
Ma non essendo l’ingegno nostro di qui raccontare le tante maniere colle quali si guereggia col foco, passiamo al 1474 in cui nel primo semestre fu Vicario Lodovico Crescenti. A questi nell’entro dell’anno, perché temevasi assai delle discordie insorte fra Tideo Manfredi signore di Faenza e Guidazzo suo filio signore di Imola, ordinò Giovanni Bentivoglio che si rinovasse l’uso antico de Vicari che, oltre la sigurtà del loro retto ministero, avessero anco all’ingresso de med. eseguire le solennità prescritte dalli Statuti.
All’arrivo suo pertanto fu ricevuto alla porta del Castello dalla pubblica rappresentanza e dal notaio ser Andrea Ghirardaccio quale a nome pubblico ricevette il giuramento come ne di lui atti così riscontriamo: Die 2 jannari 1474. Magnificus D. Ludovicus Crescentius Vicarius Castri S. Petri pro primis—- Juravi fidemobservari Populo et Comuni Bon., nec non huic Castro eiusque. Vicariate,personis. Jus et justitiam recto ministrare, juxta firmam Statut. bonii. —- Presentibus Joachino de Simbenis er Marco de Bonis et ego Andreas Ghirardacius Not. hanc cartulam scripsi et subscripsi de more. Doppoi consegnatolo in mano lo stendardo pubblico della Comunità e da esso tosto ripassato al suo familio, fu accompagnato alla ressidenza della Ragione.
Di questi anni Papa Pavolo volendo contestare la sua amorevolezza al Bentivoglio concesse al med. che dopo la di lui morte sucedesse Annibale di lui primogenito nel di lui posto nel primo loco del Senato ed ecco consolidata la Signoria di Bologna alla famiglia bentivolesca.
Memore il Bentivoglio di tanta onorevolezza volle contestarne al pubblico et a Dio la sua contentezza poiché, avendo fino all’anno scorso ordinato che ogni anno tre giorni avvanti l’Ascensione si facessero le rogazioni della B. V. di S. Luca in tre chiese diverse, fu in quest’anno del med. introdotta ed incontrata da esso solennemente alla porta della città. Su tale esempio in processo di tempo fecero lo stesso le comunità del contado.
Essendo dunque li d. Manfredi in discordia, Galeazzo Sforza Duca di Milano approfittossi di tale occasione per incominciare ad impadronirsi della Romagna. Quindi fatto bon partito in Imola, spinse soldati a Castel S. Pietro ed avuta intelligenza interna di quella città, fu introdotto in essa e se ne impadronì e ne caccio Guidazzo ed in appresso la diede in dote a Madama Caterina Sforza sua figlia naturale maritata col Conte Jeronimo Riari.
Per queste mutazioni stavasi in continuo sospetto dalli uomini di Castel S. Pietro, avendo la guerra a fianco, tanto più che le castella dell’Imolese si erano da questo canto sollevate a pro dello Sforza. Ciò temendo il Bentivoglio col Senato guarnirono Castel S. Pietro di uomini e di munizioni d’ogni sorte.
Infrattanto fu estratto per vicario col nome di Podestà di Castel S. Pietro per il secondo semestre Antonio Saraceno.
Non sembrò vera una tale estrazione al Saraceno per venire a questo loco a vendicarsi dell’affronto ricevuto di essere condotto arrestato a Bologna come si riscontrò dal Lib. Mandat. et Partit. del Senato et abbiamo al suo loco narrato sopra la donna violata due anni sono. Costui, tenutosi a mente l’occorsole, appena giunto in Castello e preso il possesso della sua carica si mise all’impresa di novamente insidiare la donna maritata onde avere motivo di riffarsi. Non potendola per ciò vincere ricorse alla crudeltà. Fece imprigionare il di lei marito per nome Cola Tristani fingendo essere stato avertito che avesse egli avuto mano nel levare la campanella dell’udienza di cui sopra. Si scrisse come delitto di lesa autorità, strinse Tristano a giustificarsi. Non essendovi il marito, riccorse la donna alla preghiera per la libertà del marito innocente.
E come replicò il Saraceno? : tu prieghi colui del quale tutto il suo volere consiste in poco ed è sogetto alle tue ripulse ? Rendi tu a me stesso che io ti rendo il marito, egli è mio prigione ed io son tuo. Sta in tuo potere liberare entrambi. Resta ella confusa fra la vergogna di perder l’onore ed impalidisce per il marito, se ne parte sconsolata. Torna fra tre giorni al Podestà Saraceno, priega novamente ma lo trova scomposto. Rinova le lagrime per lo sposo, sembra alla fine commoversi a quelle e, per liberarsi del soverchio cicaleggio, dice alla donna che si vada a prendere il marito alla carcere né più lo disturbi essendo stato abbastanza nojato.
Vola giuliva la donna alla carcere apertale dall’usciere e quivi trova strangolato il marito. Se le getta sopra con grida spaventevoli e protesta la crudeltà del d. Saraceno inumano. Fra le strida viene consigliata ricorrere al Bentivoglio, protettore del misleale. Addota l’insegnamento e vola al Bentivoglio il quale, intendendo si barbaro accidente chiama il Saraceno dall’officio, egli ubidisce e, trovando la donna avvanti a quello, si sentì arrossire e, doppo non aver potuto negare tanta crudeltà, abbracciò le ginocchia del Bentivoglio, gli domandò perdono, fa lo stesso con la donna che chiede giustizia. Alla persona ella ricusando, si offre il Saraceno compensare alle sue perdite collo sborso di 2 milla ducati. Ella alla fine consigliata dagli astanti abbraccia il partito, se ne fa la carta e la pace sta scritta questo fatto nella memoria Fabbri sotto il dì 23 novembre 1474. Il Saraceno fu bandito da Castel S. Pietro. Il Legato udito il fatto non potette che rissentirsi.
La scarsa raccolta e la sicità produsse travaglio nella populazione e si fecero orazioni da per tutto.
Li 16 decembre fu estratto Podestà di Castel S. Pietro Antonio Lini per il 2° semestre. Adì 6 genaro 1475 Antonio Lini adunque novo Podestà o sia Vicario e Commissario fece la sua solenne entrata in Castello nel modo che fecero li suoi antecessori.
Appena incominciato l’anno che doveva essere tutto consegnato alla divozione ne seguì tutto al contrario. Tumultuava perciò tutta l’Italia ed Europa né vi era principe che con isfrenata avvidità non cercasse aggrandirsi colle spoglie altrui e co’ ladroneggi nelle campagne. Pativano per ciò tutte le citta e tutti li paesi in grandi suspizioni: Si facevano da per tutto guardie rigorose ed ognuno cercava crescere li partiti.
Il Senato perciò rivolgendo l’occhio al contado, ove trovandosi in cattivo stato le mura, le fortezze e le roche nel dì 20 genaro deputò alquanti soggetti per visitarle e furono, come si riscontra al Lib. delle Rifformazioni ed al Lib. de Partiti, li seguenti con facoltà loro che facessero tutto ciò che avessero creduto a spesa delli uomini delli respettivi castelli e quanto alle roche si rissarcissero a spese della Camera. Per Castel S. Pietro furono deputati Lodovico Caccialupi e Virgilio Malvezzi, che pensarono ancora a Liano, per Frassineto Scipione Gozadini e Carlo Antonio Fantuzzi per Varignana, Ozano e Castel de Britti.
Giovanni Bentivoglio che teneva il primato della città, cercava sempre gratificarsi con quelle familie che le potevano far ombra o viceversa ancora trattava umanamente quelle che potevano darle ajuto, quindi ora con una grazia ora con un favore ora con onori riconosceva li meritevoli. Perciò nel dì 18 febraro, avendo ascoltato messa in S. Giacomo nella sua capella con seguito di molti nobili ed amici, premendole la familia Cattani di Castel S. Pietro come quella che per la parentela aveva seguito in città e partito grande in Castel S. Pietro, dalla qual parte si temevano li imolesi favoriti dallo Sforza, motivo per cui aveva premurato la visita sud. et ordinato il ristoro alle d. castella, fece perciò in d. sua capella Cavaliere aurato Lodovico di Tomaso Cattani da Castel S. Pietro.
E poiché li uomini della comunità sud. si addattavano male alle colette per fare d. fortificazioni le quali se si fossero trascurate ne sarìa perciò venuto che in tempi di guerra mai si sarìa diffusa la libertà pubblica e le comunità rimanenti del contado sarìano dietro all’esempio di Castel S. Pietro, quallora non si fosse addatata colle comunità sud. al gravame delle colette, per ciò il Senato estimò espediente fare la rinovazione della legge estensiva a tutto il contado onde il dì 18 aprile seguì la providenza il che Vincenzo Sacchi riferisce nello Statuto di Bologna T. 2 fol. 90 Cap. XXII in questi termini: Comitatus unite invicem conferant ad oneros , intendendosi in quell’unite per le comunità delli vicariati e nella provisione si trascrive, Item quod qualibet Comunitas alicui terre, gurdie vel Comitati Bononie unite vel aggregate in totum vel pro parte p. ipsos officiales alicui alteri comunitati, vel guardie teneat et debeat cum comunitate cum qua sic unita rogavitur aut uniretur in futurum conferre et contribuere pro ea parte seu toto per ipsos DD. Officiales fuerit unita et quelibet onere et gravamina occurrentia illi comunitati cum qua sic unita et agregata reperitur pro rata esptimerunt suorum.
In virtù della quale statutaria disposizione hanno sempre dappoi le comunità soggette al Vicariato di Castel S. Pietro concorso alla manutenzione delle mura perché servono al comune interesse e diffesa della loro Matrice e Capoluogo.
Non per questo stettero li imolesi colle mani alla cinta per allargare il loro dominio, inperciochè tanto in pianura che nella collina facevano di quando in quando aggressioni, scorrerie e bottino di robbe, bestiami e persone con imboscate onde ne accadevano baruffe. Fra queste che indistintamente, scrivono li istorici, essere seguite al nostro confine co’ terrazzani ne riportiamo quivi una lasciataci dal P. Vanti scritta.
Narra egli che, esendosi alcuni de nostri villani portati a mietere sul finire di giugno alla confina di Castelguelfo e Castel S. Pietro, vi sopravenero alquanti imolesi aspettando che li mietitori avessero deposto le falci e fossero adunati a prendere cibo per farli tutti cattivi e li assalirono in modo che, non potendo far deffesa essendo disarmati, furono tutti maltratati perché avevano volsuto farle resistenza e non lasciarsi arrestare.
Onde, dato l’avviso al Castello, corsero all’avvantaggio di strada contro quelli che già menavano li prigionieri ed, aspettati al fondo del Sabbioso, sortirono dall’aguato e quivi, appicatasi una furiosa scaramuzza, restarono da un aparte e l’altra offesi ma più di ogni altro fu Brunoro imolese capo di quel complotto che, circuito da Marsilio Cattani e da Zanone Denti, convenne al med. darsi per vinto e riscuotere dalli mietitori quante percosse potette mai sopportare. Dappoi l’avvinsero ad un arboro facendolo così stare esposto alli alti raggi del sole.
Li altri di lui compagni però, che conoscevano essere di forza inferiore, tragiversando le campagne, giunti che furono ad un loco d. la Balestriera, fondo rurale di Vincenzo Belestrieri di Dozza, si appietarono fino all’imbrunire del giorno ove che partendo incendiarono quell’edificio, niun rispetto avendo al proprietario se fosse bolognese o romagnolo.
Baldo Zangolini e Florentino Fiorentini di Castel S. Pietro, inseguendo co’ suoi compagni li altri imolesi fuggiaschi, raggiuntone alquanti dispersi tolsero li cavalli che avevano seco e se li condussero alle proprie case.
Avendo compito il suo semestre di vicariato Antonio Lini vi sucesse Antonio Malvezzi quale prese il suo possesso solenne il dì 5 lulio di domenica.
Gli imolesi che avevano avuto giorni sono la repulsa da alcuni bravi del paese di Castel S. Pietro, la si ebbero tanto a sdegno che crebbero li odi e con scorrerie, stragi ed ucisioni, vennero fino al ponte sopra il Silaro onde il Senato di Bologna, vedendosi apperta la strada a quelli di impadronirsi di Castel S. Pietro, mandò alquanti uomini d’arme in guarnigione al Borgo ed al Castello, cosichè facendosi scorrerie da una parte e l’altra seguirono incendi, stragi, rapine ed ucisioni con grave danno vicendevolmente. Li viandanti erano poco sicuri, le strade e campagne ocupate da emissari, le devastazioni erano frequentissime onde per assicurare li lavoratori e loro sostanze furono chiamati in Castello.
Tutti questi fatti pervenuti all’orechio del Papa, dispiacendoli al sommo, spedì in queste parti Angiolo vescovo Prenestino con Brevi papali a comporre le differenze assieme col card. Legato Francesco Gonzaga e Filippo Calandrino card. con facoltà a tutti e tre di visitare, riferire e proporre al med. Papa la composizione. Tanto fecero ed il Papa sull’esposto di concordia nel dì 30 agosto confirmò il tutto con chirografo dichiarando che li confini fra imolesi e bolognesi doveva cominciare dalla via del Medesano col fiume Silaro e da Castel Guelfo sino al rio del Corleto verso il castello di Dozza, ne formò il suo Breve che fu più regolato dall’equità che dalla (….) sua che poteva usare, come si legge nel seguente chirografo segnato li 30 agosto 1475 , che dall’Arch. del Senato di Bologna abbiamo estratto cioè:
Sixstus Papa IV ad perpetuum debitum pastoralis Offici nobis licet immeritis divina dispositione commisse exigit universalis nostre vigolantie creditis presemtim Nobis et R. E. in temporalibus subditis jurgiorum contentionumque. Sublatis dispendiis, pacis et quiete previdio eis feliciter ministremus. Sane orta dudum inter dilectis filios bononienses et imolenses civitatum nostrarum Comitates super confinibus territoriorum earumdem Civitatum, Nos itaque considerantes quod ex huius modi litibus que super confinibus territoriorum oriuntur pensope dum utraque pars possessioni imcumbere et jura suatueri nititur, rapine, incendia, hominum cedes at alia gravia damna et sispendis succident et ne inter predictr. Civitat. Incolas peculiares nostros et eclesie presate filios, quos exigentibus eorum sincere devotionis asteche et integra ficle ad nos e romana eclesiam.
Specialius gerimus in visceribus , Talia ex huiusmodi lite incomoda evenirent et occurrere volentes presatis communitatibus ut amivabili compositione et tractatu invicent concordavent, suasimus persona idonea eis gratam ad contractandum et concludendum huiusmodi concordaim inter eos etad partes illas Transmittere.
Postmodum vero cum concordia huismodi tractata ad optatum tamen votive conclusionis exitum deducta non esset eisdem comunitatibus, mandavimus ad eorum sindicos et jura ad causam finium huismodi facentium ad Nostra (…) transmitterent et iisdem sindiciis cum huius modi juribus comparantibus coram Nobis Ven. Frat. Angiolo episcopo Prenestino qui olim in partibus illis pluribus annis Legationis officio presuit et dilectis filiis nostris Philipo titulo SS. Marcelli et Patri presbitero ac qui inibi in preventiarum Legationis officio …gitur Francisco de Gonzaga S. M.aria nove Doacono Cardinalibus comissimus utriusque comunitatis sindicos et jure audirent et juribus p. eosdem sindicos coram episcopo presbitero et Diacono Cardinalibus pred. diligenter examinatis intellectoque.
Tractatu concordie alias inter comunitates ipsas habite ut presartur omnia Nobis fidelite rotulerint eorundem concordi judicio explicare curarunt. (…) igitur habitu huiusmodi eorumdem Cardinalium relatione fideli, omnem contro vestiam huiusmodi de medio submorent ac paci et tranquillitati comunitatum predictor opportune providere volentes et eorum Cardinalium in ac parte consilium sequentes ex certa nostra scientia et proprio motu auctoritate apostolica ac presentiam tenero declaramus:
Territoria pred. Bonon. et imolens. civitatum incipienda a loco in qua via Locti seu Medescati noncupata jungitur cum flumine Sialri et ab inde usqua in valles et flumen Padi terminari, dividi et separari ad invicem mediantibus viis, terminis, finibus et socis infrasctis ita quod quidquid est ab iisdem viis Dutie et Currium seu Carrate ac Portu, illiusque recto cursu intra versus occidentem eclesia S. Maria de Cavaglis, Castrum Medicine sit et esse debeast de territorio Bononie. Quia dilecti fili universitas d. oppidi Medicine quod bononiensibus est subjecta asserebant locum Bosthete situm esse iuxta pred. Portum a latere adjuiducat supe imolens. vero asserebant lucum ipsum Bostheta esse debere d. Portus adjudicatum bononiensibus. Volumus quod a d. Portu versus infra d. Velles a latere adjudicato imolensibus consignatur d. univeristati Medicine cum possesio qua ascendit ad tertia partem eiusdam Bosthete strictius inhibentes partibus ipsis ne declarationi et terminationi nostris huiusmodi quoquo modo contravenire presumant directe vel indirecte sub pene quinque millium ducatos auri de camera eo ipso per illos qui contrafacerint incurrenda ac camera apostolica applicanda ac decernentur vel ignorantur contigerit attentari non obstantibus constitutionibus apostolicis nec non dd. Civitatum Statutis, juramento confirmatione apostolica vel gravis firmitate alia voloratis ac privilegiis, capitulis et litteris apostolicis d. comunitatibus seu alteri eorum per fedem apostolicam vel alias concess. Contrariis quibuscumque e haud obstantibus.
Nulli ergo nostre declarationis Datum Rome apud S. Petrum anno MCCCCLXXV tertio Kal Septembris Pontificatus nostri anno V.
Furono perciò terminate tutte le questioni civile e dal presente chirografo ognuno può rillevare quale sia la confina fra la legazione di Bologna e Romagna.
Fu pubblicato questo tanto nella città alle porte della metropolitana, quanto a quella di S. Petronio et al palazzo pubblico ed a Castel S. Pietro reiteratamente come a Medicina per essere queste comunità limitrofe alla legazione di Romagna.
Per queste contingenze avendo li uomini di Castel S. Pietro fatto rappresaglie di animali e robbe alli imolesi, né volendosi queste restituire, fecero instanza al Papa acciò in vigore della sua decisione facesse restituire tutto. Il Papa con suo chirografo in figura di Breve segnato li 13 settembre ordinò alli Anziani che, attesa la concordia per li confini, fossero li imolesi reintegrati. Furono restii li bolognesi a prestarsi a tale chirografo onde il Papa nel dì 12 novembre per Bolla sotto rigorose pene ordinò la esecuzione alla concordia terminata e d impose silenzio a bolognesi ed in seguito fu tutto restituito.
Le circostanze de tempi che tolgono a posteri le memorie e li documenti danno un forte motivo di condolersi della privazione.
Chi fosse Podestà del primo semestre 1476 non si trova nel regesto delle Estrazioni delli uffici di Castel S. Pietro. Terminate le questioni sopra l’affare de confini colli imolesi ed essendo in questo tempo morto il vescovo di Bologna il Papa, che aveva a cuore la quiete della diocesi bolognese da un canto e vedendo dall’altro quanto veniva amato dalla nazione intera bolognese Francesco Gonzaga secondo genito di Lodovico Marchese di Mantova, che fu il primo cardinale di questa chiarissima familia, lo mossero ad eleggerlo per Vescovo di Bologna nel tempo stesso che ne era Legato. Risplendeva il med. non tanto per li suoi natali quanto per la magnanimità d’animo, dicendo che conveniva ad un principe ricco impoverirsi con pietosa liberalità più che lasciarsi partire dalla sua presenza il bisognevole senza soccorso.
Appena ricevuta la carica cominciò a sradicare li abusi che per l’avidità del guadagno si erano introdotti anco nelle spese eclesiastiche e spirituali massime ne funerali ove spaventavano più le spese di questi le familie che la morte stessa. Ridusse quindi le tasse e le pompe di ambizione introdotte per tutta la diocesi. Non furono tardi approffittarsi di questa occasione li uomini di Castel S. Pietro per opprimere la esosità parochiale nel suono delle campane pubbliche delle quali il paroco, sebbene erano mantenute dalla populazione colla torre e custodite da un domicello, ne voleva esso l’assoluto dominio, ritraendone quel lucro che a rigore di equitativo non poteva percepire avendo robba a frutto, cosichè li giudei stessi accusavano in ciò una potente usura.
Prese il bon Gonzaga in considerazione la instanza e vi provide in guisa che il povero all’occasione della morte non pagasse che il campanaro e lo stesso facessero li componenti la Municipalità per il servigio che prestavano al Popolo. Questo uso si continuò fino a tutto il secolo venturo per modo che rinovellandosi l’avidità de parochi ne seguirono poi liti, contese e questioni legali nel tribunale vescovile che a suo loco riferiremo.
Avendo in questo tempo contratta mortale nimistà Pellegrino Dal Bambo di Castel S. Pietro con Pier Antonio qd. Bertone Dalla Muzza, si fecero da una parte e dall’altra armamenti. Seguiva la parte di Bertone Giacomo Dalforno, Bartolomeo Comelli, Rondone Rondoni et altri e dal canto di Pellegrino Dal Bambo, Gnetto Gnetti ed altri, onde venuti alle armi restò morto quest’ultimo. Furono per ciò banditi nel taglio della testa li agressori del Muzza e nella confiscazione de beni.
Non andò molto che Gnetto di Malchione Gnetti restò ancor esso bandito similmente per omicidio comesso in persona di certo Polesetto il di cui nome ci tacciono le carte pubbliche, come pure ci tacciono l’origine ed il modo delli omicidi. Non ostante questi delitti abbandonarono il paese e vicinato cosichè stava il popolo sempre in suspicione né poteva il Legato provedervi per la protezione che avevano dal Bentivoglio questi micidiali e perciò conveniva chiudere li ochi e le orechie, come riscontrasi dalle storie e da una providenza presa nel 1489 che riporteremo in origine.
Reggeva in questo tempo nella città di Bologna la parochiale de SS. Vitale e Agricola D. Aldrovando Machiavelli rettore di quella chiesa, come ce ne assicura un atto autentico esistente nella fabbrica di S. Petronio comunicatoci dal chiaro P. Melloni che ha scritto la Vita de Santi bolognesi, chiedendoci certo parere e notizia in cui egli dice avere ritrovato assistente il d. Aldrovando rettore della chiesa di S. Vitale in questi termini: Presentibus D. Aldrovando qd. Ludovici de Macchiavellis Rector eclesie SS. Vitalie et Agricole de Castro S. Petri, che però essendo restìo il d. D. Aldrovando in compiere le ordinazioni del vescovo intorno a funerali passò non indiferenti disgusti per la sua lentezza. Il termine del di lui Governo non ci è riescito saperlo per le carte sconvolte ultimamente nella rivoluzione d’Italia.
Terminato il suo officio il Vicario del primo semestre, vi sucesse Ruberto Torresani che colla formalità sud. intraprese il ministero il dì primo lulio, fu suo notaio Andrea Ghirardaccio.
Fu poi per le ultime contingenze delle ostilità colli imolesi riparata la Roca grande colla direzione di Virgilio Malvezzi, quale oltre avervi speso l. 50 vi spese ancora l. 200 d’ordine delli Rifformatori in provederle di munizioni il paese e però nel dì 19 agosto con partito ordinarono alla cassa pubblica il pagamento.
Ali 16 decembre fu estratto per Podestà e Comissario di Castel S. Pietro Brunezio Dini come riscontrasi dall’elenco soministratoci dall’Arch. pubbl. di Bologna. Questi in ossequio del suo ministero venne a Castel S. Pietro il primo genaro 1477 e ne prese il posseso colle accennate solennità.
Il novo vescovo Gonzaga, che nella sollecitudine pastorale si occupava a pro comune, allo spirar di aprile venne a Castel S. Pietro ove, avendo fatte le opportune visite, ordinò con pia esortazione a tutto il popolo che, avendo egli scemato universalmente e proveduto alle pompe de funerali, dovessero perciò li più fedeli erogare in sovvenzione de poveri miserabili ed in suffragio dei deffunti quel tanto dippiù che aurebbero speso in tali pompe col fare elemosine.
Si cominciò pertanto in ogni luogo di campagna nella diocesi ad usare dalla familia del deffunto dispensa de legumi cotti e della focaccia, rinovando così le reliquie de riti atteniesi e romani che colla diversità di legumi più analoghi alla funestezza, celebravano li sufragi alle anime de loro trapassati. Tali superstizioni sopra li legumi, piuttosto di una sorte che dell’altra convertiti in minestre per li miserabili, furono aboliti poi nel bolognese dal card. Gabriele Galeotti vescovo di Bologna di eterna memoria.
La venuta in Castel S. Pietro del vescovo Gonzaga, la deduciamo da un monumento lapidario confitto nella parete ove era l’altare di S. Biagio nella parochiale che non abbiamo saputo nel resto interpretarlo per essere mutilato così cantante come abbiamo nelle salve del P. Vanti ancora:
. . . . . . . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . .
Auctoritate Francisci Gonzagae Episc.
In visit. exeunte aprili 1477 . . . . . . . .
Conviene credere che nella linea superiore vi fosse qualche ordine disdicevole, onde fosse perciò abrusito
Fu Podestà di Castel S. Pietro per il S.S. Roberto Toresani come da lapide:
Robertus Torrexanus P. P. S.
Non potendo la Comunità di Castel S. Pietro più oltre progredire nei debiti allodiali, convenne ancora alla med. privarsi di beni stabili che godeva allodialmente per soddisfarli col ritratto grezzo. Quali fossero né siamo all’oscuro per essere spogliato l’archivio, ritroviamo bensì nell’atto della vendita che si spropriò d’un pezzo di terreno denominato Campo Marzio di cui ne parlamo a principio del nostro Raccolto denominato dappoi la Gessa, che fu venduto a Francesco Fucci del med. Castello mediante Pirro qd. Carlo Peregrini e Gio. Antonio qd. Bartolo Rinieri.
Per il primo semestre dell’anno successivo 1478 fu estrato Rizzaldo Ariosti, che nell’entrar di genaro colle solite formalità prese il possesso della sua carica, quale terminata al cadere di giugno vi sucesse Simone Branchetti.
Non potevano li castellani delle Roche assentarsi dal loro incarico se non con partito del Senato, mentre era troppo gelosa la custodia delle med. così che anco per giornate le era vietato, onde ciò riscontriamo che, avendo nel dì 17 marzo il castellano della Roca di Castel S. Pietro bisogno di allontanarsi per urgenti affari , ne chiese al Senato la licenza di andare a Bologna e le fu accordata per dieci giorni solo decorrenti dal dì 17 marzo e non più. (T. 3 Partit. Car. fol. 103.)
All’occasione delle ostilità passate colli imolesi, avendo li uomini di Castel S. Pietro per meglio assicurare la Roca grande fatti alcuni rivolini intorno la med. e dentro e fuori cola spesa di l. 147, ricorsero al Senato per il compenso, perciò nel dì 26 giugno li Rifformatori ordinarono che si compensassero li d. l.147 nel Dazio del Sale per d. somma che era un ressiduo come canta il decreto di spesa: Lavorieri in estratto per del S. S. Simone di Tomaso Binnoneti come dalli atti di giudicetura, furono li d. lavorieri certi rivolini fatti dinanzi e fuori della Roca di Castel S. Pietro, Lib. Partit. fol 207.
Li 16 decembre chi fu estratto per Vicario del P. S. 1479 non si trova. Atto solo che li 29 d. fu dalli Rifformatori eletto Bente di Battista Bentivoglio in castellano della Roca di Castel S. Pietro per tre anni da principiare alle calende di genaro 1479 con obligazione per esso fatta di custodire diligentemente la med. colle munizionie e restituirla dando sigurtà Id. Lib. fol. 223. Onde nel dì 16 genaro 1479 ne venne all’impiego personalmente dopo avere esposta la sua sigurtà solidale come nell’Arch. del sen. Lib. + 21 e N. 26.
La Comunità pure esausta di danaro per le contingenze passate e presenti fu in necessità di fare altri spropri come di fatti fece vendendo tereni a Linetto di Melchiorre Gnitti come si ha nell’Arch. pub. di Bologna Lib.53 a C 324 ed altra vendita pure seguì con Gio. Marescalchi Lib. 90 C. 226.
Avendo guerra il Re Ferrante colli fiorentini per timore che il Bentivoglio non se le opponesse, scrisse al Senato che si compiacesse apparechiarle l’alloggio per 600 cavalli. il Senato, che altro non operava se non ciò che voleva il Bentivoglio, si scusò dicendo che la pestilenza travagliava la città e contado onde però non poteva compiacerlo, poi di soppiatto scrisse alla Duchessa di Milano avvisandola di quanto accadeva.
Chi fosse il Podestà di Castel S. Pietro per il S. S. non si trova memoria per la pestilenza che regnava.
La Duchessa di Milano poi per assicurare in qualche modo li bolognesi le spedì 600 cavalli per diffesa della città ed alquanti altri per la diffesa del contado de quali ne fu spedita una banda a Castel S. Pietro.
Il Papa inteso di ciò e che partitava per il Re, scrisse al Senato che voleva quanto le aveva chiesto il Re, per la qual cosa li bolognesi spedirono ambasciatori al Papa per farne la scusa, ma questi non solo non volse accettarla ma nemeno ascoltare l’ambasciata, anziché imediatamente fece intendere alli inviati che se ne andassero, onde ne naquero amarezze, cosichè il Papa diede avviso di tutto al Legato acciò provedesse a quanto alla giornata fosse necessario.
Pensò egli porre fedeli ministri più affetti alla Chiesa ne luoghi di maggior importanza per assicurarsi di una qualche rivolta, massime per che temeva dalla parte di Romagna. Nel dì 4 novembre deputò per commissario della Roca grande di di Castel S. Pietro Antonio Castelli a diffenderla per l’avvenire,( Lib. + N. 41 Arch. Senat.). Oltre ciò fece ancor riparare le fortificazioni esterne del castello. Queste cose essendo preludio di una scissura fra il Senato ed il Papa, operarono in guisa che li movimenti bellicosi stettero lontani al contado, tantopiù che questo era stremato dalle guerre passate ed aveva sofferto non indifferenti spese.
Il ponte sopra il Silaro, che trovavasi minacciato dalla parte del Castello fu ristorato. Li 16 decembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro Battista Belliosi per il primo semestre anno seguente 1480, che ne intraprese il suo officio colla solennità predetta solo il dì 9 genaro.
Siamo in quest’anno scarsissimi di notizie e memorie onde poco perciò potiamo riferire perché il Racolto è sterile. Ne pure sapiamo chi fosse il secondo Podestà, come non sapiamo il motivo per cui fosse guastata la fonte pubblica della Fegatella, non indicandoci altro le carte comunitative che nel Lalio fu commessa la spesa a certo Mastro della Branca per riffare il divastamento di quella.
Per non amareggiare il Senato e procedere colla convenienza del med. il Legato feceli intendere che abbisognando la Roca grande di Castel S. Pietro di alcuni riffacimenti, faceva duopo che egli prontamente vi riparasse, altrimenti aurebbe usato dellea autorità delegatali dal papa. Ascoltò il Senato con piacevolezza quest’atto di urbanità e commise tosto l’affare a Virgilio Malvezzi, uomo consumato nelle cose di guerra, quale, non solo fece quanto il Legato bramava, ma vi interpose anco la sua cura ed assistenza personale, quali fossero li ripari ce lo tacciono le rissoluzioni pubbliche, solo abbiamo che il Malvezzi fu soddisfatto con mandato senatorio di questo tenore, 28 novembre 1480 diretto ad Antonio Ansaldini: Solvantur Antonio Ansaldini l. 29: 10 pro omni et quamumque Reparatione et expensu usque in presentem diem facta in arce seu Roca Castri S. Petri cum cure e comisione Virgili Malveti.
Per questo continue spese ed altre che giornalmente accadevano e venivano dappoi posti nelli riparti delle tasse comunitative si di Castel S. Pietro che delle comunità del vicariato del med., essendo divenuti annojati e stanchi li debitori de si frequenti pagamenti, si posero alquanti in capo di ressistere alli esatori non che alli esecutori che ne volessero gravarli. Quindi accadde che la familia delli Morandi e della Costa di Liano si opposero, altri vi tennero dietro di casa (……) e furono li Conti ed altri di Castel S. Pietro che furono li Sinbeni, onde venuto il caso del pagamento, né essendosi potuta effettuare la riscossione da Giovanni Ravasini esattore di Bologna anzi che fu, a rumore di popolo, cacciato. Ne fu fatto il riporto al Senato ed al Legato.
L’uno e l’altro procedendo con convenienza comune spedirono a Castel S. Pietro molti guastadori con ordine al Massaro che le desse tutta la mano. Tanto seguì e le furono spianate le case, in comprova di questo fatto ne riportiamo quivi la determinazione 18 decembris, Refformatores, cum Janus de Ravasinis Macerius Curie MM. DD. Antianor. Cum nonullis debit. Bononie ex comissione ipsorum his diebus iverit al Castrum S:. Petri et ad vicariatum pred. pro faciendis nonullis executionibus e furono cacciati da alquanti, decretossi che fossero immediatamente le case guaste e demolite purchè non fossero della chiesa e di cittadini di Bologna e che il Massaro li dovesse assistere e non impedirli e dippiù che li delinquenti fossero banditi di testa.
In mano di chi fosse il governo contenzioso di Castel S. Pietro nel 1481 l’elenco delli Podestà locale, estratto dall’Arch. pub. di Bologna, non ce lo annunzia se non con punti di omissione ………………… del cancelliere publico.
Crescendo li abbisogni di dannaro alla Comunità di Castel S. Pietro per concorrere alle fabbriche de fondi allodiali, ricorse allo sproprio di terreno e vendette a Cristoforo Bari una pezza di terra, vendette pure il Dazio Rettaglio di Castel S. Pietro a Giovanni Dessideri e Baldisserra Rasi dello stesso Castello come in protocol. di arch. Amorini. Essendo poi stato deputato comissario per Castel S. Pietro e Caslfiumanese Bartolomeo Rossi, nè volendosi li uomini delle d. due populazioni di Casale e Castel S. Pietro prestarsi ad ubbedirlo per la copulativa del ministero così che ne era stato ignominiosamente ripulso, il Senato per ciò volendo riparare a questo disordine ordinò alla Comunità di Castel S. Pietro e Casalfiumanese che si dovessero prestare assolutamente ad obedire d. comissario in tutto e per tutto che le comandasse.
Questa rinuenza e poco rispetto produsse in avvanti che, avendo il d. comissario avuto da Lenzino Nicoli e Bualello Dalzano ostilità, fu motivo anco che di qui in appresso li ministri pubblici deputati a queste comunità cominciarono ad introdurre abbusivamente l’uso di sostituire anco li notai nell’officio di Podestà e così ne accadde nel 1482 in cui trovamo ne rogiti di Melchiorre Neri alias Samachini di Castel S. Pietro che esso in quest’anno sosteneva tale officio.
Dalli atti giudiciari scritti dal med. riscontriamo che fu Podestà di Castel S. Pietro per il S. S. Lando Mogli nobile.
Quest’anno nel dì 9 marzo eletto Battista Bentivoglio per castellano della Roca grande di Castel S. Pietro fu per anni tre cominciati alle calende di genaro colla sigurtà di Francesco Bentivoglio di lui fratello e di Nicolò Bombasari di Castel S. Pietro come riscontrasi dal T. IV partit. Car. fol. 5. Conviene dire che la familia Bombasari di Castel S. Pietro, estinta verso la fine del secolo XVI come diremo, fosse di bona riputazione pubblica non che di sostanze accettandosi in una sigurtà di simile sorte.
Trovavansi di questi tempi le mura di Castel S. Pietro, per la loro antichità nonché per le vicende sofferte, minaciose di ruina in alcuni luoghi ed in altri in pericolo imminente di essere rovesciate, furono perciò rinovate per quel tratto che ne erano necessitose e furono queste alla destra dell’ingresso maggiore del Castello fino all’angolo verso ponente ove era un baloardo che sporgeva in fuori alla semetria dell’altro oggetto a mattina. Si vede in alcuni luoghi il novo edificio soppraposto alli fondamenti Vachi.
Furono fatte le spese dalla Comunità la quale in ristoro ne ebbe una imunità per alcuni anni del pagamento del Dazio Sale e Molitare ed altro come riscontrasi dal Decreto fatto dal Senato nel suo Lib. de partiti e dall’estratto Carati T. IV fol. 33 del seguente tenore dal quale il lettore rilleverà a minuto il tutto: 1482, 11 Marti. Cum muri terre Castri S. Petri nimia vetustate ruinam in nonnullis locis minentur et reparatione indigeant e multe domus illius Castri sint disrupte ac quam pluves ex jucolis et habitatoribus qui illic comerabantur, illorum locum derlinquerint et ad alia loca habitaturi se contulerint sura ob diversos temporum calamitates, tam ob proves et capitales jurinicitias et discordias olim inter illos homines vigentes ex quibus vulnera et cedes et homicidia sulsecutas sunt qui eum ad concordiam et pacem devenerint, supplicarunt et petierunt ut eis comedatur pro singulo anno pro datio molendinarum et salis solvere, non teneantur nisi librus octingentes bonarum quod certat ad utilitatem terre pred. quand. illi qui discesserunt et predantet excitabunt et alio habitan. illuc accedere potuerunt, adeoquam illud Castrum sicut prius habitavitur et conservabitur ad honorem civitatis hu, cuius mutrum interest quod fortilitia et oppida ex Castra ei subiecta manuteneantur, Eo propter per omnes fabes albas obtentum fuit quod eis fiat et concedetunt decretum quod solvere non teneantur quolibet anno ad decennium nisi libres octingentas conenorum de argento, modo forma et conditionibus inc.tis Capitulis contentis cum hoc quod elepsis primis tribus annis d. decenni singulo anno dicto supradicti annorum ultra predict. Liras octingentas conen. de argento solvere debeant l. 290 Bononen., communi Bononie vel illus dare in retrus sive operis prout videbit R.mo D. Legato, sive eius locumtenent. et M.M. D.D: refformat. (…) in ipsos ind.tis Capitulis quorum tenor. seguitur.
Questi Capituli sono N. VII assai estesi in italiano, li quali non contengono se non il sopra espresso e però anco dal Carati vengono ancora omessi come egli riferisce nel suo estratto T. IV Partit. fol. 83.
Quanto fossero avveduti li uomini di Castel S. Pietro di questi tempi e quanto fossero facinorosi, armiggeri e micidiali al segno di devastarsi fra di loro per fino le abitazioni, le emigrazioni e li fatti micidiari al di sopra indicati ognuno lo deduca, mentre noi non li leggiamo né potiamo con nostro dispiacere quivi individuare per mancanza de Libri de Malefici contemporanei.
Sebbene però il paese o poco o molto fosse in fazioni e rumori da una parte, non mancava però dall’altra la divozione a Dio e suoi santi imperciochè la Compagnia di S. Cattarina e del SS.mo officiavano a gara fra di loro la parochiale e dippiù, avendo divozione a M. SS.ma sotto la invocazione del Rosario, alcuni confratelli dell’una e dell’altra compagnia cominciarono ad adunarsi in questo tempo la sera nella parochiale avvanti l’altare di S. Biagio et ivi recitare in figura di unione la corona di M. V.
Ebbe tal seguito questa unione colla produzione del pubblico colto che fu pensato dalli medesimi, per conseguire maggior bene da Dio, fare erigere una compagnia nova sotto questo titolo, tanto più che non era molto tempo che a ciò erano stati infiamati. Si maturò intanto la facenda e se ne presero informazioni come ciò eseguire.
Castel S. Pietro, che fino alli 6 di aprile era stato senza commissario, fu proveduto dal Senato. Fu perciò eletto in questo officio, come ci assicurano li Partiti senatori, Andrea Grati da servire al med. Castello colle sue comunità per tutto il venturo giugno col salario di l. 25 da pagarsi dalli comuni del vicariato e dippiù darle lo strame per li suoi cavalli e legna per il suo uso. Battista Bentivoglio deputato per anni tre in castellano della Roca come nel dì 9 scorso abbiamo riferito, si obbligò nel dì 17 corrente aprile custodirla e diffenderla come ne appare da pub. rog. Rainardo Fasanini Arch. Sen. Lib +. 22. N.36
Avendo terminato li lavori intorno a Castel S. Pietro Pirro Malvezzi che importarono l. 300, ordinò il Senato che le fossero pagate col seguente decreto: 23 Decembre. Solventur. l. 300, Pirro de Malvitiis pro expemsis factis in reparatione et fortificatione Terre Castri S. Petri.
Eletto per Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre 1483 Baldassarre Montacheti Lettor pubblico di leggi, le piaque esercitare il suo ministero personalmente onde all’uopo veniva alla sua ressidenza, ma perché ciò accadeva in quel tempo in cui doveva leggere, mancando in questo ministero fu puntato.
Dietro alle informazioni prese dalli devoti di M. SS.ma del Rosario, che già si erano manifestati l’anno scorso colla recita pub. della Corona, ottennero in quest’anno di giugno la solenne erezione in Compagnia dal Capo della Relligione domenicana mediante suo chirografo quale non pervenuto alle mani del capitano Lorenzo Graffi ne fece improntare per le stampe in Bologna li altri onorifici diplomi, che onorificano questa compagnia eretta in Arciconfraternita da BenedettoXIV di immortale memoria.
Ci piace qui riportarlo tanto più che illustra il saldo, una indicazione singulare di un compatriota di Castel S. Pietro che ascese li primi gradi della Relligione domenicana, il tenore del quale chirografo è il seguente.
In nomine S.S. et individue Trinitalis Patris, Filis et Spiritus S., Beatissimeque Matris M.rie semper V. nec nos S. Patris Dominici Gusmani, totius ordinis nostri predicator, auctoris et fundatoris., Nos frater Bartol omeus de Vigevano S. Theologie magister ac universi predicator ordinis Vicariusgeneralis, omnibus Christi fedelibus, aliisque presentes inspecturis salutem in D,no ac abeius piessima Virgine Matre M.ra, vobis ubique precamur. exigit injuctus Nobis a nostra Relligione servitutis officium ut ad ea per que ubique divinus cultus augeabar ac prpoagationem suspiciat et ad personas sub eiusdem observantia famulantesdivinis inspirationibus ut sanctius orare possint non solum sollicite intendemus sed in his etiam eiusdem Offici offici nostri partes favorabiliter. prout in D.no conspicimus salubriter expedire ubicumque indulgeamus.
Cumque Relligionis nostre aucthor ipse S. Pater Dominicus nostre salutis amator, presentes discipulos suos et nos absentesimitatores erudiens singulari fraterne charitatis obsequio suaferit ut scilicet Nos ad invicem (quemadmodum ipsa S. Pater Dominus) ad honorem Bestiss. Virginis Dei Genitricis M.rie pientissime humani generis, eius celsitudinem continue contemplarenur, illamque Coronolis sedulo recitandis veneramur et pole que divinorum erari beneficiatur ac thesauri fidessima castos et splendididssima dispensatrix semper faventibus mortalibus munifica miserorum, casibus ferat tribuat cum dies nulla eiusdem beneficiis otiosa minima transeat quia terra solarique homines protegat, qulsisque vite periculis salutarem povigat dextera.
Cumque pariter zelus Relligionis nostre curaque eiusdem Offici mentem nostra continuo fulgent ac invigilare maneant ut ipsa devotio erga Beatiss. Virg. Dei omnipotentis matrem magis ac magis adfrugem Xstifidelium orescat ac quasi Plantatio Rose in Jerico de die in diem florrat, lateque odorem suavitatis extendat nec non et Locrus incolas spiritualium gratiarum quibus a S. Sede ApostolicaRelligio ipsa nostra gaudet, alios participes etiam pretiose efficiat.
Quapropter cum dilecti filiinonnulli è Castro S. Petri ditionis, diecesisque Bonon. sibi quamdam ad honorem et gloriaB. M. semper Virginis, ut presartur de Rossario sexaginta al hinc ferme annis et ultra Unionem inter se se privatam excitaverint, fralviamque sibi qiusque a P.Francisco de eodem Castro sacrar. Paginar. Doct., totiusque Ordinis nostri predicator (…)Gener. procuraverint tamen nonnulli hodierni devotissimi ad dilectissimi Xfidelis de eodem Castro factatores devotionem presfata capientis iamdem fratriam ad formum Congregationis et vere Unionis S.S. Rossari redigi atque ad aram seualtare S. Blaxi illorum de Tonis dederum in eclesia plebana eiusdem arcis, sive Cstri S. Petri excitatum contribui atque fundari, indilgentiis aliisque apostolicis grabis Congregationem seu unionem prefata comuniri atque sulcire ut ibi orebrius possint absque impedimento officiorum aliquorum Parochialim Coronas orationes, et alia ad honorem B. M. V. agere atque perficere. Istamque eorum piam institutionem a nostri approbari et approbata recipi nostrisque litteres patentibus firmari potierint.—————————————–
Quare Nos qui licet imaneriti ordini predicti presumus (…) merens B. M. V. et S. Dominici auctoris nostri vos peculiati Charitatis significatione complectentes ac piis supplicationibus vestris inclinati eo maxime quia plebani vestri accedit consensus atque petitia. Auctoritate apostolica Nobis in hac parte concessa fungentes tamen presentium partitam defugeta Unione, Congregationem seu piam fratriam recipimus, approbamus et quatemus opus fit hance vestram unionem sub vocabolo S.S. Rosari ad Altare et Ara S. Blaxi in Eclesia prefata instituimus, erigimus atque fundamus, vestraque huic Unioni et Societati utriusque sexus Xtifideles recipi et adservibi concedimus cum pretiis et indulgentiis a summorum pontificum pietade concessis, prout alie hujusmodi Uniones et Societates SS.mi Rosari in ecclesiis nostris institute potiuntur atque frucuntur. Armonemus autem insuper vos, vestraque fratres tam presentes quam futuros B. V.M. per centum quinquaginta salutationes angelicas et XV orationes dominicales infrar davidici psalteri quod Rossarium appellemus a SS. Patre nostro Dominico institutus honorare, quantumore magis in Vobis erit de dei in diem glorificare conemini. Societati autem vestre p.te capellanum seu rectorem deputamus plebanum eiusque sucessores pro tempore ecclesie pred. atque decernimus ut omnes Xtifideles hanc piam societatem ingredi et devoti recipi petentes, scribat, benedicat et custodiat donec usque per Nos et sucessores nostros in d. castro sud. arca vestra monasterium erit fundatum et non alias nec alio modo ressevantes.
Quibuscumque in contrarium facientibus non obstantibus in quorum fidem has signo nostro munitas manu propria subsivibimus gratis ubique et semper. Dat. Rome supra Minerva anno incarnationis dominice MCCCCLXXXIII Sexsto jdus quintilis.
F. Bartolomeus de Vigevano Ord. Predicat. Congregationis Lonbar. F. Salvus Casseto P. V.de Mandato regist.in Lib. Eractin. fol. LIX . L. + B.
Deducesi da questo documento che la Compagnia del Rossario in Castel S. Pietro ebbe il suo incominciamento da certe fratellanze particolari e private che si dovevano forse dare alle famiglie devote del Rosario chiamandosi fratrie per le quali partecipavano quelli che le avevano di quel bene spirituale se e come confratelli di quelle relligioni e corporazioni eclesiastiche. Per tale erezione fattasi in Castel S. Pietro è credibile che ne seguissero feste ed allegrezze, molto più che li componenti questa pia unione erano anco tutti fratelli del SS.mo S.to.
Chi fosse Podestà del secondo semestre di Castel S. Pietro l’elenco nonché le memorie ce lo taciono.
Infirmatosi gravemente il card. Francesco Gonzaga, attuale vescovo di Bologna, finì li suoi giorni il dì 22 ottobre con universale cordoglio per la di lui qualità e prerogative onde meritava essere un monarca. La città e contado perciò restò priva non solo di un ottimo pastore ma anco di un benefico Legato.
Il Papa provide tosto a questa mancanza, dichiarò vescovo e Legato di Bologna Giuliano card. Della Rovere suo nipote.
La raccolta di quest’anno fu molto scarsa, onde il Bentivoglio per affezionarsi più la populazione, dalla quale ne veniva titolato per Signore di Bologna, ordinò che tutto il suo grano si vendesse alla metà del prezzo corrente. Questa generosità accrebbe il di lui partito cosichè il Vicelegato che era Galeazzo Dalla Rovere vedendosi poco salva la sua convenienza abbandonò la città.
All’entrare poi del 1484 essendo stato eletto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Filippo Lugari, ne prese il solenne possesso alla forma de suoi predecessori. Non mancò questi colla sua attività provedere in guisa il paese per la fame che non nascessero disordini, volle partecipare della vendita e compra de grani del Bentivoglio e ne fece traddurre a Castel S. Pietro bona quantità, facendolo impanizzare per suo conto a pro di questa sua giusdicenza, se il vero narrano le patrie memorie.
Morto poi il Papa nello scorso anno in agosto ed essendo sucesso nella cattedra di S. Pietro Giovan Battista Cibò genovese col nome di Innocenzo VIII, mutatosi il Governo dichiarò Legato di Bologna Gio. Battista Savelli romano. Per una tale destinazione se ne fecero pubbliche allegrezze. Furono però maggiori quelle di Giovanni Bentivoglio, doppo aver mandato a Roma Bonifacio Cattani da Castel S. Pietro a congratularsi, ottenne la conferma delli Capitoli fra Bologna e la S. Chiesa. Furono quelli pubblicati al novo anno presente.
Tutte queste bone nove produssero universale letizia e si fecero grandi feste a Dio, alle quali comparendosi in S. Giacomo colla Signoria Giovanni Bentivoglio e con tutta la famiglia escivano dalla bocca del popolo tanti applausi ed eviva che assordavano l’aria. In questa occasione l’illustre poeta latino Ermicio Cajada lusitano trovandosi in Bologna, non potette a meno comprovarlo con improviso distico latino che leggesi nella sua rarissima grafia, ma però stampato, al Lib. 2 epigrama 2 cioè:
Anniball et Galeax et pulcher Alexis et Hermes
Nomina sunt ipso semper amanda sono
Anibale fu signore di Bologna, Galeazzo fu protonot. apostolico creato da Sisto IV.
Non avendo nello scorso anno per occasione di questo Vicariato adempito totalmente alle sue incombenze di cattedratico il dott. Baldassar Montacheti per rendere ragione in Castel S. Pietro, puntato onde per le lezioni non tenute, riccorse al Senato nel dì 27 febraro per la assolutatia. Considerate il Senato le ragioni di questo soggetto fu asoluto dalle penali,(T. IV Partit. Car.)
Il nome del Podestà del secondo semestre di quest’anno viene pure omesso nell’elenco.
Non ostante l’assignazione de confini fra li imolesi e bolognesi da questa nostra parte fatta col voto delli tre cardinali e confirmata da Sisto IV l’anno 1474 come si scrisse, non volendosi attendere dalli villani del territorio di Dozza, infestavano o poco o molto il territorio di Castel S. Pietro per la qual cosa non volendo riclami furono costretti questi ricorrere alla forza. Non dubitavano essi, come quelli che avevano avuto il nutrimento ed il latte facinoroso fino da fanciulli in mezzo all’armi, arrischiare alle opportunità la vita colla loro bravura.
Avvenne per tanto che, essendo stati mandati al pascolo armenti nella boscaglia sopra il Castelletto dalle familie di rincontro, furono queste fermate e venute a rissa restarono soccombenti li villani di Castel S. Pietro dove che ne furono condotti a Doccia nella picola Rocca tre prigionieri. Come che questi erano spalleggiati da Giovanni Poggio signore del Castelletto, ne fu chiesta la liberazione dalla carcere, ricusarono li dozzesi e perciò pensarono li uomini di Castel S. Pietro riffarsi.
Adunati perciò in bon numero li villani del Poggio andarono inaspettatamente a Dozza e presa la porta del castello fecero intendere a Vincenzo Balestrieri e Julo Valloni, che facessero dimettere li arestati altrimenti aurebbero essi portata la pena se tanto non accadeva. Li d. due dozzesi come capi di quel loco a principio se ne risero e coraggiosamente portato Julo Valloni a parlamentare colli sudd. che avevano presa la porta fu di balzo preso in ostaggio e consegnato alli altri villani del Poggio che si erano imboscati a S. Lorenzo.
Vedendo ciò il Balestrieri chiamò popolo che adunato in quella piccola piazza mandarono tosto un loro familio alli villani del Poggio acciò si venisse fra di loro a trattato, invitando il cambio di uno delli distenuti con il Valloni. Li uomini del Poggio, nulla altro attendendo, presero in ostaggio l’inviato e poi mediante una donniciola dello stato dozzese mandarono risposta al Balestrieri che fu questa: Che non aurebbero prima rilasciati li loro imprigionati se non si vedevano ritornati a casa li due villani che erano in Dozza e non si fossero ancora rifatti li danni sofferti presenti e passati, altrimenti aurebbero condotti alla città li due ostaggi. Il Balestrieri che conosceva divenire la cosa seriosa, comunicato ciò a quel castellano, fu tostamente rissoluto dare la libertà, come seguì, delli imprigionati e quanto a danni se ne sarìa parlato con compromesso delle respettive comunità.
Giovanni dal Poggio prese di qui motivo accrescere il fabbricato che noi ora diciamo Castelletto, con ambito di un gran cortile ove assicurare al bisogno le familie ad esso addette per regime di cultura rurale. Ciò lo abbiamo riscosso da una lista di spese comunicataci dal fu Cap. Antonio Mansani che finchè visse fu ministro e custode della Libraria e Beni Allodiali del Castelletto.
Per l’anno seguente fu eletto castellano di Castel S. Pietro Rinaldo Ariosti, quale sentendo poco quiete queste parti, si addattò male a stabilirsi quivi, come li suoi antecessori. Chi fossero li Podestà del 1485 l’elenco non ce lo segna, come neppure il Lib. Partit. et Mandat. del Senato.
Abbisignosi alquanti castelli del territorio di riparazione, Giovanni Bentivoglio con li Rifformatori elessero diversi nobili a questo uopo. Ciò fu in grazia che si sentivano movimenti d’armi, furono perciò nell’ottobre deputati Andrea Grati e Gozadino Gozadini alla riparazione della podestaria di Casalfiumanese ed alle torre di Castel S. Pietro, di Varignana e Liano. E perché la torre nostra di Castel S. Pietro era spesciata e sgrottata della facciata che guarda il Borgo e così pure la parete esterna in alcuni luoghi, fu rimessa e ristorata l’una e l’altra e nella facciata della rochetta respiciente il Borgo sopra l’ingresso maggiore del nostro Castello vi fu aposto lo stema bentivolesco coll’incrizione ed epoca seguente incisa in macigno che fu poi levata sotto il pontificato di Giulio secondo e sostituita l’arma pontificia, come diremo a suo loco, e tuttora si vede benchè corrosa dal tempo. Stava adunque incisa la seguente memoria:
Jo. Sec. Bentiv. MCCCCLXXXV.
Giovanni Bentivoglio avendo poi maritata Violante di lui figlia in Pandolfo Malatesta signore di Cesena e Rimini, venne la med. incontrata a Castel S. Pietro da primati della Romagna e molta nobiltà di Cesena Rimini ed altre signorie che le carte di questi tempi non ce lo specificano. Essendo mancanti di altre notizie in quest’anno lo chiudiamo col dessiderio di ritrovarne per aggiungervi un supplemento.
Passando poi all’anno 1486 per cui essendo stato estratto Podestà di Castel S. Pietro Nicolò Castelli nè potendo esso investire la carica, il Senato con decreto sostituì in suo loco Alessandro Castelli suo figlio. In castellano fu eletto Rinaldo Ariosti, il quale, per che non aveva servito interamente, fu puntato onde, richiesta l’assoluzione al Senato la ottenne nel dì 14 febraro anno presente. Sucessivamente fu abilitato alla nova castellania.
Perché in quest’anno non si era potuto avere il predicatore quaresimale in Castel S. Pietro delli agostiniani, l’infelice paroco fu costretto supplire esso alla mancanza. Li paesani, che di poco bon ochio a motivo della sua elezione era sempre veduto accingerli all’impresa, cominciarono quelli ad intervenire alle sue prediche e, come che era balbettante, lo deridevano in guisa che fu costretto a cessare il ministero.
Non avendo poi Ferrante Re di Napoli pagato il solito censo alla Chiesa, il Papa si collegò co’ fiorentini, veneziani ed altri affine di farle guerra e torle il regno. Assoldò il Papa a tale effetto Roberto Sanseverino famoso condottiero d’armi che però, essendo seguita la pace, ordinò il Papa che, nel ritorno che faceva quello dalla Lombardia, ovunque passasse le fosse somministrato il bisognevole.
Giunto poscia il secondo semestre fu Podestà di Castel S. Pietro Andrea Prati ,come abbiamo dal Libro de Partiti. In sequela dell’ordine ed avviso pontificio sud. volendo il Senato col Bentivoglio che il contado restasse proveduto di tutto, decretò nel dì 2 giugno che fosse proclamato: che niuno avesse ardire estrarre dal Vicariato di Castel S. Pietro alcuna picolo partita nemeno di fieno, grano, biade, legna, sotto rigorose pene, senza licenza de Rifformatori. T. IV Partit. fol . 119 ad 126 Car.
Ciò fu un forte stimulo a riviviscere le ostilità fra li uomini di Castel S. Pietro possidenti massimamente contro li uomini di Dozza ed altre terre adiacenti, inperciochè volendo questi trasportare li suoi rediti dal dozzese nella Romagna (?) furono impediti dalli abitanti di Monte Sparaviero, Monte del Re, del Machione e del Sabbioso, cosichè ne naquero risse e baruffe fra li abitanti del nostro confine colli altri limitrofi onde non potettero trasportarsi nel bolognese li loro proventi e robbe.
Quindi ne accadde che li Rinieri di Castel S. Pietro, possessori di terreni nel dozzese, li Samachini, li Comelli ed altri compatriotti fecero una masnada di persone al N. di 50 e più persone, come raccontano le Memorie Fabbri, e fatto loro capo Gio. Battista Fabbri seniore con Antonio, uomo manesco, andarono tutti in truppa ed armati, raccolsero e condussero li 25 lulio tutte le sue robbe nel territorio bolognese alle respettive padronanze, si prevalsero di questa giornata festiva per andare in picoli corpi per non essere sospetti di aggressione militare.
Non per questo stettero quelli di Monte Sparaviero, quelli del Sabbioso e Machione cole mani alla cintura cosichè gridando: Morte morte alli assassini, ne naquero risse per avere così franta la linea di confine e giurisdizione. Lo stesso accade anco in Castel Guelfo fra non molto e tanto nelli uni che nell’altro loco seguirono percosse e ferite reciproche.
Sulla fine di agosto giunta la gente del Re di Napoli a Imola per andarsene a Milano chiese il Re Ferrante il passo e vittuarie al Bentivoglio. Temendo questi di novità per essersi alquanto disgustato il Papa, mise in armi il popolo per sigurtà dello stato ed il governo delli armamenti fu consegnato a Pirro Malvezzi, quale in un batter d’occhio mise molte genti ai passi del contado e mandò molti soldati a Castel S. Pietro.
ll Sanseverino che era in Imola, rinovando la sua premura con promesse di salvacondotto, venne li 17 settembre a Castel S. Pietro. Infrattanto, nato rumore a bella posta nel popolo bolognese che si propagò anco nel contado contro il permesso datole del passaggio. Il Sanseverino temendo di oltraggio per tali rumori nati con intelligenza del Duca di Milano parente del Bentivoglio, audi di ordine di quello, nel dì 18 dello stesso mese voltò le spalle a Castel S. Pietro. Li castellani uniti a bolognesi, sentito il prosseguimento del rumore in Bologna e vedendo la repentina fuga del Sanseverino diedero dietro alla sua fantaria e la svalliggiarono tutta ed il Sanseverino con 100 cavalli fuggì a Ravenna.
In questa cacciata come riferiscono le cron. MM.SS. si segnalarono di Castel S. Pietro Cristoforo Rinieri, Melchione Laurenti, detto Scarpa, e Nono dalla Serpa d. Lostuzza.
Ciò venuto a notizia del Papa, se ne dolse molto et adirossi co’ bolognesi per la qual cosa il Bentivoglio, che dubitava del Papa, fece nove fortificazioni alle castella e roche di frontiera. A Castel S. Pietro colla massima sollecitudine fece ultimare il lavoro interno delle mura.
Nell’anno successivo 1487 entrò Podestà di Castel S. Pietro Baldassarre Montacheti, come si raccoglie da lapide contemporanea fitta nella parete esterna della pubblica ressidenza col di lui stema rappresentante quattro mani con due spade incrociate
Balthasar de Montachetis
MCCCCLXXXVII
Giovanni Rustighello Rustighelli fatto cittadino di Bologna, doppo avere esposto il suo testamento nel dì 23 decembre per rogito di Rizzardo Mengoli, beneficata la sua sposa Francesca di Giacomo Samachini, finì li suoi giorni.
Erano cresciute a a tal segno le ostilità che si commettevano fra li uomini di Castel S. Pietro e quelli del vicino confine che fu in necessità il Senato porvi al mani e fare in guisa che ne seguisse la pace anco col disvantaggio pubblico, imperciochè per il rispetto che portavasi al Conte Girolamo Riario padrone d’Imola e marito di Cattarina Sforza colla quale Giovanni Bentivoglio intercedeva parentela, fornò il seguente decreto, del quale il lettore del presente Raccolto, senza che lo stanchiamo nella replica del contenuto, glie lo apponiamo sotto l’ochio onde rillevi al minuto il tutto: 1497. XVII Martis. Cum vigeant discordie, conlvationes et rixe inter homines Terre Castri S. Petri Comitatus Bononie et homines Terre Dutie Distriches Imole ob confinia et ipsotum confinium terminos, in quibus Montis Sparaveri, Montis Regis, Machione et Sabbiosi. Et (….) DD. XVI cupiant ut componentur et terminentur ac optent ut recolecta at ignis et rebus extra teritorium et aliud asportantur quos d. de d. Castro colligunt in ..rvis suis cum etiam simili modo imolenses possident de presenti Terras in invisdictione Bononie et homines Castri bolognesi districhis Bononie et Homines Castri Guelfi Comitatu Bononie, qui aHabeant terram in jurisdictione Imole, …ssiclovent ut staluantur super hujusmodi eorum recolectibus hinc inde esportandis cumque ad omnia et singula pred. intentus esse videatur magnif. D. Hieronimus Vicecomes de Riario Imola Rect: et Dom.us . Studio et opera magnif. D. Vicecomitis de Mediolano Oratoris ac Referendari Ill.mi Principis et Dux Madiolani nec non spectati equitis D. Andree de Gratis eorum college de quorum probitate, prudentia et integritate confisi sunt. Inst. elegerunt et deputaverunt Comissarios et Sindicos Comunis Bononie cum auctoritate, pottestate conveniendi cum presato Co. Hieronimo et contentiones super confinibus audiendi, intelligendi, terminandi et concordandi, terminos f…endi atque ponendi Terre et Vicar. Terre Dutie pro comuni voluntate extrahere et conducere ad terra q.ta Castri S. Petri et Castri Guelghi frumenta, cladas, uvas, lignamina ac genera quecumque et quos umque fructus tam natos quam nascituros super terris et converso et etiam cum facultatte ordinandi et providendi quod illi de Dutia solvant collectas massar. Comunis et hominibus Castri S. Petri et Castri Guelghi pro terrenis et bonis que ad presens habent in Vicariatibus p.tis et quam illi de terra C. S. Petri et castri Guelghi solvant Massario Terre Dutie collectus pro truris et bonis que de presenti possedent in Vicariatu Dutie ad hoc ut conservatur amicitia et benevolentia inter ipsos imolenses.
Seguirono in questo tempo li sponsali fra Annibale di Gio. Bentivoglio e Lucrezia del Duca D’Este di Ferrara, per cui se ne fecero grandi allegrezze e feste nel contado. Narra in questo proposito il nostro P. Vanti che Baldassarre Montacheti, Podestà di Castel S. Pietro, volendo contrassegnare ancor esso il suo giubilo al Bentivoglio nel modo che avevano fatto li altri vicari del contado e massari, convocò li capi di ogni comunità a se soggetta e loro propose il suo sentimento che egli era di presentarsi al Bentivoglio collo stendardo della sua Vicaria e con un fanciullo provetto per ciascuna di esse comunità vestito di novo coll’uniforme bentovolesca che era la sega e, portando in mano una cornucopia di spighe e fiori, pronunziassero il primo giorno di maggio felicità e contenti al novello sposo.
Il che essendo stato plaudito dalli XVI massari delle comunità soggette al Vicariato, andarono tutti in bell’ordine al palazzo Bentivoglio il giorno primo di maggio con rami di pioppo verdi, con cornucopio di spiche e fiori ed alternando fra loro ogni tratto di strada: Viva il Bentivoglio e viva il signore di Bologna, quando arrivarono quivi. Piantato alla porta lo stendardo di Castel S. Pietro portato dal Montacheti, presentossi al Bentivoglio, offerisse la sua obedienza come al capo del Senato ed intanto li fanciulli sparsero dalle loro cornucopie li fiori raccolti. Gradì al sommo il Bentivoglio questo omaggio che doppo avere accarezzato il Montacheti, regalò alli fanciulli una moneta d’argento coll’impronto di Annibale.
Restiamo meravigliati come questo fatto luminoso non siasi veduto notato da altri scrittori sia come si voglia non essendo impossibile, noi l’abbiamo quivi annotato.
Furono infrattanto composte le differenze sud. fra li uomini di Castel S. Pietro e quelli della confina dozzese in termini vicendevoli di trasporto hinc inde de generi sud.. Nel modo e forma fu espresso e l’una e l’altra parte si condonò li danni avuti e dati.
La Compagnia del SS.mo Rosario eretta all’altare di S. Biagio per che fosse maggiormente officiato, si congiunse coll’altra del SS.mo SS.to facendo copulativamente tutte le funzioni loro a questo altare. Abbiamo da una memoria del P. Vanti che, essendo una straordinaria siccità e penuria d’aqua, fecero le unite compagnie un triduo al santo onde nella metà di agosto venne una copiosa pioggia che inaffiò esuberantemente il solo comune di Castel S. Pietro, onde perciò se ne fece anco solenne il ringraziamento.
Sebbene sembrava che fossero le cose del paese quiete non lo furono in sostanza poiché nell’ottobre a cagione del mercato delle castagne, essendo discesi montanari da Piancaldoli né volendo questi prestarsi alla legge della Misura e Pesatura del genere contrattato col pagare il tassativo al deputato dalla Comunità, ne naque un rumore tale che dandosi mano alle armi fra li uomini del Castello e que’ montanari ne rimasero de feriti mortalmente onde, per frenare il gran tumulto, fu duopo battere la campana publica e così dissipare la baruffa.
Nell’anno seguente 1488, quali fossero li Podestà del paese le carte ed elenco estratto dall’Arch. pub. di Bologna non li indica come non sappiamo che fosse il castellano novo.
Sdegnato il Papa col Bentivoglio e bolognesi per la negativa e rumori passati, essendo collegato co’ fiorentini, cominciarono questi a molestare le montagne superiori a Castel S. Pietro onde il Senato mandovvi gente e fece commissario di esse Leonardo Aldrovandi il quale stabilì la sua ressidenza nella Roca grande di Castel S. Pietro.
L’arciprete essendo angustiato e beffeggiato da scapestrati del Castello a motivo che loro non faceva quelle sovenzioni che volevano, ricorse al comissario Aldrovandi quale avuta notizia delli soggetti, capo de quali era certo Marco Lasi detto il Grillo, lo fece imprigionare e doppo alquanti giorni di carcere fu stafilato onde costui invece di emendarsi divenne più scelerato, conciosiacosa che ebbe coraggio portarsi alla canonica travestito e quivi dopo improperi e contumelie avanzò una sonora guanciata al paroco, che ne portò il segno molti mesi. Onde di novo imprigionato, riferisce il P. Vanti che fu fatto apendere dal commissario per la stessa mano allo scherno populare nella pubblica berlina, ed indi bandito per sempre dal Castello.
Teofilo Marini esercente l’arte di speziale in Bologna, avendo contratto nimistà in quella, per evitare li affronti, si stabilì in Castel S. Pietro in questo tempo.
Si erano annidati alquanti scelerati un miglio distanti da Castel S. Pietro nella via romana conducente ad Imola in loco detto al Rio Rosso e quivi non solo di notte tempo, ma anco di giorno sfacciatamente assalivano li viandanti, li derubbavano, spogliavano, percuotevano, ferivano e non era male che non comettessero. Violavano le donne ed altre le conducevano ove loro giacevano, tenendosi smarite dal tempo, onde la strada non era più sicura.
Per riparare ad un tal disordine la forza del paese era debole, poiché pochi erano li scelerati quando comparivano alla strada ma molti erano li appiattati. Onde per ciò fu duopo usare uno stratagema e fu che si finse da alcuni uno sposalizio conducendosi a casa una sposa e come che li villani quando ciò operano vanno sempre a tre ed a quattro alla volta uniti, così travestiti da donne molti paesani formarono un corpo di 22 individui ed, andando separati a tre ed a quattro, mandarono avvanti la finta sposa.
Sortiti dall’aguato tre de malfattori intesero far rappresaglia, ma gridando li assaliti e facendo ressistenza in modo da fermare li aggressori ,questi vedendosi alle strette dato certo segno, comparvero li altri imboscati ad affrontare la finta e simulata parentela. Attaccatasi una fiera baruffa, le donne travestite del supposto novello parentado, sciolte le gonelle per essere più agili alla ressistenza, divennero quelli uomini che erano e battendosi da un canto e l’altro accorse gente.
Ne vennero presi li capi delli scelerati che tosto condotti alla città furono sentenziati a morte. La sentenza però fu che si eseguisse in queste parti onde servisse l’esempio di spavento a malandrini se si fossero ritrovati. Furono per ciò impiccati per la gola sopra il ballatoio della porta del Borgo orientale e lasciati sui merli attacati per un giorno intero. Furono li capi due villani scioperati della Romagna vicina detti uno Luigi Campagna e l’altro Sandro da Mazzancollo e così fu liberato il paese da questo torbido.
Usavasi a questi tempi quando si strangulava uno l’apporli il laccio al collo raccomandatolo ben saldamente a qualche ferro confitto nel muro di un fenestroni oppure di una ringhiera e nelle Roche alli merli esterni delle torri o porte cosichè, se il capestro si fosse arreso, cadeva dall’alto il paziente a terra, ove da poi crudelmente si scanava. Così abbiamo rillevato da tanti casi accaduti in questo proposito.
Il balatoio della porta accennato non era altro che un corridore oppure una volta a pietre che copriva la sommità ed ingresso interno delle porte. Questa al nostro Borgo era sopra il Portone, che ora esiste ancora di un solo arco esterno con li soli merli di facciata verso la Romagna ed il ballatore o sia voltone fu ruinato fra non molto da un fulmine, come lasciò scritto il P. Vanti, senza indicarci la precisa epoca. Si vede bensì dalli avvanzi dell’arco accennato a quale altezza egli era edificato.
Atteso poi il matrimonio seguito tra Lucrezia D’Este con Annibale Bentivoglio, crebbe in tal riputazione la familia di Giovanni Bentivoglio per la parentela contratta con molti Baroni d’Italia e Principi che, se non fosse stato machiata dall’ambizione e dalle soverchierie, le ali della fama sarebbero state aperte per eternarne il nome, ma la moglie di Giovanni, la superbia delli figlioli ed il disprezzo de più nobili ed accreditati della città e contado necessitarono le congiure.
Poiché fattisi li Bentivogli seguito di uomini d’ogni stato viziosi che, per povertà o per brama di avere onori, corrotta la coscienza dalle sceleraggini, non conobbero più pace e quiete. L’uccisione de Malvezzi e de Marescotti fu uno stimulo maggiore a conciliarsi odio. Quelli omicidi, gli esili ingiusti oscuravano li splendori bentivoleschi ed alimentavano un odio implacabile, talmente che furono la ruina della familia e la città converse contro se stessa il ferro micidiale.
Prospero Caffarelli luogotenente del card. Ascanio Sforza Legato vedendo molte brutture, né potervi con sua convenienza riparare, chiese la dimissione dal suo ministero, la ottenne e fu dichiarato in sua vece Luigi Capra milanese familiare del cardinale Legato Sforza. Ed intanto abbandonossi dal Caffarelli la città ai voleri bentivoleschi.
D. Francesco Orsini arciprete, essendo in cattiva considerazione presso li partigiani di Marco Gril.. di sopra esiliato e massime della sua parentela de Lasi a cui spiaceva l’infamia sofferta della berlina e dell’esilio, cercavano quotidianamente cimentare il d. arciprete e chiamarlo a vendette. Imperciochè andavasi da questi a nome dello stesso da lavoratori de pochi terreni parochiali ed ad essi si facevano furti e rubberie di seminati e robbe cosichè egli, vedendo che il contrasto civile e giudiciale non poteva che degenerare in un addio, addomandò la rinoncia della chiesa al capitolo da cui ne era stato investito nella (…) fa. Venuto ciò a notizia de paesani fecero alto col med. arciprete e qui si accrebbe la odiosità per evitare la quale stavasi sempre in casa rinchiuso, cosichè diede in una ipocondria che si accorciò la vita.
Infrattanto fu estratto Podestà di Castel S. Pietro per il primo semestre Agostino Orsi il quale, non potendo per le sue incombenze assentarsi dalla città, rinonciò al Senato l’officio al quale tostamente fu proveduto col sostituire in esso Francesco Orsino di lui filio che fu abilitato alla carica nel dì 21 genaro 1489 come abbiamo dall’editto e dal Lib. partitor. del Senato di quest’anno.
Fu poi eletto castellano della Roca grande li 9 genaro Tadeo Mazovillani per un anno intero il quale avendo assunto l’impegno si obbligò diffendere come ne appare da suo obligo nell’Arch. Segr. del sen. Lib. 25 N. 28 e ne venne tostamente alla sua ressidenza. Francesco Orsi novo Podestà non verrà a Castel S. Pietro a farsi riconoscere se non il dì primo febraro.
Pier Antonio Muzza e Giacomo Dal Forno di Castel S. Pietro banditi capitali, essendo stati banditi nel taglio della testa e confiscazione de beni, come si scrisse nel 1476, avendo data suplica al Senato per accomodo, furono ascoltati ed assoluti mediante la protezione di Anibale Bentivoglio e così sucesse ad altri sebbene li malfattori e scelerati micidiari erano banditi capitali e dichiarati esuli dalla patria, nondimeno abitavano nella med. ed in territorio ed era un assenso ad essi a commettere ulteriori malefici.
Ne seguì l’accomodo col tribunale in giugno, ce lo certifica il seguente partito: 1489. 19 Juni. Refformatores decraverunt che Pier Antonio qd. Bertone Dalla Muzza e Giacomo qd. Teseo Dalforno, Bartolomeo qd. Antonio Comelli, Rondone di Gaspare Rondoni tutti della terra di Castel S. Pietro Contado di Bologna che dal 1476 banditi furono nel taglio della testa e confiscazione di tutti li loro beni per l’omicidio da loro commesso nella persona di Pellegrino di Pietro Dal Bambo di d. terra di Castel S. Pietro, come ancora Gneto di Melchione Gnetti di d. Castello nel 1476, bandito nel taglio della testa in vigore di mandato del Legato e delli Castel S. Pietro per l’omicidio da lui commesso inpersona di Polesetto da Castel S. Pietro, cumque pro pace et quiete pred. terre Castri S. Petri contire permissum et tolleratum fuerit ut banniti in territorio Bononie comorentur libere cancellentur ex Banno q.to .Vedasi da questo decreto come andavano impuniti li delitti.
Venivano per ciò in Castel S. Pietro anco micidiali forestieri ed abitavano quivi e conveniva in questi tempi sanguinari e sitibondi di stragi prestarsi più a malfattori che alle povere familie maltrattate, ma essendo arrivata all’eccesso questa tolleranza e crescendo vieppiù il numero de scellerati, temendosi di un irreparabile disordine, fu fatta instanza al Governo per una qualche providenza a Castel S. Pietro alle cui familie maltrattate conveniva con eroica prudenza soffrire piuttosto un nemico in casa che ruinarsi interamente.
Estratto Podestà di Castel S. Pietro per il S. S. Gio. Franceschini, per le contingenze presenti del paese non volle esso quasi mai vennere a rendere ragione. Dovevano li facinorosi per l’anzidetto decreto prestarsi in qualche modo alla quiete ma nò, fu fatto tutto il contrario, anziché l’assoluzione fu per essi un campo ad imperversare maggiormente.
Divenuto Podestà del secondo semestre Tomaso Franchini, sentendosi movimenti d’armi nella vicina Romagna, sollecitò il Senato la di lui venuta in Castel S. Pietro onde in qualche modo imponesse timore ai scapestrati. Aggiunse il Senato perciò anco il numero di soldati a Castel S. Pietro per la cui custodia pagava l. 450 all’anno. Non per questo si spaventarono li malviventi terrazzani, anziché stando essi in sospetto divennero più temerari. Il motivo era perché avevano intelligenze con altri malfattori della vicina Romagna e di altri luoghi del contado onde perciò al uopo si introducevano in Castello e caminavano in truppa, cosichè il paese era divenuto un asilo franco ai micidiali e uomini perversi d’onde in seguito ne naquero rumori e risse che a raccontarle tutte sarebbe una continuata processura che faressimo e ci scosteressimo assai dal nostro camino.
Quindi stanca la Comune di si fatto vivere di uomini senza legge e solo sitibondi di sangue, si era riempito il paese di medicinesi, budriesi, varignanesi e di altri luoghi che col loro temerario procedere si era sempre in guerra e le familie bone non che le autorità soggiornavano malvolentieri in questo loco, d’onde perciò siamo mancanti del nome del Podestà locale per il primo semestre del seguente 1490.
Ne passò la notizia al vicelegato Cesare d’Amelia e non più al Senato in cui il Bentivoglio voleva tutto a suo talento, che perciò l’Amelia, quantunque prevedesse che alle sue leggi poco se le sarìa dato mente, ciò non ostante, seguendo la traccia de suoi antecedenti colla partecipazione del Senato, fece un Decreto di penalità alli incettatori ed ospitari e ricoveratori banditi nel dì 22 febraro 1490 diretto alli uomini e persone qualunquemente di Castel S. Pietro, continente che li incettatori ed ospitanti di teli genti bandite, fossero del contado o esteri, cadessero in disgrazia de principato e pagassero l. 50 tante volte quanto venissero ricoverati ed ospitati li banditi e simili fuorusciti e che in tale pena si intendessero anco incorsi il Massaro ed il Podestà locale, se non si fossero li scelerati e banditi espulsi dal paese e loro case, come più a lungo si legge nella provisione rogata nel giorno sud. 22 febraro per Nicolò Bedora.
Questa provisione fu proclamata ai luoghi pubblici. Fu anco per questo motivo confirmato castellano della Roca per tre anni Tadeo Mazovillani, uomo di attività singulare e circospetta prudenza, che ne espose la sua solenne obbligazione di difendere la Roca e Castello come riscontrasi nell’ arch. segreto del Senato.
Fece egli tosto con destrezza assertare li più tiepidi micidiali e li forestieri, dappoi fece assicurare le carceri della Roca, la campana della stessa Roca, colla quale al diffori chiamasi al bisogno il castellano per introdurvi genti, essendosi rotta, fu rifusa dal funditore M.ro Pietro dalle Campane pagandole l. 20 come riscontrasi dal mandato sotto li 3 aprile : Refformatores mandat. sattisfieri Magistro Petro de Campanis in campana ad usum arcis Castri S. Petri.
Il Governo del Bentivoglio condotto più dai figli che da esso nelle seguenti epoche è così sterile di providenze per il nostro Castello che, mancandoci anco li scrittori coevi di memorie, scarso perciò è il nostro Raccolto.
All’entrare dunque del 1491, in cui non abbiamo notizie di chi fosse il Podestà locale per il primo semestre, essendo afflitto oltremodo l’odierno arciprete Orsini per li assidui dispetti diede in una profonda fissazione che lo dementò, così, aborrendo le sussistenze giornaliere, divenne inabile al governo della chiesa la onde, non potendo il di lui vicario supplire a tutto, veniva ajutato dalli sacerdoti agostiniani.
Narra il P. Vanti che nella seguente quaresima venne a Castel S. Pietro a predicare certo F. Simone da Bologna dell’ordine eremitano, uomo dotto ed attaccato alla pietà, e che, terminata la predicazione, stabilì quivi a petizione della comunità la sua stanza tanto più che li frati di S. Bartolomeo erano quelli che assistevano la università anco nelle cose laicali e comunitative ne comizi, come si riscontra anco ne cattasti delle possidenze terriere di Castel S. Pietro.
Di qual casato fosse le carte involate di questi tempi ci privano della notizia. Abiamo bensì nelle memorie Fabbri e Vanti che, abbisognosi di numerario, Pier Antonio Dalla Mazza e Rondoni Rondoni per comporsi col tribunale su la pena del bando, chiesero a Solomone ed Aronne, ebrei banchieri di Castel S. Pietro, certa quantità di danaro quale con iscuse venendola denegata, perché conoscevano che mai più l’avrebbero riavuta.
Passarono li due postulanti alle lagnanze e dalle lagnanze alla imperiosità dicendo che assolutamente volevano l’addomandata somma ma, opponendosi li giudei, incontrò uno di essi una sonora guanciata per la quale all’altro ebreo sortì di bocca che tanto non si aspettavano da uomini onorati che perciò dispiaceva loro di essere in necessità di ricorrere al governo ed abbandonare anco il paese.
A queste parole riscaldossi Rondone e repplicò che se in Bologna si fabbricavano processi anco in Castel S. Pietro si fabbricavano pugnali e vi erano sogetti che li sapevano maneggiare. Ammutolirono li giudei e crescendo il rumore, convenne al castellano assicurarli nella Roca.
Questo accidente diede un urto alli d. ebrei per abbandonare Castel S. Pietro e, perché avevano dati danari alla Comunità ad usura per fare spese nella contingenza delle truppe passate e per altri bisogni, cercarono con destrezza avere il loro danaro da quella la quale, perché non veniva a capo, le fu intimato dal Senato il sindacato, quale eseguitosi e pagatosi il debito alli ebrei dalla Comunità ne, esposero la assoluzione, lo assicura un pub. ins.to registrato nell’Arch. pub. di Bologna Lib. 79. fol 6.
Nel secondo semestre fu Podestà Roberto Ramponi.
Alla Memoria sud. di F. Simone eremitano soggiunge quivi il P. Vanti che, dovendosi nel settembre anno presente fare una congregazione capitulare delli Agostiniani a cui doveva intervenire d. F. Simone, prese egli l’opportunità di invitare a questo loco quei capitulari sul riflesso della stagione e di approffittarsi dell’aqua salutare della Fegatella che era divenuta in gran credito e che addottando li invitati la chiamata ne seguisse l’effetto d’onde poi, col processo del tempo, ne fu introdotto l’uso di farsi in questo convento di S. Bartolomeo li capitoli provinciali ancora.
Li Secoli agostiniani del P. Torelli, privo forse di queste notizie, non fa alcuna menzione di ciò sotto l’articolo di Castel S. Pietro e suo convento di S. Bartolomeo onde conviene credere al P. Vanti come scrittore nazionale e come uomo più vicino a questa epoca di quello che il Torelli abbia quegli ciò riscosso dalle carte del paese da esso ventilate o almeno da una tradizione.
Giunto l’anno 1492 senza avere potuto iscoprire chi fosse il Podestà del primo semestre, passiamo a notiziare il lettore che, essendo cessato di vita per la sua demenza D. Francesco Orsini, sucesse ad esso nella cura di Castel S. Pietro D. Orfeo Rossi che presentato nel dì 5 marzo ed acettato dal Capitolo di S. Pietro, furono affissi il dì 15 li editti e consecutivamente conferita la chiesa come ne appare dal Rog. di Colazione stipulato per Francesco Formaglini, nel quale li canonici dichiarano padroni di questa chiesa li uomini del med. castello. Chi fosse Podestà del secondo semestre l’elenco de vicari lo ommette.
Alessandro del fu Bartolomeo dalla Muzza di Castel S. Pietro sartore nel dì 7 aprile prese la cittadinanza di Bologna all’effetto di togliersi di sotto alli ochi a suoi congiunti uomini tristi. La progenie delli Muzza la troviamo in questi tempi propagata in Castel S. Pietro in cinque colonelli, quella di Fabbri in quattro, quella de Comelli in quattro, delli Rondoni in quattro, de Lasi in cinque, Ghirardacii, Rinieri e Samachini in quattro e così di altri. Familie tutte per la loro catena di parentela da temersi per li uomini facinorosi che fra loro gareggiavano nelle azioni spesso.
Li 25 lulio morì Innocenzo VIII a cui nel papato sucesse Roderico Borgia spagnolo col nome di Alessandro VI. Erasi ormai al termine della esentazione dal Dazio Sale delli uomini di Castel S. Pietro per il quale erano stati accolati lavori intorno al Castello o Roca e come che questi non furono sufficienti addomandarono li uomini il prosseguimento si dei lavori che delle esentazioni del dazio riconpensativa alla spesa de med. Riconoscente il Senato non meno la verità del fatto che la necessità delli lavori addottò la instanza sotto diversi capitoli e ne formò il seguente decreto:

  1. 16 Octobris. Cum de Mense Marti 1482 concessum fuerit Decretum exemptionis ad decennium Massario, Comuni et Homininibus Terre Castri S. Petri a Datio Molinendos et Salis Comunis Bononie modo et forma, conditionibus in ipso Decreto contentis cum hoc tamen quod solvere deberent quolibet Anno d. decenni l. 800 de argento Conductori Datiorum predictor. salis et Molend. et quod etiam dare debeant l. 200 operis et aliis rebus ne cessaris ad fabbricam seu fortificationem d. terre prout in d. Decreto continetur et cum prequinquet finis decenni et ipsi massarius et homines patierint et supplicaverint ut pred. exenptio prorogetur qua facilus continuare possint in rearatione et fortificatione Terre Castri S. Petri quod etiam cedet ad utilitatem pubblicam, quoniam interest Rei pubblice habere Oppida et Castella, muris et turribus fulta et munita. Cumque deceat ut preces et suplicationas Massari et Hominum predict. exaudiantur, per omnes fabas albas Refformatores prorogaverunt exemptionis p.te ad alior x annos proxime futuros incipiens in Kal. Januari proxime futuri. Decernenentes et valentes qiod loco dd. l. 800 bonon. quas his superioribus temporibus pro et Anno pred. decel an. solverunt conductoribus p.tis Datiorum Salis et Molen. solvere debeant solum et denotaxat l. 600 quam quolibet annus p.torum x anno expendere et covertere debeant Liras quadrigentos bonon. cum asseceh in fabbrica d. terre C. S. P.ri prout videbitur magnifico D. Jo. de Bentivolis et si eas in fabbrica p.ta non expalverint et converterint, teneantum ipsas l. 400 dare et sovere Camere Comunis Bonon. non osbtantibus quibuscumque in contarius quomodoliber disponentibus .
    Nel seguente 1493 Tadeo Mazovillani, cittadino di Bologna, essendosi portato bene in questo suo ministero di castellano della Roca grande fu confirmato nella carica per altri tre anni e ne espose con giuramento l’obligo di fedelmente custodirla a rog. di Bernardo Fasanini e Giacomo Graffi li 3 febraro.
    Morto Federico III Imperatore, fu eletto alla corona Massimiliano per la qual cosa Lodovico Sforza chiamò in Italia Carlo VIII Re di Francia il quale, pretendendo nel regno di Napoli, diresse l’armi al med. per la via di Lombardia. Da questa altra parte di Romagna venne il Duca di Calabria e li 9 settembre giunse a Castel S. Pietro onde, conforme scrive Alamanno Bianchetti e narra la Cron. Secadinari, il Conte Alberto Guasco, che era con 100 cavalli andato in campo al Martinengo, stette tutta la notte armato temendo attacco. Il giorno 10 cominciò il Duca diriggere da Castel S. Pietro le sue genti al campo ed il giorno seguente 11 settembre partì alla volta di Bologna. Temendo il Bentivoglio di così fatte vicende provide Castel S. Pietro di munizioni e d’uomini ed affrettò alli uomini del castello le riparazioni.
    Passando al 1494 occupò la carica di Commissario per il primo semestre Antilio Nobili.
    Li 15 genaro Baldassarre Rota di Castel S. Pietro devoto di S. Michele arcangelo fondò un beneficio semplice in questa arcipretale a rog. di Nicolò Fasanini sotto la invocazione del med. Santo. Lo dotò di terreni e vi eresse l’altare dedicandolo al med. Questo altare era ove è di presente il vestibolo all’ingresso della Capella del Rosario, che poi fu trasportato in fondo alla med. capella ove sta eretta l’Arciconfraternita del SS.mo Rosario di che alle respettive epoche ne scriveremo li incidenti. Li beni di questo beneficio sono incorporati coli altri della arcipretale. E’ gravato il Rettore di celebrare ogni seconda feria di ogni settimana al med. altare e deve servire la chiesa la settimana santa.
    Le truppe del Re di Aragona, che erano nella Lombardia, presentendo che il Re di Napoli si inoltrava nella Romagna, annellavano venire sul bolognese. Di tali movimenti temendo ausilio Nobili commissario di Castel S. Pietro, uomo timoroso per sua natura, di sovente abbandonava questo suo officio e se ne stava in Bologna dove che, sentendo arrivare nel bolognese le truppe, abbandonò il suo ministero.
    Giunti a Bologna li aragonesi passarono tosto a Castel S. Pietro ove, trattenutisi vari giorni, passarono ad Imola. Il Senato perché non rimanesse l’Officio di Castel S. Pietro senza Vicario sostituì in esso Innocenzo Ringhieri, che prontamente coprì la carica.
    Li Canonici di S. Pietro di Bologna, amministratori dell’Ospitale sotto la parochia di S.S. Sanesio e Teopompo appresso il vescovato dove si alimentavano due ottavi di fanciulli esposti, doppo avere nel decorso aprile unite le loro entrate all’Ospitale di S. Procolo dove si dovevano in avvenire ricevere li esposti, fu da med. canonici notiziata la Compagnia di S. Cattarina di Castel S. Pietro, amministratrice ancor essa di certi beni dell’Ospitale de Viandanti e Bastardini, che da qui in avvanti, capitando esposti in questo loco, si dovessero portare a S. Procolo e riconoscere quell’Ospitario per governatore di bambini abbandonati dalla empietà de genitori pagando per una sol volta l. 15 all’Ospitario.
    Oltre al travaglio che si aveva per le correnti guerre de sovrani, si aggiunse anco spaventevoli segni nel cielo per cui sbigotite le genti si attendevano ad ogni momento li scoppi dell’ira divina e la ruina del mondo. Non vi fu perciò loco catolico che non ricoresse a Dio o colle consuete orazioni o con nove instituite.
    Narrano le nostre Cron. di Bologna che fra Bernardino di Vercelli dell’ordine agostiniano, che fu poi Beato, avendo infiamato nella sua predicazione quaresimale in Bologna a riccorere a M. V., diede principio nella chiesa di S. Giacomo alla Compagnia della Centura sotto la invocazione di M. SS.ma di Consolazione, titolo tanto glorioso quanto che fra le prerogative della regina dei Cieli si vantano li uomini suoi devoti, eredi delle di lei grazie.
    Di questa grande protettrice, essendovi una devota imagine in quella chiesa, dirigendo li afflitti ne partivano consolati onde, facendo tante grazie, non vi fu populazione del contado che non vi andasse a visitarla. Soggiunge in questo proposito il nostro P. Vanti che F. Simone anzidetto, radunato bon numero di castellani, si portassero processionalmente alla visita di quella e che vi fossero malati rissanati, lo che non è impossibile alla dispensatrice delle grazie celesti. Dispiace a noi non saperne il preciso.
    Vedendosi Luigi Capra Locotenente del Legato di Bologna essere poco considerato nella città a motivo che tutto si voleva fare dal Bentivoglio e temendo di avversità per le correnti bellicose vicende, stante la parentela che aveva il Bentivoglio da una parte e la nimistà ed odi dall’altra che le procacciavano li suoi figlioli, ne diede avviso al Papa quale in seguito lo chiamò a Roma e sostituì al suo posto Agostino Collio col nome di Vicelegato del d. card. Ascanio Sforza.
    La potenza delli Sforza in questi tempi signoreggiava la maggior parte delli stati pontifici e della Lombardia. La parentela estesa de medesimi li faceva potentissimi. Il Bentivoglio congiunto ad essi non vacillava perciò punto, aggiungendovi ancora la congiunzione con altri Baroni d’Italia, lo facevano più che mai forte da un canto ma dall’altro era divenuto odiosissimo. Stimato per tanto fino dall’Imperatore Massimiliano, ne ebbe da esso privilegi ed onori grandi, le fu concesso di poter cuniare moneta di qualunque sorta ed in qualunque loco ove avesse giurisdizione ed inquartare la sua insegna coll’aquila nera, tutte cose che furono tanti gradini alla di lui ruina.
    Nei prossimi passati mesi essendo stato mandato Inocenzo Ringhieri, come si scrisse, per Commissario a Castel S. Pietro a motivo dell’esercito che era nella Romagna dove Antilio Nobili Vicario era stato negligente nel suo ministero al quale aveva supplito il d. Ringhieri, quindi è che, essendo ristabilito in Bologna, Tomaso da Lojano, Tomaso Gambarelli ed Antonio Sansoni di Castel S. Pietro lo insultarono e dalli insulti passarono alle percosse per modo che lo ferirono nella testa e braccia, onde perciò furono quelli banditi. Al d. Innocenzo Ringhieri poi furono pagate l. 100 a capo dell’officio e danno come ce lo attesta il decreto delli rifformatori nel dì 17 decembre anno cadente.
    Se da qui in avvanti per il corso di non pochi anni sarà il nostro Raccolto deficiente di notizie di chi coprisse la carica di Podestà ed altre autorità locali non deve il discreto lettore de nostri scritti tribuirlo a trascuraggine o negligenza di indagini ma alla eventualità ed alle circostanze contemporanee che sconvolsero l’ordine delle cose e perciò siamo, nel più bello del bisogno, defraudati di più belli monumenti che potrebbero illustrare la scrivenda nonché renderla copiosa.
    Il motivo di ciò fu che il Bentivoglio, asceso all’apice della sua sovranità, governava a talento la città e contado. Egli essendo uomo di alto talento operava a seconda del medesimo ma li figlioli, declinando dal retto, gonfiati dalla sovranità paterna, poco e nulla stimavano la nobiltà e cittadinanza onde si conciliarono per la loro prepotenza nimicizie ed odi mortali. Le richezze, il partito amesso de tristi, li oneri sovrani e le aderenze ad alte Baronie servirono di mantice ad attizzare un novo foco e svegliare le sopite faville de tempi andati.
    Avvedutosi di ciò il Bentivoglio, cominciando a temere del suo dominio, fece fare buona guardia alla città e castella nel seguente anno 1495, dappoi cominciò a prendere di mira quelle familie nobili, ancorchè sue parenti, per abbassarle et avvilirle. Li Marescotti ed altri, di cui piena è la storia di Bologna. furono al segno perseguitati. Tolse alli Malvezzi Castel Guelfo, vi fece fabbricare la fortificazione avvanti la porta, vi pose l’arma sua ed un governatore a suo modo facendovi fare buona guardia, duplicò la guardia ne castelli sospetti per partito o per cautela. Mandò munizioni a Castel S. Pietro, furono assoluti li banditi e rimessi in patria. Per queste soversioni fu travagliato il contado e presero anco coraggio le truppe straniere contro li buoni, le quali colla loro sfrontatezza facevano ogni male, dal quale neppure andarono esenti li bentivoleschi.
    Crescendo l’esercito dalla parte di Romagna nel dì 11 giugno vennero a Castel S. Pietro 60 stradiotti albanesi facendo gran danno ove passavano e più dove si fermavano. Arrivati a Castel S. Pietro fecero campo al Borgo e fu chiuso il Castello. Il primo saluto che ebbero li borghesani fu di impadronirsi delle due chiese di S. Pietro e della Annunziata. Nella prima vi posero le munizioni da guerra, nella seconda si prevalsero di farvi caserma e foco al segno che si incendiò dalla parte di ponente nel tetto coperto ad abete, d’onde poi fu ristorata a tegole e mattoni.
    Le insegne ed armi gentilizie de Bentivogli furono in questo rovescio di cose, abbassare e guaste. Lo stema che era sopra la facciata della porta del Castello, per la sua altezza non potendosi di leggieri deporre, servì da bersaglio alle spingarde nemiche che la frantumarono. Prosseguendosi in questa guisa a danneggiare furono anco incendiate alcune caselle fronteggianti la via corriera dalla parte di Romagna che servivano per custodirvi il gualdo.
    Racconta il P. Vanti che essendosi domesticati li nemici a tali disordini ascendendo le colline nel quartiere della Lama per fare le solite ruberie ed incendi, li Rinieri di Castel S. Pietro fecero fare un’imboscata per alcuni paesani corraggiosi alli soldati che foragggiavano onde, tolti in mezzo da nostri, ne ammazzarono alcuni. Ciò fu poi motivo che incendiarono le case di quei villani, in loco delle quali Riniero Rinieri vi edificò poi un onesta e decente vileggiatura per se e sua familia. Partite le truppe da Castel S. Pietro e spargendosi per il contado fino alla volta di Bologna, cometterano
    impunemente ogni male ideabile.
    Dispiacendo eccessivamente queste cose al Papa procurò una Lega coll’Imperatore, Re di Spagna, Duchi di Milano ed altri per cacciare li francesi d’Italia, che facevano tanti mali. Pervenuto ciò a notizia di Carlo VIII Re di Francia deliberò tornarsene nel suo regno e tenendo la via di Toscana fu inseguito da coalizati e giunto al Taro si venne all’armi e ne ricevette la sconfitta, cosichè sollecitò la sua partenza.
    Mutatosi in questo contratempo il regime di Bologna, deposti al governo della med. e suo contado (…) e Naccioso nel 1496.
    Castel S. Pietro che aveva sofferto non poco danno nelli quattro giorni che le truppe straniere si erano quivi accampate, il Bentivoglio procurò il riparo, il quale fatto nelle palificate della porta maggiore, fece rimettere tostamente la sua insegna rinovata coll’aquila imperiale nel luogo dove era la già infranta dalle spingarde. La chiesa della Annunziata fu di novo coperta a tegole non più ad abete cosichè solo le solennità di M. V. cominciossi ad officiare.
    Tutto il mese di marzo ed aprile furono copiose le pioggie al segno che le campagne imbevute d’aqua poco si potettero coltivare. Rimesso il tempo stette sereno fino alli 8 settembre dovechè, doppo un’aridità di 4 mesi, venne tanta e sì dirotta pioggia per il contado che essendo durata 36 ore continua come diluvio li fiumi ed altri condotti, sormontando li argini e ripari, allagarono il contado. Soggiunge a questo raconto, dalla Cron. Pasi, il nostro P. Vanti che il Silaro crebbe a tale segno che, alzatosi sopra l’alveo all’altezza di 15 piedi, l’aqua coperse fino la via romana e dalla parte del Borgo prendendo in mezo il molino. Squassò li argini superiori, annegò le biade che vi erano entro ed ammunì le machine delle moli, cosichè si stette alquanto tempo senza potersi macinare.
    Indefessi questi padri agostiniani di S. Bartolomeo nel culto catolico, presero occasione delli frequenti miracoli che faceva M. SS.ma mediante l’imagine sua in S. Giacomo di Bologna di indurre una unione di più divoti del nostro Castello e farne una visita solenne alla medesima. F. Simone si fece capo ed a guisa delle altre comunità territoriali condusse ventiquattro paesani a quella nel settembre, maggior parte villani. Riscossero li med. carezze da frati bolognesi si per essere alla testa di loro F. Simone che per essere la relligione sua ben vista ed attacata alla università di Castel S. Pietro d’onde questo suo convento ne riscuoteva beneficenze.
    Essendosi portato bene nella condotta della sua castellania della Roca grande di Castel S. Pietro, Tadeo Mazovillani fu nel dì 3 genaro 1497 confirmato in esso e ne espose la sua legale obligazione.
    Cesare Naccio di Amelia novo Vicelegato di Bologna giunto al governo della città, conoscendo che tutto il potere della giustizia era in mano del Bentivoglio o de magistrati che erano di lui dipendenti e che perciò la sua dignità ed autorità di Vicelegato poco figurava e che da un’altra parte li malfattori non si processavano se non a casi enormissimi né si teneva conto delle processure, onde punire ancora quelli che una qualche volta si scopressero avere avuta influenza ne misfatti, e sapendo che queste cose dispiacevano al Papa ed intendeva il medesimo umiliare l’alterigia bentivolesca, simulò il Vicelegato sempre la scienza de malefici.
    Non andava mese che non si sentissero stragi, uccisioni ed assassini. Riferiscono in questo proposito li ricordi di Gio. Battista Fabbri il seniore capitano che Jasone di Comello invaghito di Rosolina Toschi, ambi di Castel S. Pietro, non volendo questa attendere a di lui amori ma piuttosto a Nanino Balduzzi, trovatale a discorso seco su la porta, entrato in un furibondo impeto glie lo svenò a piedi. Contemporaneamente Pier Antonio Dalla Muzza, non dimentico delle sue bravure, venuto a parole sopra certo conteggio colli riscuotitori del Dazio Sale e Molitura del paese, quantunque avessero ragione li esattori, furono dal med. miseramente lasciati morti nella pubblica strada, onde fu bandito di novo del taglio della testa.
    Suor Francesca Mondini di Castel S. Pietro, già monaca nel Corpus D. in Bologna, colma di meriti morì nel settembre in aspetto di santità. Lo splendore della sua virtù qui lo ammettiamo e dirigiamo l’amante de nostri scritti a leggerli nell’opuscolo delli Elogi stampati nel 1801 in Imola per Gio. Dal Monte da noi composti sopra la vita di alcuni uomini e donne illustri di Castel S. Pietro per opinione di santità.
    Per rendere poi maggiormente officiata la chiesa della SS. Annunziata nel Borgo del nostro Castello, la familia di Morello Morelli e delli Boldrini incominciarono di questo mese a fabbricarvi le due capelline laterali alla destra della chiesa e furono solamente perfezionate al cadere di decembre nel quale, per non essere bene custodite, non furono officiate se non all’anno venturo. Ripettiamo questa memoria da un millesimo ivi rinvenuto nella parete esterna di quelle colli nomi de compadroni acenati cosi cantante: Morello e Boldrino F.F. MCCCCXCVIII.
    Giovanni Bentivoglio coll’altezza dell’animo suo intendendo distinguersi come sovrano e monarca, essendo amante delle rarità ancora, cominciò nel seguente 1498 a far cavare, lontano tre miglia di Bologna nel monte degli arienti, minerali, ne ebbe qualche profitto di argento. Cominciò questo lavoro su la traccia delle marchesiti che ivi si ritrovavano, compiacendosi egli non solo di questo tesoro ma anco di pietre bellissime, come raccontano le cronache di questi tempi. Si faceva ognuno pregio di presentargliene per ottenere la sua grazia.
    Riferisce Paolo Masini nella sua Bologna Perlustrata che perciò sopra Castel S. Pietro, nelle vicine montagne fronteggianti il Silaro, fu ritrovato in questo proposito un marmo bianco allattato ed in alcuni altri luoghi pezzi di cristallo di monte lavorati dalla natura che facevano stupore. Diede quindi ad alcuni motivo di fare saperlo e perciò si ritrovarono in appresso ambre gialle e, segnatamente in un loco detto le Ruine, si ritrovarono altre materie di pregio che presentate al Bentivoglio ne riportarono oltre la grazia anco il premio.
    A nostri giorni il sacerdote P. Ermenegildo cappuccino di Campeggio stanziante in Castel S. Pietro, diligentissimo investigatore di queste materie, non solo pietre di rarezza, ma anco agate, ingranati, l’amianto ed altre cose rare non conosciute e, se conosciute, trascurate dalle genti come di esse già ne abbiamo fatto memoria al principio di questo nostro Raccolto e dell’inventore sud. ne ha fatto il meritato elogio il chiaro Lettore dott. Veghi nell’Instituto di Bologna.
    Ritornando al nostro camino, penetrato il Papa dalle continue relazioni che di ogni canto le venivano intorno alle crudeltà che si facevano nel bolognese e che dai figli del Bentivoglio si coprivano né vi aveva loco la giustizia, pensò, per questi ed altri motivi, levare il dominio della città e, trasferendolo nel Duca Valentino di lui filio naturale, farlo grande.
    L’ultimo crollo che ebbe Giovanni Bentivoglio fu che per sospetto esiliò da Bologna Giovanni Cattani da Castel S. Pietro, uomo di riputazione ed amato per le sue qualità da tutta la nobiltà e cittadinanza, come ci assicura succintamente Matteo Griffoni scrittore contemporaneo nel suo Memor. stampato dal Muratori. Rar. Italic. Med. Evi così: Joannes Capitan Castri S. P.ri fuit confinatus.
    Non mancò questi certamente addurne al Papa le sue discolpe le quali vieppiù attizzaronolo nella conclusione de suoi dissegni. Imperciochè, promessa Lucrezia di lui filia naturale in isposa ad Alfonso d’Este Duca di Ferrara, le diede in dote Cento e la Pieve levandole dalla giurisdizione e vescovado di Bologna. Se ciò dispiacesse al Bentivoglio lo congetturi il lettore.
    Aveva in questo tempo preso in odio Pietro Rondoni qd. Giovanni, cugino del più volte menzionato Rondone di Gaspare Rondoni, certo Vandino di Melchione Giachini di Castel S. Pietro, al segno che le fece sapere volerlo ammazzare se non abbandonava la patria. Credette Vandino che ciò fosse uno spavento intimatoli, ma non fu così poiché, assaltato dal d. Pietro Rondoni per istrada nel dì 8 giugno, lo scannò miseramente. Cadde il reo nella pena del taglio della testa, come ci asseriscono le carte del partitor. del Sen., ma non si vide poi l’esito di giustizia a si fatta strage, solo che provasi essere stato assoluto nel 1518 da pena e colpa.
    Il Papa intanto che le premeva la conquista de stati eclesiastici, fece Lega con Luigi XII Re di Francia e veneziani e mise in piedi poderosa armata per arrivare a suoi dissegni di far grande Cesare Borgia di lui filio naturale, detto volgarmente il Duca Valentino. Lo dissegnò Confaloniere di S. Chiesa in apresso e, dandole molte bande di spagnoli, co’ quali era in Lega, con Paolo Orsini e Vitellozzo di Città di Castello, famosi capitani, li ordinò che passasse nella Romagna alla ricupera le castella, terre e città ribellati a S. Chiesa. Non fu tardo il Duca ad eseguirlo. Passò egli quindi nell’anno seguente 1500 ed avuta bona parte di quelle venne alla volta di Bologna, lo stesso fece Lodovico Re di Francia che era già arrivato in Lombardia.
    Entrate le truppe nel bolognese, si diede il pensiero il Bentivoglio riceverle a Castel S. Pietro quelle del Valentino. Tanto fu eseguito dalle truppe nazionali di Bologna delle quali ne era stato fatto commissario generale messer Giovanni Marsigli e furono le truppe straniere, dopo essere state ricevute, sempre accompagnate dietro le fosse della città finchè furono fuori del contado per andarsi a congiungere coll’esercito nella Lombardia, provedute di tutto il bisognevole.
    Il Valentino intanto, che restavale una parte di Romagna da ricuperare, pose il campo in primo loco a Faenza. Perché la città strenuamente si diffendeva chiamò il Valentino in ajuto le truppe francesi e guascone che erano in Lombardia in N. di 12 milla combattenti sotto la condotta di Monsù d’Allegria. Venne egli tosto e, quantunque fosse onorato dal Bentivoglio, passata la città cominciò la sua truppa a fare danni intollerabili per il contado fino a Castel S. Pietro dove, arrivati di primo lancio, vollero il beveraggio al Borgo senza paga.
    Infrattanto che il Valentino assediava Faenza, timorosi li bolognesi di essere molestati dopo la presa di Faenza, munirono di ogni cosa Castel S. Pietro, Castel bolognese, Castel Guelfo e Casalfiumanese colla maggior parte dell’altre castella e roche poi introdussero nella città li soldati del Bentivoglio ed altre fanterie forestiere che furono alloggiate nelle case de cittadini.
    Tutte queste lagrimevoli circostanze infervorarono maggiormente li boni cattolici a prendere il Giubileo pubblicato dal Papa Alessandro 6° che fu la sesta volta.
    Il Duca intanto che teneva blocata Faenza, la quale valorosamente si diffendeva e li faentini le facevano gagliarde ressistenza e scorrerie, conoscendo il poco frutto che dal bloco di molti mesi ne ricavava e che la staggione inoltrata per li cattivi tempi pativano li suoi soldati, ritirò le truppe a Forlì ed a Imola.
    Aquartierato in questa il Duca mandò al Bentivoglio et al Senato a chiederle Castelbolognese per avere più commoda la sua truppa a Faenza. Il Senato, che conosceva avere a trattare con uomo senza parola, vi mandò non ostante Francesco Fantuzzi a trattare il modo et a patteggiare col Duca, ma questi nulla volle accordare, onde dissimulò la vendetta e pensò a migliore tempo condure a fine le sue intenzioni.
    Su la fine di quest’anno in Castel S. Pietro fu nella parochiale esposta al pubblico culto la tavola di Gaspare Sacchi pitttore imolese ove sonovi espressi tutti li santi tutori del paese. Appare il nome di questo autore scritto di suo penello nel sasso appresso le ginocchie di S. Girolamo suplicante M. V. ascisa in nicchio col putino in braccio. Fuvvi dipinto questo santo a petizione di D. Maria Antonio Comelli rettore del beneficio lajcale eretto all’altare maggiore di questa parochiale, come alli atti di Francesco Mattessilani viene indicato, alla cui spesa vi concorse il d. Comelli.
    Con ciò chiudiamo il presente secolo.