Ercole Valerio Cavazza

Traduzione in italiano corrente di Eolo Zuppiroli

RACCOLTO di MEMORIE ISTORICHE di CASTEL SAN PIETRO

nella giurisdizione di Bologna

compilate da Ercole Valerio Cavazza

VOLUME 4°

dal 1776 al 1796

1776

Spostamento mercato bovini dal Borgo alla destra della porta del Castello. Interventi di restauro ed abbellimenti nelle strade oggetto delle processioni del Corpus domini.Trasferimento mercato commestibili in piazza e pescherie sotto la porta. Buca della posta spostata al Portone. Disaccordo della Comunità.

Il primo gennaio il sacerdote D. Domenico Lugatti  prese possesso della sua carica di priore del SS.mo e fece cantare ad alta voce S. Maria Lauretana. Con questa invocazione volle significare, secondo l’uso antico di questa compagnia, che il priore voleva andare alla S. Casa di Loreto col miracoloso crocefisso. Il priore avrebbe coperto le spese, contribuendo la compagnia solo alle cappe, gli stendardi e il regalo alla Santa Casa.

Il 6 gennaio i soppressi della compagnia di S. Caterina diedero supplica al Legato E.mo Branciforti che permettesse loro potersi riunire come una congregazione per trattare e, nel caso occorresse, delegare legalmente. Tale congregazione sarebbe stata fatta nella casa di Prospero Posolini, contigua a quella mia, o in altro luogo. La supplica fu ingannevole poiché in essa non si ricordarono le proibizioni contenute nel Breve apostolico di soppressione e i precetti successivamente seguiti da parte del vescovato. Il Legato rispose benignamente e il 18 si tenne una piccola sessione in tempo notturno.

Il 21 in questa arcipretale si fecero solennissime esequie all’E.mo Malvezzi con apparato a lutto e torce a spese dell’arciprete e del vicariato di questo Castello, concorrendovi una infinità di celebranti. In mezzo alla chiesa c’era un alto catafalco contornato di torce, sopra c’era  un cuscino con la mitra dorata, la croce e il pastorale incrociati. Per la chiesa c’erano le insegne del defunto e tutta la chieresia assistette alla funzione che fece l’arciprete Domenico Cervelati di S. Martino di Pieve di Riolo (Pedriolo). Assisteva il nostro arciprete D. Bartolomeo Calistri, vicario, foraneo con mantelletta e stola, seguivano poi tutti gli altri curati del Vicariato. Fuori del presbiterio c’erano otto cantori. Anche le religioni claustrali, tutti i preti e gli ex gesuiti andarono a celebrare, a loro fu data della bella cera.

Terminata la funzione venne una copiosa neve che durò a cadere fino al giorno primo febbraio con freddo tale per cui si gelava il vino, l’aceto e il liquore.

Giunse contemporaneamente lettera della E.ma Assonteria di Governo che rendeva noto essere stato deputato a questi affari pubblici il Cavaliere Senatore Marchese Vitale de’ Buoi. La Comunità mandò i consiglieri Flaminio Fabbri e Vincenzo Mondini a prestargli ossequio e a pregarlo perché concedesse di permutare la inghiarazione nella concessione di sassi e sabbia per la selciata del Borgo.

Si scrisse pure al senatore Malvezzi che ne procurasse la grazia giacché l’anno scorso, al tempo del suo governo, ne aveva già date buone speranze. L’uno e l’altro senatore si offersero prontamente ad assecondare le richieste del paese. Fu suggerito che si domandasse la permuta della inghiarazione dei due comuni di Varignana di sopra e di sotto, che sarebbero 200 pertiche di ghiaia che venivano ad essere appunto sufficienti per la strada del Borgo, dalla porta del Castello fino all’oratorio della SS.ma Annunziata. Questo fu fatto.

Il 24 fu terminato il bell’altare nuovo in questa arcipretale in cui collocare un’immagine di M. V. Addolorata secondo il legato dell’ex gesuita Don Giuseppe Cariglia. Il progetto e la sua esecuzione fu opera di Antonio Lepori, luganese, discepolo del fu Giovan Battista Canepa, che per il suo lavoro ebbe lire 310, moneta di Bologna.

La Comunità aveva fatto una consultazione l’anno scorso per abbassare la strada a destra dell’ingresso inferiore del Castello e interrare la fossa per trasformarla a piazza per il mercato dei bovini. Il 5 marzo il Consolo sig. Agostino Ronchi, assieme con i colleghi sig. Giuseppe Vachi, cap. Lorenzo Graffi, Ottavio Dall’Oppio e me Ercole Cavazza, cominciò, a proprie spese per non pesare sulla spesa pubblica, a fare abbassare la strada.

Questo lavoro piaceva molto alla popolazione quindi molti contribuirono alla spesa e ci furono molti contadini che, pregati e in parte pagati, concorsero col lavoro di birocci, arature e simili onde la spesa in tutto ammontò a lire quaranta, moneta bolognese.

L’ 8, essendosi inoltrato in questo comune il male nei bovini e ampliato molto, ne fu dato avviso all’Assonteria di Sanità. Il male faceva venire in bocca alle bestie una vescichetta nella lingua, nelle gengive e nelle labbra,

Il 9 passò di qui, andando a Bologna, l’E.mo Card. Ignazio Boncompagni, il quale lasciò l’avviso che la Congregazione dell’Acque per il Taglio Reale aveva decretato che tutti i terreni sotto la via Emilia, cominciando dal Sillaro andando fino al Senio, pagassero una imposta di due soldi per ogni tornatura.

Il 10 marzo l’Assonteria di Sanità scrisse alla Comunità per la vigilanza sulle bestie attaccate dal male. A questo scopo spedì il Bando con la ricetta del medicamento.

Il 14 la Comunità diede supplica all’Assonteria di Governo per collocare il mercato dei pollami nella pubblica piazza levandola da sotto i portici e così pure collocare la pescheria del pesce fresco sotto la porta del Castello.

Il 20 aprile si era inoltrato nuovamente in questo comune Battista Cerè, detto volgarmente Peschiera o Limbruno. Questo feroce giovinastro assaltava le genti nelle vie, nelle case ed anche in Castello, per cui nessuno ardiva camminare di notte e alla campagna senz’armi. Alcuni di questo Castello, Sandrone Ruggi e Domenico Cenni, detto Gattino, decisero di intervenire. Seguirono le sue tracce fino a Russi ove la notte, con altri cinque compagni, aveva assalito una famiglia. Fu in quegli intorni che, con uno stratagemma, il Ruggi, Giuseppe Mingoni detto Mazzal’omo, e il  Gattino, lo assalirono ferocemente. Il  Limbruno e suoi compagni resistettero qualche tempo con le armi da taglio ma, sopraggiunto il rinforzo di quei villani maltrattati, dovette il Limbruno cedere e lasciarsi, dopo una lunga resistenza, catturare.

 Fu condotto a Castel S. Pietro in questo carcere e consegnato al pubblico esecutore. Fu poi ricevuto dalla Curia il 29 e portato alla città, mentre continuava a fare resistenza alla sbirraglia.

Fu pubblicato in questo tempo il Giubileo universale con delega alla indulgenza per ottenere la quale occorreva  visitare quindici volte nel termine di sei mesi quattro chiese in Bologna. Le chiese erano S. Pietro, S. Petronio, S. M. Maggiore e le monache del Corpus Domini.

Domenica 5 maggio, si scopri l’altare scolpito, in cornu epistole, fatto secondo il testamento di Don Giuseppe Cariglio, sacerdote ex gesuita messicano.

 In tale circostanza essendosi fatta una bellissima immagine portatile in stucco della B. V. Addolorata, questa fu levata dalla chiesa dell’Annunziata e, con una processione di tutto il clero, 20 ex gesuiti, la compagnia del SS.mo Rosario e, a suono di trombe e tamburi, con infinità di popolo, fu portata in Castello alla arcipretale al suo altare.  Qui le fu cantata la messa solenne in musica da D. Gio. Ravedilta ex gesuita, assistito dall’arciprete, dall’abate Francesco Calderoni e dall’abate Marchese D. Giuseppe Castagnizza, ex gesuiti.

La statua fu collocata nella sua nicchia in presenza di tantissimo popolo. In tale occasione Francesco Conti fece la seguente composizione:

Aimè che sento! Il tuo diletto figlio

a morte tratto sul Calvario monte

e teco non avrò bagnato il ciglio

soferti da lui martirio ed onta

Vergine, a me fu questo breve esiglio

dona di pianto inessicabil fonte.

Figlia d’alto (…), come al Car…..

sgorghin dagli ochi miei lacrime pronte

che se il pianto è quaggiù d’un aspra guerra

fine e principio d’un alto soggiorno

Vergin il pianto in me apri e disserra.

Fu in tale solennità di messa celebrato un erudito panegirico sopra i dolori di M. V. dal P. M. Pellegrino Fachini, servita bolognese. La funzione riuscì assai bella.

Il dopo pranzo poi si fece una solenne processione con questa Immagine solo per il Castello dove era un infinito popolo. Condusse la processione l’arciconfraternita del SS.mo Rosario e in piazza, su un alto palco, fu data la S. Benedizione.

Era stato deciso di fare la processione del Corpus Domini nel quartiere superiore di questo Castello. Il percorso era per la via Maggiore fino alla porta Montanara poi, voltando dietro le mura, scendere per piazza Liana a piazza Maggiore e poi di nuovo alla parrocchia.

Quindi il 19 maggio la Comunità fece ristorare la facciata della porta Montanara nella parte interna alzando e allargando l’apertura un piede per ogni parte. In tale circostanza, per facilitare il corso della processione dietro il terraglio delle mura fino alla via di piazza Liana, la Comunità ottenne dal senatore Vitale de’ Buoi l’assegnazione di contadini del nostro Comune di portare via 50 birocci di terra dal terraglio per portarla nella fossa davanti il palazzo Malvasia. L’incombenza fu data al figlio del capitano Lorenzo Graffi.

I Padri Barnabiti, successori nel possesso delle case Morelli in questa piazza, edificate sul suolo della rocca pubblica, erano obbligate non solo ad un annuo canone al Senato, ma anche in caso di arrivo di soldatesche, ad alloggiare  le truppe facendovi sgombrare tutti gli inquilini come era successo  nel 1708, nel 1735 e dal 1743 al 1746.

 Sulla facciata di quelle case vi erano gli stemmi del papa Gregorio XIII, del Card. Casoni, Legato, del vice Legato e del Senato con iscrizioni. Furono tutti questi monumenti levati dai muratori e le iscrizioni cancellate con la calce.

Fedele Gattia, il sacerdote D. Luigi Facendi, il diacono D. Francesco Inviti con altri suoi compagni avevano imparato la bella tragedia del Padre Giovanni Granelli, gesuita, intitolata: Sedecia, ultimo re di Giuda. Il 27 avevano ottenuto la licenza del vescovo di fare la rappresentazione nell’oratorio di S. Caterina, che era inutilizzato.   I soppressi che avevano ottenuto dal Papa l’Aperizione della Bocca per poter impugnare non solo il decreto dell’E.mo Malvezzi, ma anche il Breve di conferma di Clemente XIV,  cominciarono a sussurrare per la concessione di tale oratorio per la rappresentazione, opponendosi per via indiretta.  Ciò non ostante la recita fu fatta.

In seguito i soppressi spedirono un reclamo legale al vescovo con espressioni false e malevoli. Furono sospese le successive recite e quindi furono costretti i recitanti, spalleggiati dal paese, a fare supplica formale al vescovo facendogli constatare la perfidia, la ambiguità e la sedizione dei soppressi. Allora il vescovo irato scrisse all’arciprete che facesse andar avanti le rappresentazioni non ostante qualunque istanza in contrario.

Un tal fatto procurò non poca avversione nel paese contro i soppressi, alla testa dei quali vi era Francesco Conti, e i fratelli Rocco e Gianfranco Andrini.

Gli amministratori della compagnia soppressa, avendo saputo che al vescovo era stato spedito il plico dal Papa, si riunirono nella canonica della arcipretale e delegarono il sig. Savino Savini, di scegliere dei legali per sostenere la validità e la sussistenza della soppressione, come appare da mio rogito.

Giovedì 6 giugno, giorno del Corpus Domini, non essendosi potuto compiere il lavoro di abbellimento lungo le strade percorse dalla processione, questa fu differita alla domenica 9 in cui fu ultimato tutto e spianato il terraglio delle mura. Tutti misero a posto le case e addobbarono anche i portici eccetto i frati di S. Bartolomeo che non vollero far niente. I paesani malignarono contro i frati e li schernirono con motteggi. La funzione fu più decorosa dell’anno scorso.

I soppressi di S. Caterina non cessavano di tempestare il Vescovo di Bologna con memoriali e lettere anonime contro l’arciprete. Si mossero vari onesti galantuomini, degni di fede, che fecero al Vescovo una esatta informazione della onesta condotta e cura pastorale del parroco.

Il 14 il sig. cap. Lorenzo Graffi riferì in consiglio che era stato stampato il Bando del trasferimento del mercato dei commestibili nella piazza  e della pescheria sotto i laterali della porta di sotto.  Tutti furono molto contenti. Aggiunse poi di avere parlato col sig. senatore de’ Buoi circa le cose del paese e in particolare del contratto di enfiteusi intavolato col sig. sen. Malvasia per collocare l’orologio pubblico sulla torre e farvi al di sotto l’apertura per la porta, ciò per avere un rettilineo con la strada che dal Borgo introduce nel Castello. Riportò il parere favorevole del sig. senatore e aggiunse che, essendo necessario il consenso della Ec.ma Assonteria, sarebbe stato opportuno, prima d’inoltrarsi nel contratto, scoprirne l’orientamento. Inoltre il sig. senatore de’ Buoi, in occasione del suo passaggio da queste parti, avrebbe preso visione, con l’architetto pubblico Giacomo Dotti, del lavoro e degli edifici per farne, all’occorrenza, la relazione all’Ec.ma Assonteria. Il Consiglio unanime decise che si scrivesse prontamente al senatore e lo si pregasse di perorare a nostro vantaggio.

   Oltre ciò i consiglieri si offersero di rinunciare al proprio onorario di console e furono questi: il sig. Agostino Ronchi Console, il sig. cap. Lorenzo Graffi, il sig. Gio. Calanchi, io Ercole Cavazza e il sig. Ottavio Dall’Oppio.

Il 24 giugno fu convocato il Consiglio e fu estratto console per il prossimo semestre il sig. Calanchi il quale all’inizio rifiutò per i suoi problemi d’udito ma poi, incoraggiato dagli altri, accettò.

Nel Bando per il trasferimento del mercato era prevista la vigilanza del Vice Podestà per il suo adempimento puntuale. Erano inoltre già state fatte stampare le nuove tariffe della riscossione, che poteva essere fatta dal conduttore del mercato conforme agli statuti della Comunità.

Il 26 il console Ronchi ordinò di scrivere al dott. Paolo Ragani, Vice Podestà perché ordinasse ai suoi incaricati la vigilanza per l’adempimento del Bando. Bando che ancora prevedeva l’osservanza di quello dei letami, porci e strade del Castello. I mercanti ed altre persone venditrici in mercato pagavano, indebitamente, ai padroni delle case davanti cui si faceva il mercato un quid per il posto. Poiché questa contribuzione era dovuta alla Comunità, così il Console, a spesa pubblica, fece fare 10 banchetti da collocare in piazza per uso dei mercanti.

Nello stesso Bando si ordinava che la pescheria di pesce fresco si dovesse fare sotto la porta di sotto dando i banchi la Comunità. Furono perciò fatti fare tre banchi con le cassette per il pesce, per la cui manutenzione fu messa la tassa di due soldi a persona più due per la bilancia.

Il 29 giugno, giorno di S. Pietro, furono affissi, a suon di tromba, i Bandi del mercato, delle tariffe e dei porci. La sera poi fu convocato il Consiglio in cui il Console Ronchi delegò al sig. Graffi, al sig. Dall’Oppio e a me Ercole Cavazza l’incarico di distribuire i posti ai partecipanti al mercato.

Lunedì primo luglio, la mattina di buon’ora, i suddetti andarono con gli esecutori alla piazza e distribuirono i posti agli intervenienti al mercato. La cosa piacque e fu approvata da tutti.

La Comunità aveva scritto alla Ec.ma Assonteria per sapere se era d’accordo sulla apertura della porta antica sotto la torre, qualora si facesse il contratto di enfiteusi perpetua col sig. senatore Conte Giuseppe Malvasia.

 Per ciò giovedì 4 venne a Castel S. Pietro il sig. senatore De’ Buoi, nostro deputato, con l’architetto pubblico Giacomo Dotti, a visitare la torre per farne poi la opportuna relazione al Senato. Quindi col senatore De’ Buoi, il Dotti, il proconsole Ronchi e me Ercole Cavazza entrammo sotto la torre e la casa annessa a spiegare le nostre intenzioni. Il senatore ordinò che si facesse un promemoria all’Ec.mo Senato. Egli avrebbe per noi favorevolmente informata l’Assonteria di Governo. Partì poi per Bologna lasciando questo popolo in somma aspettazione e contentezza per le sue premure.

I parroci distanti dalla città fecero istanza al nuovo vescovo per potere anch’essi godere dei benefici del S. Giubileo. Questi scrisse al papa facendo notare che per la gente distante dalla città non avrebbe potuto usufruire della concessione dei tesori di S. Chiesa, non potendo compiere, senza un gravissimo incomodo, la prescritta visita a Bologna alle chiese destinate al conseguimento dei benefici del S. Giubileo come previsto nella Bolla. Avendo poi avuto rescritto pontificio favorevole, la gente del contado fu esentata dal viaggio alla città e questo trasformato nella visita di quattro chiese nei luoghi dove risiedevano. Se vi era solo la parrocchiale questa poteva supplire per tutte le quattro chiese. In seguito di ciò fu affisso l’editto con valenza fino ad ottobre.

Intanto furono replicate le recite dell’opera del Sedecia nell’Oratorio della soppressa compagnia di S. Caterina. Alcuni ragazzi, che erano stati puniti dai nostri esecutori, istigati da alcuni soppressi, si misero ad insolentire e a tirare sassate alle guardie della porta. Questi, per farli smettere  li presero a nervate. I soppressi, che li avevano incitati, spinsero questi ragazzi a presentare querela. Questi non si vollero prestare e furono gli stessi soppressi, a loro nome, a presentare querela al vescovato.  Il Vescovo, informato del fatto, ordinò al suo uditore di indagare e, perché non accadessero sussurri, furono delegati l’arciprete e me notaio a far il processo criminale.

Dalle prime testimonianze si ebbe che i capi di questa istigazione furono il tenente Gio. Francesco Andrini, Nicola Bertuzzi detto Nicolon Reale, Giacomo Costa, Bartolomeo Giorgi, Luca Gordini, Giocondo Dall’Oppio ed alcuni altri, i quali pagavano biscottini, donavano roba a detti ragazzi perché insolentissero le guardie alla porta dell’oratorio e chi entrava. Ciò perché nascesse scandalo e per accusare poi l’arciprete d’imprudenza.

I soppressi avevano già fin dal principio dato supplica al S. Padre per la restituzione ad integrum della loro compagnia. Il Papa aveva rimandata al vescovo la stessa supplica pro voto et informazione. Nella supplica si cercava di provare che il Breve di Clemente XIV era stato soretizio ed oretizio. Il tutto fu comunicato all’arciprete per avere le argomentazioni contrarie che, con quelle addotte dai soppressi, dovevano servire per emettere una decisione.  Per questa causa si è esaminato tutto l’archivio di S. Caterina dove, da documenti uniti a deposizioni, si giustificavano a sufficienza i tre oggetti del parere impugnati dai soppressi, cioè mala amministrazione, trascurata erogazione delle rendite in cause pie e opere, e liti e discussioni.

Quale fu il voto e l’informazione del vescovo si vide in seguito.   

Venerdì 5 luglio aprì la pescheria di pesce fresco sotto la porta del Castello. La Comunità fornì gli opportuni banchi, per ognuno dei quali, quando sono in uso, i pescivendoli pagano due soldi.

 La cosa fu approvata da tutto il paese per essere stata collocata in un luogo comodo a tutti. Gli stessi pescivendoli hanno esultato perché si sono levati da un sito cattivo.  Questo era in Borgo presso l’oratorio della SS.ma Annunziata, allo scoperto presso le stalle dei Lugatti nel cantone della via Maggiore. Inoltre perché si erano sgravati dall’obbligo di tributare tanta parte di pesce ai Lugatti che valeva più di due soldi.

Il 15 luglio alcuni del paese, segnatamente quelli delle botteghe davanti le quali c’era il mercato, sussurravano perché si vedevano privi di certe entrate e così in dieci o dodici decisero di fare un ricorso al Cardinale e tentarono di sollecitare le genti a non andar in piazza. Perciò si scrisse all’Assonteria per l’approvazione della tassa dei soldi due per ogni posta di banco e inoltre si procurarono attestati a pro della Comunità da valersene in caso di bisogno.

Intanto la Comunità non perdette di vista l’esecuzione del Bando del mercato e anzi ordinò agli sbirri di arrestare chi rifiutava all’obbedienza.

Quindi lunedì 22, essendosi sparsi i venditori sotto i portici e non nella piazza, molti furono fermati, per cui nei successivi mercati andarono tutti nella piazza.

Il 24 agosto morì di rabbia canina Domenica Cuzzani Marzocchi, contadina nel luogo detto il Chioso di ragione dei Cavazza di Bologna, cugini di me Ercole Cavazza. Questa morì nel 37° giorno dopo essere stata morsa da un cane. Non le valsero le operazioni chirurgiche e ancora meno quelle mediche e le polveri contrarie alle rabbie. La donna urlava spaventosamente e quando sentiva dei cani abbaiare, dava in tali enormi smanie che nessuno la poteva fermare. Abborriva tutti i liquidi, tanto che, quando entrava qualcuno nella stanza, ella capiva e sentiva se questi aveva con se acqua o altro elemento liquido e allora tentava di fuggire per ovviare alla sua presenza.

Si comunicò il 36° giorno con gran fatica facendo stare lontano il sacerdote.  Ma l’estrema unzione non poté esserle data non ostante ella la bramasse.

Il 28 furono chiamati a Bologna dal Vescovo Rocco Andrini, Francesco Conti e Gio. Francesco Andrini. I primi due, per essere maldicenti dell’arciprete, furono severamente precettati dalla giustizia criminale. Il terzo per le insolenze fatte fare da alcuni ragazzi davanti alla chiesa di S. Caterina quando si facevano le recite, fu processato e punito severamente.

Domenica, primo settembre, l’arciprete pubblicò di avere deciso le due giornate di sabato e domenica venture, cioè il 7 e l’8, per due processioni col popolo e le compagnie, al fine di ricevere il S. Giubileo, andando alla visita delle 4 chiese da lui destinate cioè Arcipretale, S. Bartolomeo, S. Francesco e Padri Cappuccini.

In questo frattempo era stata fatta una istanza contro Don Francesco Conti, arciprete di S. Martino di Pieve di Riolo, volgarmente detto Pedriolo, ed alcuni altri suoi seguaci per avere tagliato degli alberi nei beni della chiesa e fatto altre mancanze.  Venne mandato un uditore vescovile che, dopo il deposito di 10 zecchini per la cavalcata, procurò documenti comprovanti il pessimo carattere di Francesco Conti  e la necessità di cacciarlo dal paese ricorrendo al Papa. L’esito tuttavia restò sospeso.

Il 7 settembre improvvisamente si cominciarono le missioni dei cappuccini nella parrocchia non solo per ricevere il S. Giubileo, ma anche per porre qualche pensiero cattolico in testa ai soppressi di S. Caterina, che di nuovo tornavano ad insolentire. I capi delle missioni furono P. Luigi Celtini di Bologna e P. Agostino Pasquali da Fusignano, ebbero un gran concorso di popolo e il quarto giorno della missione vennero 16 cappuccini d’Imola ad ascoltarle. In questo corso di predicazioni, che la mattina si faceva nella arcipretale ed il dopo pranzo nella pubblica piazza, venne, dopo la siccità di 70 e più giorni, una dirottissima pioggia che durò tre giorni. Si fecero anche le processioni alle chiese destinate per il Giubileo.

L’11 terminò la S. Missione alla quale intervenne un numero infinito di persone, paesane e forestiere.  Si calcolò che nella pubblica piazza parteciparono fino a 12 mila e più persone. Al momento della benedizione papale venne uno scroscio d’acqua terribile che le genti fuggirono nell’Oratorio del SS.mo, nell’arcipretale e sotto i portici vicini. Calmata la pioggia e ritornato il missionario nella piazza, dopo poche parole, diede la papale benedizione al popolo, che era ritornato, e poi consegnò all’arciprete il Cristo facendo una devota orazione. Finita questa l’arciprete salì il palco e con la stola al collo ricevette il Cristo e, prima di tornare alla chiesa col clero e il popolo, fece una bellissima esortazione a tenersi bene impresse nella mente e nel cuore le evangeliche prediche del missionario.  Così terminò la funzione e fu portato il Cristo nella parrocchiale cantando il Te deum.

Il 20 settembre essendo venuti a villeggiare a Castello i sig. Conte Giuseppe Stella e la moglie Contessa Anna Castelli nel loro palazzo già del fu Tadeo Riguzzi , vennero il giorno della B. V. del Rosario molti nobili.  Gio. Battista Bergomi, priore della arciconfraternita, fece fare a proprie spese un bell’apparato nella arcipretale e solenne musica all’altare maggiore ove fece collocare la S. Immagine.  La sera ci furono i fuochi artificiali. La festa fu sontuosa anche per esservi intervenuto L’E.mo Ignazio Boncompagni che alloggiò in casa Stella e molti nobili cioè i Ghisilieri, i Confalonieri di Bologna, i Marsigli, i Cospi, i Bargellini, i Malvasia, il mons. Alessandro Malvasia, il conte Benati, il marchese Malvezzi, il senatore Savioli, il senatore Angelo Lelli, Sampieri, Morandi, i conti Tedeschi i, Guidotti e molti altri. La sera poi il sig. Stella diede a tutti quanti un sontuoso rinfresco.

Il 26 ottobre l’E.mo Legato Branciforte Colonna passò di qui alla volta di Loreto per andare a Roma e fu ossequiato dai nobili che erano a casa Stella.

Mancavano nella Comunità due consiglieri. Uno era per la rinuncia di Gio. Antonio Bolis. L’Assonteria scrisse alla Comunità che procedesse alla sostituzione, che non si poté prontamente fare per mancanza di consiglieri. Non passò molto tempo che sorsero sollecitazioni perché il Bolis recedesse dalla rinuncia.  Infine, persuaso dai suoi fautori e dell’Assonteria, ritornò al suo posto con una raccomandazione dei signori del Governo. Cosa che fece ridere tutti per essersi l’Assonteria inchinata a pregare un suddito a servire come se vi fosse mancanza di soggetti idonei, quando ce n’erano migliori di lui.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà il marchese e senatore Giorgio Cospi e fu conferito, secondo il solito, l’ufficio al dott. Ragani.

Il 26, giorno di S. Stefano, Giovanni Mattioli, detto Gambino, mastro di posta d’Imola, aveva deciso di dare la posta delle lettere a Mariano Manaresi, oste all’osteria di S. Giorgio al Portone, ove era anche nel 1673, e così di escludere Matteo Farnè, oste della Corona ove ora è il buco delle lettere.  Perciò fece affiggere nei luoghi pubblici la notificazione che dal primo giorno dell’anno avvenire 1777 il responsabile della posta era il Manaresi e che si doveva portare a quella osteria le lettere.

Tali notificazioni furono affisse alla casa della Comunità e alle colonne del consigliere sig. Ottavio Dall’Oppio.  Questi appoggiava molto il Farnè essendo anche suo parente. Quindi il 27 dicembre fu convocato il Consiglio ove fu esaminato l’affronto fatto non solo al consigliere con l’insolita affissione alla sua casa, considerata un’ingiuria, ma anche alla Comunità con l’affissione alla residenza comunitativa senza nessuna ragione. Il Consiglio per ciò decise, sebbene fosse irregolare, che il sig. Dall’Oppio comparisse avanti a chi di ragione in nome pubblico per annullare quella notificazione affissa a Castel S. Pietro da chi non vi aveva giurisdizione.

Quindi il Dall’Oppio andò a Bologna con credenziali pubbliche, munito anche del documento attestante che fino dal 1673 era la Comunità che nominava il custode delle lettere. Si presentò al monsignore Vice legato che, inteso l’affare, lo delegò al suo uditore.  Questi fece subito emanare un divieto a Mariano Manaresi, oste del Portone, a ricevere alcuna lettera e ciò ad istanza della Comunità e di Matteo Farnè.

Tale ordine fece sì che il Manaresi il 28 prese la cosa più di petto, quindi avanzò le sue lagnanze al sig. Girolamo Evangelisti, cesenate tenente delle Poste di Romagna.  Egli aveva, in virtù del suo contratto di appaltatore della Camera di Roma per nove anni, ottenuto la concessione della posta delle lettere per la Romagna e anche per Castel Bolognese e Castel S. Pietro.

L’Evangelisti, che era a Imola per insediare il nuovo impiegato Mattioli, si portò a Castel S. Pietro con il suo legale per sistemare le cose. Cercò il Console e il vice podestà Francesco Conti. Questi era a Bologna e il Sig. Giovanni Bertuzzi, che era il nuovo Console, non voleva occuparsene anche perché aveva dato l’ordine che si affiggessero avvisi pubblici che pro interim  la posta continuava ad essere alla Corona. L’Evangelisti interpellò pure me come cancelliere della Comunità e non ne ricavò alcun frutto a suo favore.  Allora la mattina dopo, che fu il mercoledì, senza dir altro preparò col suo legale una intimazione coram E.mo Camerlengo urbis di dovere tenere l’ufficio delle lettere al Portone presso il Manaresi e così la fece eseguire tanto al Bertuzzi quanto al Farnè per mezzo degli sbirri che erano qui per altri affari e fece turare il buco antico alla Corona.

 La esecuzione fatta dal Bertuzzi come Console era nulla per sé stessa poiché solo il primo gennaio sarebbe entrato nella carica. Ciò fatto l’Evangelisti fece attaccare dal nostro esecutore il nuovo Bando della Posta di N. S. Papa Pio VI e suo Card. Camerlengo Carlo Rezonico, come pure la tassa delle lettere e una notificazione al popolo che il vero Ministro di Posta in Castel S. Pietro per le lettere era Mariano Manaresi.  Il tutto fu affisso sotto il portico della Comunità.

Una tale novità fece molto discutere al popolo sia per il modo di procedere che per la scomodità dell’Ufficio della Posta. Per questo il Dall’Oppio andò di nuovo a Bologna dai superiori ma il risultato si sentirà solo nell’anno prossimo, essendo questo terminato con una novità lesiva dell’interesse pubblico e della giurisdizione di Bologna. Infatti un tale atto fatto da un funzionario della Romagna in questo luogo che dipende da Bologna è come smembrarlo dalla sua metropoli. Se il Senato se ne accorgerà si spera  in qualche provvedimento nell’anno prossimo.

1777

Ripristino buca posta alla Corona. Tribuni di Bologna contrari a vendita zambudello a Castello. Opposizioni ad apertura nuova porta. Potrebbe crollare torre. Perizia nega possibilutà. Barnaba Trocchi ponteggio campanile ma anche per coperto teatro di Imola. Soppressi S. Caterina ricorrono di nuovo al S. Padre. Preparazione contratto enfiteusi per torre con sen. Malvasia. Copertura del torrazzo della Rocca a ponente delle mura.

Giunto l’anno 1777, ritornarono da Bologna Ottavio Dall’Oppio e Francesco Conti dopo aver rappresentato a Monsignor Vice Legato le novità fatte fare qui dal firmiere (concessionario) delle poste di Roma. Il superiore si sdegnò, nuovamente emanò un ordine diretto a Mariano Manaresi, nuovo ufficiale della posta, di chiudere la buca delle lettere fatta all’osteria del Portone ed in difetto si facesse ex officio da questo nostro esecutore manu suprema.

Quindi il Conti e Dall’Oppio per fare la cosa vistosa aspettarono il primo giorno di mercato che fu martedì 7 gennaio in cui i nostri esecutori con un muratore fecero, in presenza di molta gente, chiudere la bocca delle lettere al Portone e fecero riaprire l’altra alla Corona. Fu poi consegnato l’ordine al Manaresi. Quindi il decreto di Mons. Vicelegato, che ordinavano l’Ufficio della Posta alla Corona, fu attaccato in molti luoghi e nei portici.  Il decreto così recita:

Nos Marianus d’Aquino Protonotarius Ap.licus utriusque Signature SS.mi Refferendarius et Modernus Civitatis Bononie eiusque Legationis Pro. legatus

Comandiamo ad ogni e qualunque Esecutore della Città e Contado di Bologna ed a qualsivoglia altra persona soggetta alla nostra Giurisdizione che non abbi ardire di fare alcuna benchè minima innovazione circa l’Officio della Costa delle Lettere situato nel Castello di S. Pietro all’osteria della Corona e che non abbi ardire di trasportare, aprire o in qualunque altro modo variare un tale officio o altrove collocarlo senza nostro espresso ordine iniscrito, sotto pena in caso di contravenzione di scudi 50 d’oro, della carcere, di incorrere in Processura Criminale e di altre pene a nostro arbitrio e le pred. cose ad instanza delli Signori Console, Proconsole ed Uomini della Comunità di Castel S. Pietro agenti ancora a comodo del Sig. Matteo Farnè, quali hanno ottenuto il presente in vigore di petizione e ragioni. In quorum N. Angeloni Aud. de mand. F. A. Schiassi Not. Datum Bononie hac die 4 Jannuarij 1777.

Il Manaresi riportò il tutto al firmiere della Posta che spedì una staffetta a Roma e riferì al Manaresi che il tutto si sarebbe dibattuto a Roma davanti l’E.mo Camerlengo.

Il 25 gennaio cominciò sul far del giorno una dirotta pioggia che sciolse anche la molta neve che era in terra.  L’acqua provocò molte slavine e quindi, la notte seguente, cadde la metà del muraglione del sen. Malvasia dalla parte dei frati di S. Francesco. La via Cupa, detta di Viaro, contro i beni degli ex gesuiti ora dei Barnabiti, fu chiusa per un tratto di tre pertiche, pure quella della fontana fu chiusa. La strada che dalla Santa porta al Valesino, contro i beni della Tombazza era anch’essa franata ai lati e fu chiusa per circa tre pertiche. Le case erano piene d’acqua a motivo dei geli nei coperti.

Il 22 d. giunse lettera dell’Assonteria alla Comunità che confermava deputato agli affari pubblici del nostro Comune il Senatore Marchese Vitale de’ Buoi. Don Lodovico Dall’Oppio, grazie ai maneggi di Francesco Conti, era da due anni maestro di questa scuola pubblica. La scolaresca della lingua latina era da lui fuggita andando gli scolari qua e là per studiare dagli ex gesuiti, per cui vi era sussurro nel paese.  Egli vedendosi colpito nell’onore, rinunciò alla carica col pretesto di dovere andare a predicare nella prossima quaresima. Tal fatto rallegrò l’animo dei buoni comunisti non che di tutto il paese.

Il 12 febbraio fu convocato il Consiglio per il problema della sospensione della scuola e in esso fu discusso se procedere all’elezione del nuovo maestro senza procedere ad esame. Fu deciso di sentire il parere dell’Assonteria e intanto far tenere la scuola di latino dal sacerdote Don Pietro Vachera ex gesuita.

Nello stesso tempo fu pubblicata un nuovo editto che disponeva che in avvenire tutte le strade pubbliche del contado dovessero esser mantenute a spese della Comunità e che dovesse cessare la consuetudine abusiva che dovessero mantenerle le proprietà adiacenti alle vie. Ciò rappresenterà molto aggravio a tutte le povere comunità. Si decise pure di chiedere all’Assonteria la permuta della inghiaiazione nella concessione di sassi e sabbia per fare la selciata nel Borgo.

Il 2 marzo, terza domenica di quaresima, si fece una singolare funzione, non più usata, nell’arcipretale all’altare nuovo della B. V. Addolorata. Questa fu inventata da Don Mauro Calistri fratello dell’arciprete e fu chiamata settenario poiché durò sette giorni continui. La cerimonia consistette nella presenza di sette donne davanti all’altare in una riga avente ciascuna una torcia accesa. Tutte recitarono ogni sera col popolo il Rosario di M. V. poi lo Stabat Mater, indi seguì un discorso del predicatore quaresimale agostiniano Padre Pietro Scavelli di Bologna, poi si espose il SS.mo e, cantate le litanie, si diede la S. Benedizione. Questa è un’imitazione della cerimonia detta Matrona dei francescani, la funzione riuscì decorosa e piacevole.

La domenica seguente fu tolta l’Immagine dal suo altare e portata dal clero all’altar maggiore dove si diede la S. Benedizione. In seguito furono annotate le persone che servirono e furono le seguenti: signore Maria Coppi moglie del cap. Lorenzo Graffi, Caterina Bachettoni moglie di Ercole Cavazza, Francesca Giorgi vedova del fu Lorenzo Sarti, Maria Lorenza Costa moglie di Barnaba Trocchi, Maria Sarti moglie di Pietro Vergoni, Francesca Biozzi moglie di Giuseppe Paglia e Rosa  Nanini moglie di Antonio Inviti. Queste sette signore furono le prime sette priore o sia custodi dell’altare in memoria dei sette dolori di Maria Vergine.

Il 5 l’Assonteria ordinò che i concorrenti alla scuola pubblica fossero sottoposti ad esame. Perciò la Comunità decise per esaminatore il Maestro di Retorica del seminario di Bologna.

Fin dal 1774 si era ottenuta con parere apostolico la facoltà di erigere una congregazione nella arcipretale sotto l’invocazione di S. Giuseppe, detta volgarmente degli Agonizzanti. Espostosi quindi il Transito dipinto dal Varotti[1], pittore bolognese, all’altare della B.V. dei Dolori, si cominciò Il 12 a farne il settenario.

Questa congregazione era solita farsi pagare ogni anno dai congregati 12 soldi per celebrare tante messe. Usa ancora di fare l’esposizione del SS.mo quando qualcuno dei congregati è in agone mortis.

Il 17 vennero i Tribuni e fecero le loro perquisizioni e catturarono Remigio Cella perché vendeva una tipo di carne investita detta volgarmente zambudello composta di budelle di porco, fegato bianco, cuore di porco, sale, fior di finocchio come si vede regolata nei bandi del 1606, 1608 e 1610.

Gli altri venditori reclamarono per aiutare il Cella ma anche per sostenere il privilegio locale della esenzione della loro arte. Fecero in seguito istanze all’Ufficio dei Tribuni per mezzo del dott. Cosimo Grotti e il magistrato rilasciò la roba e la causa restò sospesa.

Francesco Conti si era opposto nella Comunità al contratto di enfiteusi della torre col sig. Senatore Malvasia.  Ora addusse che facendosi la porta sotto, come era anticamente, la torre sarebbe crollata e che quindi non ci si doveva fidare della visita e della relazione del sig. Giacomo Dotti, perito ed architetto pubblico, quasi che fosse fatta da uomo di poca pratica.

 Allora i signori della Comunità, impegnati in questo, procurarono di far venire un altro professore.  Chiamarono il peritissimo Antonio Lanfranchini, capo mastro di fabbriche e che cura anche le fortificazioni di Forte Urbano in cui, pochi anni, fa fortificò e rifece molto bene un baluardo, mal costruito, che stava per crollare.  Visitò la torre in tutte le sue parti e negli archi e giudicò che si potesse fare e rifare sicuramente l’ingresso del Castello sotto quella senza pericolo. Quindi avrebbe fatto fede al sig. senatore Malvasia per la sussistenza naturale della torre. Ciò fatto se ne parlò in consiglio e si incaricò i signori Fabbri e Graffi di chiarire alcune difficoltà col sig. senatore per venire alla conclusione di questo contratto.

Il 20 si cominciò a sbancare il terraglio della fossa nel mercato dei bovini per interrare e riempiere la fossa. Contemporaneamente si cominciò a lavorare per il campanile della parrocchiale. Il lavoro fu intrapreso da Pietro Petrocchi, capo mastro muratore imolese, come risulta da scrittura del 16 gennaio 1777, con la sicurtà di Felice Pariani imolese riconosciuta per rogito di ser Valerio Carlo Bornioli d’Imola.

Il 6 aprile, domenica in Albis, Don Luigi di Giuseppe Farnè, giovane di singolar virtù ed aspettativa, dopo aver compiuti onorevolmente tutti gli studi di filosofia morale e teologia scolastica, discusse le sue tesi more academico in S. Pietro di Bologna sotto il celebre dott. Dall’Oca. Celebrò la sua prima messa con solennissima pompa nella nostra arcipretale assistito dal cancelliere dell’attuale vescovo mons. Andrea Giovanetti, dal nostro arciprete, da quello di S. Martino in Pieve di Riolo, dal rettore del seminario di Bologna e molti altri ragguardevoli sacerdoti di Castello.  La funzione si fece alla cappella maggiore tutta addobbata sontuosamente con solenne musica e con la esposizione della immagine di M. V. del Rosario, perché suo padre era l’attuale priore dell’arciconfraternita.

Quindi, essendo la prima domenica di aprile, seguì la solenne processione del SS.mo, nel modo che si fa per il Corpus Domini, a cui intervennero la compagnia del SS.mo e del Rosario. L’assistenza alla funzione della messa e della processione provocò qualche screzio specialmente nel dopo pranzo durante la solenne benedizione di M.V. per cui al Magnificat del vescovo, furono licenziati dalla funzione i bastonieri del SS.mo per ordine dell’arciprete. La cosa diede non poco a dire.

 Accompagnò la funzione anche una bellissima elemosina fatta fare dal padre del celebrante che diede ai poveri della parrocchia due tiere di pane bianco a testa oltre la distribuzione di due botti di vino ed elemosine pecuniarie. Furono soddisfatte 200 persone. Molte altre cose accaddero in onore del celebrante, cioè il seguito di parentele e di famiglie principali del paese oltre le forestiere ed il fratello del vescovo con consorte. Il pranzo fu di 50 coperti e tutti furono trattati sontuosamente. Consisteva in due pasti, da grasso e da magro, con frutti e pesci ed ortaggi forestieri. Si pensò essere stata una spesa di 100 zecchini. Il celebrante per le sue rare qualità meritava anche di più per sé stesso e per il denaro paterno. La sera furono sparati dei fuochi.

Il 7 fu fatto il nuovo maestro della scuola pubblica e fu il sacerdote Don Vincenzo Costa faentino, oriundo di questo luogo, che era attualmente a servizio della nobile terra di Cotignola. Suoi competitori furono D. Antonio Pighi e D. Alessio Camaggi, già precedente maestro.  Questi restò escluso dalla votazione e non fu presa in considerazione la sua supplica, essendo stata scritta in versi così

Ill.mi Signori

Mi è stato detto, scritto ed ho saputo

che il seggio magistral costì è vacato

per aver a tal posto rinunziato

Don Dall’Oppio incapace conosciuto.

Il Camaggi per tanto per ajuto

ricorre al sig. Console onorato

e a tutti gli altri, ch’han luogo in Senato

per che venga al sud. sostitato.

L’orator suplicante non è ignoto

avendo altri nov’anni olim servito

codesto illustre publico devoto.

Se questo è sufficente requisito

ognun lo proverà col voto

o almen nol taccierà di troppo ardito

È da notare che il suo procedere satirico e scrivere pungente contribuì all’esclusione. L’anno 1774 aveva fatto occultamente il seguente sonetto sopra la elezione di P. Lodovico Dall’Oppio, diretto alla Comunità,

Mi rallegro con voi signori cari

che un asino maestro abbiate fatto

questi dell’ignoranza è il ver ritratto

atto solo ad allevar muli e somari.

Voi vedrete ben presto i vostri lari

ripieni di sciempiaggini a tal patto

che ……….

Si omette Il resto del sonetto per essere improprio non che sconcio.  La Comunità lo giudicò un tiro di vendetta del Camaggi, avendo per tanto ciò pensato, se lo tenne a mente e perciò fu ritenuta maligna anche la supplica.

Poi accadde che il 10 fu scritta una lettera diretta alla Comunità in un bellissimo carattere col seguente epigramma, La lettera conteneva la diffida del Camaggi.

Versibus in nostris non sunt mordacia dicta

nam Deus Omnipotens, lux hominum vetat

vos equidem nostros si versus spernitis (Hodat)!

et leges hominum spernitis atque Deum

Ma perché non vi fu modo di provare chi fosse stato l’autore, perciò fu creduto inutile l’istanza criminale al vescovo di Faenza che era mons. Vitale de’ Buoi, e così si passò sotto silenzio il tutto.

Si cominciò intanto ad assestare la via di Framella per il passaggio della processione del Corpus Domini.

L’antichissimo oratorio di S. Maria della Annunziata in Borgo, era ridotto in cattivo stato e presso che inutilizzato.  Alcuni borghesani si mossero a pietà e segnalatamente Michele Corticelli macellaio che lo riattò tutto.

 I soppressi di S. Caterina avevano preveduto l’intimazione del vescovo amministratore contro di loro. Maneggiarono in modo da averne una copia e al presente si oppongono con scritture legali.

Nicolò Comelli fino dal 1604 aveva nella sua eredità, estinta che fosse la sua discendenza, beneficato l’altare del Crocefisso nella arcipretale.  Così oggi essendosi verificate le condizioni del testamento, questa chiesa ha conseguito una non piccola eredità, cioè due case a Bologna, un podere nel comune di Casalecchio e anche vari crediti, il tutto ammonta al valore di l. 20.000 circa.

Il 20 aprile 1777 cominciò il nuovo lavoro nel campanile della chiesa arcipretale a spese della Comunità. I ponteggi furono fatti tutti con lodevole maestria da Barnaba Trocchi di questo Castello. Questi è uomo mirabile nelle sue manifatture e di somma acutezza di pensiero e senza avere mai studiato, che è la cosa più stimabile in lui. Venuto dalla campagna in questo luogo cominciò a fare il falegname ed in poco tempo giunse ad una maestria tale che fu chiamato fuori Castello a fare tabernacoli, macchine di legno ed altro. Oltre a ciò diresse il suo talento ad altre cose e vi riuscì perfettamente. Fece orologi da sole, meridiane, orologi da ruota con suonerie diverse, senza avere alcun insegnamento e direzione ma solo con la sua perspicacia nell’esaminare e smontare lavori esistenti.  Fu ed è buon ideatore di macchine.  Pochi anni fa con solo quattro buoi trasportò da questi nostri colline due gran macine da olio da lui cavate nella Ghisiola, monte del Castelletto, portandole a Castello senza carro e birocci ma con le sole due ruote, cosa che fece grande meraviglia.

Il nostro oltre il ponte per il campanile, che tirò al suo posto in meno di un’ora tutto in un pezzo con pochi uomini ed a forza di un argano da lui inventato, mezzo sepolto in terra, fece anche un’altra bella operazione il giorno 22 aprile a Imola. Per questa riscosse un plauso universale nonché una degna memoria.

È dunque da sapere che si era compiuto il teatro nuovo nella città di Imola. Dai capi mastri e segnatamente dal cav. Morelli[2], architetto pontificio, si era tentata ogni via e modo per portare sul coperto le lunghissime travi. Non si era potuto per mezzo d’uomini alzare alcuno delle travi. Perciò fu pregato il Trocchi ad interessarsi a tale lavoro. Esso prontamente piantò a terra un argano da lui inventato e, a forza di girelle e taglie, con pochissimi uomini e alla vista di tutto il popolo, che era numerosissimo, tirò sopra il coperto non solo le travi ma anche un’armatura intera del coperto.  A chi vide il lavoro parve una cosa impossibile.

 Con sé non aveva altro che Luigi Dazzani di questo Castello, giovane fidatissimo che faceva il calzolaio e che lo portò per la sola fedeltà. Lo lasciò alla custodia delle funi e buon per lui poiché si scoprirono varie frodi alle quali si poté riparare.

Il trasporto di tali legni fu così ben equilibrato e dolce nel movimento che, ciò vedendo, un temerario imolese, per non dir pazzo, corse a sdraiarsi supino sopra uno di quei legni che si tiravano su. Nessuno lo poté levare e così si fece tirare fino a capo del colmo del teatro. Terminato il lavoro seguirono innumerevoli evviva.

La mattina seguente si trovò affissa al teatro la seguente satira sotto un asino dipinto. Era in onore del Trocchi e della sua patria.

Delli imolesi mastri son ritratto

che doppo aver il bel teatro fatto

per non saper alzar legni al coperto

deperdono il più bel del loro merto.

Ben merta laude e laude eternamente

quel de Castel S. Pier, che Trocchi è detto

pochè in poc’ore alza gli abeti al tetto

onde li spettator gridan sorpresi :

Bravi Castel S. Pier , fiochi imolesi.

Nel tempo che Trocchi stette in Imola ebbe in regalo dei preziosi vini dal Conte Roberto Sassatelli.  Successivamente fu condotto a S. Cassiano a dar aiuto per i ponteggi della fabbrica e vi fece un argano.

Quelli della compagnia del SS.mo furono sobillati dai soppressi di S. Caterina, capi dei quali erano Roco Andrini e Francesco Conti, a non ricevere nelle loro funzioni l’Arciconfraternita del Rosario. Domenica 4 maggio fecero la loro congregazione, alla quale chiamarono il notaio Bertuzzi a rogare, ove fu discusso se si doveva prender, nelle imminenti rogazioni di S. M. di Poggio, quelli del Rosario con i loro distintivi e segnatamente col gonfalone,

Alcuni dicevano che l’ordine in uso della processione era per loro pregiudizievole. Questa era iniziata dal gonfalone accompagnato da due del Rosario, ma però preceduti e diretti da due scalchi del SS.mo, seguiva dietro la compagnia del SS.mo poi il corpo del Rosario, indi i Cappuccini, gli Zoccolanti, gli Agostiniani, la Comunità e il clero.

 Fu concluso, da 33 votanti con 15 contrari, che non volevano ricevere l’Arciconfraternita del Rosario. Deputarono quindi Fedele Gattia e Fedele Amadesi a notificare ciò all’arciprete col notaio Bertuzzi.

Ciò inteso il parroco diede subito avviso di questa novità al vescovo il quale, di suo pugno, rispose che non voleva novità anzi, sotto rigoroso precetto, ordinava a quelli del SS.mo di ricevere nel modo solito l’Arciconfraternita. Tacque l’arciprete fino al lunedì delle rogazioni poi, chiamati quelli del SS.mo, gli notificò il precetto.  Quelli si fermarono e successivamente spedirono Sebastiano Lugatti, Carlo Conti, Fedele Gattia e Nicola Tamburini dal vescovo per verificare quello riferito dall’arciprete e ne riportarono una bella ripassata. Così il lunedì e martedì quelli del Rosario andarono more solito in processione con i distintivi e le solite precedenze.

Quelli del SS.mo lo tennero a mente e pensarono di scansare il tribunale del vescovo ricorrendo a Roma. Ne riportarono la inibizione da applicare, il giorno del Corpus Domini, a quelli del Rosario quando fossero all’atto di procedere in processione.

Quelli del Rosario, ciò saputo e non essendo stati invitati, stettero a casa per evitare disordini e scandali. Si fece la processione del Corpus Domini con una sola compagnia, le fraterie, la Comunità, il clero e il popolo. Da ciò nacquero amarezze che avrebbero potuto provocare molte pazzie che, se accadranno, si annoteranno di mano in mano

Il 29 maggio, giorno del Corpo di Cristo, venne una gran pioggia e si differì alla domenica la processione che fu fatta per il quartiere di Saragozza e di Framella.

Il 9 giugno il popolo presentò alla comunità un memoriale affinché fosse data da mons. Prolegato la facoltà al Vice Podestà di controllare, con due deputati dalla Comunità, le carni da macellare e poi, prima di essere messe in vendita, di marcarle per evitare molti inconvenienti e pericoli per la salute. Anche per questa assenza di controlli molti paesani erano andati fuori alla Toscanella ed erano poi stati processati dalla Grascia[3], pretendendosi che l’acquisto di quella poca carne dovesse essere considerata importazione, onde parecchi dovettero pagare la multa. Fu accettato il memoriale e affidato l’affare al Vice Podestà notaio Ragani.

Il 12 giugno fu proposto in Comunità il contratto col sig. sen. Malvasia dell’enfiteusi della torre. Furono delegati alla sua definizione i signori Fabbri e Graffi che lo conclusero sotto diverse condizioni e segnatamente di aprire la porta entro otto anni.  Per costruire la porta il Graffi e il Fabbri si obbligano a sborsare 100 scudi, cioè 50 per ciascuno, da rimborsare poi con le pigioni non solo dei beni enfiteutici, ma anche del Cassero e della porta vecchia.

Il 20 venne un orribile temporale di pioggia e fu veduto il turbine detta biscia bora. Il temporale fu tale che, non potendo le chiaviche portare la piena, si riempirono d’acqua le cantine dalla torre fino al primo stradello dei Graffi e Vanti[4]. Il temporale durò un buon quarto d’ora, se durava di più restava annegata metà del Castello.

Il 24 fu estratto console il sig. Gio. Antonio Bolis. Intanto proseguirono le piogge e i villani non potevano raccogliere i grani. Per 15 giorni e più piovve con venti freddi, onde occorreva portare il tabarro.

 Il 30 giugno Francesco Conti si procurò un attestato da quattro persone che dichiaravano essere stato venduto il grano a 19 paoli e mezzo la corba e che se ne domandavano venti.  Una tale falsità fu testimoniata da Francesco Giordani, Giovanni Giorgi detto de’ Paoli, Giacomo Lugatti e Battista Bergomi, fattore del sen. Malvasia. Tale attestato fu spedito subito a Bologna al superiore per avere la diminuzione al peso del pane. Ma ciò ebbe un cattivo effetto poiché, conosciuta la falsità, il superiore non volle che si calasse il peso del pane e fece obbligo a Francesco Verardi, fornaio di Bologna che aveva ciò macchinato, di non venire più ai mercati di Castel S. Pietro.

Ciò saputo dal popolo di Castel S. Pietro, cominciò la ciurmaglia a gridare contro Francesco Conti e i testimoni falsari poiché il grano si vendeva al più a 16 paoli e mezzo e non come era stato asserito. Quindi successe che si sparse la voce che la città scarseggiava di grani. Il lunedì seguente, 7 luglio, i mercanti chiedevano per il grano l. 10 (20 paoli) la corba e l. 6 per il formentone.

Nello stesso giorno l’Arciconfraternita del Rosario fece notificare al priore ed agli ufficiali del SS.mo la proibizione di Roma a non negare il possesso di alzar il gonfalone e a non dir contro il Breve e Bolla di Clemente XIII e Benedetto XIV.

Il 9 luglio si ebbe notizia che i soppressi di S. Caterina, che avevano ricorso nuovamente al Santo Padre per la revisione della loro soppressione, avevano avuto risposta che la causa fosse rivista dalla Congregazione del Concilio.

Il 26 luglio la Congregazione dell’Ospitale dei Poveri, avendo sentito ciò, deputò, in assenza del priore sig. Savino Savini, il sig. capitano Graffi perché assistesse agli interessi dello stesso Ospitale. Successivamente la Congregazione delegò quattro congregati perché comparissero davanti ai superiori ecclesiastici al fine di assicurare l’interesse del Pio istituto nelle circostanze presenti di uso dei beni della soppressa compagnia.  Questo perché i soppressi volevano il loro beni ex integro.  Se ciò fosse successo l’Ospitale avrebbe sofferto non poco danno.  I quattro delegati furono il sig. Gio. Pellegrino Coppi e il sig. Savino Savini per Bologna e il sig. cap. Graffi col sig. Giuseppe Farnè per Castel S. Pietro. I soppressi, saputo ciò, cominciarono fra di loro a far conventicole per modo che non si vedeva altro in Castello e nel Borgo che gruppi di persone a sussurrare.

La Congregazione poi, siccome dietro la via del terraglio del Castello, alla destra dell’ingresso inferiore vi era un piccolo sotterraneo che impediva l’abbassamento della strada, determinò che si levasse a spese però dei ricorrenti e non dello Ospitale.

 Domenica 27, alle ore 10 e mezza in un punto si levò un turbine misto a grandine dalla parte di Liano che, attraversando questi intorni, passò nel quartiere della Lamma poi alla Toscanella, Castel Guelfo, Fantuzza e altri luoghi. Rovinò la campagna e le uve, svelse da terra querce, schiantò grossissimi pioppi, scoperse case e fece mille mali. Al luogo detto Casette dei Sega, levò da terra un paio di buoi che pascolavano e li portò fino al luogo detto il Prato.

A S. Martino in Piè di Riolo entrò in chiesa e le cacciò in mezzo l’organo che era sopra la porta. Per fortuna la gente, non potendo chiudere la porta per il turbine, fuggì nella cappella maggiore e nessuno restò offeso. Alcuni buoi che erano nella stalla del mulino della chiesa, colpiti dalla grandine, cominciarono a fuggire fino alla chiusa di questo Castello. Il danno fatto all’uva in questo comune fu valutato in più di ottanta castellate perse. Quello causato per gli alberi divelti e per il formentone rovinato ed altro che restò in terra fu incalcolabile.

Il 3 agosto mons. Vice legato Mariano d’Aquino, visti gli sconcerti accaduti per l’attestato fatto da Francesco Conti, ordinò a questa Comunità di mandargli ogni lunedì un rapporto dei prezzi che farà ogni frumento. La Comunità decretò che ci si informasse, come difatti si fece, e i prezzi furono 18 paoli e mezzo del frumento vecchio di ottima qualità e di 16 paoli la corba del nuovo.

Il 5 terminarono i lavori per l’aggiunta al fabbricato del campanile e fu tutto coperto.  Prima di finire furono messe, nelle quattro facciate del fregio dell’ultimo corniciotto, delle reliquie di Santi entro una piccola teca di rovere chiuse con pece greca  con all’esterno una bolla in terra cotta col nome Gesù. Le reliquie furono di S. Andrea  apostolo, S. Barbara, S, Agata e S. Enardo, Agnus Dei, cera del triangolo, oliva di S. Pier martire e palma santa.

Il 9 agosto si ebbe risposta da Roma che il rescritto pontificio per la riviviscenza dei soppressi era un semplice invito al Concilio cum c.ta aperationis oris. Perciò i soppressi dovevano chiedere l’Apertura della Bocca per potere contestare il Breve, dovevano fare l’esposto e in seguito citare gli ufficiali di questo Ospitale.  Quindi questa mattina i delegati della congregazione hanno fatto, per mio rogito, il mandato al sig. abate Francesco Maria Ruffini, legale in Roma ad lites et causas, soprattutto per insistere nella parte del decreto di soppressione che aveva portato alla concessione dei beni all’Ospitale

Gli schiantini da canapa facevano molti affari per la qualità del loro lavoro, ma erano però senza la licenza del vice legato. Il 17 agosto furono per ciò arrestati a istanza dei gargiolari lavoranti alla bolognese. Fino ad ora non hanno potuto avere la licenza e così sono a spasso più di 80 famiglie cosa davvero drammatica.

Quelli della compagnia del SS.mo avevano fatto istanza alla Segnatura di Roma per avere la discussione della causa alla Congregazione dei Riti circa l’opposizione alla arciconfraternita del SS.mo Rosario per la questione del gonfalone. Il 25 giunse notizia che l’istanza era stata rigettata. Contemporaneamente si ebbe il voluminoso sommario dei soppressi di S. Caterina che pretendevano la riviviscenza coram la Congregazione del Concilio.

Il 28 numerosi galeotti di una nave, dopo avere ucciso il capitano ed altri, erano riusciti a liberarsi dai ferri. Vennero in questi dintorni Antonio Marani, detto Bromblino da Castel S. Pietro, uomo di brutto aspetto e di grossa corporatura, Battista Cerè, detto volgarmente Peschiera, con molti altri armati e gente cattiva ed assaltavano nelle strade. Loro capo era Marco Mazzanti della Toscanella. Un altro gruppo di 10 simili persone era sparso verso Casale e nella sua podesteria e facevano rappresaglie. Vanno in giro travestiti da donna o in altre maniere e si riparano anche nei luoghi murati.

Mons. Vice legato, aveva fino dal mese di luglio ordinato di dargli un ragguaglio autentico dei prezzi dei grani. Ciò era stato effettuato fino al 20 agosto ma poi non poté più essere fatto perché si incontravano grandi difficoltà ad avere simili attestati. Infatti non si era potuto avere che una solo testimonianza, avendo gli altri mercanti e padroni dei grani ordita tra loro una catena per cui è impossibile scoprire le loro negoziazioni. Di tutto ciò si fece la relazione a monsignore.

Questa mattina i soppressi di S. Caterina hanno fatto eseguire, per gli atti del not. Clemente Paci avanti al Tribunale del Concilio, l’opposizione al Rescritto Pontificio.

I gargiolari mal soffrendo i progressi degli schiantini, spalleggiati dal leguleio Sebastiano Lugatti nipote di Francesco Conti, fecero una gagliarda istanza a mons. prolegato affinché li facesse carcerare tutti, non solo per non avere la licenza, ma anche per avere contravvenuto al Rescritto Pontificio e alla lettera della Segreteria di Stato.

Quindi in vista di ciò il 10 settembre fu spedita la squadra della Grascia e furono catturati moltissimi schiantini e condotti in prigione. Fu subito fatta istanza e furono rilasciati. In seguito fecero richiesta tanto al Vice Legato che all’Assonteria avere le debite licenze.

Il 30 fu consegnato, in confessione, al sig. Don Gio. Battista Vanti un sacchetto con molti documenti della soppressa compagnia di S. Caterina sigillati e spettanti alla amministrazione di quei beni. Il Vanti, a scarico di sua responsabilità, consegnò il sacchetto sigillato al sig. capitano Graffi come uno degli amministratori. Di tale consegna se ne fece pubblico documento rogato da me notaio con l’inventario delle carte consegnate, fra quali un Campione in folio ed un fascio di conti.  Dal che si vede che dei soppressi avevano rubato alla compagnia. In tale Campione vi sono molti atti della compagnia dimostranti la cattiva qualità dei soppressi.

Il 5 ottobre, domenica del SS.mo Rosario, si fece una solenne benedizione di 32 confratelli della Arciconfraternita del Rosario. Vi fu solennissima musica ed apparato nella arcipretale con intervento di molta nobiltà e dell’E.mo Boncompagni, alloggiato a casa Stella nel Borgo.  Vi furono i festeggiamenti il lunedì sera, perché la domenica sera era stata piovosa, ai quali intervenne il porporato.

La processione del Rosario fu solenne sia per il numero dei confratelli che per il concorso di popolo. In tale occasione l’Arciconfraternita spiegò per la prima volta una bandiera col nome di Maria, la quale movendosi all’aria dava ottimo prestigio alla processione. Giunta alla piazza tutti i confratelli si schierarono davanti all’immagine SS.ma con tutte le insegne. Prima il Gonfalone, poi  la Bandiera, indi il Crocefisso, poscia il Tronco d’argento e in fine la Paliola. Sembrava una truppa armata e dava non solo piacere all’occhio per la pompa ma anche edificazione e commozione negli animi della gente.

I soppressi, con quelli della compagnia del SS.mo, male soffrivano ciò per l’invidia che portavano all’Arciconfraternita onde molti si vantarono di volere in seguito disturbarli e impedire questa funzione bella e decorosa a Dio.

Era stata compiuta nel Sillaro la bella chiusa di questo mulino, tutta in legnami ben legata da ferri. Il 17 ottobre venne una tale fiumana che se ne portò via nove pertiche e fu un gran danno.

Fu poi pubblicato un rigorosissimo Bando pontificio sopra le monete con il quale erano banditi i paoli romani, i testoni e le altre monete che non erano di giusto peso. Furono pure bandite le monete oltramontane, trajeri, argentine, bavarese, pezze di Spagna e altre fino al numero di quattordici monete.  Da qui seguì gran rumore nelle provincie di Bologna, Romagna, ferrarese, Marca perché si pensò che ciò fosse fatto all’unico scopo di fare nuove monete a lega inferiore.

Il 22 novembre questa Comunità aveva rifiutato di dare all’agente di Camera anche l’elenco delle bocche degli abitanti di questo Castello. L’Assonteria scrisse di nuovo per avere l’elenco.  Ma perché si trattava di una novità e della imposizione di un aggravio, la Comunità riscrisse che a ciò non voleva prestarsi e che credeva che nessun altro incaricato sarebbe riuscito nell’impresa, anche perché era lo stesso che sacrificar sé stesso e le famiglie dei comunisti.  Infine fece notare che già dal 1763 aveva mandato la nota, conforme a quanto prescritto nella notificazione quindi la Comunità aveva adempito il solito e ai suoi doveri.

Il 16 dicembre fu estratto per podestà di Castel S. Pietro il cavaliere sig. Ercole Tanara detto volgarmente Tanarino.

Siccome gli schiantini non potettero avere le desiderate licenze dal Vice legato e dall’Assonteria così ricorsero al S. Padre a Roma facendogli constatare l’oppressione subita sotto il pontificato di Clemente XIV. L’esito della supplica restò sospeso per i ricorsi dei gargiolari.

Il 20 venne notizia come  Mons. Andrea Giovanetti, vescovo di Bologna era stato fatto dal Santo Padre prima arcivescovo di questa città e diocesi, da vescovo amministratore che era, e poi fatto cardinale.  Per ordine del vicario il giorno di Natale si alzò un doppio di campane in tutte le chiese.

La vigilia di Natale di N. S. G. C. si terminò di coprire il torrazzo della rocca posto a ponente delle mura di questo Castello e si ritrovò nel peduccio dell’arco del portello elevatore il millesimo di quella costruzione così: 1540 adì 7, segno che fu interpretato come settembre o febbraio

In questi giorni, avendo terminata la predicazione dell’avvento, il Padre Fedele Galanti, cappuccino da Castel S. Pietro, teologo, missionario apostolico e confessore del Legato card. Borghesi di Ferrara e della sua corte, fece anche gli esercizi spirituali a questo popolo con molta edificazione.  Poi il secondo giorno dell’anno partì per Ferrara al suo impiego, chiamato dal suddetto Cardinale

Il 27 fu estratto Consolo il sig. Ottavio Dall’Oppio per la prima volta.  Ad esso giunse avviso dal legale Gianbattista Calzechi che, riguardo all’ufficio del Custode delle Lettere in questo Castello, che era in questione se competeva alla Comunità o al Tenutario delle Poste di Romagna Girolamo Evangelisti, il Card. Camerlengo Razonico aveva decretato per l’Osteria del Portone a pro di Mariano Manaresi, non ostante il possesso centenario della Comunità.

1778

Giunto obbligo apertura buca delle lettere al’osteria del Portone.  Bellissima processione Corpus Domini nel Borgo. Selciatura della strada del Borgo. Intervento sen. Aldrovanti per soluzione problemi podesteria di Casalfiumanese.

Il 4 gennaio 1778 giunse una lettera dall’E.mo card. Ignazio Boncompagni, nuovo legato di Bologna, nella quale comunicava a questa Comunità che aveva ricevuto lettera dal card. Camerlengo E.mo Razonico. Questi, dopo avere esaminato le ragioni tanto di Girolamo Evangelisti, tenutario delle poste pontificie nella Romagna, quanto quelle di codesta Comunità circa la nomina del Custode delle Lettere missive e del posto dove si dovevano ricevere, aveva determinato che il posto fosse quello della osteria del Portone e che la Comunità per ora lasciasse perdere, lasciandole però salvo il diritto di riproporre in qualunque tempo le sue ragioni.

A tale strozzatura della causa ed a un tale volere supremo convenne chinare il capo. Ma perché l’Evangelisti, essendo venuto qui in persona, pretendeva che la Comunità lo insediasse sul posto, fu dal Consiglio posto un rifiuto.  Si ricorse da una parte e dall’altra all’E.mo nuovo Legato, il quale nuovamente ordinò che si lasciasse libertà all’Evangelisti. In seguito di che nessuno si oppose più e il giorno 6 fu aperta, per la prima volta, all’osteria del Portone la buca delle lettere.

Il 10  fu affisso un nuovo bando sopra le monete d’oro, cosa che partorì non poca commozione e sussurri per tutto lo stato.

Il 18 gennaio fu deputato dall’Assonteria di Governo per senatore della Comunità il conte Federico Calderini. Il sig. Flavio Fabri e Francesco Conti furono incaricati di portargli i complimenti come pure a complimentare il nuovo Cardinale Legato Ignazio Boncompagni.

Il 3 maggio, essendo passato tutto l’inverno senza neve ma solo con pioggia, ci si ritrovò con la strada del Borgo guastata. Si ricorse pertanto all’Assonteria affinché desse la permuta della nostra ghiaia in sassi e sabbia. Fu perciò il 18 mandato l’architetto Giacomo Dotti, il quale misurò tutta la strada e ne diede il riscontro all’Assonteria.

Il 30 essendo ritornato a Bologna da Roma l’arcivescovo card. Andrea Giovanetti, fu perciò in questa arcipretale fatta cantare dall’arciprete e dalla Arciconfraternita del Rosario una solennissima messa e Te Deum in musica. La funzione fu assistita da tutti i parroci del plebanato e vicariato di questo Castello ed ebbe luogo all’altare del Rosario, ove in una cappella c’era il trono e il ritratto del cardinale. Vi fu gran concorso nel tempo della messa. La sera, dopo la benedizione del SS.mo, seguì un copioso sparo di mortaretti. In tale circostanza si distribuirono ritratti del cardinale e la descrizione della funzione fu messa in foglietti.

Il 2 giugno nel collegio seminario di Bologna il sacerdote Don Luigi Farnè di Castel S. Pietro sostenne dodici punti teologici more accademico sopra l’eucarestia con singolare plauso.

Battista di Clemente Roncovassaglia detto il Guercino di questo luogo, essendo a studiare a Bologna la pittura di figura, fece anche una incisione in rame di M.V. di S. Luca che fu lodata.

Il 24 fu estratto console il sig. Flaminio Fabbri.

 Il giorno 2 luglio si era ottenuto dall’Assonteria di Governo la permuta per due anni della inghiaiazione dei comuni di Varignana di sopra e Castel S. Pietro nella concessione di tanta sabbia e sassi per fare la selciatura dal portone del Borgo fino alle case Gini, detto volgarmente il Ghetto, dove anticamente si rinchiudevano i giudei ed inoltre per la via che conduce al Castello.  Il 4 venne il capo mastro a prendere i livelli e piantò i picchetti e i punti nella via romana, riservandosi di livellare poi l’altro tratto che dal Borgo conduce al Castello.

Indi comunicò gli ordini di comando al sig. Agostino Ronchi a ragione di otto carri per ogni pertica di ghiaia.  Fu poi pubblicato il comando a Varignana  che però sembrò a loro troppo gravoso. Ricorsero quei villani all’Assonteria di Governo e fu ridotto il numero a sei carri per pertica.

Il giorno del Corpus Domini non si era potuto fare nel Borgo l’allestimento per la generale processione Fu trasferita il giorno 12 e fatta con grande magnificenza. Cominciò questa dal duomo poi voltò verso S. Francesco nella via di Saragozza di sotto tutta apparata di cesti. Si fermò quindi contro il palazzo Malvezzi dietro dal torrazzo, ove c’era una cappella ove si fermò il SS.mo per un Tantum ergo accompagnato da strumenti musicali. Qui fece un bellissimo concerto la banda militare della fortezza Urbana, ottenuta dal card. Legato, in numero di otto fra oboe, corni e fagotti. Ciò fatto si riprese il giro della processione composta dalla compagnia del SS.mo, le tre religioni regolari, il corpo della Comunità, dalla banda militare con i suoi distintivi, indi la chieresia, i diaconi, i suddiaconi, sacerdoti e celebranti e il seguito di un infinito numero di lumi.

Si passò poi di fianco al palazzo Malvezzi nobilmente apparato e di qui nella via Maggiore contro la mia casa, poi si girò verso il Borgo.  Fuori della porta si entrò nel bellissimo apparato che nel suo ingresso aveva un bellissimo arco trionfale con due porte laterali. Da ogni parte di questo ingresso fu fatto l’incontro coi borghesani che portavano quaranta torce accese.  Proseguì la processione fino alla voltata della chiesa di S. Pietro, poi andò verso il portone nella cui piazzetta c’era una superba cappella sopra una alta scalinata, decorata con velami e dipinti di Francesco Parmeggianini bolognese che fu l’inventore, giovine eccellente come si vede dai suoi dipinti nella Compagnia di S. Rocco a Bologna.

Fermatosi qui il Venerabile e fu cantato il Tantum Ergo poi si proseguì fino alla Annunziata e svoltando dalla via Maggiore si passò per la casa Landi, indi allo stradello morto poi alla casa dell’Andrini e si ritornò alla parrocchiale per la stessa via. Qui fu data la benedizione all’infinito popolo e alla nobiltà accorsa e si terminò la funzione. Seguì una copiosa sparata di mortaretti e la sera vi furono fuochi sulla piazza del mercato. Furono contati in tal giorno più di ottomila persone. Furono anche fatte in tale circostanza due elemosine di pane ai poveri del Borgo, una dal capitano Pier Andrea Giorgi e l’altra da Lorenzo Baldazzi.

Il 14 si cominciarono i lavori di scavo per la selciatura del Borgo.

Il 6 agosto venendo al 7, giorno di S. Gaetano, alle sette di notte si sentì uno scuotimento di terra che durò tre buoni minuti. Dalla parte del monte verso oriente fino a Sassoleone si sentì il terremoto con gran spavento delle genti e danni agli edifici.

Il 9 agosto fu pubblicato il bando dell’E.mo Boncompagni sopra le monete d’oro ridotte di peso più di tre grani[5].

 Siccome la Comunità non aveva fatto i deputati per la selciatura, fu scritto alla Comunità che si facesse tale delega che fu subito fatta nelle persone del sig. Agostino Ronchi e di me Ercole Cavazza.

Successivamente fu pubblicata la conferma del bando sopra i maiali d’ordine del sig. card. Legato, il quale vi aggiunse che in avvenire non si dovesse più fare il mercato degli strami, quadrelli e valumi nelle vie del Borgo ove già si faceva quello dei bovini, ma si dovesse stabilmente fare dietro le mura del Castello a mano destra dell’ingresso nella nuova piazza detta Foro Boario.

Gli uomini della podesteria di Casalfiumanese, attese le controversie avute col Senato di Bologna, non volevano più riconoscere le autorità superiori. Perciò il Legato e il Senato deputarono giudice per tutta la podesteria il senatore Gio. Francesco Aldrovandi, cavaliere di somma prudenza. Fu fornito di ogni prerogativa atta al governo con la facoltà di formare gli Statuti a tutto il corpo della podesteria. Ciò allo scopo di far cessare i tumulti che nascevano nei Comizi generali, che si tenevano in Casale, per cui era nato uno scompiglio e atti criminosi per cui molti furono querelati al tribunale del Torrone.

Quindi fu ordinato a tutti i massari di quella comunità di scegliere per ciascuna due deputati da mandare davanti all’Assonteria di Governo. Alcune comunità ubbidirono ed altre non vollero fare tale deputazione come si può vedere dagli atti dell’Assonteria.

Il 7 settembre si cominciò il nuovo selciato nella via del Borgo cominciando dal Portone fino all’abitato del conte Gini. La spesa fu di l. 840: 14: 11. L’opera fu di pertiche 155 e piedi 47.  

Mentre che si faceva tale selciato stette sempre chiusa e sbarrata la strada da una parte all’altra per modo che la posta e gli altri legni passavano dallo stradello morto[6] fino alla fossa del Castello e andavano alla volta di casa Vacchi fino al Portone. Le strade si tenevano illuminate la notte. La parte di sotto fu terminata in ottobre a causa delle grandi piogge. Si cominciò al principio di ottobre l’altro selciato dalla chiesa della SS.ma Annunziata fino alla porta del Castello che fu di pertiche 109 e piedi 39 in quadro, la spesa fu di l. 996: 7: 6.

Il 19 ottobre per le controversie nella podesteria venne a Castel S. Pietro il senatore Aldrovandi e aveva con sé l’agente di Camera Felice Marchi, Gio. Giacomo Dotti architetto pubblico ed ora deputato Provveditore, il corriere pubblico Brancolini ed altri della corte del cavaliere, il quale andò subito ad alloggiare in casa del senatore Calderini. Fu incontrato e ricevuto dal cap. Lorenzo Graffi, delegato dal nostro console, e da me Ercole Cavazza , vice podestà di Casalfiumanese.

Lunedì 12 il senatore tenne una riunione in casa Calderini, dove intervennero tutti i capi delle comunità della podesteria e i preti, nella quale fu fissato per giovedì venturo 15 corrente la convocazione dei deputati al consiglio generale.

Per tutta questa giornata e la sera il cavaliere fu intrattenuto dalle migliori famiglie del paese in giochi e feste.

Il 15 il senatore, accompagnato da tutto il suo seguito a cui mi unii anch’io, come vice podestà di quella comunità, si portò per la parte d’Imola a Casale in carrozze e cavalli di posta. Due squadre di sbirri scortavano il nostro viaggio fino alla casa Ercolani ove è il mulino ed qui stettero nei pressi per venire ad ogni cenno in caso di tumulto. Furono perciò fermati in questo giorno, finché il senatore stette a Casale, tutti i contumaci di giustizia.

 Si arrivò poi verso le 14 a casa Ravaglia fuori di Casale. Qui si fermò il senatore e io come vice podestà mi portai in castello e, fatta battere la campana, feci aprire la casa comunitativa detta il Palazzo di Casale. Poi ordinai all’arciprete Don Matteo Mongardi che preparasse un inginocchiatoio in chiesa e stesse pronto per ricevere il senatore che, in questa circostanza, rappresentava la massima autorità.

Indi adunati quei pochi del consiglio della podesteria, li scortai a casa Ravaglia ove li presentai al senatore ed essi si sottomisero tutti a ricevere le sue sovrane ordinazioni. Il senatore fu poi condotto a Casale e, ricevuto dall’arciprete e dal clero, prese nel duomo la perdonanza davanti il SS.mo poi fu da me introdotto nel palazzo comunitativo col suo seguito e tutti i deputati componenti il corpo della podesteria. I deputati sedettero in circolo attorno al senatore e con il suo assenso si decisero le Capitolazioni per il buon governo di quei popoli. Ciò fatto si partì e si andò a pranzo a casa Ravaglia, ove erano anche vari signori d’Imola, l’arciprete e i vari dei capi della podesteria.

In tale momento cominciò una fortissima pioggia per cui si tardò fino alle 21 e poi si partì per Imola dove si rimase tutta la notte e la mattina si venne a Castel S. Pietro, da dove il senatore ed il suo gruppo partirono la sera alla volta di Bologna.

L’atto delle risoluzioni fu scritto dal segretario pubblico per l’Assonteria e per la Comunità di Casale.  Io servii da segretario non ostante fossi vice podestà. Una tale gita e faccenda costò l. 1.800 rimborsate poi dall’Assonnerai.

In questo tempo fu riproposta al sig. senatore Aldrovandi l’enfiteusi della torre.  Questi rinnovò le premure nell’Assonteria per cui diede a questa nostra Comunità la speranza di un felice esito. Si pregò pure che si compiacesse di dare la facoltà alla Comunità di levare i muriccioli che servivano di riparo al Cassero della Porta di sotto.

Fu estratto podestà il Conte Giovanni Fantuzzi.

1779

Mancanza di pioggia, tridui e processioni di tutte le confraternite. 1° giugno terribile terremoto. Ripetute scosse. Gente fugge all’aperto. Danni alle chiese. Cadono i camini. Messe nelle piazze ed all’aperto. Seguono scosse minori. Non ci sono state vittime. Processioni di ringraziamento di tutte le associazioni professionali. Elezione della B. V. del Rosario come protettrice del paese. Intenzione di erigere una colonna in piazza. Scosse di assestamente durano per tutto l’anno.

Console di questo primo semestre fu il Sig. Vincenzo Mondini.

 Fino a questo giorno, primo gennaio, era stata un’ottima stagione, la notte scorsa cominciò una bufera tale di neve, che durò tre giorni continui in modo tale che molti alberi patirono, sopra tutto i pioppi e i castagni che furono divelti, schiantati e spaccati in moltissimi luoghi.

Lunedì 4 essendo stata conferita la carica di Vice Podestà di Castel S. Pietro a me Ercole Cavazza, andai per la prima volta, nella residenza nuova fatta nella casa comunicativa, nella quale, da quando fu ridipinta nell’anno 1768, nessuno da vice podestà vi era stato ad abitare.

Il 10  Nicola di Giovanni Grandi, nativo di questo luogo e già fatto Minore Oss. con il nome di P.  Francesco Andrea, dopo aver fatto tutti i corsi di filosofia e teologia e divenuto lettore a Ferrara nella sua Religione, fu pure dichiarato lettore pubblico di Fano e predicatore.  Celebrò la sua prima messa in questa sua patria nella chiesa di S. Francesco con pompa solenne e intervento di tutti i suoi parenti.

In tal circostanza sposò suo fratello Luigi Grandi con la Signora Gertrude Fantaguzzi. Il matrimonio fu fatto in quella chiesa, presente l’arciprete e lo stesso Padre Francesco benedì gli sposi nella solennità della sua prima messa.

 Contemporaneamente vestì gli abiti clericali nella stessa chiesa Andrea Grandi fratello del celebrante. Tutte le cerimonie della chiesa furono fatte da Padre Francesco delegato dall’arciprete. Tutti i garanti, padre, madre, fratelli e sorelle del candidato fecero la S. Comunione, cosa che intenerì tutti. La solennità di questo giorno, seconda domenica dell’anno, fu altresì decorata da sinfonie e composizioni poetiche.  Fra le quali il Dott. Marco Antonio Zaccherini  imolese in una sua poesia anacreontica, espose egregiamente l’occasione in alcune stanze

..parla per me veridica

quella che in te si anida

pietà, che in lane povere

a santità ti guida.

Parla della tua gloria

Ferrara illustre, dove

desti ne dotti circoli

di gran saper la prova

e più oltre per l’altro fratello che veste l’abito clericale

…a te la madre tenera

reca il fratello innante

onde al tuo bello esempio

veste le bende sante

Infine  espone così la benedizione del matrimonio dell’altro fratello:

Voi genitori amabili

ben fortunati siete

ed a ragion il Giubilo

col pianto ora esprimete

all’altro figlio accopiansi

del grande Abramo i pregi

Invitta fede eroica

vien che l’adorni e fregi.

Il 17 febbraio, primo giorno di quaresima, si cominciò a suonare con la campana grande i tocchi della predica, come si usa nella Cattedrale di S. Pietro di Bologna. Prima si faceva la chiamata col campanello a tocchi fino alla salita del predicatore.

Il 21  fu pubblicato l’indulto di uova e latticini per tutta la settimana, toltone i venerdì e i sabati.

Contemporaneamente fu pubblicata una intimazione contro il Console e gli uomini assunti per il Campione dell’estimo fatto anni prima per i terreni soggetti all’estimo.  Questo ammontava, quanto ai secolari alla somma di l. 137.980 e quanto a beni patrimoniali alla somma di l. 21.415. Quindi, risultando minore del vecchio Campione fatto nel 1750 per la somma di l. 19.188: 17: 6, perciò si dovevano giustificare per tale diminuzione con ragioni legittime.  Perciò fu deciso che comparissero di fronte agli Assonti di Governo. Se non si fossero presentati o le loro ragioni fossero ritenute irrilevanti si dovrà fare un riparto in proporzione ai fondi stimati per la somma di l. 19.188: 17: 6.

Era stata fatta istanza all’Assonteria di Governo che le mura di questo Castello abbisognavano di un totale riattamento così il 22 fu spedito l’Architetto Giangiacomo Dotti a peritare la spesa da porsi in comparto alle 16 comunità soggette alla Podesteria di Castel S. Pietro.

Lorenzo Vanti, Dottore di Legge e figlio del capitano Vanti, dopo aver sostenuta la carica per più di venti anni di Podestà di Castel Bolognese, cessò di vivere.

Il primo aprile fu richiesto alla Comunità il fondamento per cui si debbono assoggettare le Comunità della Podesteria alla spesa delle mura. Fu subito spedito il decreto del 1416 sopra la unione e la reintegrazione del vicariato in cui si accenna e si decreta dai sedici Riformatori che: omnes comunitates subiecta vicariatum C. S. P. tenent pro suis taxis ad forma statutorum et Juris concurrere ad manutentionem meniorum, murorum et fortiliorum C. S. P.ri.

L’Assonteria aveva accordato ad Ercole Cavazza, per anni 15, in godimento il Torrazzo a levante nelle mura del Castello perché vi facesse due stanze abitabili.

Dal primo giorno dell’anno corrente, in cui nevicò fortemente, il tempo si era rasserenato fino ad oggi 12 corrente senza che fosse mai piovuto. Quindi fu fatto a Bologna un triduo a S. M. della Pioggia, la quale subito dimostrò la sua grazia con una lievissima pioggia. Ma perché continuava la siccità, con danno ai seminati che si perdevano, alle erbe che non si muovevano ed ai marzatelli che non nascevano, era perciò nata una grande preoccupazione. Le robe crescono di prezzo e ovunque si fanno orazioni.

Qui si sono fatti tridui alla B. V. del Rosario da tutte le fraterie e processioni di penitenza, ma tutte rimasero inesaudite. Oggi, che siamo al 18, essendo il terzo giorno che è esposto Il SS. Crocefisso dell’Oratorio e si fa la S. Processione, il tempo si è ben fatto nuvoloso, ma Dio non ha ancora voluto esaudire le numerose preghiere. Alla processione sono intervenute tutte le tre religioni claustrali cantando il miserere. Ci fu un popolo infinito e una gran quantità di lumi. Finita la processione fu deposta la S. Immagine sulla porta della chiesa sopra un altare. Qui fu fatta una pia esortazione dal parroco che poi diede la S. Benedizione assistito dal clero e da tutta la Compagnia del SS.mo.

Il 19 il grano si vendette a l. 12 la corba e il formentone l. 7.

Il 18 furono levati totalmente muretti che formavamo i ripari laterali del Cassero della porta di sotto. La fossa era stata interrata per il mercato dei bovini e era stato coperto il chiavicotto. Si fece poi un muro in linea diretta al Borgo per sostenere la terra, che non cadesse nella fossa e fosse stabile per la via di accesso alla nuova porta. Questo muro è lungo 36 piedi e ogni 12 piedi vi è un grosso pilone, che potrebbe servire nel caso della costruzione di un portico.

Non si era ancora potuto ottenere la pioggia pur non cessando le orazioni pubbliche quindi fu esposta all’altare maggiore dell’arcipretale la statua di S. Antonio Abate. I contadini, in numero di 140, si adunarono nell’oratorio della SS.ma Annunziata e partirono con la processione. Davanti procedeva un sacerdote con due chierici scalzi, portando il primo un crocefisso inalberato e gli altri due lumi, seguivano a due a due i contadini con la faccia coperta col cappuccio della cappa del SS.mo Rosario, tutti scalzi che, aa ogni versetto del miserere recitato a voce bassa, rispondevano misere nostri domine, miserere nostri. Alla fine della processione c’era un altro sacerdote scalzo che dirigeva i versetti del salmo. La devozione, la mestizia e il numero delle persone commuovevano al pianto. La processione fu condotta all’arcipretale dove, recitate le litanie in voce bassa e fatta una piccola predica, l’arciprete diede la benedizione col SS.mo SS.to al popolo che gridava misericordia! Così si fece per tre giorni continui.

Il motivo di tante suppliche era perché il frumento era alto appena mezzo palmo da terra ma con la spiga formata quindi tutti temono la carestia sia per la gente che per le bestie.

Il 20 aprile la su detta compagnia in numero di 98 andò alla visita del SS.mo SS.to nelle 4 chiese dove questo si conserva, cioè S. Francesco, S. Bartolomeo, i Cappuccini e l’arcipretale, a piedi nudi e col capo velato, e in ogni chiesa a braccia aperte dicevano cinque Pater noster. Infine ricevettero la S. Benedizione nella arcipretale dopo le preghiere di penitenza.

Pure il 21 la stessa compagnia fece la sua processione di penitenza, visitando il SS.mo in tutte le 4 chiese A questa processione vi intervennero anche i fanciulli della dottrina a piedi nudi con lumi in mano. terminata che fu si fermò nella arcipretale ove, recitate le solite preghiere di penitenza, fu data la S. Benedizione col SS.mo. Fu numeroso il popolo, l’arciconfraternita era composta di 114 confratelli e i fanciulli erano in 60, cosa in verità che muoveva il pianto.

Terminato questo devoto triduo, ne fu proposto un altro più devoto e fu quello dell’esposizione dell’immagine del S. Crocefisso della chiesa della SS.ma Annunziata. Questa è una immagine antichissima, di cui ho ricordato le antiche memorie nella mia cronaca, chiamato dal popolo il Cristo della Pioggia. Fu esposto in una simile situazione il 25 aprile del 1755 e tre giorni dopo il triduo fece la grazia di una abbondante pioggia.

Il lunedì precedente erano venuti i Tribuni che, non ostante il giudicato a nostro favore in Roma in piena Segnatura, catturarono alcuni per il sapone qui fabbricato, pretendendo che questo prodotto debba soggiacere alla loro magistratura. La Comunità si preparò alle difese legali.

Giovedì 22 aprile si cominciò il devoto triduo all’Immagine del Crocefisso della SS.ma Annunziata. La mattina ci furono tantissime messe, con l’Immagine all’altare maggiore di quella chiesa. Il dopo pranzo 98 confratelli dell’Arciconfraternita del SS.mo Rosario, col capo velato e piedi nudi, andarono alle chiese all’adorazione del SS.mo. Verso le 22 partì dall’arcipretale la processione solenne in questa forma. Davanti i 48 fanciulli della Dottrina scalzi col lume, seguiva l’Arciconfraternita cappata e scalza. Aveva davanti per insegna una croce portata da un sacerdote scalzo e due chierici scalzi con lume, poi seguivano i Cappuccini a piedi nudi, indi gli Zoccolanti, poi gli Agostiniani ed indi il clero in numero di 28 fra frati, sacerdoti, ex gesuiti e chierici, avendo ciascun gruppo la sua croce.

Si recitava alla cappuccina e ad ogni versetto tutti rispondevano: miserere nostri Domine, miserere nostri. Finalmente giunta tutta la processione alla chiesa dell’Annunziata fu inalberata la S. Immagine e fu portata fuori dall’arciprete. Fu poi consegnata ad un sacerdote e, dandosi, di mano in mano, il cambio tra di loro, si venne lungo il Borgo verso il Portone, poi per la via di S. Pietro e, voltando nel mezzo del Borgo, fu portata nella arcipretale all’altare maggiore. Durante il percorso due preti in testa alla processione recitavano i sette salmi penitenziali a cui si rispondeva versetto per versetto misere nostri Domine.

Nella arcipretale, fermato all’altar maggiore il Crocefisso, si dissero le litanie del S.S.mo e le preghiere e poi il parroco fece un discorso esortante alla penitenza, fatto il quale si diede la benedizione col Venerabile a più di 6 mila persone.

Venerdì 23 aprile, essendovi al solito mezzo mercato, il formentone si vendette a 15 paoli ed il grano a 25 paoli la corba a motivo che continuava a vedersi il tempo troppo fermo nella serenità.

Questa sera la compagnia del SS.mo con 76 confratelli, col capo velato e a piedi nudi, si è recata alla visita del SS.mo alle quattro chiese.  Mentre si camminavano gridavano misericordia mio Dio ad ogni invocazione che si faceva al SS.mo nelle litanie. Intanto sorse un gran vento.

La notte del 24 Iddio inviò il suo miracolo facendo cadere per un quarto d’ora una lieve rugiada nella pianura del nostro comune, ma poi tornò un vento che sgombrò e dileguò le nubi.

Prima delle sei si vide un segno nel cielo verso le parti della Lombardia in figura di croce tutta folgoreggiante. Le sere precedenti appariva un’aurora boreale che illuminava tutto. Si dice che questo è il terzo pontificato in cui si vide in cielo un simile segnale, presagio di morte al sommo pontefice.

L’aria è assai corrotta, fino al 4 grado secondo l’esperienza dei medici e dei naturalisti, si teme l’arrivo di una pestilenza e si fanno giornalmente osservazioni nelle Università.

Si è proposto che al primo arrivo di pioggia ognuno, per sua sicurezza, si lavi con aceto la faccia e le altre parti scoperte prima di esporsi all’aria aperta. Queste sono le miserie correnti. Oggi la Compagnia del SS.mo fece la stessa processione di ieri.

Il 25, la notte su le 7, i gargiolari del paese tutti uniti andarono alle sette chiese cantando il miserere. Oltre il castigo della siccità, si è aggiunto da ieri sera su le 21 un contrasto di venti sciroccali, boreali e levantini così forti che la gente non può stare fuori. Il vento ha schiantato viti, alberi e ha inaridito maggiormente la campagna ed è durato tutta la giornata.

 Questa mattina le compagnie del SS.mo e del Rosario hanno fatto nell’arcipretale la comunione generale. Oggi dopo pranzo è stata fatta la processione di S. Marco, vi è intervenuta tutta la Compagnia del SS.mo nel modo delle altre sere e il clero con 28 fra frati e chierici. A capo della processione si è portato il crocefisso dell’Annunziata nei tre luoghi, cioè nella piazza dei Cappuccini, nella piazza del Castello e in quella del mercato fuori della porta di sotto e finalmente alla sua chiesa. In ciascuno dei quattro luoghi fu data la S. Benedizione. Vi fu numerosissimo popolo per cui fu stimato esservi più ottomila persone.

L’arciprete per placar l’ira divina ordinò che a tutte le ore del giorno, cominciando dalle 12 fino alle due di notte, suonasse la campana della parrocchiale e che ognuno al suono dicesse un Pater noster in ginocchio con dieci Ave Maria alla B. V. al fine di placare Iddio.

Lunedì 26 fu trasportata la S. Immagine del Rosario all’altare maggiore, questa mattina alle 12 essendo si cominciarono i segni per le dieci Salutazioni angeliche e il Pater noster, e così si vide un popolo genuflesso chi per la strada, chi nelle botteghe, chi nella piazza ed ovunque si trovava un immediato silenzio e devoto sussurro.

Il 27 la compagnia del SS.mo andò scalza e col capo coperto alla loro chiesa alla visita del SS.mo e poi, entrata nella arcipretale, dopo devoto ragionamento e le solite preghiere, le fu data la S. Benedizione col venerabile.

Il 30 fecero lo stesso quelli della Arciconfraternita del Rosario che il primo maggio in 99 confratelli senza portar alcuna immagine, andarono alle sette chiese, col capo coperto, con corda al collo e a piedi nudi. Il Corpo della compagnia aveva a metà  cinque confratelli che portavano cinque croci sulle spalle. L’ultima era assai grande e pesante e fecero il turno a portarla.  Fatto questo si fece la solita funzione della benedizione del SS.mo.

La mattina del 2 maggio, prima domenica del mese, la Compagnia del SS.mo si portò processionalmente all’arcipretale e qui fece la S. Comunione nell’uso che si suole per Pasqua. Il dopo pranzo si fece la processione del SS.mo per il Castello e Borgo e, siccome cominciò una lenta pioggia, così si riportò sollecitamente il SS.mo nell’arcipretale ove, accompagnato da infinito numero di lumi, si diede la S. Benedizione.

Il 4 maggio, prima domenica delle Rogazioni, la Comunità, considerate le presenti circostanze decise di andare in forma a ricevere la S. Immagine di Poggio. Poi il giorno dell’Ascensione accompagnarla con lumi fino alla chiesa della SS.ma Annunziata a ricevere la S. Benedizioni. Infine che, durante le Rogazioni, si battesse sempre la campana pubblica.

Il 5 i Cappuccini cominciarono alle 8 l’Orazione delle 40 ore avanti il SS.mo nella loro chiesa, con invito pubblico e di giorno e di notte. Ciò spiace all’arciprete e se ne lamentò. La Congregazione del SS.mo, per evitare ogni questione non andò alla visita in forma, ma mandò dei confratelli che a turno di quattro, con la cappa, stavano presenti ogni ora senza richiedere elemosine.

Il 6 maggio ad ore 23 terminò l’Orazione delle 40 ore dei Padri Cappuccini colla S. Benedizione al numeroso popolo. A tale funzione intervennero processionalmente i francescani e gli agostiniani e fecero un’ora tutti assieme.  Al termine 50 cappati del SS.mo assistettero con lumi alla S. benedizione dopo le solite preci di penitenza. Alle 2 di notte si terminò la recitazione delle 10 salutazioni angeliche proposte dal parroco per la presente calamità di mancanza di pioggia.

Sabato 8 maggio, si andò a prendere la B.V. di Poggio per le Rogazioni. Domenica mattina la si levò, secondo il solito, dall’Oratorio della SS.ma Annunziata. Intervenne la Comunità in forma, si fecero i tre giorni seguenti le solite processioni e la sera si diede, dopo le preci, la benedizione col SS.mo. Tutti tre i giorni fino alla mattina dell’Ascensione di quando in quando si aveva un poco di pioggia.

Il giorno dell’Ascensione accadde che, essendovi numeroso popolo, un certo Giovanni Nanni del comune di Dozza venne a parole con un altro suo compagno a causa del gioco all’uova. Sentita la lite Giovanni Cervellati, confratello della compagnia del SS.mo, che era con altri quattro confratelli cappati alla solita questua per la S. Immagine, amorosamente volle ammonire il Nanni a smettere la lite. Costui furiosamente diede mano ad una pistola e tentò di sparargli ma per grazia della S. Immagine l’arma fece cilecca. Replicò l’insolente il tentativo e accade come prima. Giuseppe Nepoti di quel Castello volle anch’esso intervenire per calare l’ira del Nanni, che tentò lo stesso tiro. Francesco Beltrandi si accostò con le buone maniere e gli tolse l’arma.  Così per grazia di Maria SS.ma nessuno si fece male mentre sarebbero morti in molti se andava la pistola. Ciò fu attribuito ad un miracolo della S. Immagine.

Terminato poi il vespro la Comunità in corpo formale, unita alle fraterie, andò con lumi nella piazza a ricevere la benedizione della S. Immagine poi l’accompagnò con le Religioni fino all’Oratorio della SS.ma Annunziata ove ricevette l’ultima benedizione e prese congedo dall’Immagine.  Ciò è stato di singolare edificazione al popolo e si pensa di procedere così anche in avvenire qualora sia d’accordo anche la Compagnia del SS.mo.

Il 24 maggio, giorno primo delle pentecoste, fu di nuovo messa nell’altare maggiore della arcipretale la S. Immagine del Rosario per ringraziare per quel poco di pioggia che si era ottenuta e nello stesso tempo per ottenere la grazia di nuova pioggia. Infatti per  la grande aridità le marzole  e le fave sono tutte andate in rovina, solo il grano regge ma si teme assai per il formentone che non nasce. I mercanti vendono il frumento l. 13 la corba. Il dopo pranzo si fece di nuovo una solenne processione per il Castello e il Borgo col Venerabile.

 Martedì primo giugno, la notte alle quattro e un quarto[7], si sentì una orrenda scossa di terremoto. Dopo mezz’ora replicò più forte. Le persone uscirono tutte di casa e corsero alle piazze del Castello, dei Cappuccini e del mercato dei bovini.  Quindi, al suono dell’arcipretale, andarono alla chiesa da dove, replicando il terremoto, fuggirono alle piazze.

 Alle 5 e alle 6 replicò ancora più forte spaventando in modo orribile. Le persone gridavano misericordia ad alta voce. Fu posta l’Immagine del SS.mo Rosario all’altare maggiore. L’arciprete spaventato, dopo un breve svenimento, corse alla piazza a predicare. Le altre chiese erano tutte aperte e si suonava di continuo.  Nella piazza del mercato, fuori del Castello, predicò Don Francesco Caldoreni spagnolo ex gesuita, nell’Annunziata Padre Pietro Galiardo ex gesuita messicano,

Si scoprirono tutte le Immagini miracolose del paese.  Nella chiesa di S. Bartolomeo l’immagine di S. Nicola, in S. Francesco quella di S. Antonio, all’Oratorio del SS.mo il S. Crocefisso, nell’Oratorio della SS.ma Annunziata l’Immagine del Cristo.

 Le scosse durarono tutta la notte fino alle 9 ove replicò ma con poco rumore. Caddero parecchi camini e fu molto danneggiata la casa dei Fiegna presso S. Bartolomeo per cui, essendosi resa pericolosa dalla parte dello stradello che va al palazzo Locatelli, fu subito puntellata In S. Francesco si mosse la volta sopra la porta. Nell’oratorio del SS.mo, nel coro dalla parte dell’epistola, si fece una crepa che cominciava dalla volta sopra il finestrone e arrivava fino al pavimento. La facciata della chiesa dei Cappuccini si scostò dal volto interno.  Insomma pochissime furono le costruzioni  che non patirono.

Giunte le 13 e mezzo del mercoledì, giorno secondo di giugno e vigilia del Corpus Domini, si sentì un altro grande scuotimento per cui si videro con orrore tremare i fabbricati. Ognuno  abbandonò la propria abitazione e fuggì nuovamente nelle piazze con la famiglia. Qui si fecero ripari con stuoie, con legni, paraventi e tende per modo che sembrava il campo di un’armata.  Qui si mangiava e si stava, nonostante la pioggia che cadeva. La gente gridava misericordia e cantava tutte le preci.

In tale frangente, per grazia di Dio nessuno pericolò anche se piccolo o vecchio cadente Per il fragore del terremoto, le urla delle bestie, le strida della gente e il suono delle campane sembrava lo scompiglio del giorno del giudizio.

 La sera stessa si dissero le litanie dei santi e le preghiere al S. Crocefisso dalla compagnia del SS.mo. Tutta la piazza, i luoghi attorno al Castello e il prato dietro i Cappuccini, erano coperti di baracche di legno.  Si confessavano uomini e donne tanto dai cappuccini, in due confessionali nella loro piazza, quanto dai preti nella piazza del Castello.

A Bologna avvenne lo stesso terremoto.

La sera ad un’ora di notte si sentì un’altra scossa più lieve. La mattina di giovedì 3 giugno,  giorno del Corpus domini, alle nove si sentì un altro scuotimento. Giunto il mezzogiorno si fece la processione del SS.mo solo attorno alla piazza con la compagnia del SS.mo, rimandando la processione generale ad altro giorno più quieto.

Terminata la processione l’arciprete propose al popolo che per tre giorni consecutivi si facessero tre processioni di penitenza alle chiese dove si adora il SS.mo e vi intervengano a turno la compagnia del SS.mo e quella del Rosario. Ordinò che per dieci anni consecutivi si rifacessero in tali giorni, come per voto, le stesse processioni, poi replicò la recita delle 10 Avemarie e Pater noster al suono di ogni ora del giorno e della notte.

 Nella stessa giornata alle ore 18 replicò il terremoto ma con una piccola scossa.

Venerdì 4, alle 11 e mezzo della mattina, si sentì una sensibile scossa per cui caddero camini e la gente uscì di casa. A Bologna fece scosse sensibili e lasciò segni nelle chiese e nei fabbricati. I castellani, sempre più spaventati, si fecero capanne nella campagna vicina e fino a ventitré nella piazza.

La sera gli Agostiniani diedero la benedizione con la reliquia di S. Nicola in chiesa e poi, usciti processionalmente nella strada, la replicarono nel crocicchio della strada in quattro direzioni cioè oriente, ponente, settentrione e meridione. Tutti i sacerdoti nella messa, dopo le preci di penitenza, dicevano l’orazione del terremoto.

Sabato 5 l’arciprete che aveva ottenuto la licenza di far un altare di legno fuori la chiesa, lo sistemò sotto l’ultimo occhio di portico della casa già Rinaldi, vicino alla piazza e alla casa della Comunità, rivolto verso il meridione. La gente però mormorava considerando che l’altare era nello stesso pericolo, e anche più, degli altari nella chiesa per essere in mezzo e sotto i fabbricati.

 In queste giornate Don Luigi Farnè di questo Castello, dimorando in Bologna fece altre difese di teologia in S. Pietro, more accademico, contro 60 tesi con plauso singolare. A ciò intervenne l’Arcivescovo personalmente.

Pure i cappuccini nella loro piazza, ad imitazione dell’arciprete, fecero una piccola cappella coll’altare. Questa sera nel suddetto altare l’arciprete diede la benedizione col SS.mo.

I Tribuni della Plebe, che avevano già querelati e processati Giuseppe Muzzi e Filippo Conti per il sapone, furono in quest’oggi inibiti davanti la Segnatura di Roma.

Domenica 6 si fece la solita processione generale del Corpus Domini con la frateria, il clero, la Compagnia del SS.mo e la Comunità. Si levò questo dalla cappella fatta sotto il portico nella piazza e poi attraversando la piazza lungo l’oratorio del SS.mo, si incamminò per lo stradello che porta alla rocca e poi dietro le mura. Quindi svoltò dietro l’orto Calderini, e si diresse direttamente agli stradelli Graffi, Vanti fino alla fornace delle pentole.  Girò dietro l’orto di S. Francesco, poi venne per la piazza di S. Francesco fino alla detta cappella.  Qui, cantate le solite preci, diede la S. Benedizione col SS.mo che stette nel ciborio fino alla sera quando poi fu trasportato nell’arcipretale.

Pure i Cappuccini nella cappella fuori nella loro piazza ogni sera davano la S. Benedizione.

Lunedì 8, poiché la piazza era occupata dalla cappella, dalle funzioni che in essa si facevano e dalle capanne là montate, il mercato dei pollami fu trasferito dietro le mura del Castello fuori della porta.

Alle 15 ore si sentì un mediocre scuotimento.

Il dopo pranzo l’arciprete predicò in piazza e finita la predica diede la benedizione col SS.mo. Le compagnie del SS.mo e del Rosario alternativamente fecero processioni di penitenza alla chiesa.

Al suono di ogni ora si batteva la campana grossa e il popolo genuflesso diceva 10 Avemarie ed un Pater a S. Giuseppe ed infine la giaculatoria Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus imortalis, Miserere nobis a flagello teremotis.

Il Vescovo di Bologna ordinò la coletta per il terremoto ed inoltre fece fare le immagini di S. Emidio Vescovo d’Ascoli, protettore per il terremoto con un esorcismo perché cessi il castigo.

Martedì 9 su le 19 si sentì una piccola scossa leggera che sembrò svanire a poco a poco. La sera all’ora di notte si portò il SS.mo all’adorazione del popolo e stette esposto fino alle 5. La prima ora fino alle 2 fece l’adorazione l’Arciconfraternita del Rosario, dalle 2 fino alle 3 la Unione dei gargiolari che partirono processionalmente dalla SS.ma Annunziata, dalle 3 fino alle 4 da tutti i borghesani che si erano adunati nell’Oratorio della SS.ma Annunziata. Dalle 4 fino alle 5 vi andò la compagnia del SS.mo con lumi. Durante questa ora, che era nello stesso orario dell’ottava delle orribili scosse avvenute, l’arciprete fece un discorso sulla misericordia di Dio. Al termine si diede la S. Benedizione e così terminò la funzione.

Il 10 all’ore 13 si sentì uno scuotimento breve che però si fece ben sentire. Tutti se ne andarono alla piazza e i sacerdoti fuggirono dagli altari. Oggi dai Padri di S. Francesco si è cominciato un triduo ad onore di S. Francesco Solano protettore universale per i terremoti.

Questa sera le tre fraterie col clero andarono alla visita delle sette chiese e così durò fino al sabato sera, levandosi la processione dalla cappella ove era stata collocata l’Immagine di Maria SS.ma del Rosario. Anche gli agostiniani decisero un triduo a S. Nicola esponendolo alla pubblica venerazione nella loro chiesa. Cominciò sabato 12 dandosi la sera la solita benedizione con la reliquia.

In questo giorno prese la laurea dottorale in teologia Don Luigi di Giuseppe Farnè nella Università di Bologna. In questa sua patria, alla sua casa furono affisse molte composizioni poetiche.

Domenica 13 il dopo pranzo su le 21 si fece la processione con la reliquia di Maria SS.ma. Si levò dalla cappella in piazza dalla Arciconfraternita del Rosario, poi si incamminò fuori della porta maggiore del Castello. Svoltò quindi nella nuova piazza dei bovini. Qui furono cantate le quattro preghiere a fulgures, a flagello teremotus, ut sanctus torre, ut nos exaudire.  Il sacerdote ad ogni preghiera faceva il segno della croce verso il popolo, quindi benedì le 4 parti del mondo e le asperse coll’acqua santa.  Proseguì poi alla volta dei Cappuccini fermandosi contro la rocca del Castello per una benedizione.  Si replicò contro la porta superiore del Castello nella piazza davanti l’Ospitale poi, entrati in Castello fu riposta la S. Reliquia nella cappella in piazza. Indi, fatta una breve orazione dal Dott. Antonio Graffi, si portò il venerabile dalla parrocchiale alla detta cappella e fu data la S. Benedizione.  Fu riportato in chiesa e la funzione terminò all’Avemaria. Nel corso della processione furono distribuite  S. Immagini  con le loro giaculatorie  che furono recitate dal Popolo.

Il sig. Cardinale Legato, per le cattive notizie avute per il terremoto, spedì qui il suo segretario a informarsi e così fece a Medicina.

Lunedì 14 era stata decisa la processione di penitenza degli agostiniani. La Compagnia del Suffragio avrebbe portato la statua di S. Nicola da Tolentino.  Verso le 13 della mattina cominciò una gagliarda pioggia che durò fino alle 22, ora della processione che fu fermata. Subito si levò la statua dalla chiesa di S. Bartolomeo e fu portata alla cappella in piazza in questa forma: precedeva la Paliola dei frati, poi i frati con lumi, quindi dodici cappati del Suffragio con la loro cappa, cioè sacco bianco e mozzetta nera, indi il Santo che era portato da alcuni sacerdoti. Ventiquattro confratelli (del Rosario) vennero dalla piazza con lumi ad incontrare il Santo alla casa della Comunità e lo accompagnarono fino alla cappella a fianco della quale c’era un altarino ove fu collocato il Santo.

Poscia il Padre Vicario Agostino Gasparini del S. Ufficio fece un bellissimo discorso, terminato il quale si diede la S. Benedizione. Il Santo fu poi accompagnato, non solo dai cappati del Rosario, ma anche dalla chieresia, con lumi fino contro la chiesa degli agostiniani ove fu ricollocato. 

Il 15, su le 23, fu portata la S. Immagine del Rosario nella arcipretale ove le si cantarono le litanie e il Magnificat. L’arciprete ordinò per la sera stessa che fino alle 4 1/2 si esponesse il SS.mo.   Dall’una fino alle due intervenne la Compagnia del Rosario, dalle 2 fino alle 3 quella del SS.mo, ove cantò formalmente il vespro di Maria SS.ma con molta devozione, dalle 3 fino alle 4 la Congregazione dei Gargiolari e dalle 4 fino alle 5, tempo in cui accaddero le forti scosse il primo giugno, fece l’ora il popolo del Borgo che arrivò processionalmente con infiniti lumi e offrì a Maria SS.ma due mazzi di 10 ceri.  Infine fu data la benedizione.

I giorni 16, 17 e 18 fino alla domenica 20, l’Immagine della SS.ma Madonna del Rosario stette esposta nella Cappella maggiore della arcipretale.  Ogni sera si dava la S. Benedizione del SS.mo.

Venne in questo tempo la notizia da Bologna che la S. Immagine di S. Luca, che era in S. Petronio e aveva già liberato la città dall’orribile flagello, aveva dato segni manifesti della sua grazia.  Il cristallo che la copriva era sempre offuscato e non trasparente per quanto si tenesse pulito affinché l’immagine fosse ben visibile. Il venerdì notte si fece limpido, bello e chiaro da sé e l’immagine si vide, come al presente, chiaramente.

Venne altresì notizia che i 6 maggio nell’Armenia presso l’Eufrate a causa del terremoto erano crollate 2 mila case con perdita di 8 mila persone. A Gerusalemme cadde la metà dell’antico S. Tempio, a Costantinopoli trecento case furono incenerite da un fuoco aereo. A Firenze venne un turbine strepitoso con un profluvio grandissimo d’acqua e il turbine scoppiò in molte saette che uccisero moltissime persone.

Venerdì 18 giorno l’Unione Devota dei giovani sotto la protezione di S. Luigi, perciò detti volgarmente i Luigini, con l’altra Unione delle donne, sotto la protezione di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, si unirono nell’oratorio del SS.mo SS.to e da qui partirono in processione.  Prima erano i giovani in buon numero con la croce, a due a due con lume acceso e poi nello stesso modo le donne, anch’esse con lumi.  Si portarono all’adorazione di Maria SS.ma, facendo ciascuna unione la sua offerta di una torcia di cera, la prima con un trofeo di gigli, allusivo alla verginità e pudicizia di S. Luigi, la seconda con una corona di spine e rose allusivo alla penitenza di S. Maria Maddalena. Fatta l’adorazione, data l’offerta alla S. Immagine e ricevuta la benedizione del SS tornarono processionalmente all’oratorio ove si licenziarono.

Sabato 19 l’Unione di tutti i falegnami in numero di 52, radunati nell’oratorio di S. Caterina, partirono processionalmente con lumi e andarono nella arcipretale con due torce, con l’insegna e un cartello su cui era dipinto un mannarino, che offrirono a Maria SS.ma. Da qui, ricevuta la benedizione del SS.mo ritornarono processionalmente all’oratorio ove furono licenziati.

La mattina di domenica 20 si riunirono i gargiolari dell’arte grossa in numero di 96, essendo esclusi i lavoranti alla schiantina, nell’oratorio della SS.ma Annunziata, tutti cantando salmi di penitenza.  Quindi alle ore 13 andarono alla parrocchiale ove presentarono sei falcoletti di cera in due mazzi ed uno di candele alla B. V. del Rosario poi, fatta la comunione cantarono il Te deum. Tale funzione la fecero al loro altare di S. Vincenzo martire a cui cantarono, dopo la S. Messa, l’inno Deus tuorum militum, sors et corona premium. Partiti i gargiolari, intervennero alla cerimonia del ringraziamento e dell’offerta i vetturali in numero di 26, ma con un’offerta più misera trattandosi di povera gente.

La sera di lunedì 21 tutti i fanciulli del Borgo, condotti da Don Pio Galiardo messicano ex gesuita, andarono processionalmente con offerta di cera alla suddetta B. V. Pure i sarti in numero di 33, in memoria dei 33 anni di Cristo, adunati con 18 donne sarte, tutti con lumi, partiti processionalmente dall’oratorio del SS.mo, offrirono 33 candele ed una torcia di cera e, avuta la benedizione del SS.mo, ritornarono al detto oratorio.

La sera di martedì 22 tutti i fabbri si unirono nell’Oratorio del SS.mo e processionalmente andarono in numero di 20 col lume alla adorazione di Maria SS.ma e offrirono un mazzo di candele di cera e poi, ricevuta la S. Benedizione, se ne ritornarono all’oratorio.

Il 23 d. fu convocato il Consiglio di questa Comunità che decise di presentare domani a M. V. un regalo di venti lire in tanta cera e andare alla S. Benedizione assieme con l’Arciconfraternita del Rosario. Inoltre che si concedessero ai Padri di S. Francesco due libbre di cera e altre due all’altare di S. Nicola da Tolentino dagli agostiniani e poi 6 libbre al S. Crocefisso dell’Oratorio del SS.mo ed a questa chiesa vi andasse il Corpo della Comunità in forma. Infine decise di deliberare di passare ai Padri francescani l. 60 e l. 30 ai cappuccini per il danno sofferto nei loro conventi per la scossa di terremoto, salva l’approvazione dell’Assonteria.

Infine si determinò con votazione segreta di eleggere la B. V. del Rosario per protettrice del paese assieme con i santi Pietro, Paolo e Bernardino da Siena.

La mattina del 24, giorno di S. Giovanni, tutti i contadini del quartiere della Lamma, dopo aver fatta una buona coletta e ridotte le tante monete in una torcia, la presentarono con un mazzo candele alla S. Immagine. Erano partiti processionalmente dalla Madonna del Cozzo e, fatta l’offerta, là se ne ritornarono.

Alle ore dieci e tre quarti si sentì una discreta scossa di terremoto.

Intanto tutti i muratori, partiti in processione dall’Oratorio del SS.mo, fecero anch’essi la loro offerta. Indi i bottegai vennero in buon numero dal Borgo offrendo sei candelotti. Dopo loro seguirono le donne che avevano l’abito votivo di Maria SS.ma e tutte fecero l’elemosina di cera per cui successe che le tre botteghe rimasero sfornite di candele, torce e candelotti.

Il dopo pranzo andarono all’offerta di una torcia i calzolai, poi i contadini del quartiere del Gaggio, portando anch’essi una torcia con dodici scudi d’argento.

Alle 21 fu indetta la processione a cui intervennero le tre religioni e la Comunità in forma che portava in offerta quattro torce con il suo stemma sopra. Il clero portò una torcia segnata di 24 pezze messicane, che valgono ora nove paoli e otto soldi. Fatta tale offerta si intonò l‘Ave maris stella e poi  ci si incamminò per il Castello. Precedeva l’Arciconfraternita del Rosario col solo crocefisso, dietro seguirono i Cappuccini, poi i Francescani, indi gli Agostiniani poi il Corpo comunitativo, seguivano sei fanciulli vestiti da angeli con palma in mano, poi il clero, indi la S. Immagine. La processione, arrivata alla porta di sotto e al palazzo Malvezzi, svoltò per via Saragozza quindi per via Framella poi girò per la piazza di S. Francesco e giunse alla piazza pubblica. Qui l’immagine fu portata sopra un palco fatto appositamente, l’arciprete fece un discorso e furono dette le litanie e le preci, quindi si diede la benedizione al popolo numerosissimo e con tantissimi lumi. Fatto ciò fu riportata la S. Immagine alla sua chiesa ove, dette le preci di ringraziamento, fu ognuno licenziato.

La Comunità intanto, ricevuta da dodici scalchi del SS.mo SS.to alla porta dell’arcipretale, fu accompagnata alla sua residenza da dove col corpo della Compagnia del SS.mo fu condotta all’oratorio della piazza all’adorazione del miracoloso crocefisso.  A questo la Comunità, dopo avere recitati cinque Pater, offerse sei libbre di cera in tante candele e sei messe. Ciò fatto la Compagnia alzò di novo lo Stendardo e con la Comunità si portò a S. Francesco, intonando il Jubilate Deo omnis terra e poi l’ Iste confessor. Là giunti fu fatta una offerta di due libbre di candele a S. Francesco Solano, si cantò l’inno del Santo e cinque Pater con gli oremus per la liberazione dal terremoto.

Ciò fatto ci si avviò processionalmente a S. Bartolomeo ove, ricevuti da quei padri e scoperto S. Nicola, si cantò il suo inno e poi si ricevette la S. Benedizione con la sua reliquia, che fu data da baciare al Corpo comunitativo. Prima di partire si lasciò anche a questo altare un’offerta di due libbre di cera.

Quindi il Corpo comunitativo accompagnato dalla Compagnia, tornò alla sua residenza ove procedette all’estrazione del console per il secondo semestre e fui io Ercole Cavazza.

Il 29 giugno, vista la cessazione del terremoto, riconoscendo questa essere avvenuta grazie alla B. V. del SS.mo Rosario, la Comunità ordinò per suo decreto di andare il terzo giorno di giugno per 10 anni alla adorazione del SS.mo nella arcipretale con offerta di l. 15 per la cera e in più dare la elemosina di 20 messe alla Arciconfraternita da celebrarsi davanti alla S. Immagine scoperta.

 Inoltre si determinò di erigere una colonna nella pubblica piazza con la statua di M. V. del Rosario a spese di alcuni devoti che la richiedevano.

L’ 8 luglio Pietro Sarti per scrupoli e spavento dell’avvenuto terremoto si gettò nel suo pozzo ove finì miseramente sua vita. Pure a Bologna si decise un voto a Maria SS. di S. Luca per 50 anni.

Il 13 luglio il Senatore Angelelli venne a C. S. Pietro, incaricato dall’Ecc. Assonteria, con il segretario Garimberti e l’architetto Dotti per affari della Comunità.  Stette alloggiato in casa Malvasia, a spese però della Comunità, fino a mercoledì mattina 14.  La sera del 13 visitò le mura, il lavoro al ponte del Sillaro, la torre per la nuova porta, il mercato dei bovini e la piazza per il posto della colonna proposta con la immagine della B. V.

La sera poi, su le 2 di notte, nella sala del palazzo Malvasia il senatore tenne una riunione col Corpo della Comunità per l’enfiteusi col senatore Malvasia e per il nuovo lavoro della porta. Approvò la spesa per 10 anni per la visita alla M.V. del Rosario e decretò che, alla nuova imborsazione si accrescesse l’onorario ai consoli fino a l. 50 qualvolta l’Assonteria concordasse nella proposta. Si parlò anche, per vedere di accrescere le entrate alla nostra Comunità, di un suo progetto, di cui se ne attendeva poi il responso dal pubblico, e finalmente si trattò l’accomodatura di queste mura.

Mercoledì 14 su le ore 24 del giorno si sentì una fiera scossa di terremoto. A Bologna ne seguì un’altra, per cui la città restò tutta atterrita con danni alla chiesa di S Martino maggiore, dei Padri Serviti, di S. Michele in Bosco, di S. Giovanni in Monte e ad altri fabbricati. Questi castellani e borghesani atterriti ritornarono alla campagna ed a fare nuove orazioni.

 Era stata stampata un resoconto di tutte le funzioni che erano state eseguite in paese. A seguito di ciò vi furono molte chiacchiere e brontolii per essere difettoso, per avere omesse molte cose vere relativamente alle orazioni dell’altre chiese. Per questo il Padre Agostino Gasparini agostiniano, attuale vicario del S. Officio di questo luogo, raccolse tutte quelle stampe che poté mediante il loro distributore, delle quali ne avuto una copia.

Lunedì 19 luglio, vista la raccolta mediocre del frumento, ne conseguì il prezzo del grano vecchio in l. 11 ed il nuovo in l. 10. Le bestie bovine per scarsezza di foraggi si vendevano a vilissimo prezzo.  Quelle che valevano scudi 30 si davano per scudi 12, i vitelli di latte si vendevano all’ingrosso ai macellai a 35 soldi il peso, cosa molto riprovevole.

I Tribuni della Plebe insistevano ancora contro questi nostri artisti a causa delle manifatture e sopra tutto contro i fabbricatori di saponi, cioè Filippo Conti e Giuseppe Muzzi, e pretendevano, per vie indirette, di estorcere la giustizia del Card. Boncompagni.  Per eliminare una tale pretesa, dopo aver citato la parte avversa, la Comunità il 24 luglio fece eseguire una inibizione da Roma.

Venerdì 6 agosto, sull’ora di notte, il Sig. Giovanni Bertuzzi, notaio, fratello del fu Dott. Don Giovan Battista Bertuzzi di questo luogo e già arciprete, dopo un attacco di cuore a capo di 48 ore se ne morì.  Era in età di anni 70 passati, fu figlio di Antonio Bertuzzi, lasciò due figli maschi ed una femmina. Il primo si chiamava Giuseppe, l’altro Antonio ed erano entrambi nubili e la femmina di nome Antonia era maritata col notaio sig. Francesco Conti notaio.

Fino a questo tempo ogni bottegaio e farinotto in questo Castello e Borgo poteva vendere farina d’ogni sorta con la sola licenza della Cancelleria del Sig. Cardinale Legato, che si rinnovava a capo d’anno. Oggi essendosi fatto a Bologna un monopolio di privativa della farina, restando anche occulto l’autore, si è dalla Cancelleria richiesta la garanzia ai bottegai e farinotti che chiedevano la rinnovazione delle licenze.

Questi non volevano essere costretti a tale obbligo e rifiutarono di dare la garanzia e perciò si sarebbe rimasta privata la popolazione di questo genere. In previsione di tale grave fatto 4 capi di famiglia ricorsero alla Comunità con supplica affinché si interponesse presso il Legato per fare avere, secondo il solito, le opportune licenze. Pure i bottegai e i farinotti ricorsero alla Comunità esponendo le loro ragioni.  Cioè che non solo sarebbero stati danneggiati i farinotti ma anche i paesani poiché il macinato non si sarebbe più potuto dare a meno della Tariffa, come si faceva prima.

In vista di ciò la Comunità aderì alla pressante richiesta tanto dei 21 farinotti e bottegai, quanto del popolo quindi fece la supplica al sig. Cardinale argomentando che la negata licenza ai farinotti provocava scarsità di farine nel paese. Infatti la sua mancata concessione avrebbe fatto succedere che un venditore solo avrebbe strangolato il paese sia per qualità che per il prezzo, mentre dai presenti farinotti si dava la libbra di farina sempre al prezzo della Tariffa.

La sera del 9 su l’ora di notte si sentì un discreto terremoto ma ad una ora e tre quarti si fece sentire forte con una grave scossa che in alcuni fabbricati lasciò i segni per la sua violenza.

Il 10 agosto, giorno di S. Lorenzo, fu convocato il Consiglio e in esso fu esibita una lettera dell’Assonteria di Governo riguardante le proposte fatte dal Sig. Senatore Angelelli. Il tenore della lettera è il seguente:

Vexilifer Justitie et Gubernio Communitate Bonon. Prefecti. Mag.ti Nostri Amatiss.: Fattaci dal nostro Sig. Colega Senatore Angelelli una esatta relazione sopra la vostra Comunità, dopo averne egli presa particolare informazione costì anco colla ocular sua ispezione, è a Noi piaciuto, a norma pure de savi di lui suggerimenti, di prendere le corrispondenti rissoluzioni che ora vi vengono in questo foglio da Noi partecipate.

Abbiamo primieramente approvato che a riparare la corusione cagionata alla strada romana dalle aque del Silaro si rissarciscano e si protragono anche i penelli esistenti nel letto di esso, compiacendosi che il Cap. Graffi  ne abbia sopra di se assunta l’esecuzione pel rimborso della quale verrà da noi ordinato un riparto della spesa sopra le comunità della Podestaria da riscuotersi in due anni consecutivi, terminato che sia il lavoro. Intanto sarà vostro pensiero di fare che il d. lavoro cominci con tutta solecitudine, onde prima che termini la buona stagione possa essere terminato, del che ne aspettiamo quanto prima la notizia. Così pure ci siamo determinati ad ordinare altro riparto di scudi 24 nel Libro Camerale della vostra Comunità, conforme l’istanza già fattaci nel marzo scorso, per terminare quel tratto di selciato del Borgo in sassi e sabbia che rimane fino all’imbocatura della porta del Castello e quanto al rifacimento delle mura si è da Noi dato novo impulso a questo pubblico Sindaco per prendere in considerazione gli stati da voi alegati e riferircene in appresso il suo sentimento.

Volendo poi mostrarvi qual sia la nostra amorevolezza per voi, sentendo il comune vostro desiderio che si aumentasse l’onorario de consoli dalli scudi 6 fino alli dieci, ci siamo tosto prestati in seguito delle premure fattocene dal med. Sig. Senat. Angelelli ad annuire a d. aumento, persuasi massimamente che questo può conciliarsi colla forza della Comunità e lo abbiamo però fin da ora approvato e decretato, onde anco il Consolo presente potrà a termine della sua carica portarne il beneficio.

Passando all’affare della proposta enfiteusi della nota torre di ragione del Sig. Senat. Malvasia per aprirvi una nova porta del Castello per maggior ornato e decoro del med., assicurati noi essersi appianate tutte quelle difficultà che finora hanno sospeso il corso dell’affare med. e che p. nulla possono rimanere lese le pubbliche convenienze, abbiamo rissoluto di portarne favorevole relazione al Senato allorchè si presenti oportuna occasione, mentre a questi giorni non è sì agevole avere senatorie adunanze di legittimo numero, acciò conceda alla Comunità la permissione di eseguire il contratto, seguendo però sempre il piano per la effettuazione de lavori vari per l’apertura della nova porta risultante dall’obbligo assunto dai due consilieri Graffi e Fabbri.

 Lo stesso pure faremo per impetrare simile facoltà all’unione delli devoti costì formatasi per erigere nella pubblica piazza una colonna con sopra l’Imagine della B. V. del Rosario in riconoscenza della preservazione ottenuta dal flagello del terremoto. Ma quanto a questo, prima che noi ci presentiamo al Senato, vogliamo essere certi che siasi cumulato tutto il danaro ocorente, poichè siamo determinati che, intrapreso che siasi il lavoro, debba avere il suo pieno compimento nè abbia a rimanere imperfetto con poca convenienza e forse poi anche con dispendio della Comunità stessa.

Voi pertanto vedete di assicurarvene e sappiate poi dare il riscontro, mentre da questo assolutamente dipenderà che l’affare abbia esecuzione e diversamente non resta, per quanto da noi dipenda, luogo a sperarlo. Continuate voi intanto coll’ottima vostra condotta e defferenza ad impegnare sempre maggiormente la nostra premura per i vantaggi della vostra Comunità, sicome vedete che non restiamo continuamente di fare, e Dio signori vi prosperi.

 Bologna li 7 agosto 1779. Philipus Manzinus a sacretis.

Fu mostrata al Consiglio una lettera dalla comunità di Budrio e un’altra del nostro legale di Roma, che informava che si era ottenuta nella Sacre Rota sentenza favorevole, contro i dazieri di Bologna, per l’apertura due macellerie di carne grossa per ogni comunità del territorio che avesse diritto di macellerie. I budriesi, che avevano avviato la lite,  si erano fatti grande onore e chiedevano alle Comunità la rispettiva quota per le spese a norma del decreto dell’Assonteria ottenuto per questa questione.

I bottegai budriesi, venditori di farina, si vedevano ostacolati nelle farine a motivo che i fratelli Carlo, Crispina e Crispiano Tomba e Sebastiano Tomba di Castel S. Pietro trasportavano là delle farine e le vendevano a meno della Tariffa. Questo era a vantaggio di quelle povere genti, ma in danno dei farinotti budriesi. Questi così maneggiarono in modo che il 10 agosto il sig. Card. Legato ordinò che la licenza, solita darsi dalla sua cancelleria, fosse sospesa ai farinotti che non davano la garanzia di mantenere il paese per tutto l’anno secondo le quantità e le tariffe.

 Successe però che, non solo nel nostro paese, ma anche negli altri del territorio, cominciarono a scarseggiare le farine. La povertà per ciò  fece ricorso alla nostra Comunità, questa tosto avanzò supplica al sig. Cardinale facendogli constatare il grave danno che ne pativa il popolo perché i bottegai non vendevano più la farina essendo terminata la loro licenza, né erano disposti a dare garanzie.

 Si aggiunse anche che per tale novità non venivano più farine da Casal Fiumanese e dagli altri contrabbandieri. Infine c’era il problema della mancanza dell’acqua per la macinatura per cui ci si doveva rivolgere ai mulini d’Imola. Quindi non era bene obbligare i farinotti per tutto l’anno a tale garanzia e anche per altre convincenti ragioni. Il sig. Cardinale così rispose alla supplica della Comunità:

11 agosto 1779: Essendo la legge diretta non meno all’oggetto di assicurare alla Povertà la provisione, che a preservare li spaciatori med. dal suplanto, non si accorda la richiesta deroga. Per modo però di provisione, e purchè non passi in esempio, si concede a presenti farinotti senza innovazione di licenza, che continuino il loro spazio fino alla metà di ottobre ed ingiungiamo a Consoli di denunziare alla nostra Cancellaria se qualcuno di essi chiude; J. Card. Boncompagni Legato. Regist. a C. S. P., Gio. Paolo Fabbri Cancell. L’originale è nell’archivio della Comunità.

Il 17 si cominciò a vuotare dal terreno il baluardo o sia Torazzo nell’angolo inferiore a levante di questo Castello.

Il 30 agosto fu convocato il Consiglio per risolvere varie questioni. Tra queste c’era il fatto che la Congregazione dei Riti non ammetteva più di un Santo Protettore, mentre la nostra risoluzione era di eleggere Maria SS.ma del Rosario assieme agli S. Apostoli Pietro e Paolo e S. Bernardino come si decise nello scorso giugno.  Perciò si decretò che fosse dichiarata protettrice di questo luogo Maria SS.ma, tralasciando in silenzio gli altri.

In seguito alla morte del notaio Bertuzzi nella cui casa si esercitava l’ufficio di vice Podestà, sorse il problema della sua scomodità per il pagamento delle bollette essendo su di due scale. Inoltre non conveniva tenere un ufficio in casa di un privato che non era nemmeno notaio.  Perciò, a mia richiesta e del Sig. Conti, fu proposto alla Comunità che sarebbe stato meglio trasferire tale ufficio nella stanza inferiore presso l’orologio facendovi una porta verso la piazza. Facendo ciò si sarebbe rinunciato, con vantaggio della Comunità, a quell’alloggio come pure alla botteghina che è sotto il portico della casa, sito dell’antico ufficio. La Comunità fu d’accordo ed ordinò l’effettuazione di detta porta. Poi fu deciso che, essendo basso l’onorario dello scrivano, fosse aumentato da 7 a 12 lire.

Per la esiguità dei prezzi dei bovini causata dalla scarsità dei foraggi stavano accadendo molti inconvenienti. Infatti le bestie praticamente si regalavano perché i mercanti sceglievano e le bestie e il prezzo. Per ovviare a queste frodi fu proposto di creare un depositario che ricevesse i prezzi della Sanità con la provvigione di un baiocco per scudo. Tale ministero avrebbe dovuto iniziare l’anno prossimo, essere esercitato da persona gradita alla Comunità e il posto del depositario dovesse essere, per ora, nell’ufficio del vice Podestà.

Il Senato deliberò l’apertura della nuova porta sotto la torre, con l’enfiteusi perpetua col Sig. Senatore Malvasia. Restava ora solo l’approvazione del Sig. Card. Legato che si ebbe in ottobre.

I giorni 10, 11 e12 si fece un triduo ad onore di S. Nicola da Tolentino per avere preservato fino ad ora dal terremoto questo luogo. Cominciò il venerdì sera con la S. Benedizione col Venerabile, la chiesa fu apparata sontuosamente ed esposta la S. Statua all’altar maggiore della chiesa dei Padri di S. Bartolomeo. La domenica mattina vi fu la solenne messa in musica con panegirico recitato dal Padre Maestro Nicola Bibiano bolognese. La sera vi fu la processione solenne per il Borgo e il Castello intervenendovi prima la Compagnia del SS.mo indi i padri di S. Francesco, poi i padri Agostiniani, e finalmente un Corpo di confratelli del Suffragio, tutti cappati con sacco bianco e mazzetta nera e suo lume.

 Nella piazza maggiore si diede la S. Benedizione col Santo che fu poi trasportato alla sua chiesa. Seguì in questa l’esposizione del Venerabile indi la S. Benedizione del SS.mo poi si cominciò un solenne Te Deum in musica. La sera vi furono fuochi artificiali e così, con giubilo, si terminò il Triduo.

Mercoledì 22 settembre ad ore 13 si sentì il terremoto non molto forte.

L’arciprete aveva ottenuto dall’Em. Sig. Card. Boncompagni la facoltà di vestire 20 soldati di questa truppa dell’uniforme militare e con le armi per assistere a tutta la funzione del Rosario.

Domenica 3 ottobre, giorno dedicato alla gloria di Maria SS.ma del Rosario, si mosse dalla casa del Capitano Giorgi un picchetto di granatieri, che vennero alla arcipretale con moschetti e baionette in canna. Si misero alle entrate delle porte e agli ingressi dello steccato fatto in chiesa per separare le persone pulite dal popolo. Rimasero per tutta la messa cantata e se ne andarono alla sua fine. Seguì poi la processione del SS.mo che non fu accompagnata dalla truppa. La cosa fece molto parlare, tanto più che, terminata la processione del Venerabile, non ci fu neppure chi suonasse l’organo.

 Ognuno può immaginare quanta eccitazione creasse nel popolo una tale disdicevole novità per vedere onorata più l’Immagine di M.V. che lo stesso figlio di Dio.  Anche perché fu vociferato avervi messo mano in questo l’arciprete, per alcune discordie con la compagnia del SS.mo per ragioni d’interesse. Finalmente, mosso da zelo, un calzolaio facente parte della Compagnia del SS.mo per nome Antonio Campagnoli figlio di Giuseppe, detto Jusfone, chiamò il maestro di cappella, a cui fu donato un mezzo zecchino, che cantò un solenne Tantum Ergo.

Terminata la funzione della mattina, il dopo pranzo si fece la solita processione del Rosario con la immagine di M. SS.ma, decorata con infiniti lumi. Fu scortato il clero dai 20 soldati, cioè dodici granatieri e il resto moschettieri tutti in uniforme preceduti dal capitano con la spada nuda in mano.

 Fu condotta la processione per il Borgo poi alla piazza pubblica, ove le truppe schierate al momento della S. Benedizione fecero la presentazione delle armi alla B. V., i granatieri in un modo e i moschettieri col capitano in un altro. Ciò fatto la truppa accompagnò alla chiesa la B. V. poi ritornò al suo quartiere con i tamburi e gli zufoletti.

 Durante la processione fu distribuita una orazione della S. Immagine, per la cui recita il Card. Boncompagni concesse in perpetuo l’indulgenza di duecento giorni. La notte poi vi furono fuochi artificiali e illuminazione di tutto il Castello.

Il 6 ottobre la notte del martedì  venendo al mercoledì su le 4 suonate, si sentì una piccola scossa di terremoto che poi alle 8 replicò con poco rumore.

Ogni qualvolta si è fatto sentire il terremoto si sono fatte osservazioni nel cielo. Quando è stato sereno si faceva vedere dalla parte del meridione una lunga nube rossiccia in figura di pesce acuminata nelle estremità, ma più dalla parte che guardava il bolognese. Questa osservazione, fatta dai contadini parecchie volte, ha dato l’avviso o, per dir meglio, ha servito da preavviso per il terremoto, per cui la gente usciva di casa e la scossa arrivava mezz’ora dopo. Poi quando questa nube spariva cessava sicuramente il terremoto.

Sabato 9 la mattina su le 10 si sentì uno scuotimento ma più in Borgo presso la via corriera che dentro il Castello e non fece alcun male.

 Sabato 23 ottobre ad ore 11 circa si sentì il terremoto ma in modo lieve.

Il 31 su le 19 1/2 circa morì Antonio Maria Fracassi, dottore collegiato di filosofia e medicina di Bologna, medico condotto di questa comunità, cavaliere palatino. Tenne questa condotta 29 anni con grandissimo plauso sebbene perseguitato da alcuni malevoli, fu molto caritatevole, nessuno poté lagnarsi di essere mai stato trattato male.

 Fece il suo solenne testamento, rogato da me notaio, in cui lasciò eredi egualmente tre figli, cioè il Dott. Luigi Gorgonio Governatore di Gatteo, giovane di gran talento e somma eloquenza, Maria e Caterina nubili. Fece vari legati perpetui agli altari di S. Antonio e S. Diego di Alcalà di questi Padri Francescani. Fu sepolto in un deposito davanti all’altare del santo presso la porta maggiore e fu universalmente compianto.

Il 7 novembre, domenica notte venendo al lunedì, alle ore 7 1/2 circa si sentì appena il terremoto. Pure la sera del 9, sulle 3 di notte, si sentì sensibilmente lo stesso terremoto e alle 7 di nuovo replicò preceduto da un ruggito.

L’11 i gargiolari, memori della grazia avuta nei passati terremoti, si riunirono nella chiesa della SS.ma Annunziata del Borgo e processionalmente vennero alla arcipretale al loro altare di S. Vincenzo. Qui fecero la generale comunione poi se ne ritornarono alla suddetta chiesa salmeggiando. In questa giornata, pur essendo quella di S. Martino, non si sentirono né videro ubriachi come in passato.

Il 19 novembre la compagnia del SS.mo SS.to, memore della grazia ottenuta e della liberazione dal terremoto, espose la miracolosa immagine del suo S. Crocefisso all’altare maggiore, ove fu fatto un apparato ed una illuminazione per tre giorni consecutivi, cioè dal venerdì fino alla domenica sera.  Si celebrò un solenne trimesse e la sera si diede la benedizione col  Venerabile. La domenica si fece la processione con l’Immagine attorno a tutta la piazza e poi si diede la S. Benedizione con essa, dopo un bel sermone fatto da Padre Nicola Bibiena agostiniano.

 Questa sera dopo le 23 si adunò il Consilio in cui si lessero le domande dei 14 medici concorrenti a questa condotta, tutti uomini illustri.

La mattina di lunedì 22 stette esposta la S. Immagine fino al pomeriggio quando si celebrò la messa solenne col Te deum, a cui seguì un corposo sparo di mortaretti.

Mercoledì 23 alle 2 di notte, essendo cominciata nel plenilunio l’eclisse di luna, si sentì il terremoto e in appresso, essendo coperta la luna per un terzo, si sentì più forte. Verso la tre seguì nella oscurazione totale una fiera scossa per cui la gente fuggì. Fu aperta la chiesa del SS.mo e si celebrarono i pater noster con le litanie alla S. Immagine. Fu tale l’oscurazione della luna che la notte era tenebrosissima ed in cielo le stelle scintillavano tantissimo.

Dopo le 4 si sentì un’altra grossa scossa, per cui caddero deicamini, ma senza danni alle persone. Terminata l’eclissi  su le 5 si levò un vento bello freddo che proseguì per tutta fieramente la notte e sul far del giorno si sentì appena una piccola scossa. Piovette tutta la notte.

Il 24 novembre alle ore tre si sentì il terremoto, così alle 5 fino sul far del giorno continuamente per sette volte.

Il 25 giorno di S. Caterina sul mezzogiorno e alle 23 replicò facendosi vedere nel cielo la nube rossa in forma di lingua.

 Domenica 5 dicembre su le 23 si radunò il Consiglio per eleggere il nuovo medico condotto. Erano in concorso 14 medici, due dei quali poi ritirarono il loro memoriale e furono il dott. Pietro Serra bolognese, al presente lettore pubblico nella città di Fano e l’altro il dott. Annibale Bartoluzzi per essere mal visto dal popolo. Oltre questi due c’erano i seguenti: Dott. Lorenzo Spisni medico di Dozza, Dott. Giuseppe Muratori bolognese, Dott. Girolamo Marchesini bolognese, Gaetano Gobbi medico di S. Mauro, Dott.  Bontalini bolognese, Dott.  Masetti bolognese, Dott. Poggi cesenate, Dott. Pio Carlini, Dott. Salvatori ferrarese, Frajulia ferrarese abitante in Bagnacavallo.

Nel tempo che si stette in Consiglio a votare, il popolo tutto si era ammutinato alle porte della residenza comunitativa e gridava: vogliamo Marchesini, vogliamo Marchesini, al diavolo, al foco Bartoluzzi, al foco, al foco. Per sedare il tumulto furono chiamati gli sbirri, che fortunatamente erano in paese, per liberare la porta della residenza comunitativa. Abbandonata questa, il popolo corse giù nella piazza facendovi falò e fuochi e a gridare nuovamente: Marchesini, Marchesini, al foco, al foco Bartoluzzi.

Sciolto finalmente il Consiglio e recata al popolo la notizia della scelta fatta dalla Comunità nel medico Marchesini, si alzò dal popolo e dalla plebaglia, con orribili strida, l’esclamazione: Viva, viva la nostra Comunità. Vivano, vivano li padri della patria, grazia, grazia!

La notte del 2 dicembre venendo verso la giornata della Concezione, su le 8 di notte si sentirono sensibilmente tre scosse di terremoto. La giornata seguente continuò la terra a tremare.

 Il 16 dicembre fu estratto Podestà di Castel S. Pietro il Marchese Agostino Marsili. Il 17 fu estratto Consolo il Sig. Capitano Lorenzo Graffi per il primo semestre 1780.

1780

Problemi con il Dazio Pesce. Ancora scosse diterremotoper tutto l’anno, ma lievi.

Questioni sui dazi della canapa. Riparazioni alle mura. Nuovo metodo di governo. Sopressione previlegi fiscali e liberalizzazione commercio. Arciconfraternita Rosario chiede  di porre in piazza una colonna con la madonna. Caso delle immagini dei santi gesuiti.

Sabato primo gennaio 1780, in seguito alla nuova concessione dei Dazi Generali di Bologna e contado al Cav. Francesco Gallantini, parmigiano, si videro comparire in questo Castello due borlandotti, ossia guardie, con una squadra di sbirri. Le guardie portavano una tracolla con l’insegna della S. Chiesa in ottone. Queste avrebbero vigilato sulle introduzioni e le frodi a spese del Firmiere.  Questa cosa dispiacque quasi a tutti e voglia il cielo che non accadano omicidi, poiché si vedevano e sentivano voci di sentimenti cattivi.  

Sabato 8 veniente la domenica, alle 9 della notte si sentì una leggerissima scossa di terremoto. Fin ad ora il tempo continua a mantenersi sereno. Per la siccità presente da agosto le sorgenti si sono universalmente arrese.

Il 14 gennaio essendo stato eletto dall’Assonteria di Governo agli affari di questa nostra Comunità il Marchese e Senatore Giorgio Cospi. Ne fu dato l’avviso per lettera a questa Comunità la quale deputò il Sig. Fabri a riconoscerlo per presidente.

Contemporaneamente il nuovo Firmiere dei Dazi di Bologna chiese a questa comunità che le mostrasse il Privilegio dell’esenzione dal Dazio Pesce. La Comunità rispose che era stato incamerato fino dal 1566 circa, come al Libro dei Dazi, e perciò si dovesse documentare su tale Documento. Quando poi non volesse acquietarsi, la Comunità avrebbe ripreso la lite già incominciata agli Atti Dilaiti del 1775 in Bologna per mantenersi in possesso di tale esenzione.

Il lunedì 24 di notte venendo al martedì 25, si sentì alle sei di notte discretamente il terremoto poi alle 7 replicò, indi alle 9 si fece sentire abbastanza non ostante che fosse la terra coperta di neve.

Il primo febbraio il nuovo Firmiere, caval. Francesco Galantini parmigiano, e per esso il sig. Gaetano Terzi suo procuratore, fece amichevole richiesta a codesta Comunità sulla questione il Dazio Pesce perché esibisse il privilegio per scomputarglielo.

In vista di tale atto di urbanità, la Comunità gli significò che a memoria d’uomo, non solo la nostra Comunità aveva avuto sempre incamerato il Dazio Pesce ma anche, col sostegno dei libri Camerali di cento e più anni, si giustificava l’incamerazione con la consueta contribuzione di lire tre e soldi cinque come scritto nel Libro della Imposizione dei Dazi. Credeva che tanto fosse sufficiente a persuaderlo a non eccitare questioni legali per non impegnarsi entrambi in lunga contesa. In seguito evitò di introdurre innovazioni e sospese ogni decisione.

Sabato 5 febbraio, giorno di S. Agata, su le 22 del giorno fino alle 23 si sentirono tre scosse di terremoto e furono abbastanza forti. Un ruggito e un rombo aveva preceduto la terza scossa.

Il 6 febbraio alle ore undici e un quarto si sentì una fiera scossa di terremoto che durò un Ave Maria senza alcun pericolo e danno.

La mattina di domenica, ultima di carnevale, fu pubblicato l’indulto di uova, carne e latticini per

tutta la settimana esclusi i primi quattro giorni di quaresima e gli ultimi quattro della settimana santa, la vigilia di S. Mattia e le quattro tempora. Fu altresì concessa facoltà di mangiar carne porcina.

Il 10 febbraio il nuovo Firmiere dei Dazi pubblici di Bologna, spedì il commissario dei borlandotti assieme con la squadra di sei uomini armati, che uniti ai due stabili divennero 8 in questo Castello. Questi andarono alle botteghe dei pescivendoli che furono Sabatino Galanti, detto Paradiso, Santino Facenda e Giuseppe Farnè e gli fecero pagare per tutti i pesci, poi cercarono che io, come notaio, andassi a prendere l’impegno dei suddetti bottegai di pagare Dazio senza alcuna riserva. Rifiutai, fui rimproverato e minacciato di ricorso alla legazione perché come persona pubblica avevo ricusato di servire il governo.

Replicai che la mia professione era un’arte liberale e perciò non mi sottomettevo a queste sciocche pretese. Qualora il sig. Cardinale volesse esser servito dai sudditi, spedisca ordini firmati dal suo Cancelliere o da altri ministri di Curia. In questo modo si sarebbe voluto che io servissi in danno della mia Comunità, della mia patria e dei miei compatrioti.

A tale risposta si arrese il ministro, convinto ma non soddisfatto. Ricorse al Console sig. Graffi e al segretario sig. Francesco Conti per averne qualche aiuto. Fu fatta una  lunga riunione senza risolversi cosa alcuna essendo anche io presente. Partì in fretta il ministro per Bologna per avere qualche decisione.

La mattina seguente di venerdì 12 febbraio alle ore 15, furono citati i suddetti bottegai all’ufficio della Grascia nel modo che segue:

D’ordine si intima in voi Giuseppe Farnè, Sante Facenda e Sabbatino Gallanti  che vista la presente e doppo la esecuzione di essa in persona alla bottega  e come meglio dentro il termine di sei giorni corenti dobbiate avere riportata la debita rinonzia dalli presenti sig. firmieri a questo Tribunale della Grascia, e spirato d. termine e non avendo adempito, sarete pignorato e condannato alla forma del Bando. In fede. Dato dall’officio della Grascia questo dì 10 febraro 1780, Bernardo Monti Not.

Il 19 febbraio fu iniziata la causa sulla soppressione della Compagnia di S. Caterina nella Congregazione del Concilio, ove furono prodotti tre dubbi:

1) Se competesse l’apparizione della Bocca a soppressi per contraddire al Breve pontificio.

2) Se si dovesse dare la reintegrazione in tutto e per tutto a soppressi.

3) Finalmente se si dovessero restituire i frutti parcetti a de supressionis, in caso fosse accordata la reintegrazione.

Su ciò furono fatte delle parti pasanti scritture, e la vittoria venne a favore dell’Ospitale con otto voti favorevoli e un solo contrario, per cui i soppressi sicuramente chiederanno una riproposizione.

Su le 13 di questo giorno si sentirono tre deboli scosse di terremoto.

Il 12 i dazieri per il Dazio Pesce, non intendendo star più alla proposta di confrontare le ragioni reciproche a tavolino, proseguirono gli atti contro i pescivendoli.  Per tale motivo si cominciò la lite agli atti della Grascia di Bologna.

Il 25 giorno di S. Matteo giunse la novità delle stampe contro i soppressi. Nell’archivio di questo Ospitale si vedono tutte le loro iniquità passate e le calunnie mosse ai difensori della povertà e protettori dell’Ospitale.  Fu perciò convocata la congregazione e fu deciso che in caso i soppressi domandassero la riproposizione gli si dovesse far fronte in giudizio come per il passato.

Sabato 26 morì sul mezzogiorno Don Pietro Sassati ex gesuita spagnolo in casa di Bartolomeo Giorgi. Fu uomo di santa vita, fu sepolto nella chiesa di questi francescani nell’arca maggiore all’ingresso del presbiterio, in una cassa di rovere, con il compendio di sua vita che fu chiuso in un tubo di piombo. Aveva lasciato dopo di sé odore di santità e fu accompagnato alla sepoltura dalla compagnia del SS.mo e da tutti gli ex gesuiti la domenica sera. Si mantenne tre giorni flessibile come noi viventi.

Il 29 febbraio, ultimo del mese, alle tre di notte cominciò una aurora boreale che durò fino alle cinque dalla parte di settentrione, su le quattro questa si accese tanto che pareva volesse incendiare il mondo anche perché si rifletteva su l’alta neve che fino da domenica scorsa era venuta grossa ed alta fino al ginocchio.

Il primo marzo, giorno di mercoledì ottavo nelle quattro tempora, su le ventuno del giorno fino alle ore 22 si sentirono tre scosse di terremoto ma abbastanza lievi. Si credettero di assestamento dalla parte di Bologna.

I soppressi di S. Caterina continuavano a vedersi in conventicole e restavano tenaci nelle loro opinioni, pensavano di domandare una nuova proposizione non ostante la sentenza passiva in tutto e per tutto sui dubbi proposti.

Il 3 marzo, morì Antonio Facenda di questo Castello. Nel suo testamento, da me rogato e pubblicato oggi, costituì un fede comesso a favore di questo Ospitale degli Infermi, estinta la sua linea maschile e l’altra di Sante Facenda suo nipote ex frate.

I soppressi di S. Caterina, non ostante la risoluzione passiva avuta nella Congregazione del Concilio, oggi hanno citato per la nuova riproposta. Ciò al solo scopo di inquietare l’amministrazione dell’Ospitale e trascinarla così per i tribunali con notevoli spese. Per questa maligna vendetta Iddio ne farà il giusto castigo.

Il giorno 8, essendo pendente la lite del Dazio Pesce fra questa Comunità e i nuovi fermieri, fu fatto un decreto che fino a che non fosse decisa la lite dovessero gli introduttori di pesce pagare il dazio in forma di deposito. Venerdì 12 si cominciò tale deposito e tuttavia il pesce si vendette secondo la solita discrezionalità dei pescivendoli.

Sabato 18 su le 14 e ½ si sentirono due scosse di terremoto abbastanza forti ma senza far danno ad alcuna persona.

Lunedì 20 fu affisso dai borghesani un invito pubblico per il 24 marzo per onorare nella loro chiesa, ossia l’oratorio della SS.ma Annunziata, l’immagine del S. Crocefisso in quella esistente. Era stato promotore Don Pietro Galiardo ex gesuita messicano.

Domenica 3 aprile la notte dalle ore 4 fino a giorno durò un vento così impetuoso che svelse alberi, scoperse case, atterrò tanti caminaroli nella campagna, in questo castello e in altri luoghi del territorio. Le case tremarono per modo che molti vollero che vi fosse unito anche un terremoto e buon per noi che le scosse fossero leggere. Martedì 5 cadde su queste nostre montagne, due miglia lontane da Castello, neve e grandine.

 Venerdì 8 la mattina, dalle 14 fino alle 22, si fece sentire il terremoto placidamente per nove volte, solo su le 18  si fece sentire con un piccolo rombo, ma che arrivava dalla parte occidentale.

Il 3 maggio, giorno della Ascensione, su le 5 di notte si sentì bene il terremoto.

Martedì 9 la mattina alle ore 7 e tre quarti si sentì una buona scossa di terremoto, ma di poca durata. Alle 8 suonate ci fu una replica di lunga durata e così la sera su le 22.

Il caldo è tanto avanzato che, secondo le osservazioni fatte nell’Istituto di Bologna, è di 10 gradi più del normale. Non si ha memoria che in questi giorni sia mai così aumentato e perciò si temono forti scosse di terremoto. Si teme, e Dio ci guardi, che non accada come a Messina, ove si è aperta una voragine.

Giovedì 12 ad ore 20 si è visto passare sopra questo Borgo e Castello un’infinità di farfalle rosse come quelle grandi da seta, provenienti dalla parte di settentrione e andavano alla volta del monte. Sembrò una nube che oscurò il sole come una nebbia bianca. Tutta la gente era uscita fuori a vedere una tale infinità di bestie volanti assieme. Durarono a passare per tre ore in una lunga striscia.

Il 19 il Padre Filippo Conti di Castel S. Pietro, al secolo Giacomo Conti, volgarmente detto della Bottega Nova, priore nel monastero de’ Servi di Imola, fu chiamato a Roma dal generale della sua religione che lo fece suo segretario.

Giovedì primo giugno, sulle 9 si sentì una sensibile scossa di terremoto che, in un mezzo quarto d’ora, replicò poi tre volte.

Sul mezzogiorno passò da qui Don Francesco Dal Fiume, prete nativo di questo Castello e se ne andò a Roma in qualità di tenore cantante nella cappella di S. Giovanni in Laterano. Fu scolaro del maestro di cappella Domenico Barbieri di Bologna. Fu raccomandato a molti signori di Roma dai nostri di Bologna come uno dei primi cantanti della città e segnatamente al Card. Segretario di Stato. Con lui partì anche Luigi Dall’Olio imolese, notaio criminalista, che andò al servizio di quei supremi tribunali.

La sera di questa giornata, in memoria della grazia avuta per il terremoto di un anno fa, fu esposta l’immagine SS.ma del Rosario in questa arcipretale sull’avemaria. La chiesa stette aperta fino a quell’ora in punto che cominciò il terremoto e la gente vi andò a cantare salmi. Poi andarono alle sette chiese, secondo il voto fatto.

Il 2 la Compagnia del Rosario, dopo avere tenuta esposta la S. Immagine al suo altare tutta la mattina con molte di messe, il dopo pranzo, andò processionalmente alle sette chiese e poi, ritornata all’arcipretale, ricevette la S. Benedizione dal SS.mo.

Sabato 3 il dopo pranzo si fece all’altar maggiore della arcipretale l’esposizione del venerabile. Parteciparono la compagnia del SS.mo e il Corpo comunitativo in forma a fare l’adorazione di un’ora con offerte di cera per lire 15, elemosine di oro e messe per la B. V. Data la S. Benedizione del SS.mo passò la Compagnia con la Comunità alla venerazione della S. Immagine scoperta ove, cantati gli inni Gloriosa virginis e il Quem tanta pones sidera, si intonarono le litanie dei Santi e giunti al Santa Maria tutti si congedarono. La Comunità andò alla sua residenza scortata dalla compagnia del SS.mo, la quale poi proseguì il suo giro alle sette chiese.

Domenica 4 d. giorno nella arcipretale si tenne la comunione generale della compagnia del Rosario davanti alla S. Immagine posta sull’altare, quindi così fece la compagnia del SS.mo. Il dopo pranzo questa compagnia si portò alla S. Immagine a cantare i cinque salmi corrispondenti alle lettere iniziali il nome di Maria e poi se ne partì.

 Sulle 13 tutte le religioni regolari si portarono alla arcipretale da dove la Compagnia del Rosario e il clero portarono processionalmente la S. Immagine nella pubblica piazza su di un palco dal quale, cantate le litanie, le preci e dopo un breve discorso dell’arciprete, si diede al numerosissimo popolo la S. Benedizione. Seguì uno sparo di mortaretti poi, al canto dell’inno ambrosiano, fu riportata la S. Immagine al suo altare.

Ieri a Roma fu riproposta la causa dei soppressi nella Congregazione del Concilio coi primi tre dubbi della passata proposizione e ne uscì un decreto contrario ai soppressi per omnes albas di otto voti e il decreto fu E.mi P.P. S. Congregat. Consilii Staterunt in decisis et amplius, onde non vi fu luogo  a una nuova riproposizione.

Nel tempo del passato ricorso fu fatto un volantino stampato in cui si denunciavano molte carte da me rogate come false. Però nella presente riproposizione tutti i miei documenti furono giustificati per rogito del sig. Giuseppe Guermani, notaio collegiato di Bologna, come si legge nel verbale della Amministrazione.

Il 24 su le 8 si sentirono tre scosse di terremoto e la sera fu estratto Consolo per il secondo semestre il Sig. Francesco Conti.

Era stato pubblicato un editto che tutti i gargioli e le stoppe fossero sgravate dal pagamento di dazi e che questi fossero posti per due anni sopra la canapa grezza esportata.  Ciò però alla condizione, che volendosi esportare del gargiolo e delle stoppe, si dovesse prendere la bolletta da Bologna e non dagli ufficiali del contado allorché si superasse il peso di cinquanta libbre. Così nacque un grave mormorio di popolo nelle comunità di Budrio, Minerbio, Castel S. Pietro e Molinella per vedersi così incagliato lo smercio per la dura condizione di dovere andare a Bologna a prendere tale bolletta. Per questo i lavoranti la canapa e i negozianti che erano vicini al confine pensarono fosse opportuno chiudere le botteghe.

 Quelli della Molinella erano già andati nel ferrarese, queste altre comunità cercarono di fermare il Legato facendogli constatare che la previsione della bolletta per le cinquanta libbre era un considerevole danno e equivaleva a rovinare tutto il territorio.

Si contrapponeva l’avvocato Francesco Galvani, quale priore della Dogana, più per interesse privato che pubblico, poiché tali bollette toccavano ad un suo nipote ministro di gabella. Questi proponeva, per quietare il mormorio, che i negozianti le canape del territorio si riducessero tutti in città, dove si sarebbe fatto, come con gli altri negozianti, un maggior credito ai lavori della canapa. Progetto veramente ridicolo.

Impugnarono il provvedimento tanto i budriesi negozianti in canapa, che è l’unica risorsa e sostegno di quel paese, che i nostri. Finalmente si mosse il Legato per un temperamento e fu che gli ufficiali del contado avessero la facoltà di fare le bollette fino a trecento libbre e non più a cinquanta.

 Così fu attenuato in parte l’incagliamento e la rovina del territorio che certo, nei due anni che erano previsti nell’editto, mandava in rovina molte famiglie e non avrebbe prodotto che ladri per povertà. Infatti per questo limite non si sarebbe potuto lavorare più di tanto. In questo nostro Castello erano più di quattrocento lavoranti alla giornata mantenuti da sette capi.  Questi sono Giulio Andrini, Giovan Battista Castellari, Giuseppe Farnè, Nicolò Giorgi, Sebastiano Tomba, Giuseppe Magnani, Michele Corticelli ed altre famigliole che da sé lavorano. Inoltre ci sono i fratelli Lelli, detti i Lunghini, i Poggipolini, le famiglie Oppi che lavorano alla schiantina e Rocco Andrini che fu uno dei capi che fece alt a Bologna per tutti e con sommo calore.

Ottenuta la grazia furono memori i sanpierani di far avere al legato un attestato della loro gratitudine mediante il seguente sonetto, che fu affisso a Castello e in città.

All’e.mo e Reverendissimo principe il sig. Cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi, Legato a Latere di Bologna, In occasione dello sgravio provisionale de gargioli e stoppe dal pagamento de dazi d’estrazione pubblicato li XXIII giugno 1780

Poco al felsineo suol giovar parea

d’util canepa aver ampio tesoro,

quando occupar ed arrichir dovea

solo terre straniere il suo lavoro.

Tizio infingardo per la via sedea

vi fosse pur copia d’argento e d’oro

e chi l’industria per richezza avea

come trovar al viver suo ristoro

Ignazio al suo favor venne il riparo,

già ferve l’opra e l’util suo prevale.

Alla fecondità che diè natura

seguì, e qual monumento illustre e chiaro

della paterna sua provida cura

Segno di vera gratitudine e ringraziamento, li gargiolari di Castel S. Pietro. Dal P. Luigi Sambuceti, barnabita

La mattina di martedì 18 si sentì, sul far del giorno, il terremoto per due volte sensibilmente.

Il 19 il senatore Cospi, presidente a questa Comunità, venne con l’architetto Dotti alla visita di queste mura del Castello per accomodarle. Gli fu proposto di chiudere il vicolo che passa dietro alle mura superiori ove sono i cancelli e di darlo ai padroni che avevano corti e fabbricati fronteggianti. Il cavaliere promise tutta la sua attenzione e premura per l’attuazione della proposta.

Il 9 agosto il Sen. Conte Giuseppe Malvasia, essendo qui venuto per suoi affari, stipulò con questa Comunità lo strumento pubblico di enfiteusi per la porta nuova sotto la torre come per rogito di me Notaio Ercole Cavazza.  Il canone annuo fu fissato in lire sessanta e furono fissati altri patti e cioè il rinnovo di ventinove in ventinove anni e di apporre sopra la nuova porta una iscrizione sulla concessione per l’apertura della porta.

Contemporaneamente fu promosso l’accomodamento delle mura rovinata del Castello verso la parte dei cappuccini ponendo in comparto la spesa per la metà al nostro Castello e per l’altra metà alla podesteria.  Fu pure concessa la facoltà di chiudere lo stradello del terraglio superiore verso ponente cedendolo ai padroni fronteggianti con l’impegno di mantenere le mura.

Don Francesco Dalfiume figlio di Lorenzo, che già mesi fa si era portato a Roma in qualità di cantore di musica e aveva già avuto il posto nella cappella di S. Maria degli Agonizzanti  in qualità di secondo tenore, il 21 agosto, dopo avere sofferta una grave malattia, fu costretto ritornarsene a Bologna a respirare l’aria nativa per rimettersi in salute.

Contemporaneamente fu fatta affiggere una solenne notificazione in cui si prometteva un nuovo modo di governare al fine di togliere di mezzo, che Dio lo voglia, tante spese inutili e tagliare tanti uffici superflui a Bologna. Questo allo scopo di pagare i debiti pubblici ammontanti a trenta milioni di lire. Purché  non se ne facciano dei nuovi e non sia da questo governo ideata una nuova maniera di dissanguare il suddito.  Ciò è quello che tutto il popolo si aspetta.

A Bologna, a causa dei gravami sopra tutti terreni e la soppressione dei privilegi, si è eccitato non poco contrasto tra la nobiltà e la legazione. Ma dovette sopportare questo male che derivava dal governo del ceto senatorio che, ideandosi una sovranità, aveva sempre trascurato il bene del suddito e aveva inventato di giorno in giorno nuove maniere di succhiargli il sangue.

Quello che si tiene per cosa ottima sarà la libertà di lavorare il folicello (bozzolo del baco da seta) anche nel contado, dove che per l’addietro i poveri erano costretti, sotto pene rigorosissime, a portare il folicello solo in città. quindi si doveva cederlo a discrezione dei mercanti cittadini, né si poteva portar via dalla città nemmeno pagando il dazio, che per questa merce non era ammesso. Per ciò infinite erano le bestemmie che profferivano i poveri comitatini (abitanti del contado) costretti a tale legge.  A volte si dava la seta solo a otto soldi, tanto che valeva di più la cattiva stoppa di canapa.

L’altra cosa nuova sarà quella di poter vendere ciascuno il proprio vino direttamente, dove che in passato bisognava darlo agli osti al prezzo che piaceva loro ed essi poi lo vendevano al doppio. Come quest’anno che lo pagavano 10 paoli la corba e poi lo vendevano al minuto a ragione di ventiquattro paoli. O Dio che leggi usuraie!

Il terzo punto è di potere avere un libero commercio e che siano levate tante trappole delle  ne è pieno il contado e ogni piccolo paese. In somma tutto ciò derivò dalla cattiva condotta del Senato per cui si può dire col poeta che le pazzie dei grandi le pagano i sudditi quidquid delirant Reges plectuntur achivi[8].

Tutto ciò derivò dalle aggressioni, angustie, cavillazioni, ruberie, sotterfugi usati dagli ufficiali dell’erario pubblico.  Se i senatori avessero usato del senno nel maneggio  della cosa pubblica, le cose dei concittadini non sarebbero giunte a questo deplorevole segno.  Quindi ora non soffrirebbero essi tanta vergogna e danno nei propri interessi, né sarebbero costretti  a subire quelle leggi che essi, con aria di sovranità, volevano con la forza imporre al povero. Così Dio farà loro pagare la pena della loro cattiva condotta e si dirà di Bologna quello che dicono le sacre carte di Gerusalemme, Pecatum pecavit fera falem, proptera instabilis facta est, e in altro luogo,  Dabo vobis regem insipientem

 idest quod fagit et nolit nescire

et castigabo inimicos meos cum inimicis meis.

Questa operazione è stata condotta con tale destrezza dal legato Boncompagni per cui non si è saputo nulla se non a cosa fatta.

Il 22 nella chiesa di questi padri di S. Francesco Minori Osservanti ove fu sepolto il Dott. Fracassi di Bologna, vi apposta la seguente iscrizione latina a memoria perpetua de posteri.

Antonio M. Fracassi

Cive Bonon. Equit. aurato

Medic. ac Philos. Doct. colleg.

Probitatis ac relligionis

vivo integerrimo

A XII viri huiusce Castri

Publicis stipendiis duct.

Post XXX, optime funct. Mun. Ann.

Omnium ploratu

Kal Novem. MDCCLXXIX

Log. hic sibi sepul.

FF. M. P. OM. P. P.

Il primo settembre venne in Bologna un distaccamento di 50 soldati di Forturbano a guardare la città.  A loro fu assegnato il quartiere di S. Felice e di porta Galliera.  Seguirono per ciò molti mormorii a Bologna.

Il Senato, mal sopportando ciò, fece le sue lagnanze al Card. Legato il quale rispose esser questa volontà del Papa.  In una nuova riunione furono deputati 4 senatori, tra i quali Ariosti ed Isolani, che dovevano tenere i collegamenti con gli altri due senatori mandati al Papa cioè Angeletti e Filippo Ercolani.  Questi passarono di qui per Posta Sforzata alla volta di Roma, forniti del bisognevole a spese proprie.

È da notare che in questo frangente Il Sen. Conte Lodovico Salvioli, non voleva assumere la carica di Confaloniere poi a petizione di tutti gli altri senatori l’accettò per evitare ogni infelice scontro.

Il giorno 8 alle 13 e 15 si sentirono due piccole scosse di terremoto.

Per le continue piogge, che da giugno a questa parte si sono avute a ogni quarto di luna, i contadini non potevano arare né lavorare le terre. Perciò si sentivano esclamazioni ed il grano stava a 18 paoli la corba non ostante che si sia fatta e si faccia una buonissima raccolta di formentoni, miglio ed altre biade. L’uva stessa, per la pioggia, marciva prima di maturare e i proprietari mettevano l’uva in casa.

Mercoledì 13 settembre la mattina su le 10 e ½ si sentì tre volte il terremoto e su le 14 altre 3 volte e sensibilmente. Intanto proseguiva il tempo cattivo.

Mercoledì 20 dalle 20 ½ alle 21 ½, si sentirono tre scosse di terremoto delle quali una fu piuttosto forte.

Il 23 sabato venne l’E.mo Card. Giovanetti, arcivescovo di Bologna, a fare la sua prima visita pastorale. Fu incontrato all’Osteria del Gallo da questo clero e molte persone secolari e giunse la sera all’ora di notte a Castello. La mattina seguente, domenica 24, tenne la cresima e il dopo pranzo fece personalmente una Dottrina assai istruttiva per grandi e piccoli e dispensò elemosine con le proprie mani ai poveri. Si mostrò affabile con tutti.  Fu ossequiato dalle Religioni e dalle Compagnie in forma e così fece la Comunità mediante quattro deputati che furono sig. Flaminio Fabbri, decano, sig. cap. Lorenzo Graffi, sig. Giovanni Calanchi e me Ercole Cavazza che, in cappa nera e collare, lo incontrarono nella canonica.

Lunedì 25 si portò a S. Martino di Pieve di Riolo dove stette fino alla sera e poi ritornò a Castello. Il martedì mattina si portò nell’oratorio della Compagnia del SS.mo SS.to dove ebbe una lunga riunione sopra le vertenze della compagnia, tanto riguardo ai suoi debiti che riguardo alle ostilità con l’Arciconfraternita del SS.mo Rosario e per le preminenze a causa del gonfalone. Egli assunse la briga di comporre tutto.

Finalmente prima di partire pubblicò alcuni suoi decreti, fra i quali vi fu questo che due giorni prima della solennità del SS.mo Rosario, per la festa di codesta S. immagine, tutte le nostre chiese dovessero suonare le campane e così proseguire per sempre in riconoscenza di essere stata eletta per Protettrice singolare del paese.

Così si fece il venerdì 29 e il dì seguente 30, ultimo di settembre. Si suonarono la mattina sul far del giorno le campane pubbliche nel campanile della arcipretale rifatto dalla Comunità, così si fece al pomeriggio poi la sera al terminar del giorno.

Il primo ottobre, domenica del SS.mo Rosario, fu pubblicato il decreto di elezione di M. SS.ma in singolar Protettrice di questo luogo, fu aggiunto anche una perpetua indulgenza plenaria da N. S. Pio VI per la visita al suo altare. In questo giorno si fecero solenni fuochi e processioni con infinito concorso di popolo e vi fu la nostra truppa di granatieri, comandata dal capitano Giorgi ad adornare la funzione.

 In tali circostanze furono anche dispensate medaglie con la immagine di M. SS.ma del Rosario da una parte e dall’altra il gonfalone e l’insegna della Arciconfraternita. Dalla parte della immagine vi erano queste parole: Tu mater et patrona C.S.P.tri  a teremoto salvasti 1779. Dall’altro lato, ove sono le insegne attorno la prima circonferenza, vi è così: Ad precipuum honor. et gloria Archi confrat. SS. Rosari  + Ben. XIV P. M.. Internamente sopra il Gonfalone: Honorificentia populi, e sotto in un cartello: Laur. Graffi Praefec. muner. fungentis monum.

Domenica 8 la mattina su le 13 si sentì il terremoto abbastanza forte. Martedì 11 su la stessa ora si sentì nella stessa maniera il terremoto.

Per la rinuncia del dott. Giordano Marchesini si era resa vacante la condotta medica di questo luogo.  Avevano concorso i seguenti soggetti: dott. Pietro Serra bolognese e lettore pubblico della città di Fano, dott. Giuseppe Antonio Muratori bolognese, dott. Gaetano Jobbi medico di S. Marco, l’eccellente dott. medico e storico di antichità Giuseppe Fantini, che ha dato molte opere sia mediche che storiche sopra Sarsina, esercente in Massa Lombarda, dott. Giuseppe Vistoli, dott. Giuseppe Masetti e Francesco Gaiani, tutti medici di merito.

 Il primo novembre la Comunità, a scanso di tumulti popolari, che seguirono nell’ultima scelta fatta nel dott. Marchesini, non solo non mise fuori i soliti avvisi di concorso ma procedette immediatamente alla elezione. Fu scelto il dott. Giuseppe Muratori uomo veramente cristiano e amante del povero.

Lunedì 13 novembre, verteva la lite nel foro civile di Bologna fra i Padri Barnabiti e il sig. Giovan Paolo Fabri contro il Senatore e Marchese Filippo Ercolani a causa della chiusa del Sillaro. Il motivo era che questa, di fronte al fondo Croce Coccona, danneggiava a ponente i terreni dei Barnabiti, successori dei Gesuiti, e a levante il sig. Fabbri, dove le acque avevano corroso molto dei suoi terreni e aveva anche portata via la strada che porta alle comunità di sopra.

Così fu intimata la visita formale dei periti hinc et inde, degli avvocati e procuratori alla presenza del giudice e del Legato stesso. Quindi questa mattina venne l’E.mo Boncompagni con il notaio Triboli, gli avvocati Guarini, Magnani, i procuratori Francesco Rizzoli e Parmeggiani, i periti Agostino Ciotti e Bernardo Gamberini, che andarono tutti alla chiusa ove c’erano anche i Padri Barnabiti. Questi, per comodità del legato, vi avevano fatto una baracca di legno coperta di damaschi.

Quivi si tenne una lunga riunione, finita la quale si ebbe il suo proservato. Poi il Cardinale a piedi passò la chiusa e si incamminò per le strade contese da quelle comunità superiori che sono sotto il Castelletto.  Qui ne fece fare la misura poi ritornò a Castel S. Pietro. Dopo riposò dalle 17 fino alle 22 di questa giornata e, entrato in casa del marchese Giuseppe Stella in questo Borgo, pranzò e su l’Ave Maria se ne partì per Bologna.

 Mentre rimase qui Don Pietro Galiardi messicano gli dedicò il seguente epigramma in versi elegiaci. Questo ex gesuita era abile nell’inventare e comporre, ma incapace nel purgare le sue composizioni.

Super damnorat Silaris inspectione E.mi D. Card. Legati Boncompagni habita die lune 13  9.bris anni 1780.

Celse recognoscat Princeps, nec despice quanta

in Castra Silarus nonc nova damna ferat

margine nam fluis rupto, populatum in agros

vicinos torrens aggeris impatiens.

Te preferente sciat dominum, cui pareat, esse

principis et summi sentiat imperium.

Sentiat et populus sibi nil presentius ipso

gui nimio e legum pondere multa levat

munera que dederunt, que privilegia quondam

Porpurei Patres, queque tulere senes

restitue, et totum merito tunc fama per orbem

justitie, laudes et tua facta canet.

Piacque l’epigramma ed in seguito il Porporato chiamò il poeta e volle sentire la sua spiegazione delle parole: queque tulere senes. Questi, che conosceva le vicende di questo paese, francamente rispose che alludeva agli attacchi fatti dal Senato di Bologna ai privilegi della Comunità e alle ultime liti a Roma nella S. Rota.  Il porporato ringraziò dell’onore il poeta e dette speranza ai paesani presenti di tenere Castel S. Pietro in considerazione. Poi partì riportando dal popolo applausi ed evviva.

Sul principio di dicembre fu pubblicato in stampa il Motu proprio di Pio VI sul nuovo metodo di governo e sulle nuove disposizioni che in parte distruggevano le vecchie, in parte le modificavano e in parte ne aggiungevano di nuove. Si prometteva di dare presto alla luce il nuovo Piano di Governo che da me sarà notato di mano in mano secondo la pubblicazione dei provvedimenti.

Il 16, secondo il consueto, fu estratto il Podestà di Castel S. Pietro e fu il Sen. Marchese Antonio Marescotti, che sostituì il suo notaio Giovan Battista Guermani e nominò me al suo posto.

 Questo paese era sempre più insoddisfatto dei macellai appaltatori del Dazio Rettaglio per due ragioni. Una era perché si macellava sempre carne bovina e cattiva. L’altro era perché lo stesso macellaio non aveva voluto concedere ai lardaroli le carni porcine. Per questo il paese era costretto a valersi di una sola bottega, tenuta aperta dal macellaio, nella quale si vendeva solo carne porcina e di agnello. Il problema era che, vendendo oggi tutta questa carne, non si procedeva alla sua salatura, quindi in estate il paese sarebbe stato sprovvisto di salumi e carne conservata. Per questa cosa il popolo fece un memoriale e lo presentò alla Comunità affinché intervenisse presso il sig. Cardinale per provvedere a tale disordine. Inoltre il popolo chiedeva che fosse concesso al V. Podestà di visitare le carni prima di essere macellate in tutela della salute e le marcasse. In fine si chiedeva che gli fosse concesso la facoltà di vigilare le botteghe dei venditori di commestibili e, trovandoli dolosi, ne desse la relazione alla Cancelleria dell’Eminentissimo Legato.

Tale supplica fu presentata al sig. Cardinale mediante legale e sino ad ora sta sul suo tavolino.

Il 18, vista la liberazione dal terremoto mediante la intercessione di Maria SS.ma del Rosario, l’Arciconfraternita del Rosario chiese licenza alla Comunità di potere erigere in mezzo alla piazza maggiore del Castello una colonna con l’immagine di Maria SS.ma.

 Non ebbe difficoltà la Comunità ad aderire a tale istanza sia per onore alla B. V. che per l’ornamento del Castello, quindi fu passata l’istanza all’ufficio di Governo per la licenza. Si incontrarono però delle difficoltà sia per il lavoro che per la manutenzione, e si decise che la Arciconfraternita stesse ricorresse al Senato e che la Comunità ne desse tutto l’assenso. Quindi fu fatta la petizione al Senato.  Là si trovava presente il senatore Marchese Piriteo Malvezzi, cavaliere di illustre esemplarità di vita e cristianità di costumi, il quale, essendo anche confratello della Arciconfraternita, perorò a favore in tal modo in Senato che tutto il consesso condiscese alle sue premure.  Concesse non solo la facoltà di erigere tale colonna, ma altresì donò gratis il suolo occorrente alla arciconfraternita.

Ciò saputosi dall’arciconfraternita ne seguì un grande giubilo ed immediatamente si cominciò a fare la coletta. La Comunità donò molti carri di sassi per i fondamenti e macigni per il basamento.

Il 23 si fecero all’esterno del Castello le fondazioni per la nuova porta di ingresso sotto la Torre.

La compagnia del SS.mo aveva svuotato la borsa per la elezione dei suoi priori.  Restava pure in essere la lite con l’arciprete e la trattativa avanti l’Arcivescovo per venire ad un accordo. A questo scopo era stato deputato il Priore sig. Carlo Conti. La compagnia pensò quindi, per mandare tutto a buon fine, invece di fare una nuova imborsazione, di procedere alla riconferma del sig. Conti, dandogli due compagni eletti dal corporale. Il tutto fu comunicato mediante lettera all’arciprete. Questi si mostrò indifferente sempre che si procedesse a norma di statuto.  La mattina del 26, premesse le solite formalità, fu chiamato all’insediamento dei detti ufficiali.

Egli venne puntualmente all’oratorio, ove giunto sedette nell’arcibanco dei priori.  Fu intonato il Veni Creator e poi  fu da lui detto l’Oremus. Quando ognuno si aspettava di sentire la nomina e l’insediamento degli ufficiali, l’arciprete senza dir altro ne far cosa alcuna se ne partì e ritornò alla parrocchia.

Il popolo che era concorso numeroso in chiesa per ricevere la S. Messa, vedendo tale novità restò meravigliato con non poco bisbiglio di ognuno che si trovava presente.  Altro non seguì in ordine a questo ma si ricorse al Superiore.

Giovedì 27, secondo il solito, fu estratto  Consolo il sig. Giovanni Calanchi. Contestualmente si lesse  la lettera del sig. Legato card. Boncompagni diretta a questa Comunità che ordinava di rimettere in pristino il carcere pubblico sotto il portico.  Questo, anni fa, era stata ridotto a stanza per questo Messo o sia Esecutore pubblico, che faceva anche da Collettore ed Esattore per le imposte pubbliche. In verità questo ordine giunse strano perché c’era ancora un altro carcere all’interno della casa pubblica, ma si determinò tuttavia di ubbidire subito per evitare eventuali problemi.

 Nella chiesa di S. Lucia di Bologna, già dei gesuiti, vi erano due famosi busti d’argento dell’immortale Alessandro Algardi[9], rappresentanti S. Ignazio di Lojola e S. Francesco Saverio, che venivano esposti al loro altare i giorni della loro festa, erano grandi più del naturale e in essi l’opera superava la materia.

Questi busti, dopo l’abolizione della Religione dei Gesuiti, furono fatti fondere dall’arcivescovo di Bologna Vincenzo Malvezzi e, con le altre argenterie della chiesa, furono ridotti in verghe d’argento. Prima della fusione il marchese Giacomo Zambeccari offrì al card. Malvezzi il contante per il loro valore intrinseco. Però non valsero gli impegni, né la intercessione di nobili ed altri riguardevoli soggetti.  Il cardinale li volle distrutti.

Successe quindi che, arrivata la festa di S. Francesco Saverio, il card. Malvezzi si ammalò gravemente e corse il pericolo di perdere la vita. L’anno seguente accadde la stessa storia nella festa di quel santo. Infine il terzo anno gli accadde la terza malattia nel giorno della stessa festa così che vi lasciò la vita.

Il marchese Sigismondo Malvezzi era in possesso di un famoso quadro del Viani[10] rappresentante detti due santi. Gli fu richiesto in prestito dal parroco di S. Caterina di via Saragozza per solennizzare la festa dei due santi nella sua chiesa. Il cavaliere negò per la gelosia il prestito del dipinto. Di nuovo gli fu richiesto il prestito da suo fratello, il marchese Piriteo Malvezzi, ma pure a lui fu rifiutato. La notte precedente alla festa il cavaliere Sigismondo fu preso una smania tale che non poté prendere  sonno. Chiamò i famigli di guardia per avere soccorso ma fu tutto vano. Finalmente memore del rifiuto dato al parroco per il prestito, venne nell’idea di concedere il quadro nella chiesa di S. Caterina. Difatti, alzatosi da letto, andò alla stanza del fratello Piriteo e gli disse delle inquietudini sofferte.  Pensando che provenissero per la questione della festa di S. Francesco Saverio, voleva che immediatamente fosse portato fuori di casa iil quadro perché non voleva gli accadesse quanto era successo all’Arcivescovo Malvezzi. Sul momento, a mezza notte, fu portato il quadro alla chiesa e così si quietarono le smanie e i rimorsi al cavaliere Sigismondo.

1781

Inizio lavori alla nuova porta. Prime pietre per la nuova colonna in piazza. Apertura frabbrica di veli di seta in Borgo.Arciprete interdice chiese per presunte violazione diritti parocchiali. Manovre contro il medico Giuseppe Muratori.

Il 2 gennaio si cominciò a fare la nuova porta sotto la torre e si ritrovarono le antiche vestigia. Si cominciò inoltre a tagliare il muro esterno verso il Borgo e a farvi l’ornato in stile grottesco.  Ci lavorarono i due fratelli Vincenzo e Girolamo Parazza muratori di questo luogo e abili nel disegno.

Il giorno 4 poi si cominciò a fare il fondamento in mezzo alla piazza pubblica del Castello per la colonna da erigersi dalla arciconfraternita del SS.mo Rosario per collocarvi poi sopra l’immagine di Maria SS.ma.

Giovedì 11 giunse lettera dall’E.mo Legato a questa comunità ove ordinava che si facesse una prigione più grande. Contemporaneamente, essendo stato presentato al sig. Cardinale  la supplica della Comunità per avere due macellerie di carne grossa, giunse ordine di interpellare il macellaio appaltatore Giovanni Corticelli perché desse facoltà a chi altro volesse. In mancanza di accordo con la Comunità, si rimandasse la soluzione a Bologna.

Tanto avvenne perché Pietro Zuccheri si era offerto per avere tale facoltà di macellare carni bovine e vitelli a riparto del dazio, ma il Corticelli rifiutò e pretese trecento zecchini oppure cinque scudi per ogni bestia. Quindi furono entrambi mandati a Bologna ad udire il parere dell’E.mo Legato.

In questo tempo alcuni mercanti di Bologna avevano ottenuto dal Legato la facoltà di fare velami di seta e di portare in questo luogo i telai da veli all’uso di Bologna.  Il sig. Cardinale aveva preso questo affare con impegno anche per levare certe assurdità che si commettevano a Bologna dalle donne, dai lavoranti ecc. e anche per sollievo di questo nostro paese.  Furono qui spedite alcune maestre con altre donne del paese, native però di Bologna e pratiche in tale arte. Si unirono assieme e con non poche fanciulle si misero in questo Borgo a lavorare la seta e a far velami nella casa della Compagnia della Morte e dei sig. Villa. Codesto impegno ed impiego fu affidato al sig. Francesco Conti, uomo giovane ma ottimo per questo impiego.

Quindi ad oggi sono in esercizio dodici telai e quanto prima se ne metteranno altri in opera in casa del Conti che abita alla bottega nuova in Borgo presso l’osteria del Portone.

Il 15, giorno della conversione di S. Paolo, fu ultimato l’ornato della nuova porta. Contemporaneamente fu pubblicata una notificazione dell’E.mo Legato sopra i notai vice podestà di dovere essere presenti alle ore assegnate e nei luoghi dovuti.

Sabato 28 venendo alla domenica su le sette di notte, si sentì un piccolo terremoto e la mattina seguente su le 15 si fece sentire un’altra volta, udito da tutti,

Lunedì 29 si cominciò a lavorare nel nuovo carcere.

Dalla parte del fiorentino si ebbe la notizia come in due mesi fossero morte in Firenze oltre duemila persone e che perciò quel duca era di là sloggiato con la famiglia.  Si disse che i mali erano stati cagionati da molti venti sciroccali.

Domenica 4 febbraio su le tre di notte si sentì una scossa di terremoto.

Lunedì 5 alle ore 21 fu collocata la prima pietra nel fondamento della colonna in mezzo la piazza, nella quale vi furono collocate due medaglie di bronzo entro due scatole di piombo. Una dal sacerdote Don Mauro Calistri, fratello di questo arciprete e l’altra da Giovanni Bonetti priore della Arciconfraternita del Rosario. Le medaglie furono preventivamente benedette e rappresentavano da una parte l’immagine di questa S. Effigie di Maria e dall’altra lo stemma dell’Arciconfraternita.

Giuseppe Farnè, depositario di quella, vi pose la terza pietra e finalmente il capitano Lorenzo Graffi vi pose l’ultima pietra. Quindi fu fatto un piccolo deposito nel quale furono rinchiuse le scatole di piombo con le medaglie. Seguì la benedizione per mano dei detti sacerdoti e se ne formò rogito per mia mano. Perché non restasse scoperto il macigno che copriva detto deposito e fossero levate di notte le medaglie, i muratori lavorarono fino alle tre di notte riempiendo il fondamento.

Sabato 3 il card. Legato decretò che, in seguito alla visita da esso fatta nella fine dell’anno scorso alla chiusa di questo Castello, questa si abolisse nel luogo ove ora esiste, in confine del fondo detto Croce Coccona di Gio. Paolo Fabri, e in più che si chiudesse la strada che era stata introdotta nei suoi beni.

A Roma si era resa vacante la prefettura della pubblica Biblioteca Imperiale, per le dimissioni fatte dall’abate Pozzi, insigne letterato.  Sabato 10 fu quella conferita al dott. Don Paolo Dalmonte nativo di questo distretto, abitante da molti anni in Roma. Nacque egli nel fondo Granara, i primi studi li fece a Faenza con me poi passò a Firenze indi nella università di Pisa e poi a Roma. Fu sempre mantenuto a spese di suo zio Gio. Battista Dalmonte, fattore dei Malvezzi alla Toscanella.

Questa biblioteca è stata diretta dal celebre mons. Fontanini, da mons. Rechi, che morì poi vescovo di Ripatransone, da mons. Giorgi, fatto domestico dell’odierno papa, dall’Abate Ruggeri e finalmente da Don Pozzi olivetano, uomini tutti di gran dignità e forniti di gran sapere. Il detto Don Paolo fu portato a questo posto in concorso con otto soggetti di singolare merito col voto dei tre giudici di Rota che hanno il compito della nomina. Fu figlio di Sabatina Zuffa e Domenico Dalmonte ambo nati nel territorio di Dozza.

Il 24 si fece una bellissima mascherata di 19 persone, che rappresentava tutta l’arte della tessitura di seta e velami. Queste erano tutte vestite alla turca con una lunga veste di raso cremisino, poi le prime quattro fanciulle erano coperte di velo giallo da capo a piedi con un turbante in testa e precedevano le canelliere, indi le altre due che avevano i calcolcoli da piedi, dopo queste venivano altre quattro vestite di velo verde che avevano chi le spole chi i gassi chi i subbiotti e chi i pettini. Seguivano altre sei vestite di velo bianco avendo chi i rocchetti, chi una cosa e chi un’altra.  Finalmente venivano le maestre col capo, che erano vestite di velo color rosa. Una parte di queste innaspavano le sete, una parte le raccoglieva dai rocchetti e altre facevano cose simili. Il capo poi, che era l’ultimo, dispensava cartelli stampati con entro scritta: Fabrica nova di veli in Castel S. Pietro 1781 con il seguente motto.

Nessun più si lagni

che mercè il Boncompagni

risorge in questa parte

di seta la bell’arte.

Il 3 marzo fu terminato il lavoro del nuovo carcere e il 4 fu pubblicato l’indulto della carne per tutta la presente quaresima eccettuati solo i venerdì, i sabati, le quattro tempora, i primi tre giorni scorsi e gli ultimi tre della settimana santa.

Nello stesso giorno fu pubblicata la notificazione per la misurazione dei terreni in questo comune di Castel S. Pietro. Il 10 si cominciò la misura dai confini di Dozza e il perito fu Vittorio del fu dott. Giacomo Conti di questo Castello. Il 20 si misurarono le case del Castello, cosa che mai era accaduta dalla sua edificazione essendo sempre stato considerato Castel S. Pietro, in virtù del decreto di edificazione, come città.

Da quest’anno la nostra Comunità ha perso anche il diritto di fare il collettore.

Il primo aprile, domenica di passione, essendo stato collocato il miracoloso crocefisso di questa compagnia del SS.mo su un piedistallo che poteva essere portato da quattro persone si fece secondo il solito la solenne processione per il Castello e Borgo.  Il piedistallo era stato a foggia di machina inventato da Fra Ferdinando Del Buono laico cappuccino e celebre pittore di architetture, discepolo del famoso Ferdinando Bibiena.

Per l’addietro questa S. Immagine era portata in mano da un solo sacerdote. Questa fu la prima volta che fu portata sulle spalle da quattro persone, due delle quali erano sacerdoti che stavano davanti e di dietro due fratelli cappati. La funzione riuscì bella per l’infinito numero di lumi e le copiose benedizioni di confratelli e sorelle che si fecero per acquistare le indulgenze previste nei fogli di orazione distribuiti. Terminata la processione si diede la benedizione in mezzo la piazza, che in passato dava l’arciprete con l’immagine nelle sue mani e sulla soglia dell’oratorio. Eseguito ciò si procedette poi ad un copioso sparo di mortaretti.

Il 4 mercoledì di Passione, su le tre e mezzo di notte si sentì un forte rombo che parve un tuono e durò 5 minuti con una buona scossa di terremoto, ma che non fece molto male. All’inizio fu ondulatorio e poi infine sussultorio. Si seppe però la mattina seguente che era stato molto forte nella Romagna cominciando da Imola poi a Castel Bolognese ,con rovina di tetti, campanili e fabbricati, e infine nel territorio di Brisighella ove caddero moltissime case e così proseguendo nel resto della Romagna.

Domenica 6 maggio nell’oratorio della SS.ma Annunziata in questo Borgo si fece la festa alla sua S. Immagine.  Per tale funzione si usava mettere una piccola immaginetta con corona di fiori sulla porta della chiesa e si dava con essa la S. Benedizione. L’arciprete decise che si facesse la processione trasportandola dal Borgo in Castello.  Si fece perciò una funzione mai fatta in passato a memoria d’uomo e la fece l’Arciconfraternita del Rosario.

Martedì 8 sul pomeriggio, fu sospesa la chiesa del SS.mo, mediante manifesto affisso alle sue pareti, per la celebrazione di un processo criminale. Il motivo era che il cappellano di quella Don Luigi Jacenda aveva preso in chiesa una donna puerpera e l’aveva benedetta per purificarla secondo i riti della chiesa. Tale processo fu fabbricato dall’arciprete, quale vicario foraneo del plebanato, servendosi di Agostino Ronchi per notaio. Quindi il tutto fu spedito al Criminale di Bologna. Fu per ciò il povero prete inquisito e gli fu data la città per carcere e la sospensione della messa.

Per tal fatto il paese era tutto in sconvolgimento e mormorazione e tutti declamavano contro l’arciprete non senza ragione.

L’arciprete pretese che tutte le altre chiese fossero interdette e sospese per avervi ricevuto le donne puerpere e che era un diritto parrocchiale il benedirle e riceverle in chiesa. Sabato 12 fece ribenedire le chiese di S. Pietro, dell’Annunziata e di S. Caterina. Il fatto mosse la gente a credere che ciò fosse una falsità per far valere la sua prepotenza e fare proprio tale diritto per lucrare una miserabile candela di cera che era offerta da quelle donne. La chiesa dell’oratorio del SS.mo non fu ribenedetta perché l’arciprete lo voleva fare personalmente.  Però, essendo egli a Bologna, oggi domenica 13, restò quella chiesa chiusa e privata del bene spirituale.

Tutto ciò accadde per l’astio che ha l’arciprete contro la Compagnia del SS.mo perché vorrebbe obbligarla a cedere all’arciconfraternita del Rosario e perché vorrebbe in tutto e per tutto soppiantarla e levarle ciò che ha.

 Iddio, che vede il cuore degli uomini e li regola giustamente, assista ognuno affinché, oltre le continue mormorazioni e i peccati che già si fanno, non nascano mali maggiori!

Purtroppo la strada è già troppo aperta e facile.  L’arciprete ha ampio spazio essendo protetto dal sig. Arcivescovo e dal Legato E.mo Boncompagni.  Egli per ciò eccede i limiti del suo stato e del suo dovere, si fa un baffo di ognuno e non c’è parrocchiano che non abbia ricevuto non solo male grazie, che poco sarebbe, ma pure affronti e molestie. In questo modo rinuncia a vivere da Capo e luminare ecclesiastico del paese.

Il 19, il sabato avanti le rogazioni, il fratello dell’arciprete R. D. MauroCalistri, vestito coi sacri arredi, si portò alla chiesa del SS.mo a ribenedirla andando con Venerabile ed acquasanta in tutti quattro gli angoli della chiesa, poi vi disse messa.

Ciò fu una vera impostura poiché le chiese pubbliche non vengono mai interdette, né sospese per avere ricevuto in esse le donne puerpere secondo i canoni e le costituzioni.

La sera di questo giorno la compagnia portò Ia S. Immagine di Poggio per le rogazioni. Il 24, giorno dell’Ascensione, per la gran pioggia non si poté condurre via la S. Immagine né dare la S. Benedizione ma solo domenica 27.  La mattina alle 13 la si portò via senza dare la solita benedizione al popolo nella piazza pubblica. Ciò fu una vendetta dei preti contro la compagnia e mandarono via questa miracolosa Immagine come un qualsiasi ritratto.

Ieri sera, sabato 26 maggio, Remigia del fu Carlo Antonio Graffi, vedova del fu Francesco Cavazza, mia madre, donna di gran condotta in tutti gli affari che servono per sostenere e vantaggiare una casa, morì ai 3 quarti di notte senza agonia in età di anni 74 in osculo pacis e senza febbre. Fu il giorno della festa di S. Pasquale, uno dei suoi avvocati.  Dopo averle fatto fare devote novene, il giorno seguente fu portata al sepolcro in questa chiesa dei Padri Cappuccini

Il 24 giugno si fece la estrazione del Consolo per il secondo semestre e fu estratto il sig. Agostino Ronchi.

In questo tempo, il Consolo sig. Giovanni Calanchi aveva mandato un memoriale al Card. Arcivescovo contro il sacerdote Don Mauro Calistri, fratello del nostro arciprete, perché questi volle che fosse portata via la S. Immagine di Poggio nel modo che si è detto sopra. Il Sig. Cardinale, montò in collera per aver operato togliendo l’onore a Maria S.S. ed al culto a questa S. Immagine. Lo confinò a Bologna per 20 giorni con il precetto di doversi astenere di venire a Castel S. Pietro.

Il 3 luglio, prima domenica del mese, la processione generale, che si doveva fare il 26 scorso, giorno del Corpus Domini, fu fatta solo oggi nel quartiere superiore della via Maggiore. Le fraterie non vi andarono perché il parroco intendeva introdurre delle novità.

In questi giorni fu pubblicato un bando pontificio che stabiliva che le stoppie non si potessero tagliare se non dieci giorni dopo la mietitura. Nacque gran mormorazione nella contadinaglia e nelle padronanze tanto che ricorsero al Legato.  Nello stesso tempo si fece premura perché intervenisse sulla questua dei grani che facevano in questo territorio gli sbirri del vescovato. Il Legato invece emise una notificazione sul processo criminale.  La cessazione che si sperava non avverrà mai poiché questo è il secolo degli sbirri.

Contemporaneamente furono sparse due satire contro il Papa, la prima era una descrizione dello stemma pontificio esposta in questo distico.

Redde aquilam imperio, gallo quoque lillia redde

Sijdera redde polo, cetera brasche tua

Poiché lo stemma era corredato dell’aquila e aveva dei gigli, tre stelle e, in mezzo allo scudo, una testa di fanciullo che soffiava contro i gigli. L’altra è la seguente:

di Pio Sesto gli alti pensier son questi

vestir gli Gnudi e ricoprir gli Onesti

L’allusione è al nostro Gnudi di Bologna, che egli aveva arricchito, e ai conti Onesti uno dei quali ricopriva la carica di generalissimo dell’armi dello stato ecclesiastico con ragguardevolissimo compenso.

Nella Gazzetta di Firenze in data 30 giugno si ebbe la seguente notizia:

 Giunse notizia da Cadice come nel di 2 giugno dette fondo in quella baja la fregata da guerra olandese chiamata il Briel, quasi totalmente danneggiata in un combattimento avuto con un’altra nave inglese di 36 canoni nel dì 30 maggio  durò 4 ore continue. Nel tempo di detto combattimento il sig. Orthuis, capitano della Briel, diresse tanto bene il foco delle sue bordate, che recò danni grandissimi al nemico.  Lo si intendeva da lamentevoli gridi provenienti dalla fregata inglese e dalla quantità di sangue che vedevasi uscire dalla sopracoperta della med. Ma siccome il cap. olandese aveva parimenti a bordo molti uomini ammalati e trovandosi privo delli arbori maestro e di mezzana che si furono rotti, così non poté tentar l’arrembaggio della fregata nemica e stimò bene rifugiarsi nel porto sud. per riparare i danni sofferti. Morirono in questo combattimento navale dodici delli olandesi e 40 restarono feriti, era fornita di 36 cannoni e 300 uomini. L’inglese di 46 canoni e 400 uomini.

Nella nave olandese c’era Andrea di Rocco Andrini di questo castello con altri tre italiani. Questi quattro soggetti operarono gagliardamente e valorosamente e quindi, essendo rimasti illesi, furono remunerati per il loro coraggio. Se a questa nave non accadeva la rottura degli alberi si sarebbe impadronita della nave nemica. Così scrisse anche l’Andrini.

Il 29 luglio questi Minori osservanti. di S. Francesco fecero un solenne ringraziamento nella loro chiesa, apparata sontuosamente, a S. Francesco Solano con fuochi artificiali, batterie di mortaretti e illuminazione a giorno di tutta la contrada. Sopra la porta della chiesa vi era la seguente iscrizione:

D.   O.   M.

Divo

Francisco Solano

quod eius ope et auxilio

oppidum hoc

magnis terremotibus contremiscens

staterit

vota solemnia piorum aere

solvuntur

Vi fu gran concorso di forestieri.

Si erano rifugiati a Castel Bolognese sette banditi di Falamello, che in un combattimento contro trenta sbirri della legazione di Ravenna ne avevano uccisi undici. Per estirpare questa gente, venne avviso a questo capitano Piragi di spedire due picchetti di soldati, in numero di 14, a Castel Bolognese, scortati dalla sbirraglia. I banditi però erano già partiti e altro non seguì. Costoro venivano accompagnati da grossissimi cani corsi, che col fiuto individuavano gli sbirri e guerreggiavano al pari degli uomini, onde erano una gran difesa agli stessi banditi.

 In questo mese fu pubblicato un bando sopra un contagio negli uomini dalla parte degli ottomani. Lipsia e i veneziani avevano tirato un cordone difensivo.

Il 18 agosto venne un notaio del Torrone per nome Girolamo Martelli e, portatosi alla casa di Ser Francesco Conti, gli fece una rigorosa perquisizione alle carte. Il Conti vedendosi gli sbirri in casa, col pretesto di un bisogno corporale, uscì e fuggì nel convento di S. Francesco. In seguito si cominciò un processo rigoroso contro di lui per la sua condotta e la sua vita. Furono molti gli esaminati ed alcuni, non creduti nel deporre, furono carcerati e dopo diversi giorni poi rilasciati. Durò la procedura con la Cavalcata più di 15 giorni.

Il 29 settembre la Comunità determinò di fare dei nuovi comunisti.

Essendo stata affittata la gabella di Bologna al firmiere Conte Francesco Galantini, il primo ottobre si cominciò il nuovo metodo di fare una sola bolletta di tante che se ne facevano prima.

Il 29 novembre venne lettera della Assonteria alla Comunità in cui si ingiungeva di sospendere la nomina del medico Dott. Giuseppe Muratori. Poi si scopri che era stato dato un memoriale al sig. Cardinale a nome del Console Agostino Ronchi e del popolo in cui si esprimeva la inabilità del  medico e sua elezione simoniaca.

Il giorno d’ogni santi la Comunità scrisse alla Assonteria che il Consolo negava assolutamente averlo fatto o sottoscritto e che pregava la stessa Assonteria di provvedere per il castigo del delinquente. Il 9 si deliberò per il medico, in seguito a nuovo ordine, ed ottenne la conferma per un triennio.

Nello stesso tempo, era venuto un notaio criminale del Torrone a indagare sulla uccisione di un figlio di Giuseppe Cenni, contadino della Maranina, morto per una sassata in testa ricevuta da un figlio di Stefano Emiliani, detto di Sfirone o Seveione, gran bestemmiatore.  Questo notaio cominciò ad indagare anche sopra il memoriale inviato al sig. Cardinale e a cercar di individuare la scrittura. I sospetti furono sopra lo speziale Luigi Grandi per avere sparlato contro il medico.

Il Consolo non andò esente da sospetto. Si pensò però, per opinione corrente, che fu difeso e protetto dall’arciprete , grande amico dell’Eminentissimo.

Il 16, sull’imbrunire del giorno, fu carcerato il sig. Antonio Bertuzzi e condotto la mattina seguente alle carceri di Bologna. Il motivo di tale carcerazione non si sa, ma si teme che abbia sparlato del principe o che sia interessato nel memoriale.

Il vivere d’oggi giorno in questo castello è molto tristo non essendovi che odi a molti del corpo comunitativo per il tentativo del parroco di impadronirsi di un fondo della Comunità.

 Ma che si deve fare in circostanze ove regna di più la potenza che l’equità e la convenienza? Il parroco è sommamente protetto dall’E.mo Arcivescovo Giovanetti e dall’E.mo Legato. Non si può che credere diversamente e solo sperare.

Nella nuova campana c’è il nome e cognome dell’odierno arciprete che in cambio ha dato al fonditore la campana grande di S. Caterina, che era dell’amministrazione. C’è pure il nome dell’abate Don Francesco dalle Vacche perché vi ha messo di proprio trecento lire, due verghe di argento che erano destinate a far candelieri per la famiglia e molto ottone rotto. La campana è riuscita di 750 libbre ed è costata 180 scudi romani.

Il 17 dicembre fu estratto Podestà di Castel S. Pietro il senatore marchese Francesco Ghiselieri, fu nominato suo notaio Zenobio Teodori, che si fece sostituire da me Ercole Cavazza.

Il 18 fu esposto il quadro all’altare dei Graffi nella arcipretale, rappresentante S. Francesco di Paola e S. Rosa di Lima, opera del bolognese Giacomo Calvi, detto il Sordino[11], uno de maestri della Accademia Clementina di Bologna.

Il 27 dicembre fu estratto Consolo per il primo semestre 1782 il sig. Cap. Lorenzo Graffi.

1782

Contrasti tra il papa e l’Imperatore su libertà religiosa. Papa passa per Castello nel viaggio a Vienna.Apertura nuova porta sotto la torre. Papa ripassa da Castello. Vicende notaio Conti. Campana orologio piazza portato sulla torre per nuovo orologio.

Il primo gennaio si fece la solita processione di Maria SS.ma del Rosario in questa arcipretale e si trasportò la sua S. Immagine all’altare maggiore. A questo punto l’arciprete, dopo un lungo discorso, fece una imborsazione di varie persone da lui scelte per una compagnia larga del SS.mo. Fu estratto per priore il sacerdote D. Francesco Trocchi e priora la signora Mariana Silvetti moglie del sig. Agostino Ronchi. Quale impressione fece tale novità ai malcontenti si lascia solo considerare.

L’arciprete fece ciò valendosi dei decreti fatti dall’E.mo Giovanetti nella sua visita pastorale, come pure dei poteri ad esso dati come Commissario Giudice inappellabile, tanto per l’Arciconfraternita del Rosario che del SS.mo e per la vertenza in Roma agli atti Amati,

Domenica 6 si diede esecuzione a quanto fatto e andarono in processione i nuovi ufficiali e, per la assegnazione dei posti, seguì qualche mormorio.

Il 13 venne lettera dell’Assonteria di Governo che era stato eletto per presidente agli affari di questa Comunità il sig. senatore conte Ovidio Bargellini.

Contemporaneamente venne ordine dal cancelliere di Governo diretto a questo Consolo di fare accomodare, nel termine di tre giorni, la via romana per il tratto passante per il nostro comune.  Così fu eseguito anche da tutte le altre comunità lungo la via consolare.

Il motivo di ciò è che sarebbe passato da queste parti l’Imperatore della Russia[12], figlio della potentissima zarina moscovita[13], che pochi anni fa fece tremare il turco. In quella occasione, se si fosse unito l’Imperatore d’Austria, si poteva annichilire quel potentissimo Cane. Il motivo del passaggio di questo signore è ancora segreto ma si pensa di grande importanza per tutto l’universo, considerata la discordia esistente fra i principi cristiani.

Giovedì 17 venne alla visita della strada il marchese e senatore Ferdinando Marescalchi, ex Confaloniere, con l’architetto Giacomo Dotti e trovò tutto a posto. Il 22 d. venne la contro visita alla strada.

Martedì 29 sul colpo del mezzogiorno arrivò e passò di qui l’imperatore per nome Paolo Petrovitz, figlio di Caterina seconda, attuale regnante che fece uccidere il marito per avere tentato di ripudiarla. Aveva con sé la moglie, bellissima giovane di nome Sofia di Wuttemberg[14] che mutò il nome in Maria Fedorovna.  Si disse che viaggiavano l’Italia come fuggiaschi dalla Caterina che li aveva preso in sospetto[15].

Fu pure ragionato che, in questo frattempo, l’Imperatrice avesse fatto morire gli istitutori di questi principi. Erano, come vidi, di statura mezzana, di bellissima carnagione e capelli biodi, erano soli in una carrozza vestiti semplicemente ed avevano a fianco due staffieri a cavallo vestiti di rosso, guarniti ad oro alla francese. Il loro arrivo fu preceduto da vari carriaggi, poi da 10 carrozze che erano contrassegnate da un numero che avevano i postiglioni sul capello. Il numero del principe era l’uno. Il convoglio, contando anche i cavalli e i corrieri, era composto da più di 400 soggetti che erano stati presi dai vetturali di posta e dagli osti e tavernieri. Durò il passaggio scaglionato e non di seguito per lo spazio di tre ore.

In questo tempo fu graziato dalla fortezza il sig. Bertuzzi, con la pace della Comunità, per l’affare del memoriale fittizio. Ma poi il vescovato cominciò a processarlo a causa di un memoriale simile, a nome però di Paolo Bertuzzi, dato all’Arcivescovo contro Don Baldassarre Landi  accusato di amoreggiare con le sorelle Vacchi, attaccando anche l’arciprete per questo.

Il 31  Don Giuseppe Conti prese a Bologna la laurea dottorale in teologia sotto la scuola del dott. Don Gio. Battista Dall’Oca celebre teologo e letterato pubblico di Bologna, esaminatore sinodale e canonico di S. Petronio.

L’Imperatore latino o sia austriaco Giuseppe secondo[16] figlio della piissima e cattolica imperatrice Maria Teresa d’Austria, per assecondare i suoi consiglieri, aveva concesso nel suo regno che ciascuno potesse professare quella religione o setta che voleva, degenerando così dal cattolicesimo, quasi professando il protestantesimo. Il primo febbraio fece perciò sciogliere di sua autorità molti conventi di monache di clausura e conventi di frati. In tutto il regno ne lasciò solo due, uno fu il monastero delle monache di S. Elisabetta per esservi una sua sorella.

Ordinò che tutti i vescovi potessero dare tutte le dispense anche se riservate al papa. Ordinò che tutte le scuole potessero ricevere cattolici, ebrei, scismatici ed ogni altra sorte di persone e religioni. Ordinò che alle cariche pubbliche potessero aspirare in egual gara tutte le sette.

In vista di queste novità il Pontefice non mancò di ammonirlo e si dispose ad andare a Vienna per ricomporre il tutto. l’Imperatore fece sapere al Papa che se veniva a Vienna sarebbe stato accolto secondo il suo grado e la sua carica sempre che la sua andata non fosse diretta a fargli revocare quanto aveva ordinato.  Infatti perché non voleva muoversi dalle leggi da lui fatte perché erano, a giudizio di savi, dotti e giurisprudenti, fondate sulla equità, la giustizia, la legge di natura e divina e perché così richiedeva la ragione della legge civile.

A tali novità le corone elettrici si indispettirono. il Re prussiano Federico secondo[17], uomo di grande intelligenza, sebbene scismatico e di animo bellicoso, fece convertire un suo nipote al cattolicesimo per mezzo di un ex gesuita imolese fatto venire a Berlino a spese regie. Questo allo scopo poi di farlo come Imperatore cattolico e coronarlo della corona di Re dei romani. Si allearono con la Prussia, la Spagna, la Francia,l’ Inghilterra e altre corone elettrici e cattoliche.

Per tali novità che si vociferavano si crearono non pochi disturbi nella chiesa cattolica e timori in tutta la nostra Italia per paura di una irruzione di popoli barbari, poiché se ne vedeva il rischio. Il Papa non poté non risentirsi e fare nuovamente apostoliche lagnanze all’Imperatore.  Riuscì tutto vano e allora il papa decise di recarsi, senza pompa, a Vienna.

Il sig. Antonio Gnudi scrisse al S. Padre sulle storie che si sentivano su questo viaggio. Il Papa gli rispose che tutto era vero, come dalla lettera che abbiamo avuto in copia.

Il 16 febbraio il Papa convocò un concistoro per decidere il viaggio.

In seguito di ciò il Senato mandò ordine, per mezzo dell’Assonteria delle Acque, a questo nostro Consolo di dovere accomodare la via romana. Questi tosto ordinò che tutti i contadini si portassero al lavoro come poi seguì.

Domenica 3 marzo, prima domenica del mese, essendo già stato pubblicato l’indulto per la carne d’ogni sorte, il Vescovo ordinò per lettera circolare di fare devozioni penitenziali per le presenti urgenze di S. Chiesa, affinché vadano a buon fine.

Il 4 passò il senatore Giambeccari col corriere del Gabinetto di Spagna che andò alla volta di Cesena a fare i complimenti al Papa a nome di quella corte. Contemporaneamente il 5 passò il Legato Boncompagni ad incontrarlo e la mattina stessa venne l’architetto pubblico Giacomo Dotti col senatore Marescalchi a visitare la strada pubblica, giacché il papa era ormai presso Cesena. La sera arrivarono due carri di fucili e mostrine per i soldati e tutto fu collocato nel palazzo Malvezzi.

Giovedì 7 venne l’avviso che il papa era già a Imola, alloggiato nel palazzo vescovile da suo zio. Perciò qui vennero tutti i soldati soggetti a questo capitanato ed alloggiarono tutti nel palazzo Malvezzi entro il Castello presso la torre.

Venerdì 8 sull’aurora si cominciò a batter la grancassa e alle 15 ½ tutta la truppa di 100 uomini, un terzo dei quali erano granatieri e gli altri fucilieri tutti bene dotati d’armi e marsine, si avviarono al loro posto. 40 fucilieri, preceduti dal capitano Pier Andrea Giorgi e dal sergente Sante Facendi, partirono dal palazzo Malvezzi e si incamminarono alla volta del Borgo. A questi si unirono 24 granatieri giunti dalla casa del capitano Lorenzo Graffi che era accompagnato dall’alfiere Fedele Gattia e dal sergente Giosuè Castellari. Finalmente  seguì l’altro corpo di fucilieri preceduto dal tenente Francesco Conti con il sergente Filippo Grandi. Ognuno di questi corpi aveva il suo tamburo e gli zufoletti.

Uniti così questi tre corpi di truppa si incamminarono alla volta del Borgo. Da qui il corpo condotto dal cap. Giorgi andò alla posta della Osteria Grande presso la Quaderna, l’altro dei granatieri, condotto dal Graffi, andò a capo del Borgo verso il Portone e si piazzò nella piazzola interna ove si schierò e presentò l’armi. L’ultimo corpo di fucilieri, condotto dal tenente Conti, andò al confine del nostro comune con la Romagna e qui si fermò.

Alle ore 18 ½ arrivò il Pontefice in una carrozza a vetri, vestito di bianco con la mantelletta rossa ornata di ermellino e cappello rosso. Era visibile a tutti e dava al popolo genuflesso la benedizione. I soldati genuflessi presentarono l’arma e ricevettero la benedizione. Tutte le campane del paese suonavano i doppi. Così passò andando alla volta di Bologna, aveva con sé quattro carrozze con dentro prelati e cappellani. Il Pontefice è uomo grande, bello, affabile ed umile degnando di parlare con tutti.

Sabato 9 a Bologna si pubblicò un amplissimo giubileo da cominciarsi il giorno 10 fino a tutto il 24 corrente, domenica delle Palme, con obbligo di solo tre giornate di vigilia e digiuno cioè mercoledì, venerdì e sabato.

I giorni 11, 12, e 13 questi frati di S. Bartolomeo con la compagnia del Suffragio delle Anime Purganti, fecero un solenne triduo in onore di S. Nicola da Tolentino per i presenti bisogni di S. Chiesa. Ogni sera si dava la benedizione col Venerabile e l’ultima sera anche con la immagine di S. Nicola.  Ci furono anche qui grandi illuminazioni.

Il 17, Domenica di Passione si fece la solita processione con l’Immagine del Cristo non velato. A questa funzione e processione intervenne la Arciconfraternita del SS.mo Rosario con le solite divise, formalità e precedenze vecchie, così che ritornò la pace e la concordia fra questi due corpi ed il paese restò molto sollevato.

Il 19, mentre era convocata la Comunità per altri affari si apprese che il sig. card. Legato aveva donato 50 scudi a questo paese, 25 dei quali per l’Ospitale degli infermi e 25 per i miserabili che chiedevano l’elemosina. Tali danari provenivano dalla condanna fatta a tutti i pollaroli che avevano comprato in questo mercato prima che fosse stata alzata la solita banderuola. Per tale grazia la Comunità porse i suoi ringraziamenti al porporato. La stessa  poi pregò l’Assonteria di Governo per fare un nuovo orologio.

Il 25, giorno della SS.ma Annunziata, lunedì della settimana santa, tutti i poveri mendicanti, tanto del Castello che Borgo, erano andati processionalmente alla visita del SS.mo e vi avevano fatto un ora di orazione.  Terminata questa ritornarono alla chiesa della SS.ma Annunziata ove fu loro dato quattro soldi per ciascuno. Simile elemosina fu fatta il giorno dopo in simile modo alle povere donne mendicanti così che tanto gli uni che le altre ebbero la elemosina che fu dispensata dall’arciprete con i danari di sua Em.za il Legato.

Nello stesso tempo furono presi, dal tenente degli sbirri, tutti quelli che avevano letami per il Castello e pietrisco nelle vie pubbliche e immediatamente fu pulito tutto il Castello e Borgo dalle immondizie.

Il 10 aprile si trovava questa fonte della Fegatella assai malmessa nella parte posteriore a causa della via pubblica che vi passa vicino. Il Senatore Conte Giuseppe Malvasia fece istanza all’Assonteria di Governo affinché facesse accomodare questa strada. Quindi il 18 fu fatta selciare in calcina e sassi la via per un tratto di 4 pertiche quadre a spese di questa comunità e fu posta la spesa in comparto.

Il 20 fu pubblicato un bando d’ordine pontificio nella terra di Dozza, per la abolizione di quella riserva di caccia a motivo dei gravi danni che provocavano lepri e volpi nei seminati. Tale bando fu emesso dalla legazione di Ravenna per i ricorsi fatti alla S. Sede. Il Bando fu stampato a Ravenna il 13 aprile.

Sabato 4 maggio, per la gran pioggia, che continuava da molti giorni, il cap. Lorenzo Graffi era andato a prendere l’Immagine SS.ma di Poggio con una carrozza coperta. La mattina del 5 maggio, giorno di domenica prima delle S. Rogazioni, la nostra Comunità in forma si recò a prendere la Santa Immagine con la compagnia del SS.mo. alla quale l’Immagine fu donata fino dal 1553 come si rileva dai suoi statuti.

In tale occasione questa, memore di sì grazioso regalo, ha spiegato una bellissima insegna o bandiera a scacchi bianco e turchino. Da una parte era dipinto il SS.mo SS.to e dall’altra parte l’arma di questa comunità. Fu levata la processione dalla parrocchia col corpo comunitativo e fu portata con numeroso popolo alla chiesa della compagnia. La insegna era al termine della schiera della compagnia e, giunta nella sua chiesa, è stata piantata in cornu evangeli sopra la spalliera fatta per il corpo comunitativo che ha qui ascoltato la messa solenne in musica.

Mercoledì 22 maggio, giorno dopo le Pentecoste, fu aperta la nuova porta sotto la torre e quindi fu tolta di terra che vi era stato posta dentro quando fu chiusa e venne una bella veduta al paese.  Fu fatto il seguente epigramma lodante la premura della nostra Comunità con i suoi dodici comunisti non meno che la gentilezza del senatore Malvasia per avere accordato la torre in enfiteusi perpetua.

Quam bone stat nostri recte modo semita Castri

dum vetus obstructum nunc resseratur iter

(…) igitur faciles per comoda tanta parentes

atque viris duedecem plausus ubique detur

nec sileant gentes bona Malvasia do acta

sed parili plausu perpetuoque canant

Il 23 il Papa di ritorno dall’Austria giunse a Bologna ove riposò fino a sabato  25 maggio.  La sera sulle 23 giunse a questo Borgo apparato con cesti sopra la strada corriera. All’ingresso del  Borgo, dalla parte verso Bologna, vi fu fatta un arco trionfale addobbato tutto di broccato turchino ed argento per cui, calando il sole da quella parte, il riverbero dei suoi raggi impediva di fissare lo sguardo. Nella sommità vi fu messa la seguente inscrizione:

Quisque Pium plaudet et totum fama per ordem

virtutum laudes, et sua facta canat.

Appena entrato fece andar piano i cavalli affinché, seduto nella carrozza, potesse saziare l’ingorda vista dell’affluente numeroso popolo concorso a ricevere la S. Benedizione.  Così fu riverito fino fuori di tutto l’abitato ove, sollecitati i cavalli, se ne andò ad Imola.

 Questa nostra truppa lo incontrò alla Posta della Osteria Grande, ove si cambiano i cavalli.  Era composta di granatieri e condotta dai capitani Graffi e Giorgi.  L’altro terzo di fucilieri stette nel mezzo di questo Borgo, condotto dal tenente Francesco Conti, l’ultimo terzo fu al nostro confine con la Romagna, condotto dall’ajutante maggiore Dall’Armi di Bologna, presidente di questa nostra milizia.  

Il Papa fu preceduto dai cavalleggeri di Bologna ed accompagnato sempre per tutta questa nostra giurisdizione. C’erano qua e là gruppi di soldati a cavallo detti di Manino a certe imboccature di strade. Nella sua carrozza aveva due cardinali cioè Caraffa e Dalle Lancie, dietro di loro in altra carrozza seguì il nostro Legato.

Gli evviva che si alzavano dal popolo assordavano l’aria per modo che non si potevano sentire i doppi di tutte le campane.

La nostra Comunità, oltre ad avere concorso alla spesa dell’apparato nel Borgo, fece fare trenta spari fra spingarde e cannone, preparato dal nostro capitano Graffi, al cui rimbombo rispose la rocca di Dozza e così si diede il segnale agli imolesi della venuta.

 Il Pontefice, contento di questa dimostrazione, si volgeva ora da un canto ora dall’altro della sua carrozza e benediva le genti genuflesse che, per devota tenerezza, piangevano.

Lunedì 27, essendo venuto l’uditore criminalista Fabbri col notaio Girolamo Mastrelli della Curia del Torrone di Bologna, fu cominciato un nuovo processo contro il notaio Francesco di Lorenzo Conti già rifugiato in S. Francesco. Questo dopo aver sfondato la sua porta di casa, fatto una perquisizione e levate alcune matrici di rogiti che si supponevano da lui falsificati.

Il Conti continuò a stare ritirato in S. Francesco e, appena partita la curia, se ne fuggì a Dozza dove stette alquanti mesi. Quindi, vedendosi pure qui poco sicuro, andò ad Imola dove rimase fino a che si accordò col tribunale di Bologna.

Domenica 7 luglio il sig. Ottavio Dall’Oppio, Consolo per questo secondo semestre, prese il possesso formale del suo consolato e successivamente andò con la Comunità in forma alla visita di S. Bernardino alla chiesa di S. Francesco ove ascoltò la S. Messa solenne.  Quindi nella residenza pubblica fu fatto un bel rinfresco di cioccolata e dolci e dispensate braciadelle ai comunisti e, mentre che ci si godeva il rinfresco, vi fu una lunghissima sinfonia di strumenti.

Il 20, sabato notte venendo alla domenica, su la mezza notte, il notaio Francesco Conti sloggiò dal convento di S. Francesco e se ne andò nella Romagna. Così fece Luigi Grandi dal convento dei cappuccini e se ne andò a Rimini.

Il 22 la Comunità aveva concesso il teatro gratis ad una compagnia di musici che rappresentava drammi gioiosi. Mercoledì 24,  vigilia di S. Giacomo e S. Anna, andarono in scena. Per tale opera vi concorsero la prima sera molti signori forestieri quantunque fosse il teatro piccolo.[18]

Lo stesso giorno la mattina venne l’E.mo Card. Legato Boncompagni a Castello. Andò ad abitare nel palazzo Calderini ove era la marchesa Cospi Ghisellieri.  Qui pranzò e stette fino alle 3 di notte poi andò alla fonte della Fegatella accompagnato da questo arciprete Calistri e la sua chieresia, dal sig. Flaminio Fabri e dal cap. Lorenzo Graffi in qualità di comunisti e quindi partì per Bologna.

Il 22 ripassò l’E.mo Legato per Imola e nel suo ritorno fece sapere alla Comunità che voleva si accomodasse il selciato di tutta la via maggiore del Castello e si coprissero le due chiaviche di fronte alla chiesa. Di ciò ne fu dato l’avviso all’Assonteria.

Lunedì 5 agosto di sera, per il caldo eccessivo, accadde che, essendosi fermato, per il gran calore sofferto dai carrettieri, alla possessione Colina sopra questo Castello un carro di strame vallivo per trasferirlo al luogo Castellaro, su le cinque di notte si accese talmente che non fu possibile ad alcuno smorzare il fuoco. Così restò bruciato tutto il carro e il carico. Corsero pericolo gli edifici vicini, che furono difesi con lenzuoli bagnati in acqua dalla gente accorsa al suono della campana.

Martedì 6 su le 15 morì Giuseppe Castelli di questo Castello, famiglia ricca ma non di grande mostra esteriore.  Così restò estinta essendo rimasto superstite il solo Battista, padre ottuagenario con due figlie nubili cioè Giuditta e Giacoma.  Fu sepolto nella chiesa di questi Padri Cappuccini.

Il 17 agosto alle due e mezza di notte si sentì sensibilmente il terremoto.

Si sentono una infinità di storie per l’universale influenza. A Bologna si contano più di 8 mila malati, in questa parrocchia di Castel S. Pietro più di 400.  La causa si attribuisce agli eccessivi caldi venti sciroccali oppure al fatto che da primavera a questa parte, non si è avuta pioggia e la terra è arsa e quando è giunta un poco d’acqua è stata accompagnata sempre da forti tempeste.

Domenica 26 il dott. Luigi di Giuseppe Farnè di Castel S. Pietro aveva concorso, con nove concorrenti, alla chiesa arcipretale di S. Lorenzo di Varignana. Ottenne esso il più bel risultato sebbene i suoi competitori fossero uomini di merito.  Così fu fatto arciprete e vicario foraneo di quella antica terra, succedendo al dott. Gio. Rafaele Manarini.

Mercoledì 25 settembre, fu levata la campana dalla torre dell’orologio della piazza e fu trasportata nella torre sopra la porta per servire per il nuovo orologio da collocarsi nella torre. Questa campana fu rifusa nel 1754 sotto il consolato di Vincenzo Antonio Vanti, quantunque non sia citato nell’orlo della campana. Fu fatta a spese della podesteria ed accresciuta di 100 libbre onde è ora trecento libbre.

Nella torre della piazza vi fu collocato un nuovo orologio più piccolo con una nuova campanella di 68 libbre pagata dai signori consiglieri cioè: il cap. Lorenzo Graffi scudi 10, sig. Gio. Calanchi scudi 4, sig. Ottavio Dall’Oppio scudi 4 ½ ed Ercole Cavazza scudi 4 ½. La spesa dell’orologio piccolo fu di scudi 11, quella della campana l. 20 o siano scudi 14, così non si toccò la cassa della Comunità. Siccome nella campana non c’era scritto alcun nome in memoria così, essendo Consolo il sig. Dall’Oppio vi fu incisa la seguente scritta:

Consula

P.S. OCT. AB OPIO

1782

A differenza dalla iscrizione nell’altra campana che non indica se il Consolo Vanti fosse del primo o del secondo semestre, in questa si sono messe le lettere iniziali P.S. significanti pro secundi.

 Domenica 6 ottobre, giorno dedicato alla V. SS.ma del Rosario, l’arciprete Don Luigi Farnè fece la sua prima solenne funzione nel Castello di Varignana con singolare pompa e decoro.

Nello stesso giorno a Castel S. Pietro la mattina si fece la solenne processione del SS.mo. In questa occasione si lasciò aperto il passaggio nuovo sotto la torre. Il dopo pranzo si fece la processione con la Immagine della Madonna del Rosario.  A questa funzione intervenne anche la compagnia del SS.mo SS.to con lumi e soldatesca. Anche alla mattina la funzione del SS.mo fu scortata e fiancheggiata da un corpo di granatieri di questa nostra milizia, condotta dall’aiutante maggiore Mezzopiedi di Bologna, dai capitani Graffi e Giorgi e dal tenente Francesco Conti, che procedevano ad arma bianca sguainata e con le loro bandiere spiegate.

La festa era un gran bel vedere.  Sembrava esserci una truppa di tre reggimenti.  La sfilata era composta dalla Compagnia del Rosario vestita con sacco turchino e mozzetta rossa, preceduta dal gonfalone, dalla Compagnia del SS.mo vestita con sacco bianco e mozzetta turchina con la bandiera dell’arma di questa Comunità e dalla truppa militare vestita con uniforme bianca e verde.

Il 7 d. venne avviso che l’arciprete di S. Martino in Pieve di Riolo sotto questo nostro comune, di nome D. Domenico Cervellati bolognese, era morto a Bologna.

Si incominciò in questo giorno a formare la mostra per l’orologio nella torre sopra la nuova porta e fu terminata il 15, fu poi dipinta da Luigi Pavani, orologiaio bolognese. In questo periodo ci furono venti fortissimi che scoprirono le case e facevano perfino tremare la terra.

Il primo novembre cominciò a piovere lentamente ma poi, dopo tanto tempo di siccità, venne una pioggia così grande che la corrente del Sillaro portò via la metà della chiusa e in conseguenza la gente non poteva macinare.

Il raccolto era stato molto scarso, tolto il grano che fu mediocre.  Fu chiuso il libero commercio con la Romagna onde, scarseggiando tutto ed essendo ferme le arti della canapa, lunedì 25 novembre, festa di S. Caterina, il grano si è venduto a trentasette paoli la corba ed il formentone trentadue.  Gli altri generi alimentari non si trovano e, quello che è peggio, le carni porcine non sono che ossa per essere mancate le ghiande per cui c’è carestia di tutto.

Lunedì 16 dicembre, festa di S. Floriano, cominciò una forte nevicata e durò fino a mercoledì. In questo giorno fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il cav. sig. Giovan Battista Sampieri che nominò suo notaio il dott. Paolo Ragani.

Lunedì 23 si vide finalmente il sole.  Dal 18 ottobre scorso era sempre stato il tempo nuvoloso e quando si giungeva al lunedì sempre pioveva e non si faceva il mercato.

Oggi si è venduto il grano a l. 20, il formentone a l. 17: 11 e, quello che è anche peggio, la carne porcina l. 20 il cento né si fanno candele e vi molta protesta negli artisti ed in tutti.

Il 27 dicembre, secondo il solito, fu fatta l’estrazione del Consolo e uscì Vincenzo Mondini che era morto due giorni prima. Si procedette all’estrazione di un altro consigliere e fui estratto io Ercole Cavazza. In tale occasione suonò la campana della torre per la prima volta e per la estrazione, non ostante che sul mezzogiorno fosse stata suonata la campana grossa nel campanile pubblico della parrocchia secondo l’uso antico e la consuetudine.

1783

Baruffa di due castellani a Castel Guelfo. Inizio funzionamento orologio con due sfere sulla torre. Inizio basamento colonna in piazza. Sen. Malvasia si fa padrone della fonte Fegatella.

Domenica 5 gennaio cominciarono le missioni che furono fatte dal Dott. Innocenzo Lollini bolognese, già arciprete di Mascarino, dai catechisti Don Giuseppe Dal Bello Don Luca Bortolotti e dal dott. Antonio Grossi, coadiuvati da Venceslao Bragaglia e Giovanni Mazzoni, tutti preti bolognesi.  Durarono fino al 15 gennaio.

Il 16 gennaio fu pubblicato il Bando di esenzione dal Dazio Orto, ma questo nulla servì a Castel S. Pietro dato che il paese era di già esente e ne pendeva la causa a Roma e a Bologna.

In questo mese furono carcerati a Castel Guelfo Andrea Neri detto Campanone e un certo Quartieri detto Bagaruto, cognati tra loro.  Questi erano fuggiaschi dal paese, per sospetto di ladrocinio, ed erano andati a Castel Guelfo.  Per il freddo erano entrati in un’osteria ove si presentò quel Bargello che chiese loro cosa facevano da quelle parti.  Risposero che volevano riscaldarsi e che nessuno glielo poteva vietare non avendo fatto alcuna mala azione ad alcuno in quel luogo e che erano senza armi.

Il Bargello replicò che ciò non ostante se ne andassero.  Si considerarono offesi, presero il Bargello e lo misero di traverso sul focolare, poi uno accese il fuoco mentre l’altro teneva fermo il Bargello sopra il fascio di vite acceso.  Alle grida ed alle raccomandazioni accorsero l’oste ed altri.  Lo rilasciarono disarmato con patto di non essere più molestati.

Il Bargello non rispettò la promessa ma riunì gli altri sbirri e gente al suono della campana. A tale novità, arrabbiati come fieri leoni, i due cognati uscirono in campo aperto nella strada e, dato mano ai sassi, non la perdonavano ad alcuno. Fu fin chiusa la porta del Castello per timore che non li inseguissero fin dentro. Così restarono chiuse per buon’ora tutte le porte dei borghesani per paura di codesti disperati.

Calmatosi alquanto il loro furore, ma non estinto, fu poi aperto il Castello e organizzata una sortita di sbirri e popolo armato per fermarli con uno sforzo maggiore. Iniziò una fierissima baruffa di sassi tanto che il castellano fece appena in tempo a chiudere la porta mentre da ogni parte ognuno se ne fuggiva e sembrava il giorno del giudizio per quel paese.  I due, fattasi ormai sera, se ne partirono e si rifugiarono in quella campagna ove poi furono presi a tradimento dalla sbirraglia di Bologna.

In questo mese ci fu gran mortalità in questo Castel S. Pietro ed ogni giorno vi erano tre o quattro morti. Morirono dal tempo delle missioni fino alla fine del mese 60 persone fra grandi e piccoli e fra questi morì Don Domenico Lugatti che ai suoi giorni fece tremare la Corte di Bologna e morì con lui anche Don Giovanni Tomba.

Martedì 4 febbraio l’orologio grande andò sulla torre e cominciò a battere il giorno successivo le ore con ambedue le sfere.

Il 19 marzo venne una grossa neve su queste colline a cui successe uno scirocco che la sciolse e vennero grosse piene nei rii e nel Sillaro.

La sera del 18 aprile dopo l’ora si fece un Accademia Letteraria nell’oratorio del SS.mo, che erano cinque anni che non si faceva.

 In questa giornata il grano fu venduto, come il lunedì scorso, quaranta paoli la corba e trentatré il formentone. L’annata era stata scarsa di viveri e aveva prodotto carestia fino nelle uova che si pagavano un baiocco la coppia. Oggi si sono vendute a nove quattrini la coppia.

Questa Comunità aveva spedito all’E.mo Legato Boncompagni, che era a Roma presso il Pontefice, una supplica per ottenere un sussidio annuo pecuniario dalla Comunità di Medicina.  Infatti quella contava oltre dieci mila scudi di rendita di beni allodiali e la nostra non contava che gravezze e povertà. Tale memoriale fu accompagnato da una lettera di raccomandazione di questo nostro arciprete Calistri che è, per così dire, nel cuore dell’E.mo Legato e ciò fu fatto con la maggior segretezza possibile.

In seguito venne la risposta che, ritornato in provincia, avrebbe preso le dovute informazioni e secondo le stesse avrebbe risposto.

In questo tempo morì a Roma un uomo in concetto di santità avendo dopo morto operato dei miracoli.  Era di nazione francese e si chiamava Benedetto Labrè[19].

L’Imperatore austriaco si allontanava sempre più dalla soggezione alla chiesa latina. Nei suoi stati disponeva a suo talento dei diritti degli ecclesiastici, opprimeva conventi di frati, incamerava i loro beni. Faceva uscire dai monasteri le monache rimandandole alle loro case. Finora ne aveva distrutti 27. Le altre leggi che sta promulgando non tendono ad altro che ad impadronirsi dei beni ecclesiastici. Per il suo distacco dal cattolicesimo viene detto il secondo Giuliano l’Apostata.

La chiesa per ciò è in sofferenza in quelle parti settentrionali e le sue volontà si vanno propagando anche in questi stati italiani a lui soggetti. Perciò si crede che si stia verificando la profezia avuta da S. Margherita da Cortona.

Il Papa, prendendosi il tutto con indifferenza, badava solo a tassare i sudditi e i suoi stati per seguire dalla gran sacrestia di Roma le irrealizzabili idee di fare il disseccamento delle Valli Pontine. Impresa e spesa che gli Augusti romani credettero impossibile quantunque avessero il dominio dell’universo.

I popoli della Chiesa gemevano sotto così insopportabili pesi. Inoltre c’era una gran carestia di viveri per cui si pagavano, nel mese di giugno, i grani 40, 42 paoli la corba, i formentoni 36, 38 paoli. Le carni 5 bajocchi la libbra, quelle porcine 10, le uova fino a un bajocco l’una, i colombi di campagna 9, 10 soldi la coppia, l’olio 4 ½ la libbra, i pollami erano scarsissimi e tutto scarsissimo e carissimo, quantunque l’aspetto della campagna si mostrasse molto ubertoso.

La causa di ciò era di non avere dato libertà di commercio di viveri tra provincia e provincia dello Stato della Chiesa.  Questo a diversità dei Principi secolari che in ogni loro Stato hanno sistemate le comunicazioni ed amato i sudditi in egual maniera, considerati tutti come figli di uno stesso padre, ripartendo tra loro in egual misura i prodotti del patrimonio comune. La avidità del danaro porta a chiudere i confini negli Stati della Chiesa, la difesa del profitto dei gestori ha così ridotto a penare i poveri e la cittadinanza. Ognuno di ciò mormora, ognuno parla e solo Iddio può riparare a tanti inconvenienti.

Il 16 giugno fu chiusa totalmente la porta vecchia e nella piazza maggiore del Castello si cominciò a lavorare alla colonna.

Dopo lunghe piogge finalmente tornò il sereno. Nella seconda festa delle Pentecoste fu fatta la visita alla Immagine del SS.mo Rosario per ordine di codesto arciprete sebbene si fosse dovuta fare 2 di giugno in memoria della salvezza dal terremoto. Si discusse molto sul fatto di avere spostato il voto dieci giorni dopo. Tuttavia convenne tacere e soffrire perché, per le alte protezioni che godeva il parroco, non c’era uomo in paese che potesse vantarsi di averne spuntata una anche se aveva dalla sua la ragione. Il 19 giugno fu spedita a tutti i capi religione una notificazione fatta emettere da codesto arciprete Calistri.

Dal Chirografo pontificio si capisce quanto potere fu dato all’ E.mo Legato per eseguire il progetto sul Governo di Bologna. A dir il vero non c’è male per la città che non le stia bene poiché i Padri della Patria hanno degenerato dal loro dovere e solo loro dovrebbero essere castigati. Ma, per imperscrutabili voleri di Dio, così non accade, e si può dire col poeta Quidquid delirant Reges plectuntur Achivi.

Il 20 giugno si cominciò il basamento della colonna nella pubblica piazza dove dovrà collocarsi l’Immagine di Maria SS.ma del Rosario in ringraziamento della liberazione dal terremoto. La spesa di tutto il basamento, da terra fin dove comincia a sorgere la colonna, è pagata dall’immortale mecenate della Compagnia del Rosario sig. capitano Graffi.  A costui si dovrebbe dare il titolo di fondatore per avere a proprie spese arricchita la compagnia di privilegi e di esenzioni, suppellettili sacre ed argenterie. Chi leggerà gli atti di questa Arciconfraternita troverà non essersi fatta cosa che non sia stata promossa dal Graffi e da esso fatta col proprio danaro.

Il 24 fu estratto Consolo il sig. Flaminio Fabbri per il secondo semestre.

Mio figlio Francesco Cavazza di questo Castello, battezzato però a Bologna avendo la madre di cittadinanza bolognese, aveva concorso al collegio Comelli fondato dall’avvocato Domenico Comelli naturale di questo Castello, essendo stato considerato[20] come compatriota del fondatore.  Il 9 luglio, in concorso con nove postulanti, fu eletto dai signori abate D. Cesare Taruffi e Gaspare Taruffi, come pure dalle R.R. Madri di S. Bernardino di Bologna, che hanno il Jus eletivo di questo collegio. nello stesso mese si fece l’Intro di sigurtà a rogito del notaio ser Giovan Battista Guerneri.

Venne notizia come il Card. Carlo Rezonico detto il Gobbo, uomo di inarrivabile talento, regolatore di tutto lo stato ecclesiastico, era morto a causa di malattia ipocondriaca e convulsione di petto che gli produsse uno sbocco di sangue. Tale morte recò non poco dispiacere al nostro E.mo Legato Boncompagni per essere fratello di un suo cognato che è il senatore di Roma. I romani però esultarono per tale morte.

Al consiglio mancavano 5 consiglieri, il 26 luglio furono eletti e proposti al Senato quindici soggetti. I primi furono il cap. Pier Andrea Giorgi, Francesco di Pietro Conti, Lodovico Mondini, Paolo Farnè e Francesco Gordini.

L’attuale raccolto del grano era abbondantissimo come è stato quello dei bachi, tanto che la seta al Pavaglione si paga anche solo otto soldi la libbra, cosa che faceva trasecolare la povertà valendo più la stoffa, il garzuolo e la lana greggia che la seta.

Il 3 settembre venne fuori un rigorosissimo bando per la pestilenza scoperta nel Polesine nei bovini e altri animali dall’unghia spaccata. Prevedeva la pena della vita a chi introduceva animali senza le dovute certificazioni. A questo scopo vennero in questo luogo cinque burlandotti o siano guardie e cinque sbirri a battere il confine.

La fonte Fegatella, già di questa nostra Comunità, è ora goduta dal senatore Malvasia. La casa Malvasia l’aveva avuta al solo scopo di guardarla e non di privare il pubblico di tale bene. Il Senatore, forse perché voleva iniziarne la distribuzione, stante la grande richiesta per cui ne andava fino a Ferrara per quell’Arcivescovo, il 6 settembre di notte la fece chiudere, facendola disperdere nel fiume per il tubo esterno. Così privò i poveri di tale salutare beneficenza. Usò il pretesto che i dazieri volevano riscuotere la gabella per tale acqua ma questi non facevano che far pagare ogni carico che su carro o biroccio passa dalle porte della città e ciò non era una novità.

Venuto tale fatto a conoscenza dell’E.mo Legato Boncompagni questi, usando la sua autorità principesca ordinò al senatore Malvasia, quantunque fosse Confaloniere, che facesse subito aprire il buco chiuso e l’acqua tornasse al beneficio pubblico. L’ordine fu tosto eseguito a mezzogiorno del 12 settembre in modo diverso dell’operato del Malvasia che era intervenuto di notte. Il piacere del paese e della gente fu molto grande.

Per tal fatto fu ingiunto, da chi ha autorità di comando, a me notaio di segnarne la memoria ad perpetua per deposizione di testimoni e depositarne copia in Consiglio e nell’archivio pubblico di Bologna. Cosa che, terminata la causa, feci.

Il 13 venne avviso alla Comunità della delibera del Senato Consulto emessa per la permuta di tanto della nostra inghiaiazione quanto ne occorra, cioè 150 pertiche. 

La sera del 16 settembre, pervenne a questo Castello una lettera espresso dell’Uditore di Camera del Legato Vincenzo Segneri che imponeva di dovere dare subito notizia dello stato presente e passato della fontana Fegatella. Poiché il Consolo Fabri non c’era, toccò a me come proconsolo rispondere. Lo feci informandolo che l’acqua scorreva ma poi, per dargli una giusta risposta, andai la mattina alla fonte e trovai che internamente andava ma che era stata fatta una serratura che bisognava aprire per prendere l’acqua. Mandai subito la relazione a sua Em.za. In seguito mi pervenne l’avviso di mandargli notizie e attestati che la fontana era della Comunità, come difatti trovai in Comunità notizie al Liber I Divers. al f. 3, 6 e 14 e nel libro primo dei Mandati, una del 1655 ed altre quattro all’anno 1638.

Questo interesse del Legato era accaduto perché questo agente del Malvasia si era lasciato uscire di bocca, quando fu tolta l’acqua, che se poi il Legato ne avesse voluto avrebbe dovuto pagarla. Questo agente è il sig. Ottavio Dall’Oppio, uno della Comunità, che era stato l’autore della levata dell’acqua.

Povere Comunità, quanto sarebbero più ricche se vi fosse fedeltà nei pubblici rappresentanti e nessuno usurpasse le cose pubbliche.

Il 22 settembre fu spedita a Bologna la nota al Governo di quanto grano si era raccolto in questo Comune. Qui si semina ogni anno 2.563 corbe grano. La raccolta è stata di 18.057,5 e i marzadelli 1.788. Fu un anno veramente ubertoso. La vendemmia invece fu mediocre a causa del tempo piovoso.

Il 5 dicembre morì Giovan Battista Castellani detto il Pretino. Lasciò due femmine per nome una Giuditta e l’altra Giacoma. Fece il suo testamento segreto consegnato al notaio Modesto Calisti bolognese. Si dice che, estinte le figlie, vada tutto a questa Chiesa.

Il 16, giorno di San Floriano, per la venuta dell’Imperatore Austriaco Giuseppe II a Bologna la estrazione degli uffici utili si fece la mattina. Castel S. Pietro fu assegnato al senatore Conte Ludovico Savioli, insigne poeta e storico.  Nominò il sig. Luigi Aldini notaio collegiato, che sostituì me nel suo posto.

L’Imperatore si trattenne con piacere e partì il giovedì mattina, 18 dicembre

Il 19 i sig. Pier Andrea Giorgi, Francesco di Pietro Conti, Lodovico Mondini, Paolo Farnè e Francesco Gordini, essendo stati eletti per consiglieri di questa Comunità, furono presi in consiglio.

Il 22 dicembre fu estratto Consolo per il primo semestre 1784 il sig. Francesco Conti, che era contumace e ritirato a Dozza.  Si scrisse all’Assonteria per sapere come doversi contenere.

Fu immediatamente risposto che si facesse una nuova imbustazione e fu estratto il sig. Francesco di Pietro Conti, uno dei nuovi consiglieri. Contemporaneamente l’Assonteria avvisò che era stato deputato alla presidenza degli affari pubblici di questa Comunità il sig. Don Giovanni Lambertini, pronipote di Benedetto XIV di felice memoria.

1784

Istanza per mantenimento uso pubblico della Fegatella. Innalzamento a Castello di un pallone aereostatico Posta statua di terracotta della madonna sulla colonna in piazza. Morte edificante del condannato Bartolomeo Marani detto Spadino. Roma dà ragione al sen. Malvasia sulla fegatella.

Fu proposto in consiglio che il libro Camerale di questa Comunità, che si pagava in due semestri, si dovesse ridurre ad un sol libro a condizione che i salariati ed altre spese scadenti al primo semestre si dovessero però pagare dai collettori pro tempore. Ciò fu approvato da tutto il Consiglio.

Era morto all’improvviso a Bologna il R.mo Don Floriano M. O. Provinciale, Guardiano della Chiesa e Convento della SS.ma Annunziata e Presidente del Monte di Pietà. Questi Padri Osservanti Minori di S. Francesco, memori dei benefici da lui fatti a questo convento, Il 24 gli innalzarono un sontuoso mausoleo in chiesa formato da 54 torchi accesi, da un apparato funebre e dalla illuminazione alla chiesa con molte iscrizioni relative al suo ministero. Si fece un sontuoso officio ed una infinità di messe.  Il concorso di popolo, quantunque fosse la giornata nevosa, fu grande e il tutto risultò decoroso alla Religione ed al paese.

Il 25, conversione di S. Paolo, bellissima giornata serena e quieta, indizio di anno felice, si tenne nel convento di S. Bartolomeo la riunione della Congregazione del Suffragio ivi eretta. Nacquero non poche questioni con i frati volendo questi imporsi negli affari secolari della compagnia per la loro avidità e poco vi mancò che la compagnia non prendesse commiato da quella chiesa.

I francesi avevano trovato il modo di muoversi per aria mediante un globo aerostatico detto volgarmente Pallon Volante. Il nostro Battista Roncovassaglia di Castel S. Pietro, incisore in Bologna, per agevolare questi nostri bolognesi a fare lo stesso il 31 gennaio stampò la figura di tale pallone con i suoi spaccati e le descrizioni. La stampa si vendeva a Bologna alla Libreria dell’Inferno di S. Antonio.

Il 20 febbraio fu pubblicata una Notificazione pontificia in cui il Papa modificava la vigilia comandata di S. Mattia, che cadeva il 25, giorno delle Ceneri, ed ordinava che si facesse l’ultimo sabato di carnevale. Oggi c’è una gran neve ed è la 39 volta che nevica ed è alta mezza gamba. Il 22 fu pubblicato l’indulto di carne, uova e latticini.

La neve che si scioglie, avendo sotto il ghiaccio, filtra nelle case e non si può stare dentro. È più di 40 giorni che è coperta la terra e i contadini non possono attendere ai loro lavori. Il grano si vende 17 paoli, il formentone 10 paoli la corba, la carne porcina si vende 40 paoli il cento.

È stato rinnovato il bando sopra la epidemia dei bovini nel veronese e nel padovano. Dio ci liberi!  Se oggi giorno si paga la carne al macello 17 quattrini la libbra, che sarà in futuro?

Il 25, giorno delle Ceneri e di S. Mattia, cominciò la sua predicazione il Reverendissimo Padre Mastro Francesco Xaverio Giorgi agostiniano, attuale Provinciale.

Il 29 febbraio viste le istanze fatte al nuovo Consolo per il mantenimento dell’uso pubblico della fontana della Fegatella, fu deciso in Consiglio di ricorrere con supplica al sig. Card. Legato affinché con la sua autorità si interponga non solo per il ristabilimento dell’uso  gratuito dell’acqua, ma anche per mantenere illese le ragioni comunitative sopra il sito stesso della fontana stante le memorie che sono in questo archivio della Comunità.

L’8 marzo il Consolo Francesco Conti presentò personalmente la supplica a sua Em.za, che delegò l’affare al suo uditore di camera avvocato D. Vincenzo Segneri, scrivendo che proveda, senza strepito e figura di giudizio. Contemporaneamente il Consolo espose le miserie di questo paese, sfornito di famiglie, e della Comunità in possesso di poche e scarsissime rendite per averne un qualche sollievo. Gli fu ordinato da sua Em.za di fare una nota informativa di tutti gli aggravi, che fu subito preparata e spedita a questo nostro arciprete.

Sabato 3 aprile nevicò e restò coperta la terra per tutto il giorno.

Il 4 fu pubblicato in stampa l’avviso pubblico del viaggio a Loreto, alla fine di aprile, di questa compagnia del SS.mo col suo Crocefisso.

Il 6 tornò a nevicare.  Per la grande umidità, le piogge e le nevi i contadini fino ad ora martedì santo non hanno potuto seminare marzadelli, canape non che ultimare i lavori alle viti.

Il 15 aprile furono affissi gli avvisi per il viaggio a Loreto di codesta Compagnia del SS.mo col suo SS.mo Crocefisso miracoloso.  In seguito a ciò la Comunità radunata ordinò che si andasse ad incontrarlo in forma nel suo ritorno donando due torce in regalo.

Sabato 17 si cominciò il triduo alla S. Immagine. Nella chiesa vi fu un solenne apparato e musica quantunque la compagnia fosse povera, ma ciò fu fatto a spese dei devoti essendosi raccolto circa cinquanta scudi.

Domenica 18 su le 23, fu innalzato in questo Castello un pallone aerostatico di circa 30 piedi di circonferenza, di forma ovale, di carta bianca con fregi di color rosso. L’autore fu il sig. A. Andrini figlio del sig. Rocco, che fu quello che nello scontro tra la fregata olandese e gli inglesi, si portò valorosamente con altri italiani e che disertò mentre che la nave era in riparazione in porto, come fu notato negli anni addietro.

Giovine di fino talento, poco ampolloso, piuttosto umile, ma di profondo pensare e di sottile ingegno come gli altri suoi zii Gio. Francesco Andrini, alfiere in Corsica per la Francia e Giulio Andrini nelle Marche. Non degenerò affatto dal padre, uomo di ampio talento, peccato che non abbia frequentato le scuole di scienze mentre era singolare nell’apprendere e fecondo di idee. L’Andrea ebbe il coraggio a Imola di alzare per il primo un simile globo che andò felicemente per aria distante 4 miglia da quella città, cadendo illeso in una pianura.

Codesto nostro globo oggi innalzatosi e elevatosi da questa piazza entro il Castello, fu diretto dal vento orientale sopra i fabbricati e in meno di undici minuti fu sopra il comune di Casalecchio de’ Conti, poi passò fino a Idice indi, ripiegando per un vento contrario, ritornò nel comune di Casalecchio fino a cadere in una boscaglia detta della Gozzadina.

Tutto questo viaggio fu fatto dalle ore 23 fino alle 24 meno un quarto. Il giovine riscosse un plauso simile a quello ottenuto a Imola. Questa città ne fece parte nelle gazzette ed avvisi di Pesaro. Questo globo, caduto senza essersi rotto, si alzerà di nuovo in questo luogo per il piacere dei compatrioti.

Lunedì 19, in seguito delle suppliche presentate all’E.mo per la fonte della Fegatella, il senatore Malvasia, essendo a Roma, fece venire in campo il fratello monsig. Alessandro giudice ed uditore di Rota.  Questo oggi ha fatto spedire un monitorio alla Comunità davanti all’A. C. (Autorità Civile ?) di Roma, escludendo così il Legato e il foro locale.  Si vuole obbligare la Comunità a sostenere il confronto in sede civile che per mancanza di forze non potrà fare e così dovrà cedere alla forza pecuniaria dei nobili.

Il 20, martedì mattina alle 13 in punto, partì questa S. Immagine del Cristo con un accompagnamento di 70 confratelli e preti per Loreto accompagnata da tutto il clero regolare e secolare. Aveva con sé un gruppo di quattro cantanti con strumenti da fiato e da corde che cantavano le canzoni poste in musica dal Giordani, mastro di Cappella della Cattedrale d’Imola. La funzione riuscì tenera e compunta.

L’arciprete fece su la porta dell’oratorio un bellissimo discorso e poi diede, con la S. Immagine, la benedizione al popolo, seguì la processione fino a S. Giacomo presso il ponte sul Sillaro ove fu replicata la S. Benedizione. Tutto fu accompagnato dal suono di tutte le campane del paese e della torre pubblica e infine da uno sparo di cannonate nella sponda dietro i palazzi.

Il 2 maggio alle 22 la Compagnia del SS.mo tornò da Loreto con la S. Immagine e fu incontrata di là dal ponte. Quantunque fosse un giorno ventosissimo tantoche non si poteva star fuori, vi fu un incontro con tutto il paese. Vi andarono la Compagnia del Rosario con l’offerta di due bellissime torce, seguirono le fraterie indi il corpo comunitativo con l’offerta di due torce, poi il clero secolare.  Il concorso di popolo dalla Romagna, non che di altri popoli copriva talmente la strada, che non ci si poteva muovere, quantunque vi fossero gli sbirri e i nostri esecutori con i burlandotti. Fermatasi il S. Crocefisso nella via, si presentò un fanciullo colpito alla vista e fu risanato.

 Le grazie, i miracoli e i portenti operati da Dio mediante questa S. Immagine sono stati infiniti, storpi raddrizzati, infermi guariti. A Loreto un muto, figlio di un marinaio, riebbe la favella ed una fanciulla cieca recuperò la vista, onde nacque colà non poco rumore. Un canonico di quella collegiata che da 25 giorni non poteva vedere la luce, fu risanato immediatamente. Chi volesse scrivere tutto ci vorrebbe molto e perciò mi riporto agli atti della compagnia.

Incontrata dunque questa S. Immagine fu portata in questa piazza ove fu considerato esservi una folla di 10 mila persone. Questo arciprete fece un bel discorso che fece commuovere il popolo. In seguito fu data la S. Benedizione e poi portata la S. Immagine nell’oratorio. Seguì uno sparo dei cannoni di questo capitano Graffi e poi una sparata di 400 e più mortaretti e così terminò la funzione.

Dopo questa cerimonia, in presenza di molto popolo, fu alzata una macchina aerostatica di 18 piedi di diametro e 60 di circonferenza ed andò felicemente a cadere cinque miglia distanti da qui. Questa macchina fabbricata da Andrea di Rocco Andrini ebbe in applauso universale. In essa vi era scritto così

Il mio natal ebbi in Castel S. Pietro

poi fui comesso a discrezion dell’aria,

fu pel vano mia sorte incerta e varia.

Gli augei nell’alto fugerai a prova.

Alfin poi cessi,onde se alcun mi trova

in cortesia all’autor mi rechi addietro

Di fatti ritrovato fu riportato a casa Andrini.

La sera seguirono poi, ad onore del nostro Crocefisso, bellissimi fuochi artificiali. Gli onori che ebbe questa S. Immagine nella Marca, non che il gradimento di quei popoli si possono leggere nei vari componimenti poetici stampati.

Il 15 maggio, sabato avanti le rogazioni, furono collocate le porte di legno che erano della porta vecchia, alla porta nuova sotto la torre.

Si sparse la notizia che la peste negli uomini e nelle donne avanzava a Spalato nella Dalmazia e che da quelle parti devastava quei paesi. Perciò è stata sospesa la fiera di Senigallia e le nostre località marittime sono guardate dalla truppa.

Il primo giugno fu pubblicato il Bando sul contagio negli uomini che proibiva il commercio con le persone e le robe provenienti dalla parte dell’Adriatico e fu perciò sospesa la fiera di Senigallia.

Il 10 giugno giorno del Corpus Domini fu scoperta la statua di terra cotta di Maria SS.ma del Rosario sopra la colonna innalzata a spese del capitano Lorenzo Graffi in questa pubblica piazza. La statua è opera di Luigi Aquisti, riminese ma domiciliato a Bologna, il disegno della colonna è di Gio. Giacomo Dotti, architetto del Senato di Bologna.

Nei piedistallo della colonna vi è apposta la seguente iscrizione fatta da uno spagnolo ex gesuita Don Francesco Pirolon:

Virgini SS. Rosari

quod

caserum hoc terra tremente

ille fura servavit

eiusdem precipue patrone

solemni ritu adlecte

Dux Laurentius Graffius

memor gratusque

AERE PROPRIO

M.  P.

An. MDCCLXXXIV

Domenica 27 giugno, sull’avemaria, fu carcerato il sig. Ottavio Dall’Oppio e condotto a Bologna. Nello stesso tempo fu estratto Consolo per il secondo semestre il capitano Lorenzo Graffi.

Il primo luglio si cominciò a rinnovare il selciato nella via Maggiore di questo Castello.

Il grano, a causa della siccità, è cresciuto di prezzo fin a l. 12: 10 la corba, il formentone a l. 7: 10.

Il 16 luglio 1784 in Bologna il sacerdote D. Luigi di Lorenzo Trocchi di Castel S. Pietro prese la laurea dottorale in Jus canonico more civico con lode.

Il 17 a Faenza Bartolomeo Marani, detto Spadino, nativo della Villa del Sasso sotto Imola ma domiciliato in questo Castello, fu giustiziato per furti ed altre criminalità.  La sua morte fu così edificante che ne riportò onore non solo il suo cadavere, ma la sua famiglia fu sussidiata di scudi 52 dalla Compagnia della Morte. Questa spedì al nostro arciprete una lettera che raccontava la felice fine cattolica che ebbe lo Spadino, il quale se rubò in vita la roba agli uomini seppe alla fine dei suoi giorni rubare il paradiso a Dio.  Onde gli fu scritto il verso latino di Sedelio[21] nel suo carme pasquale Abstulit iste suis celorum regna rapinis.  La lettera fu portata dal conte Francesco Cantoni fratello del defunto vescovo di Faenza, poi arcivescovo di Ravenna.

Era morta l’onesta zitella Mariana Chechi di questo Castello, essa ordinò nel suo testamento segreto, presentato oggi 24 luglio da me notaio, che della sua eredità si pagassero l. 60 al depositario di questa pia unione di S. Giuseppe nella arcipretale per formare una statua di stucco del santo e fare poi con essa la processione piacendo all’arciprete.

 Lunedì 11 agosto venne la Cavalcata Criminale di Bologna contro il Dall’Oppio. Si parlò in essa del fatto della fontana della Fegatella, di avere esso sparlato del Principe, di essere andato per burla con altri cinque a casa di Domenico Molinari detto Carnazza, socio Malvasia alla Scania, a nome della Corte. Infine di avere, in Carnevale, nove anni fa mascheratamente simulato i Tribuni della Plebe, andando alle botteghe di questo Castello e facendo tutti gli atti di quella magistratura.

Si parlò inoltre contro i fratelli Giuseppe ed Antonio del fu Ser Giovanni Bertuzzi notaio per essere stati i suoi compagni, come pure che gli stessi tengono in proprio possesso i rogiti dei notai Sabatini, Gio. Battista Dalla Valle, Giacomo Bertuzzi, Giovanni Bertuzzi, Antonio Dalla Valle e Stefano Conti, come pure gli atti di questa podesteria dall’anno 1713, senza averli voluto consegnare a questo archivio di podesteria. Cosa che dovevano fare non essendo questi compresi nella consegna fatta al notaio Melchiade Boschi di Medicina, loro cugino, troppo credulo nel lasciar loro tutto a disposizione.

 Il 13 su le 15 morì Barnaba fu Lorenzo Trocchi, bravo macchinista.

Mercoledì primo settembre si scoperse la statua di M. V. sopra la colonna nella pubblica piazza di questo Castello, che fu poi verniciata di olio e fece una ottima vista.

L’8 il sig. Ottavio Dall’Oppio fu scarcerato e pagò l. 100 di condanna, l. 360 di procedura oltre le altre spese.

In questi giorni il Padre Filippo, servita, figlio di questo Pietro Conti fu eletto priore del convento di Bologna dopo aver servito come priore nel convento d’Imola. Mise in regola entrambi i conventi, che vivevano senza ordine.

Si terminò la nuova selciata fatta entro il Castello

Nella causa della fontana della Fegatella che si agita in Roma coram A. C. dalla Comunità contro il senatore Malvasia era stato emesso un decreto di mantenimento del possesso. Il cavaliere spedì subito qui il notaio Zenobio Teodori a prendere il possesso formale della fonte.

Il 15 settembre questi paesani diede un memoriale al Legato affinché, poiché con il suo Bando del 10 aprile 1782 ordinava che non si potesse muovere alcun carico e merce entro le tre miglia dal confine senza la bolletta, moderasse questa legge che imprigionava la gente in questo luogo con la roba in casa. Pure i concimi non si potevano trasportare di là del fiume senza bolletta.

Fu dato anche un altro memoriale al legato perché l’Assonteria non aveva permesso di fare un marciapiede esterno alla porta maggiore del Castello.  Il Legato incaricò la Assonteria a permetterlo immediatamente. Nello stesso giorno concesse ad ogni cattolico di qualsiasi sesso che avesse recitato le tre Salutazioni Angeliche davanti all’Immagine del SS. Rosario, posta sulla colonna di questa piazza Maggiore, duecento giorni di indulgenza. Pure a chi ogni sabato reciterà le litanie davanti la statua concedeva una indulgenza di tre anni come agli atti della sua cancelleria di cui ne è procancelliere Filippo Guermani.

Il 16 dicembre fu estratto Podestà il Marchese Lucrezio Pepoli che poi nominò il notaio Luigi Alboresi.

Il 26 fu estratto per priore della compagnia del SS.mo il marchese Annibale Banzi di Bologna, che accettò questo ufficio.

Il 27 dicembre fu estratto Consolo per il primo semestre 1785 il capitano ser Andrea Giorgi per la prima volta e così si terminò l’anno.

1785

Richiesta allargamento porta per passaggio carri.Pretesa dei poggesi di staccarsi da Castello. Morte di Ottavio dall’Oppio, perseguitato dall’arciprete. Definizione problema dott. Muratori, sua assunzione.

Domenica 2 gennaio 1785 si fece nella chiesa di questi Padri Cappuccini un Accademia Letteraria ad onore del S. Bambino ove furono fatte belle competizioni poetiche da questi patrioti sia secolari che preti. L’Oratore fu Padre Filelfo cappuccino napoletano e il Principe il dott. Don Luigi Trocchi prete di questo Castello.

Il 15 gennaio fu affisso il Bando, in data del 3, riguardante i colombi e le colombaie stante gli imbrogli che venivano fatti. Per assicurarsi che i proprietari fossero i venditori, si ordinò di denunciare l’acquisto di tali animali ai Vice Podestà della legazione.

 Giunse lettera dalla Assonteria di Governo in cui si informava essere stato deputato a questi affari pubblici di Castel S. Pietro il sen. Vitale de’ Buoi.

Si seppe che alcuni malcontenti di questo Borgo e Castello avevano dato supplica al sig. Cardinale per essere la porta maggiore del Castello stretta per i carri dei foraggi.  Chiedevano di allargarla oppure ingrandire la porta montanara e volevano pure un marciapiedi davanti al mercato dei bovini che cominciasse dal fabbricato esterno del Borgo fino sotto alla porta del Castello. Il memoriale fu passato alla Assonteria per la soluzione.

Si seppe pure come i villani di questa villa di Poggio, soggetti a Castel S. Pietro, avevano mandato una supplica alla Assonteria per smembrarsi da questo nostro Comune, sebbene siano assoggettati a Castel S. Pietro come si legge nella Bolla di Eugenio IV del 1434. Comunque al momento l’affare rimase indeciso.

Per gli affari pubblici di questa Comunità fu eletto dall’Assonteria di Governo il marchese sen. Bartolomeo de’ Buoi. A riconoscerlo per tale gli furono inviati i consiglieri Flaminio Fabbri e il cap. Graffi.

Il 16 la supplica dei poggesi fu data al Legato. In essa si adducevano infinite cause di indebite gravezze.  Copia fu poi spedita a questa Comunità perché potesse darle la dovuta risposta come si vede in Archivio.

Il 29 gennaio fu pubblicato il solito indulto per la quaresima. Contemporaneamente venne alla visita della porta per il marciapiede il senatore de’ Buoi, per riferire all’Assonteria.

 Fu in seguito data la risposta alla Assonteria sulle pretese di quelli della Villa di Poggio. Questa turba di villani malcontenta e perturbatrice della quiete aveva chiesto altre volte la divisione della loro villa da questo comune. Fin dal 6 agosto 1553 fu presentata tale richiesta, per rogito di Costanzo Calcina, ma non furono ascoltati come si legge nella nostra cronaca sotto detto anno.

Il senatore de’ Buoi, quantunque fosse stato deputato alla assistenza dei nostri affari, si dichiarò su questo fatto a favore di Poggio con i due deputati sig. Ottavio Dall’Oppio e me Ercole Cavazza nel caso che, per questa pretesa smembrazione, fossero chiamati a decidere i senatori dell’Assonteria di Governo per la Giustizia. Stante tali espressioni non mancò la nostra Comunità di avanzare una nuova supplica al sig. Cardinale ed a comunicare le nostre risposte contrarie.

Il selciato di questo Borgo nella via corriera era rovinato. Perciò fu data supplica all’Assonteria di Governo affinché, a spese dei frontisti, fosse accomodata.

Il Senatore de’ Buoi che intendeva di sottrarre la Villa di Poggio a questo Castello per farsi una signoria, avendo là la sua maggiore possidenza, fece venire a sue spese un perito che misurò la distanza da Poggio a Castel S. Pietro e da Poggio a Medicina. La relazione però non si è ancora veduta.

Era rimasta una certa quantità di trasporti a carico dei contadini per il selciato del Castello.  Si scrisse all’Assonteria per sapere cosa fare e se era contenta che si portasse via il terrapieno interno alla destra dell’ingresso maggiore per allargare quella strada. Il 28 aprile, essendosi ciò ottenuto, si cominciò a portarlo nella fossa esterna e così si accomodò quella strada.

Il 12 giugno, essendosi trasportata la festa del Corpus Domini in questa giornata, fu fatto nel nostro Borgo un bellissimo apparato.  La sua preparazione fu pero funestata da una disgrazia. Giuseppe Amici, uno dei primari apparatori di Bologna, assai celebre, pericolò ribaltandosi giù dalla scala mentre in alto accomodava un prospetto, a causa del gran vento che soffiava.  Divenuto apoplettico per la caduta, dopo sei giorni morì.  Morì pure un paesano detto Sgambillo che restò sotto un legno durante lo smontaggio. Questi sono i funesti risultati che si hanno nelle feste che si fanno più per pompa e vanagloria che per onore di Dio, quantunque siano bellissime.

Il 29 fu estratto Consolo il sig. Ottavio Dall’Oppio.

Il 4 luglio venne notizia come il nostro pontefice, in un Concistoro segreto, dopo un bellissimo elogio al Card. Boncompagni, gli diede atto che aveva amministrato la Legazione di Bologna con summa fide, integritade, justitia et constantia e lo dichiarò Segretario di Stato.

Questi nostri paesani avevano, fino dal dicembre dello scorso anno, fatto ricorso alla legazione, spalleggiati dal nostro arciprete, per la questione delle merci che giravano vicino alle tre miglia dai confini della provincia.  Alla fine di luglio venne fuori un Bando di pagare in questi casi solo tre quattrini, però mentre prima non si pagava per i bestiami, ora si dovrebbe pagare per tutti i capi che si portano da luogo a luogo lontano dalla via maestra e dalla città.

Erano rimasti 140 carri, di sassi e sabbia, dopo avere appianata la strada interna del castello.  Fu deciso di riattare il selciato del Borgo. l’Assonteria ordinò che fossero assegnati ai borghesani e che eleggessero il salghino e depositario per l’utilizzo delle risorse rimaste.

Contemporaneamente fu data supplica alla Comunità dai paesani che portavano foraggi in Castello per l’angustia della porta.  Proponevano di modificare la mura in rovina che era tra il mercato dei bovini e la strada interna e così ampliare la piazza ed unire il Borgo al Castello. In questo modo, levata la mura per un tratto di sette o otto pertiche, potevano entrare facilmente i carri, si quietava la gente e si faceva un bel lavoro. La Comunità scrisse all’Assonteria, ma il progetto non fu approvato.

Gli uomini di Poggio prima della partenza del Legato gli diedero una nuova supplica domandando la separazione e l’indipendenza dalle collette dei ministri della Comunità di Castel S. Pietro, ma il memoriale fu rimesso all’Assonteria come l’altro.

Questo arciprete era malcontento del medico condotto dott. Giuseppe Muratori e, non sapendo come fargli abbandonare la condotta, il 16 agosto mandò un memoriale al Legato Boncompagni e lo fece firmare da suoi fedeli. Il memoriale accusava il Muratori di incapacità ed imperizia e metteva in cattiva luce l’Assonteria e la nostra Comunità come suoi partigiani. Procurò poi che la Legazione chiedesse a lui le informazioni sul memoriale.

Ma siccome Iddio non vuole oppressa l’innocenza, accadde che, essendo il Legato ad una cena col Marchese Merendoni, M. Caterina Caprara Pepoli, il dott. Pozzi ed altri, si venne in discorso di questo medico.  Il Legato comprese lo stratagemma del nostro arciprete e invece di fare a lui il rescritto, lo fece diretto all’Assonteria che prendesse lei informazioni da questa Comunità come di fatti fu eseguito.  La Comunità rispose che per le accuse di incapacità ed imperizia del medico ella mai aveva avuto alcun richiamo.

Il 16 alle ore 14 il Legato giunse a Castel S. Pietro andando alla volta di Roma per suo ministero di Segretario di Stato. Venne in Castello con la sua corte e, andato alla parrocchia dall’arciprete, ascoltò messa all’altare del Rosario.  Si trattenne una buon’ora e, preso il cioccolato dall’arciprete, dopo le ore 15 se ne partì per Roma.

La raccolta dei grani in questo nostro comune fu abbondante. Si raccolsero 17.870 corbe di grano, la raccolta dei marzatelli invece fu mediocre.

Essendosi scoperto un male nei suini fu pubblicato un avvertimento sopra la loro medicatura.

In questo tempo fu accomodata il selciato del Borgo a spese dei proprietari frontisti, avendo la Comunità dato l’avanzo di sassi e sabbia dell’altro selciato.

Il 6 ottobre venne una Cavalcata dal vescovato per l’istanza presentata per l’espulsione del medico Giuseppe Muratori. Autori era stato l’arciprete, per mezzo del suo cappellano Don Domenico Bartoletti e Don Baldassare Landi.

In questo tempo fu fatta una grandissima e florida vendemmia. L’uva era venduta a l. 18 di Bologna la castellata e l’uva nera a l. 10. Siamo a metà del mese e si vendemmia ancora e nessuno ha il posto ove depositare l’uva.

Il 14 ottobre su le 14 cessò la vita il nostro Consolo sig. Ottavio Dall’Oppio. Fece il suo testamento segreto che fu pubblicato oggi. Aveva disposto la sua sepoltura nel convento di questi padri Minori Osservanti e di esservi trasportato in privato. Per questo la Comunità non poté, secondo il consueto, ricevere sotto il suo portico il suo cadavere e esporlo entro la residenza fino a che, cantato il salmo de profundis, fosse restituito agli ecclesiastici. Quindi la Comunità, per dare un segno di devozione cristiana e riconoscenza per il suo servizio prestato al bene pubblico e inoltre per essere morto durante il suo consolato, determinò di portarsi in forma il giorno dopo ad ascoltare una messa per la sua anima in presenza del suo corpo.

Sabato15 alle 14 la Comunità si portò, accompagnata da suoi stipendiati e sei bastonieri cappati della Compagnia del SS.mo, alla chiesa di S. Francesco ove ascoltò la messa per il defunto all’altare della Comunità.  Al termine quei Padri intonarono il salmo de profundis nel coro, nella chiesa risposero il corpo comunitativo e il popolo.  

La malattia del Dall’Oppio era stata originata da una grave afflizione d’animo per essere stato carcerato l’anno scorso 84 giorni per calunnie sparse su istigazione di questo arciprete.  Fu accusato di avere detto male del principe (il Legato) ed avere mentito alla Curia.  Per uscirne dovette subire una severa Cavalcata che gli costò più di 100 zecchini.  Inoltre la Curia gli impose, sotto giuramento, di non parlare degli accusatori e nemmeno nominarli.

 In trentotto giorni di malattia il parroco e nessuno dei preti lo andò mai a visitare o a consolare. Solo questi poveri fraticelli osservanti lo assistettero con discrezione e con un po’ di spavento. Solo quando aveva ormai persa la favella il parroco, informato dai suoi, andò a vederlo morire ed a invitarlo a perdonare chi l’aveva offeso.

Si può pensare più maliziosamente di questo modo di fare?  Negli altri giorni nei quali aveva delle convulsioni che lo lasciavano come morto per delle ore, mai si vide il parroco. Questi andava piuttosto ogni giorno al passeggio in carrozza con la Dama Maria Ghiselieri facendole da cicisbeo più che da pastore.

D. Domenico Lugatti, D. Giovanni Tomba, D. Francesco Trochi inoltre, senza essere stati affatto visitati dal parroco, morirono in mano di altri religiosi, non avendo dal loro pastore, quantunque essi fossero dei sacerdoti, alcuna consolazione né temporale né spirituale.

Il 29 ottobre venne lettera dall’Assonteria nella quale si ordinava, per ordine dell’E.mo, che il giorno d’ogni Santi si deliberasse per il Dott. Medico Muratori e che non ci fossero maneggi e stratagemmi. Arrivato il giorno prefissato, nel momento che la Comunità entrava in Consiglio, le fu consegnata una diffida, per gli atti di Ippolito Scuri Notaio di Governo, a porre a partito il medico. Comunque si sospese la sua votazione, si misero allo scrutinio gli altri stipendiati, tutti passarono eccetto il maestro Don Pasetti. Si pensò a un maneggio di Francesco Conti con il suo collega Agostino Ronchi. Poi la Comunità, di nuovo adunata, ripropose il maestro e fu confermato per un anno. Si diede quindi avviso di tutto all’Assonteria.

Il 3 novembre giunse decreto dell’E.mo Giovanni Andrea Archetti, per gli atti di ser Francesco Schiassi, perché si ponesse a partito il medico Questi ottenne una votazione favorevolissima e per tutto il tempo che la Comunità potesse confermarlo a norma dei suoi Statuti.

Venerdì 5 su le 23 furono arrestati a Bologna i caporioni dei contrari a questo medico Muratori cioè Don Domenico Bartoletti cappellano e Don Baldassarre Landi e furono condotti nel vescovato.

Il nostro arciprete, autore di tutto, fu sospeso a divinis per otto giorni. Ebbe la sua canonica per carcere. Le funzioni furono fatte dal guardiano dei cappuccini perché non se la intendeva né con le altre due religioni, né con i preti. Il paese era tutto sotto sopra. I maligni avevano delegato quattro che sono Lorenzo Baldazzi, Lorenzo Trocchi, Antonio di ser Giovanni Bertuzzi e D. Luigi Facenda di Francesco che si ripromettono di agire ulteriormente non ostante la sorpresa del decreto contrario.

1786

Cresce disunione nel paese per questione processione SS.mo. Mortalità nei maiali, soluzione. Comunità chiede di aprire un macello. Conte Bentivogli si stabilisce a Casrello con famigia.

Venerdì 16 dicembre 1785 era stato estratto per podestà di Castel S. Pietro, per l’anno venturo 1786, il marchese e senatore Guido Barbazza, cavaliere di alto ingegno e piuttosto temuto. Nominò per suo notaio Giacomo Gualandi il quale fu sostituito da Enrico Magnoni che si fece sostituire da me ser Ercole Cavazza. Io fui poi estratto Consolo per il primo semestre 1786.

Il 12 gennaio giunse lettera dell’Assonteria in cui si avvisava che era stato deputato a questa Comunità come Senatore Presidente agli affari pubblici il sen. Carlo Dondini Ghiselli.   Furono deputati a riconoscerlo il cap. Pier Andrea Giorgi e sig. Gio. Paolo Farnè.

Questa Comunità aveva fatto istanza fino dall’anno scorso per il problema della ristrettezza della porta al passaggio dei carri del foraggio. Il progetto era di abbattere un pezzo di mura alla destra dell’ingresso maggiore del Castello e così ampliare il mercato dei bovini. Il 22 febbraio venne in visita l’architetto pubblico Giacomo Dotti che visitò anche la porta montanara e la mura del Castello per provvedere alle rovine che coprono la fossa.

Il 27 febbraio fu pubblicato l’indulto della carne per tutta la quaresima cominciante il primo marzo, furono eccettuati i primi e gli ultimi quattro giorni di quaresima, le quattro tempora, ogni mercoledì e venerdì e sabato di ogni settimana.

Il 12 maggio fu pubblicato un Bando pontificio sopra tutte le monete d’oro.

Il 20 Angelo Galassi, che era espatriato fin dal 1756 e stabilito a Bologna con la famiglia, aveva proseguito lo studio della musica e impiegato anche due fratelli, uno, Benedetto, col contrabbasso e l’altro, Giovan Francesco, col violino. Dopo pochi anni fu eletto maestro di Cappella della chiesa de’ Servi e di S. Stefano ove progredì non poco sebbene fosse tenuto in poco conto dai bolognesi per la sua povertà e la bontà di spirito.

Mandò un figlio a Madrid al servizio di quella corte ove, fattosi rinomato come organista, vi ha piantato casa e si mantiene con lustro col titolo di Conte. Oggi l’Angelo è stato chiamato in Sardegna come maestro di Cappella a Sassari e, quantunque di anni 74 e più, ha intrapreso il suo viaggio. Esso è conosciuto nella professione in paesi lontani ed è mirabile che da semplice canapino e maestro di violino, senza disciplina ma col solo esercizio, sia riuscito col suo talento a tanto.

Finché stette in questo luogo allevò non pochi giovani nel canto figurato e nel suonare l’organo e il violino.  Di questi allievi ora non esiste che Fedele Gattia, anch’esso professore di musica.

Martedì 23 maggio, secondo giorno delle Rogazioni, nell’oratorio di questa compagnia del SS.mo si benedirono come confratelli vari nobili imolesi e furono il conte Alessandro Sassatelli, il marchese Zappi, Il conte Agostino Genasi e il Conte  Machirelli.

Il giorno 29 venne in questo luogo il marchese Guido Barbazza, Podestà di Castel S. Pietro, col suo notaio Enrico Magnoni a confrontare le accuse presentate alla Legazione per le bollette che faceva il notaio giusdicente a quelli che vanno a macinare e trasportano via le farine.  L’accusa fu trovata falsa e la causa fu portata in tribunale avanti l’E.mo Legato Archetti. Intanto si proseguì come il solito.    

Il 24 giugno fu estratto Consolo il sig. Paolo Farnè per la prima volta.

Il 3 luglio questo arciprete Calistri, aveva deciso di fare la processione solenne del SS.mo la seconda domenica del mese e fare l’apparato solenne nella via maggiore spendendo il danaro delle collette. Nacquero non pochi contrasti tra le famiglie del quartiere, poiché alcuni optavano piuttosto per una generale elemosina invece che per l’apparato, atteso che poco era l’incasso e il paese era carico di povertà. Altri dicevano che, non essendosi fatta tale funzione entro l’ottava dal Corpus Domini, non si doveva per ciò fare l’apparato né la processione.  

Aumentò quindi la disunione nel paese.   Per fare tale apparato si dovevano piantare dei pali nella strada e così rompere il nuovo selciato.  Alla Comunità ciò non piaceva e ricorse al vescovato da cui, perché gli apparatori erano Don Luigi Facendi e Don Baldassarre Landi, che in abito secolare lavoravano nella pubblica via, ottenne che fossero precettati a desistere dal lavoro. Si infrapposero delle persone e, chiesta poi la licenza alla Comunità, fu loro accordato il permesso di continuare il lavoro. Però la funzione seguì con poco decoro perché molti paesani andarono via e molti non vollero apparare. I regolari e il corpo della Comunità non vi vollero intervenire.

L’8 luglio l’architetto pubblico Dotti venne alla visita della via detta della Pulcina, che divide il nostro comune da quello di Liano di sotto. Questo per l’istanza fatta dai lianesi e per la lite pendente all’Ufficio dell’Acqua. Nella visita ambedue le comunità esposero le loro ragioni hinc inde all’architetto e ai legali e chiesero che si correggessero i Campioni, che fra loro c’erano disparità.  Intanto si facesse il lavoro ordinato dallo Ufficio dell’Acque, la cui spesa poi dovesse stare a carico di chi avesse avuto il torto.

Il Papa aveva ordinato un nuovo regolamento per tutto lo Stato ecclesiastico, eccettuate Bologna e Ferrara, riguardo alle gabelle mettendo ai confini uffici di gabellieri. Lo scopo era quello di rimettere in sesto l’erario esausto per la fabbrica della gran Sacrestia di Roma e per la disseccazione delle valli pontine.  Furono fatti altresì altri diversi regolamenti, per il corso delle monete d’oro e per le manifatture estere.

Al Pontefice fu fatto dal sig. abate Benedetto Frangiotti di Civita Nova, terra nella Marca, il seguente elogio, pieno di ironia.

Pio VI

Optimo Principi

Quod vectigalibus ad confinia

decretis

industriam felicitati prosperevit

curante Fabritio Ruffo

Pontificji Erarii prefecto

Picentes gratulantur

A.R.S.

MDCCLXXXVI

In applicazione del nuovo regolamento furono poste le Dogane con i soldati ai confini delle legazioni. Anche al nostro confine con la Romagna vi fu piantata la Dogana. In seguito di ciò non si potevano portare robe in Romagna se, oltre la Bolletta, l’introducente merci non era accompagnato anche dall’attestato del cancelliere o massaro della Comunità di partenza. Poi anche i grani furono assoggettati alla categoria delle merci facendo pagare per ogni rubbio, che sono tre corbe e mezzo di nostra misura, quindici soldi e la metà per i marzatelli. Così, in seguito dei ricorsi fatti a Roma, fu ordinato che se tali generi venivano dalla Romagna con quella bolletta, fosse allegata dal cancelliere delle comunità bolognesi la garanzia di essere rimaste tali grani nello Stato e ciò in virtù di un ordine di Mons. Fabbrizio Rufo tesoriere generale dello Stato Pontificio.

In questo tempo di scoprì la epidemia nei bovini per cui furono affissi Bandi e sospesi i mercati nella Romagna.

Il 10 ottobre dalla parte di Ferrara fu tirato un cordone di guardie per tale emergenza sanitaria, che si estendeva anche ai custodi e conduttori di bestie. La notificazione alle Comunità della Legazione era in data del 3.  Essendosi poi esteso il male il 16 ottobre corrente ne fu pubblicata un’altra con le istruzioni sui sintomi del male, suoi inizi ed effetti e le precauzioni e i rimedi da prendere.

Contemporaneamente ci fu mortalità nei maiali, ma non se ne sapeva la causa e l’origine. Questa fu scoperta da un villano imolese. Ai maiali veniva, come anni fa ai bovini, una vescica sotto la lingua che produceva infiammazione alla gola e dolori al capo e poi dopo poco morivano. Siccome era difficile mettere le mani in bocca a queste bestie per la bocca stretta e per i morsi, era impossibile medicarli. Questo villano inventò un morso all’uso dei cavalli poi, faceva tenere ferma la bestia da tre uomini mentre un altro teneva il morso che serviva sia per aprire la bocca che di sicurezza alla mano che medicava.  Poi con un coltello uncinato tagliava le vesciche, quindi gli sciacquava la bocca con aceto forte e sale. La bestia in poche ore guariva e la si teneva lontano dalle feci e dal ruminare. In tale maniera si è riparato a molto male.

In questo tempo fu anche fatto un muraglione nella via che divide il nostro comune dal comune di Liano di sotto nella strada della Scania per decreto dell’Ufficio dell’Acqua. Costò 50 zecchini ossia 250 lire nostre di Bologna. In questa strada verte una controversia fra questa Comunità, quella di Liano e gli eredi del fu Carlo Chechi.

Il 3 novembre i sig. Graffi e Fabbri misero nelle mani della Comunità ed in piena libertà la torre e gli edifici vicini. I lavori fatti costarono l. 2.292: 19: 6. La condizione prevista fu di pagare al sig. Lorenzo Graffi settanta lire all’anno di rimborso di tale spesa. La Comunità progettò poi di  chiudere la strada circondaria interna del castello dalla parte di ponente, cominciando dall’angolo superiore verso i cappuccini e scendendo fino alla rocca vecchia, assegnando il terreno ai possidenti fronteggianti la via, con l’obbligo  della manutenzione della via pubblica.

Per la dipartita del povero nostro Ottavio Dall’Oppio che era l’anno scorso il depositario della Comunità si è in oggi eletto il sig. Gio. Battista Fiegna come suo successore.

Imperversando poi fortemente il male bovino nella Marca, il 16 novembre, per Bando speciale di questa Legazione, fu sospeso il mercato di Castel S. Pietro e di Medicina. Fu altresì ordinato che non si dovesse macellare alcuna bestia se non prima visitata dal maniscalco. La nostra Comunità ricorse all’Assonteria chiedendo di avere essa il permesso di erigere un macello.  Qui le bestie, prima di essere macellate, dovrebbero essere visitate da due delegati e dal maniscalco. Quindi la bestia dovrà essere marcata nei quattro quarti prima di essere trasportata al banco del macellaio per la vendita. Questo non solo per assicurarsi dell’assenza della infezione ma pure per ovviare ai disordini altre volte accaduti, avendo il macellaio vendute carni malate e poco salubri.

Il 22 novembre l’Assonteria, fatto i passi necessari e dovuti alla legazione, rispose così:

 Mag. nobis amatissimi, dalla nostra delli 18 corente rilleviamo la particolare vostra premura in secondare la vista di questo governo nelle dilicate corenti emergenze della sanità de bovini e dobbiamo rendervene quelle lodi che meritate. Delle cose però proposteci e da noi fatte anco presenti all’E.mo nostro sig. Card. Legato per ora con intelligenza ed annuenza sua vi si concede quella soltanto che riguarda la presenza dei deputati alla macellazione delle bestie, sichè oltre la visita del marescalco ordinata dal bando vi sarà permesso provisionalmente e durante le corenti circostanze di deputare due di voi che intervengano alle macellerie nell’atto di macellarsi le bestie, facendo in seguito marcare con bollo li quarti per assicurare in ogni evento l’identità de medesimi. Rogato poi agli altri capi vi dirigerete alla Em.za Sua le vostre supliche con trasmetterle il piano di questa desidera vostra.

In seguito di ciò la Comunità fece fare un bollo di ferro con la sua insegna, poi chiamò i macellai e il maniscalco e fece loro intendere gli ordini superiori che furono accettati amorevolmente. Indi la Comunità deputò per questo mese i signori Pier Andrea Giorgi e Francesco di Pietro Conti.

Morì in questo tempo in Cesena il sig. Lodovico Mondini comunista.  Lasciò solo femmine e così restò il suo posto vacante.

Il 26 novembre Don Domenico Pasetti, pubblico precettore di questa Comunità, avendo concorso alla pubblica scuola di Massa Lombarda, ottenne quel posto.  In seguito furono qui e fuori affisse le notificazioni per il concorso a questa scuola pubblica.

Il primo dicembre vennero a stabilirsi in questo luogo il sig. Conte Bentivoglio colla sua signora consorte e la figliolanza. La sua abitazione fu la casa del notaio Francesco Conti nella piazza di S. Francesco, in passato palazzo del principe Pico Galeotto Pichi.

Sabato 16, giorno di S. Floriano, fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il sig. Antonio Guidaletti, questi dopo aver nominato come sostituto Ercole Cavazza, annullò la nomina, su richiesta del Gran Priore Bocaferri, e nominò Antonio Giorgi. La cosa avvenne per l’impegno di questo arciprete Calistri, che si era sdegnato col Cavazza che, come comunista, non aveva voluto l’anno scorso assecondare le sue brame contro il medico Muratori.

Il 12 ad ore 7 morì in questo luogo Don Mauro Calistri, fratello dell’arciprete, parroco coadiutore di Colunga e fu sepolto presso l’altare di S. Giuseppe e della Madonna dei 7 dolori in questa parrocchia.

A causa dell’epidemia dei bovini, perché i preti non andassero nelle stalle dei bestiami a benedire le bestie e così si potesse trasferire il male da una stalla all’altra, fu ordinato a tutti i parroci di dare la benedizione alle bestie dalla porta delle chiese.  Così si levò l’occasione ai preti di far denaro.

In questo tempo fu prorogata per altri tre mesi la scadenza della consegna dei vecchi zecchini alla Zecca di Bologna.

Il sen. Orsi estratto Podestà di Casal Fiumanese, aveva nominato il notaio Schiassi in questo ufficio, questi si fece sostituire dal notaio Ercole Cavazza.

 Domenica 24 dicembre venendo al lunedì, giorno di Natale, dopo la mezzanotte su le 9 ½ [22] si sentirono due scosse di terremoto con qualche spavento.

Il 27 si doveva fare, secondo il consueto, l’estrazione del Consolo e battere la campana grossa della Comunità nel campanile presso la parrocchia. Il parroco non volle che il campanaro la suonasse se non gli si fosse chiesta la licenza. La Comunità se ne ebbe a sdegno per essere stata sopraffatta nei propri diritti ed essere stato posposto un corpo pubblico ad una sola persona ecclesiastica che in questo caso aveva operato da prepotente. Fu perciò risoluto che se ne desse parte al pubblico come seguì.

Fu estratto Consolo per il primo semestre 1787 il sig. Agostino Ronchi domiciliato a Bologna.

1787

Continua epidemia nei bovini. Poggesi rinnovano istanza per separazione. Questione dell’acqua preparata dallo speziale. Morte capitano Lorenzo Graffi.

Il 10 gennaio l’Assonteria di Governo approvò la spesa fatta per la nuova porta sotto la torre dal cap. Lorenzo Graffi ammontante a l. 2.292: 19: 6,  da rimborsarsi con i proventi dello stesso edificio. Parimenti fu approvata dal senatore Presidente agli affari della nostra Comunità il Marchese Dondini Ghisetti.

Per la epidemia nei bovini fu ordinato all’ufficiale di questa Gabella di fare le Fedi di Sanità, tanto più che alla Toscanella erano state messe le guardie e le transenne. La malattia consisteva in un male nero alla lingua ed a tutte le gengive per cui cadevano i denti e le bestie andavano poi a morire. Si pensava che questo male fosse lo scorbuto.

Il 25 vennero in visita per i bestiami i pubblici incaricati dott. Gaspare Gentili e Giacomo Gandolfi, pubblico veterinario, e furono accompagnati fino ad Imola dal proconsolo Paolo Farnè e da Ercole Cavazza. Gli fecero vedere al Piratello e nel dozzese il male dei bovini, poi passarono a Castel Bolognese.

Il 20 marzo gli uomini di Poggio rinnovarono le loro istanze alla Assonteria per la smembrazione da codesto nostro comune adducendo ragioni altre volte presentate e pretendendo un massaro a parte. Inoltre richiedevano di avere posto in Consiglio.

La mattina del 4 aprile, mercoledì Santo, l’arcivescovo di Gorizia di ritorno da Roma, ove era stato per le perturbazioni della religione nella Alemagna, si fermò da questi padri M. Osservanti ove assistette alla messa con singolare attenzione, devozione ed edificazione. Stette al misero pranzo di quei poveri frati e lasciò loro un segno di cristiana onorificenza appagandosi di quello scarso vitto e poi se ne partì la sera per Bologna alla volta del suo arcivescovato disturbato da vescovi nemici della sua chiesa.

Il 7, giorno di sabato santo, codesto parroco fece la funzione parrocchiale ma senza il Cero Pasquale che solitamente era portato dalla Comunità.  Non aveva voluto chiederlo pretendendo di essere padrone assoluto. Intervennero comuni amici e il cero fu consegnato poi al suo sacrestano la domenica sera, giorno di Pasqua.

I macellai dei minuti (animali di piccola taglia) vendevano promiscuamente capra, montone, pecora con castrato e vitello, così la Comunità, aveva fatto istanza alla Legazione. Il 16 aprile fu ordinato, per gli atti di Bernardo Monti notaio della Grascia, che si vendesse la pecora e la capra in un banco separato dal castrato e vitello, come previsto da decreto di sua Em.za.

Il 21 venne un vento da sud così freddo che la gente si coprì da inverno e la mattina del sabato nevicò e restarono coperte queste nostre montagne. I fasci erano divenuti carissimi per il freddo dell’inverno scorso e si vendono oggi giorno a l. 12 il carro.

Il 9 giugno fu ammesso al Consilio Giuseppe Mondini per la morte di suo fratello Lodovico.

Furono fatte intimazioni di multa ai macellai dei minuti per il mancato rispetto del precetto.

Fu presentato dalla Comunità un memoriale al Collegio, in seguito di una Notificazione d’ordine di sua Em.za.

La stagione era stata fino a questo tempo sempre fredda e i raccolti erano molto in dietro onde aumentò il prezzo dei grani fino a l. 11: 10 e dei formentoni a l. 7. Per tale stagione così fredda si sente di molti reumatismi nella gente e tutti vanno ancor vestiti di panno come si fosse di inverno.

I frati di S. Francesco di questo Castello, per la beatificazione di due loro santi, annunciarono un triduo solenne.  Per questo per avere elemosine ricorsero ai paesani ed alla Comunità che gli assegnò trenta lire una tantum.

Il 25 fu estratto Consolo della Comunità, per il secondo semestre, il sig. Flaminio Fabbri.

Sabato 29 luglio si cominciò il triduo nella chiesa di questi Minori Osservanti di S. Francesco, fu la chiesa solennemente addobbata da apparatori bolognesi e onorata da musiche dei migliori cantori di Bologna con due numerose orchestre. Fu assistita la funzione dalla milizia del paese e allietata da spari di mortaretti. Vi intervenne una infinità di forestieri da Bologna e dalla Romagna. Vi fu ogni giorno un panegirico diverso. La seconda sera vi fu una sparatoria di mezzo migliaio di mortaretti e l’ultima sera, che fu il lunedì, vi furono fuochi di gioia artificiali, con una macchina di questo nostro Angiolo Tomba, che riportarono grandi applausi.

In questa contingenza si fecero delle commedie da una compagnia di forestieri nel Teatro della Comunità e Accademie musicali nel convento di S. Francesco tanto che sembrava un’Arcadia.

 In mezzo a queste letizie purtroppo si fece una scarsa raccolta di grani per cui ognuno si lagnava della riduzione e il grano valeva l. 11 la corba.

L’8 settembre era accaduta la morte di varie persone in brevissimo tempo e segnatamente di Don Francesco Alvarez gesuita spagnolo, per avere bevuto l’acqua preparata da questi speziali Stefano Grandi e fratelli.  Fu fatto un ricorso alla Legazione la quale ordinò al protomedico la visita. Questa seguì subito e si ricavò da varie persone che per l’acqua preparata non era stata usata l’acqua del Tettuccio[23].  Perciò fu decretato che gli speziali tenessero solo sostanze approvate.

Domenica 2 ottobre, festa del SS. Rosario, in questa arcipretale, fu per la prima volta suonato il nuovo organo grande dal sig. Domenico Barbieri Maestro di Cappella di Bologna. La manifattura dell’organo è del sig. Domenico Gentili di Medicina.

Il 9 Don Sebastiano Bertuzzi, prete secolare di questo paese, mentre si trovava in questo convento di S. Bartolomeo e conferiva con altri padri per le prossime prediche dell’ottavario dei defunti, cadde morto con stupore di tutti.

Il 22  era stato a Bologna Sua Altezza Reale sig. Cardinale Enrico Benedetto Maria Clemente duca di York[24], vescovo di Frascati, secondogenito del Re d’Inghilterra Giacomo terzo  Stuard[25], che per sostenere la religione cattolica dovette fuggire ed abbandonare il reame infetto dalle eresie.

Il14 novembre erano state morse, e quindi morte, delle persone da cani arrabbiati nel comune di Pizzocalvo.  Il 29 novembre fu pubblicato un rigoroso bando esteso anche a Castel S. Pietro.

Siccome in questo Castello delle persone erano pericolate di notte tempo inciampando in birocce ed altri intralci che si tenevano sotto i portici, fu perciò fatto ricorso alla Legazione la quale il 16 pubblicò un rigoroso Bando e subito si videro, nel Castello e Borgo, i portici liberi.

Per la morte subitanea di D. Sebastiano Bertuzzi il 9 novembre scorso, restò vacante il Beneficio Gottardi di Jus patronato di questa Comunità eretto nella parrocchia di S. Donato di Bologna all’altare della visitazione. Il 6 dicembre la Comunità nominò e presentò Giovanni Tomba.

Il primo dicembre il Rev.mo Generale di tutto l’Ordine Agostiniano Padre Stefano Agostino Bellesini, facendo la visita a tutti i conventi della Religione, arrivò qui alle 23 ed andò subito a S. Bartolomeo ricevuto dal priore Padre Gaetano Giacomelli. Il Rev.mo per essere romano e concittadino ricevette molte cordialità.  Si trattenne in questo luogo fino il 4 e fu visitato dal Provinciale e dai superiori agostiniani.

Nella stessa occasione si presentò ad esso il sig. Gio. Battista Fiegna, depositario della compagnia del Suffragio delle Anime purganti assieme con me Ercole Cavazza che lo pregarono di interporsi presso la Congregazione de Vescovi e Regolari per erigere in questa chiesa di S. Bartolomeo una sepoltura per i confratelli e le consorelle.

Il 9 fu pubblicato un altro bando per i cani arrabbiati di questo castello e comune.

 Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il Conte Baldassarre Carati e ottenne la sua sostituzione Alfonso Manzi.

Il 22 si sentì alle ore 17 abbastanza fortemente il terremoto.

Il 25, giorno di Natale, su l’ora di notte si sentirono due leggere scosse di terremoto.

Il 27 fu estratto Consolo della Comunità per il primo semestre 1788 il sig. Gio. Alessandro Calanchi.

1788

Ottimo inverno nevoso, riempite le conserve del paese. Il Papa toglie Castel Bolognese a Bologna. Questione pellacano con arti di Bologna. Lettera degli uomini di Poggio al Papa. Risposta della comunità con le ragioni di Castello Contraddittorio di fronte all’Uditore di Camera. Proposta di portare il macello sotto la vecchia porta del Castello.

Il primo gennaio  rimpatriò, dopo sette anni, il notaio ser Francesco Conti, vissuto fuggiasco per i motivi altre volte accennati.  Si era accordato col tribunale mediante la protezione dell’E.mo Chiaramonti vescovo d’Imola e della principessa Braschi.

Giovedì 17 giunse notizia che era stato deputato presidente agli affari pubblici della nostra Comunità il sen. Marchese Giorgio Cospi. Contemporaneamente fu fatto sapere alla nostra Comunità, che dovesse rendere ragione del fatto che i Castellani e i Borghesani non concorrevano a pagare le Colette personali come usano gli altri castelli della Legazione.

 Tale premura dell’Assonteria di Governo proveniva dalle istanze fatte dagli uomini di Poggio. Su ciò le fu mandato un foglio informativo delle ragioni e prerogative in atto a favore del paese fino dalla sua origine. Confermati nella Bolla di Eugenio IV, data in Firenze l’anno 1434, in cui si dichiara che gli abitatori di questo luogo siano in perpetuo immuni ed esenti dai pesi reali e personali.

Questa compagnia del SS.mo SS.to aveva comperato un organo grande dai Padri M. Osservanti di Modena, con tutti gli strumenti da fiato. Era stato costruito nell’anno 1710 da Francesco Benedetti, organaro di Parma e era nella chiesa di S. Margarita. Fu collocato sopra la porta maggiore della chiesa della compagnia in questa piazza.

Il 3 febbraio, domenica ultima di carnevale, fu pubblicato l’Indulto per la prossima quaresima da carne, uova e latticini, esclusi però il mercoledì, venerdì e sabato di ogni settimana e i primi e ultimi quattro giorni della quaresima.

Sinora non si è avuta neve ma bensì un tempo calmo, nebbioso e poco freddo.

Sabato 23 febbraio alle ore 16 passò a miglior vita il sig. capitano Lorenzo Graffi in età di 72 anni, ultimo della sua famiglia di questo Castello. Lasciò due figlie una per nome Nunziata Mariana, maritata con Savino Savini di Bologna e l’altra nubile, imperfetta di lingua, di nome Anna. Lasciò più di quarantamila scudi, con i quali ne formò in parte un fedecomesso per i figli della Mariana e quanto all’altra parte la lasciò libera. Fu sepolto nella nostra arcipretale nel deposito ai piedi dell’altare di S. Francesco di Paola, vicino al fratello Don Ercole, protonotario apostolico. Si fecero le solenni esequie il 25 febbraio, giorno di S. Matteo, e il 26 e 27 si fece un’elemosina di 3 paoli e una candela di 4 once a ciascun sacerdote per tutti i tre giorni. Gli fu fatto un bel catafalco attorniato da trenta torce sempre accese. Furono adornati tutti gli altari della chiesa e i colonnati della cappella del Rosario, splendidamente apparata come il resto della chiesa. L’ultimo giorno, che fu il mercoledì, intervenne ai funerali il corpo della Comunità in forma con tutti i suoi ministri.   Ascoltò la S. Messa con il celebrante servito da nove confratelli della Compagnia del SS.mo SS.to e poi, intonato ad alta voce il de profundis, se ne tornò, servita da detti confratelli cappati, alla sua residenza. Grande era il ricordo di un tale collega defunto e perduto dal paese, compianto per le grandi elemosine alla povertà, desiderato per la sua munificenza dalla Comunità stessa e il paese ove sono di esso memoria eterna i tanti abbellimenti.Finalmente il 28 la Arciconfraternita del Rosario, di cui ne fu grande benefattore fece le sue esequie.

Si aveva avuto un ottimo inverno senza neve e con pochissime piogge, poi in questa mattina di domenica 6 aprile cominciò una neve e durò fino alla notte, così che restarono coperte le montagne fino alla Pieve di Pasto, non estendendosi oltre. Nella parete di questa pieve c’è scolpito in macigno il dio Pastino.

Le conserve, che sono ancora vuote a Bologna e in altri luoghi, furono in questo Castello riempite. Nicola Manaresi, locandiere al Portone di questo Borgo, mise fuori una grida che a chi gli portasse neve gli dava quattro paoli per biroccio oltre il cibo. Ne fece raccogliere più di cento carri nelle strade di Liano e nel Castelazzo e fu subito portata a Castello la notte del 7.

Il 10 venne notizia che il Papa aveva levato Castel Bolognese dalla soggezione di Bologna e l’aveva sottoposto alla legazione di Ravenna. In compenso aveva dato la pieve di Cento al Senato. Questo fatto però non fu accettato.

Il 10 aprile alla Comunità era stata concessa dall’Assonteria la libertà di potere fare il nuovo consigliere.  Immediatamente fu nominato Lorenzo di Barnaba Trocchi.  Ma vi erano impegni del gran Priore Boccaferri, del senatore Cospi e della marchesa Ghiselieri per mettere in Consiglio Antonio Giorgi, uomo assai dipendente da questo arciprete. Quindi l’Assonteria scrisse sdegnosamente alla Comunità che nella elezione del consigliere non aveva proceduto a norma dello Statuto.  La Comunità provò che si era operato secondo la consuetudine e nello stesso tempo supplicò la sanatoria. Alla fine  fu eletto il Trocchi con piacere della Comunità e rabbia dell’arciprete. Questi voleva intorbidire la pace nella Comunità mediante il Giorgi, che già si era espresso di volere espellere dal servizio pubblico i tre stipendiati cioè il medico dott. Giuseppe Muratori, il maestro di scuola Don Giuseppe Tozzi e il ministrale Franco Bociardi.  Sperava di riuscirci dividendo il consiglio con l’aiuto dei seguenti comunisti, Flaminio Fabri, Agostino Ronchi e lo zio Francesco Conti. Ma fu escluso e deluso nel suo onore, come pure chi per lui si era impegnato e massime il senatore Giorgio Cospi presidente quest’anno della Comunità.

Per tale suo dispiacere questo senatore, che aveva promesso di far avere alla Comunità la supplica che gli uomini di Poggio volevano presentare al Papa, la consegnò immediatamente, senza sascoltare la Comunità, al Legato, che la spedì a Roma.

Un pellacano d’Imola, bravo tintore di pelli e che faceva la biancheria e lavava le pelli. Fu immediatamente denunciato all’Arte de’ Cartolari di Bologna o lanini, massaro della quale era il sig. Francesco Ferradini che, Il giorno 16, fece precettare questo pellacano di dover cessare dal lavoro.

Il pellacano, di nome Antonio Mellini, ricorse alla Comunità la quale, perché non restassero lesi i suoi diritti dell’esenzione dei vincoli da qualunque arte, stante il decreto ottenuto a Roma nel dicembre 1767, fece immediatamente citare il massaro Ferratini coram E.mo Prefecto Urbis perché fermasse qualunque atto e  osservazze il suddetto decreto da Roma, sotto la pena del pagamento dei danni. In seguito fu scritto all’avvocato Francesco Vasselli a Roma che patrocinasse la causa, così come aveva gloriosamente vinta l’altra contro il Reggimento di Bologna.

Si riporta di seguito la copia della lettera degli uomini della Comunità di Poggio al Papa Pio VI

Beatissimo Padre.

Fra le comunità in oggi vaste e popolate del territorio Bolognese si può annoverare quella di Poggio sempre stata unita all’altra di Castel S. Pietro, essendo per il passato la prima incolta e non abitata che da pochi, motivo per ciò si credette di sottoporla alla seconda come di lei Matrice e rendendola così anche partecipe di que’ privilegi ed esenzioni concesse alla stessa Comunità di Castel S. Pietro.

Nel presente secolo però e da pochi anni a questa parte la Comunità di Poggio ha mutato completamente faccia giacché se da prima era spopolata ed incolta, ritrovasi in ora florida e prosperissima. Il solo divario, che se da prima percepiva utilità e vantaggio dall’unione sudd., in oggi ne risente un grandissimo pregiudizio giacché cessati li privilegi non ne sente il vantaggio che da quelli ne derivavano e soffre le tasse e spese che distinte spetterebbero alla Comunità di C. S. Pietro, per sentirne solo il vantaggio e l’utilità.

Ciò stante credette quella di Poggio di ricorrere più volte in Bologna e chi governar deve la Comunità affinché gli si volesse concedere la separazione dall’altra di C. S. Pietro, ma inutilmente perché sono ormai tre anni che attendono la dimandata grazia e nulla per anco hanno potuto ottenere non ostante le seguenti prevalenti ragioni che loro assistono e che si danno gli Uomini di d. Comunità, ed Oratori Ossequiosissimi della Santità Vostra, ai di lei piedi con tutto il dovuto rispetto e venerazione di rappresentargli, per ottenere dalla Santità Vostra il Favore e la protezione.

Si vuole che questa di Poggio paghi la spesa occorrente per la manutenzione di un vistoso orologio che esiste nella piazza di Castel S. Pietro e che serve di certo soltanto a quelli di questa comunità e non mai all’altra de supplicanti Oratori, che mai potrà sentire un’ora sonare per la sua grandissima distanza di molte miglia.

C’è il caso del Medico che solo serve quelli di C. S. Pietro che viene pagato dagli Oratori. Parimenti del Chirurgo, Maestro di Scuola, Predicatore della Quaresima e tanti altri che per niente servono né servir possono alla Comunità di Poggio. E perché dopo addossarsi tanti pesi per la di lei Matrice ne godi il frutto senza alcun diritto e ridi alle spalle dei poveri dispregiati sentendone tutta la utilità ed il comodo la sola Comunità di C. S.  Pietro. Ma almeno gli Oratori, Santissimo Padre, avessero un qualche onore, un qualche ombra apparente di utilità. Nemmeno questo gli si volle concedere

Gli Or.i devono esser totalmente esclusi dal Consiglio e Corpo governante la Comunità di C. S. Pietro. non devono mai sapere come si spendono li suoi denari né essere a parte di nessun secreto e, quei schiavi del giogo ed alla catena, voglionsi miseramente contributari. Ma se non si vuole dare ascolto alli Or.i per la richiesta separazione con riguardo il loro proprio interesse e si voglia sostenere l’insopportabile ed ingiusto peso e pregiudizio de poveri ricorrenti, almeno si avesse in vista la pubblica utilità, il buon governo e la Società.

In una Comunità unita, popolata e troppo distante dall’altra di C. S. Pietro, non vi debba essere un massaro che provveda, come usasi in tutte le altre Comunità anche le più piccole, a quei’ disordini che purtroppo possono accadere e che accadono nella campagna?

 Se succedono Omicidii, Rubamenti, Incendi, Assassinamenti, Risse e cose simili si dovrà aspettare che un qualcheduno si porti da Poggio a C. S. Pietro per levare il Massaro il quale allorché giunga a Poggio arriva dei giorni dopo la lotta?

Come potevasi invigilare le note e liste che si fanno ogn’anno per le gravezze venghino a dovere compite quando non avvi un Massaro ed uno scrivano che abbino pratica vera degli individui tutti della Comunità e di quelli che ogni anno partono dalla medesima o vengono in questa ad abitare?

Ma neppure questo motivo volsi ascoltare. Ma buono per gli Or.i che hanno in sorte sudditi di un supremo Principe tanto giusto e clemente, quale è la Santità Vostra, li coraggiosi pertanto avanzano la loro supplica  al trono della Santità  Vostra affinché  accetti in vista e la utilità privata de poveri ricorrenti e quella del pubblico governo  e voglia ordinare la richiesta e tanto bramata separazione e come umilmente di nuovo implorano ed aspettano, non mancando eglino di porgere continuamente fervente preghiera all’altissimo Iddio per la conservazione della Santità Vostra.

Risposta data mediante il Consultore Giacomo Pistorini all’Em.o  Legato Archetti e spedita al Santo Padre

Em.o e R.mo Principe

La Villa di Poggio non solo è soggetta alla Podesteria di Castel S. Pietro, come sono molte Comunità del contorno ma è unita ed incorporata da immemorabile tempo alla Comunità di C. S. Pietro formando però, nello spirituale, un separato e distinto Comune.

La proporzione in cui stanno le Comunità di C. S. Pietro e la Villa di Poggio, giusta le autentiche notizie note dall’agente di Camera è la seguente. L’intera Comunità è composta N. 354 teste tassabili, di queste N. 256 appartengono alla Comunità di C. S. Pietro come tale e N. 98 alla Villa di Poggio essendo quella intestata nei libri sotto il nome di Socii della Villa di Poggio.

Le gravezze comunitative alle quali i Socii del Poggio soggiacciono per C. S. Pietro, oltre le altre gravezze d’imposta, ascendono ad annuali l. 1.283 giusta la nota somministrata dallo stesso agente di camera. Le suddette gravezze riguardano in massima parte gli oggetti delle antiche querelle della Villa di Poggio contro C. S. Pietro. Massaro, Scrivano, Ministrale, Orologio, Cero pasquale, Elemosine, Predicatori, Medico, Chirurgo, Maestro di scuola. Ecco in succinto i soggetti della contribuzione.

La sproporzione fra peso e comodo che in queste gravezze si verifica per gli abitatori di Poggio fu la causa del ricorso che fecero essi fin dall’anno 1734 per una smembrazione. Ricorso che fu senza effetto giacché l’Assonteria di Governo sotto il giorno 5 luglio del detto anno decretò: Che stanti le cose dedotte nella risposta della Comunità di C. S. Pietro non può essere dato luogo ad alcuna innovazione.

Risorse questa medesima pretesa nell’anno 1785 per supplica presentata dagli abitatori di Poggio all’Em.o Legato di quel tempo. Fu esplorato sulla supplica il sentimento della detta Assonteria ed essendosi questa, come viene detto, appalesato contrario alla chiesta separazione, l’istanza cadde da sé medesima. Rimase inesaudita senza però che fosse emanato decreto o favorevole o contrario.

Rivive oggi di nuovo l’istanza per supplica degli uomini di Poggio presentata alla Santità di N. S. il quale avendola rimessa all’Em.o e R.mo Sig. Cardinale Segretario di Stato onde ne parli, questi ne richiede informazione e parere di Vostra Em.za R.ma.

Si è compiaciuta Vostra Em.za di comunicare la supplica agli Assonti di Governo per averne il loro voto ed eccolo ingenuo ed imparziale.

Fondano gli uomini di Poggio la loro Istanza per la separazione da C. S. Pietro sopra due sostanziali motivi. Uno è quello della mutazione di loro circostanze giacché la loro Villa era una volta, e al tempo della unione, un distretto di poche case e di pochissimi abitatori, mentre oggi trovasi essa coltivata, accasata e popolata di circa 580 anime. E l’altro motivo consiste nella somma sproporzione fra peso e comodo nella contribuzione che subiscono agli accennati pesi comunitativi.

Con quale principio, dicono gli uomini di Poggio dobbiamo noi contribuire al mantenimento d’un Orologio che non udiamo, di un Ministrale che non ci serve, di un Massaro e d’un Scrivano che per la distanza non possono essere pronti ai nostri bisogni, d’un Medico, d’un Chirurgo, d’un Maestro di Scuola, d’un Predicatore, se di questi, per la stessa ragione di distanza, non possiamo approfittare?

Vanno più oltre gli Uomini di Poggio e si querelano di un altro genere di esorbitanza qual è quello che gli abitatori del Castello e del Borgo vadano tutti esenti dalla sopportazione di tali pesi rifondendoli interamente a carico dei lavoratori della campagna il che, se è grave per quelli che per ragioni di vicinanza comunque ne profittano, gravissimo sarà poi per coloro che a motivo della distanza non sono a portata di profittarne.

Dopo tutto questo gli Uomini di Poggio concludono che se sia vero che il Governo possa, per mutate circostanze, procedere alla smembrazione di due distretti una volta uniti e che molto più possa farlo ove ne concorrano cause gravi. Non può darsi certo più grave situazione della loro, né più favorevole circostanza per ottenere l’implorata smembrazione. Non dovendo secondo loro ostar punto il Decreto contrario che patirono nel 1732, perché le circostanze d’allora non erano forse le presenti e perché capziose furono le ragioni addotte dalla Comunità avversaria e molto meno potendo fare ostacolo il fatto del 1785 perché non ebbe alcun esito deciso e non è può quindi far stato né favorevole né pregiudizievole.

Prescindendo per ora dai motivi di separazione che affacciano gli Uomini della Villa di Poggio, pensano gli Assunti che emettere massima favorevole o contraria alla richiesta smembrazione dipenda principalmente dallo stabilire di qual indole sia l’unione della Villa di Poggio colla comunità di C. S. Pietro.

Altra è quella unione che in origin sua ebbe causa dalla volontà del Principe e del Governo per legali e approvati riflessi di utilità e di necessità.

Altra e ben diversa è quella unione che chiamasi accessoria e subiettiva e che subordinando il luogo unito a quello cui è stata fatta l’unione, fa nascere in favor di questo un titolo ed un diritto di aver soggetto a sé il luogo unito e di averlo soggetto in perpetuo,

Trattandosi della prima specie di unione non vi sarebbe difficoltà alcuna che come le cause di utilità e necessità la suggerirono così le stesse cause animar possano, a circostanze variate, una smembrazione, giacché in tale supposizione nessun diritto si vivifica nella Comunità principale di mantenersi nel primitivo stato d’unione con la subalterna.

Si osserva per altro che la smembrazione si deve sempre fare in modo che non ne nasca grave pregiudizio ad alcuna delle parti interessate. ut Loca, Communitates et Territorio dividi et separari voleant, remota qualibet reclamatione, cum tempe constat nullam ex ea separatione pregijditi ne damni ratione posse intercedere.

Ma nell’altro caso di unione che abbia avuto in origine un titolo, sia questo di contratto sia altro qualunque, che si trovi atto a stabilire nella Comunità principale un diritto di tenere unita la Comunità o Villa subalterna, non si vede come, senza una massima lesione di questo diritto, si potesse procedere a una smembrazione.

Ben è vero però, ed è cosa da notarsi, che non sempre queste unioni e queste incorporazioni subiettive hanno luogo a tutti gli effetti. Tal volta sono esse ordinate al mezzo di giurisdizione e di Governo. Talvolta lo sono anche all’effetto che la Comunità principale possa collettare la subalterna come: Ubi itaque Territorium sic fuerit unitum et adeo ut sic nihilo contradistinctum ab alio, cui data fuit, scilicet totalis ac perpetua annexio quatenus intra fines eiusdem Territorii principalis proedia adesse et seu consistere habeantur, eo sane casu non modo quoad Regimen iltius subesse dicuntur, sed etiam quoad   merce Realis Collecte impositionem a Castro seu Territorio  principali faciendam, ita ut pro iisdem collectis, seu oneribus realibus imponendis super Bonis que eius districtii sita sunt predicto Castro vel Territorio principali obligata sive hypothecata etiam remaneant.

Applicando questa teoria al fatto e pensando a decidere della qualità della unione della Villa di Poggio alla Comunità di C. S. Pietro e a riconoscere qual grado di superiorità e rispettivamente di soggezione si verifichi fra quelli luoghi, si trova che la Comunità di C. S. Pietro si appoggia ad un titolo originario ed anche ad una immemorabile per provare la totale perpetua soggezione a lei della Villa di Poggio.

Il primo documento è un decreto dei Sedici Riformatori del 14 Aprile 1416. Ricorsero a questi gli uomini di C. S. Pietro ed opponendo che molte terre del Vicariato di C. S. Pietro a lei soggette e sottoposte secondum formam Statutorum et Provisiones Communis Bononie erano state alla di lui obbedienza sottratte, cosichè non era più in grado di sopportare i pesi e le gravezze. Chiese perciò che fossero reintegrati e che dette Terre e Curie, fra le quali quella di S. Biagio di Poggio venissero di nuovo ridotte alla di lui obbedienza.

In fatti i Riformatori col precitato loro decreto: Dictu Vicariatus C. S. Petri predicti ad omnibus et singulis suis terris et Comunitatibus (…)reintegraverunt et D.D. omnes et singulos Terra et Communitates Terrarum suprascriptarum in, et a ipsius Vicariatum ab eius affectuate obbedentia reduxerunt.

Venne poscia il Sommo Pontefice Eugenio IV e nell’anno 1435 nel mese di gennaio con suo Breve, a petizione ed instanza degli Uomini di C. S. Pietro dichiarò come si disse altra volta: quod homines Curie Podii S. Blasii intelligantur de cetero esse in Curia et sub Curia Castri S. Petri. Signatum est. Placet presertum quia consenserunt.

Né può mettersi in dubbio che la Soggezione di Poggio fosse piena e a tutti gli effetti, ed anche a quello di poter essere quegli Uomini colletali dagli Uomini di C. S. Pietro, poiché risponde il Pontefice Eugenio in d. Breve ad un terzo postulato:

Quod homines cujuscumque conditionis existant habentes possessiones aut domos, aut alia Bona de presenti vel in futurum super Curia et territorio Castri S. Petri et alia Curia superius applicata, teneantur et debeant solvere collectas et gravamina imposita at imponenda per Massarius, Commune et Homines dicti Castri S. Petri. Signatum est. Placet de omnibus aliis de civibus autem ad per quem volumus supersederi.

E che questa sogezione fosse all’effetto di subire i pesi tutti del Vicariato. lo convince anche il Decreto accennato del 1426, ivi:

Cassantes irritantes et ex certa scientia annullantes omnia et singula decreta mandata et quecumque alia disposita particulacia hactenus per quemcumque Officialem, aut omne quodcumq. Regimen Communis Bononie facta, indulta vel concessa prout supra vel  occasione exemptionium, aut liberationum dictatum Terrarum Communitatum vel Universitatum dicti Vicariatus et cuilibet earum et cujuslibet earum Massariis, Sindicis, Officialibus et etiam singularibus Personis que ad  Vicariatum prefatum at ad expensas et onera quelibet ipsi Vicariatu obventura de cetero conferant et contribuant cum effectu prout conferre teneantur et consuaverunt ante aliquam esemptionem vel substructionem eis indultam vel per eos ipetratam a Vicariatu predicto et prout tenentur ex forma Statutorum et provisionum Communis Bononie.

Posto un titolo di unione così specifico corroborato principalmente da uno stato di più di tre secoli per i quali la Villa di Poggio è stata costantemente unita a C. S. Pietro e soggetta ai pesi comunitativi da essi imposti, non si vede veramente come si possa di podestà ordinaria e senza una manifesta violazione del diritto ordinare e volere la scorporazione di quei di Poggio dalla Comunità matrice.

Infatti inutilmente sempre lo hanno tenuto quei di Poggio. I tentativi non sono di questo secolo soltanto come è stato di sopra accennato. Fin dall’anno 1553 li 6 agosto li Uomini di Poggio fecero procura a domandare al reggimento:

Divisionem dicti eorum Communis, seu Ville a Communi, seu Universitate  d. C. S. Pietro et ad petendum ipsis assignari partem suam onerum seu  Gravaminum tam Realium, quam personalium divisam et superatam ab aliis oneribus seu gravaminibus dicti Communis  seu Universitatis Castri S. Petri.

Che è quanto la loro presente postulazione dopo trascorsi due e più secoli. Vero è che non vedesi l’uso fatto, né lo sfogo di questo mandato.  Ma ragionevolmente si deve supporre che non sia egli rimasto inoperoso e né può prendere argomento di credere che come nell’anno 1732 fu rigettata la loro istanza con positivo decreto, così lo fosse egualmente nel secolo sedicesimo.

Venendo all’esorbitanza de pesi procedente dalla esenzione delli Uomini del Castello dalle gravezze communitative, contestata in fatto come vera e a memoria d’uomini praticata dall’Agente di Camera, ecco quanto rilevasi in ordine all’origine di questa esenzione.

Fin dall’anno 1390, 28 gennaro, esiste un decreto dei Sedici riformatori dal quale descrivasi che fin da quel tempo gli abitatori in quel Castello godevano: Immunitationem Civium

Queste immunità vengono eziandio accennate in favor degli Uomini di C. S. Pietro nell’altro già memorato Decreto dei XVI Riformatori del 14 aprile 1416. ma mette il colmo il su citato Breve di Eugenio IV in cui al primo postulato degli uomini di C. S. Pietro: Quem homines Castri S. Petri habitantes, vel qui in posterum  habitabunt in d. Castro et ejus Curia sint esempti at liberi in perpetuum ab omnibus datiis et gabellis realibus e personalibus.

Si risponde. Signatus est. Onera que circa custodia Castri verteventur intendinas tollere aut minuere de datiis placebit quod saldetur pro dennarius quattuor libras tenendet ibidem scassam per Carera.

Provano questi documenti un titolo di esenzione accordato agli uomini abitanti nel Castello. Qual sia poi in specie ed in effetto questa esenzione e quali oggetti comprenda, lo dimostra la osservanza successiva di più secoli. Osservanza che rimane avvalorata nei tempi antichi, incominciando dall’anno 1547, da più rendimenti di conti fatti dai massari di d. comune ricevuti costantemente ed approvati e, ne più moderni tempi, dai libri delle colletorie esibiti in Camera senza reclamo né per parte della Camera né per parte degli altri contribuenti.

Prendendo per ultimo in considerazione l’altro caso di esorbitanza o piuttosto di sproporzione fra gravezza e comodi che forma l’oggetto principale della querela degli uomini di Poggio, si avverta in primo luogo che quanto piena e a tutti gli effetti si riconosce la soggezione degli Uomini di Poggio, tanto legittima è l’esenzione degli abitatori del Castello, gli uomini di Poggio non hanno diritto a querelarsi d’una conseguenza giuridica della soggezione loro e della esenzione altrui.

Si avverta in secondo luogo che non sono poi totalmente a carico loro le gravezze comunitative, che giusto il dato elenco, ascendono a l. 1783: 5 annue, delle quali l. 526: 5 annue, giusto l’elenco dato, si sopportano dalla Comunità con suoi particolari proventi senza alcuna concorrenza di Poggio.

Questo è quanto in linea di fatto e di jus, per la pura e semplice verità, si sottopone alla considerazione di Sua Em.za R.ma intorno alla supplica degli uomini di Poggio.

Si poteva credere di aver potuto convincere la parte contraria ma non fu così poiché, replicati gli impegni col card. Segretario di Stato, ecco una nuova premura, mediante lettera del seguente tenore:

E.mo e R.mo sig. mio Oss.mo, col pregiato foglio delli 16 del cadente, mi è pervenuta l’informazione di V. Em.za sulla instanza avvanzata a N. S. dalli uomini di Poggio per la loro separazione dalla Comunità di Castel S. Pietro unitamente ai fogli compiegativi che codesti senatori Assonti di Governo le hanno presentati. Questi però fondandosi in tutto sulla vera natura dell’unione colla quale la Villa di Poggio fu fin dal suo principio aggregata alla stessa Comunità di Castel S. Pietro, egli è questo un articolo che, come V. Ec.za ben osserva, esige lunga e difficilissima indagine a motivo del tempo assai remoto in cui seguì la unione med. Sarebbe stato per tanto opportuno che avessero insieme dimostrato l’utilità che rissentir possono gli abitanti di Poggio dalle imposizioni che sono costretti a pagare a Castel S. Pietro ed accennato se il medico ed il chirurgo dello stesso Castel S. Pietro prestino veramente l’opera loro in servigio delli abitanti di Poggio e se i figli di questi possano profittare del maestro di scuola stabilito nello stesso Castello, indicando al tempo stesso qual sia la distanza da un loco all’altro. Lasciando sussistere le esposte doglianze senza additarne

la insussistenza o almeno la esagerazione, non può il ricorso non fare della impressione, né fa minor specie il vedere che si preferisce egualmente far parola sulla privazione di ogni officio comunitativo dei ricorrenti. Attenderò dunque dall’E. V. sopra ciò gli occorrenti ulteriori lumi, ma intanto rimane all’arbitrio di V. E. di far riassumere il trattato di concordia, onde vedere che potesse la controversia comporsi con reciproca soddisfazione con quelli equi compensi che ponessero fine alla querela e pieno di ossequio passo a baciarle umilissimamente le mani di V. Em.za.

 Roma 30 aprile 1788. U.mo D.mo Servo vero. Card. Boncompagni.

L’8 maggio tale lettera fu comunicata al nostro legale Piani

Il giorno 22 fu creato notaio in Bologna mio figlio Francesco Gaetano Camillo Cavazza nel collegio di Bologna. Il 12 giugno poi prese a Bologna la laurea dottorale more civius.

Il 21 il legale Luigi Piani scrisse alla Comunità che, stante gli inviti del sig. Uditore di Camera per l’affare di Poggio, si dovessero portare due del consiglio a chiarire i punti proposti nella lettera della Segreteria di Stato. La Comunità deputò il sig. Francesco Conti notaio, che fu poi estratto Consolo, e Ercole Cavazza notaio e segretario della Comunità. Questi andarono immediatamente dall’Uditore, dove vi fu un aspro contradittorio. Intervennero le seguenti persone, per Poggio l’avvocato Ignazio Magnani ed Irineo Gualandi, per il Senato l’avvocato Giacomo Pistorini fautore anche di Castel S. Pietro e per la parte di Castel S. Pietro i suddetti due deputati col loro procuratore Luigi Piani. Anche se si giustificarono le ragioni della Comunità e si rispose alle obiezioni di Poggio, nulla si concluse. Quindi si prese tempo per spedire un sommario, giacché l’avvocato Magnani chiese le vacanze per il prossimo luglio. Così seguì si finì senza alcuna risoluzione.

Il 24 giugno fu estratto Consolo per il prossimo secondo semestre il sig. Francesco Conti.

Il 9 luglio il sig. Confaloniere conte Vincenzo Graffi, stante le istanze a lui fatte, ordinò che si vedessero le ragioni della Comunità per le esenzioni dalle Arti. Queste, segnatamente l’Arte de Cartolari, vogliono molestare Castel S. Pietro per una concia portata qua da Antonio Melini. Per questa questione furono deputati il consultore Gavaggi e il sindaco notaio Filippo Tacconi, stante che la nostra Comunità pretendeva di essere mantenuta nel suo diritto di esercitare liberamente qualunque Arte.

Per la grande siccità si fanno tridui di penitenza in tutte queste chiese.  La raccolta fu scarsa per cui oggi si vende il grano 29 paoli la corba e il formentone a 22 paoli.

Fu spedito all’Assonteria un elenco delle Ragioni che tutelano la Comunità di Castel S. Pietro nel contrasto con le Arti di Bologna.

Fu nello stesso tempo concesso ad Ercole Bergami di alzarsi con il fabbricato sopra le mura del Castello dalla parte di levante ove è la fornace da pentole, come appare da pubblico strumento sotto diversi patti, convenzioni e condizioni.

Il 3 settembre fu convocata una riunione avanti l’Uditore di Camera di Bologna per la controversia di Poggio con questa nostra Comunità. Per questo affare si fece fare al perito Vittorio Conti la pianta del nostro territorio e della Villa di Poggio. La relazione mostra che il centro di Poggio, col maggiore numero di case di quel villaggio, è più vicino a Castel S. Pietro che a Medicina, Castel Guelfo e Villa Fontana. Inoltre si spedirono le Capitolazioni seguite nel 1416 fra la Chiesa e Bologna in cui si trova un Capitolo con il quale si pattuisce la soggezione di Poggio a Castel S. Pietro. L’esito della riunione è stato il seguente: che partes utantur jure suo.

Alla fine dell’anno scorso i Priori e gli Ufficiali della Compagnia cappata del Suffragio in S. Bartolomeo avevano dato una supplica agli E.mi Cardinali della Congregazione de’ Vescovi e Regolari per seppellire ed accompagnare i cadaveri dei confratelli alla chiesa.  Il 22 agosto scorso fu dato il rescritto favorevole ed è il seguente: Oratores et singuli eorum utantur jure suo super electione sepulcri.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il marchese Annibale Ranuzzi per il prossimo anno 1789. Per la sostituzione di questo ufficio concorrevano i tre notai abitanti in Castello, cioè Francesco Conti, Ercole Cavazza ed Antonio Giorgi per il quale erano note delle raccomandazioni.  Perciò fu convenuto fra i medesimi, a mediazione del sig. senatore Conte Giuseppe Malvasia, di procedere ad una estrazione privata così che, fatto il turno, fu il primo il notaio Francesco Conti.

Contemporaneamente fu spedita a Roma la informazione del card. Legato per la vertenza della Comunità di Castel S. Pietro e Poggio, senza poter conoscere il pensiero dell’Uditore di Camera.

Il 27  fu estratto Consolo per il primo semestre il sig. Francesco Gordini dimorante a Cesena a cui fu dato l’avviso e supplì per esso il notaio sig. Conti.

In questo tempo fu proposto in Consiglio di collocare il macello di carne grossa sotto la porta vecchia del castello. Questo macello si teneva nel Borgo in casa già dei Lugatti e ora dell’ospitale della SS. Trinità di Bologna, così ci furono forti pressioni perché non fosse spostato.

Lorenzo di Barnaba Trochi che era subappaltatore del Dazio Rettaglio di questo luogo,

volendo favorire la Comunità, insistette fortemente per il trasporto del macello sotto la porta vecchia e così terminò l’anno.

1789

Vari casi di mortalità nelle persone. Passagio sotto altare emana grave fetore, intervento dell’Assonteria di sanità. Furto al Monte di Pietà di Bologna. Rifiuto di accogliere richieste poggesi. Costruzione conserva a fianco della porta vecchia. Richiesta reintegrazione Console pro tempore nel Consiglio dell’Ospitale. Chiusura fornace delle pentole. Apertura pastarolo all’uso di Genova e Puglia in Borgo. Storia dei fratelli Dalfiume, guardacaccia nel veneziano. Trama dei cugini Bertuzzi contro Luigi Musi.

Cominciò una mortalità nelle persone che, in sette giorni o al più in nove, ne provocava la morte. Ci furono freddi eccessivi per cui gelavano le botti del vino. Il giorno della Epifania venne finalmente una grossa neve per cui si calmò il freddo. Però la povera gente, per la miseria e i freddi, non trovando sussidio, periva. In questo Castello e nel suo territorio c’erano molti malati, però nell’Ospitale de’ Poveri della parrocchia non se ne voleva ammettere che tre o al più quattro pur essendovi 12 letti.   Quindi la Comunità ricorse al Governo di Bologna. Inoltre, siccome si vedeva la crudeltà dell’arciprete Calistri nel non volere ammettere che capricciosamente i poveri infelici e da alcune farsi pagare, decise di sussidiare con le proprie rendite gli infermi. Ne scrisse all’Assonteria e ne ebbe il permesso.

In questo frattempo la Comunità aveva fatto il macello pubblico sotto la porta vecchia trasferendovi la macelleria di carne grossa. Francesco Andrini e Giuseppe Lelli ricorsero alla legazione per avere il riparto del dazio. L’Uditore di Camera, giudice delegato richiese alla Comunità il suo voto. Essa rispose che l’introdurre più di un banco da carne grossa sarebbe stato vantaggioso e avrebbe tolto occasione di disordini che accadevano per la qualità delle carni e per l’ubicazione del puntodi vendita.

L’arciprete aveva costruito un passaggio al cimitero che, passando sotto la mensa dell’altare di S. Antonio, introduceva pure alle sepolture. Da questp passaggio esalava un grande fetore per cui il popolo, temendo d’una influenza pestifera, ricorse con supplica alla Comunità perché prendesse provvedimenti.    

Questa spedì il ricorso all’Assonteria di Sanità, anche perché dai primi di gennaio fino al 2 febbraio erano morte 47 persone.  Sette erano morte nella strada di Saragozza di cui, in poco più di dodici giorni, cinque nella famiglia dei fratelli Dalfoco cioè tre donne e due uomini.

Per quanto riguarda poi il ricorso fatto all’Assonteria di Governo per la condotta nella gestione dell’Ospitale, questa ordinò che gli fosse data una relazione impegnandosi a provvedere. La comunità nominò due Assonti sopra questo fatto e furono il Sig. Francesco Lorenzo Conti Proconsole e sig. Gio. Battista Fiegna.

L’Assonteria di Governo aveva eletto per senatore Presidente agli affari di questa Comunità il sen. Giacomo Carlo Davia. Ne fu fatto l’avviso al Consiglio.

Successivamente, stante il ricorso fatto all’Assonteria di Sanità per l’influenza accennata e inoltre per l’apertura alle sepolture da cui che esalava un grande fetore, l’Assonteria il 7 febbraio spedì a questo Castello il dott. medico Gio. Domenico Perdieri affinché visitasse i malati e prendesse le dovute informazioni.

Il lunedì 9 arrivarono a Castello, spediti dall’Assonteria di Sanità, il sig. conte e senatore Giuseppe Malvasia col segretario Angelo Garimberti e il dott. medico Carlo Mondini a fare, sopra l’esposto e il ricorso, la visita formale per parte del Governo laicale. Per parte del governo vescovile vennero i dott. medici Donelli e Luigi Galvani. In seguito questi tutti uniti, alla presenza di numeroso popolo grande essendo un giorno di mercato, visitarono il cimitero e l’apertura fatta dall’arciprete sotto l’altare di S. Antonio Abbate, quindi si riunirono nel palazzo Malvasia.

Mentre che i medici facevano la loro visita, il segretario Garimberti chiamò tutti i firmatari del ricorso fatto alla Comunità e fece con essi il confronto della loro istanza. Il dopo pranzo poi si radunò la Comunità nel palazzo Malvasia dove erano presenti i 4 medici e il senatore col segretario. Si fece una lunga riunione e fu discussa l’istanza del fetore e il problema dell’Ospitale. La conclusione fu che tutto sarebbe stato riferito all’una e l’altra reggenza laicale e vescovile.

 Il sussurro popolare, l’animazione della gente forestiera non fu indifferente per essere giorno di mercato e di grande affluenza per la buona giornata. Ciò fatto il dopo pranzo su le 22 partirono tutti per Bologna da dove si attenderà la risoluzione di tutto.

Il 22 febbraio, ultima domenica di carnevale, fu pubblicato l’indulto carne di ogni sorta, furono eccettuate le 4 tempora, i primi e ultimi quattro giorni della quaresima stessa e il mercoledì solo per le uova.

Il 5 aprile giunse la notizia che l’E.mo Segretario di Stato sig. Card. Boncompagni aveva scritto al Legato sig. Card. Archetti sulla vertenza fra la nostra Comunità con la Villa di Poggio. La sua volontà era che il medico e il chirurgo servissero gratis i poggesi miserabili, con la condizione che gli fornissero la cavalcatura, che il maestro di scuola, nel numero dei dodici fanciulli che vanno gratis, ne ricevesse due di Poggio e che si ammettessero due di Poggio in Consiglio.

Rispetto al medico e chirurgo la Comunità concordò tutto, ma quanto all’ammissione in Consiglio di due poggesi rifiutò.  Infatti non dovevano essi profittare degli emolumenti della Comunità che provengono dalla fossa e dal mercato. Si scrisse prontamente al Governo affinché non acconsentisse a questa determinazione, stante che lo Statuto comunitativo contemplava solo i domiciliati in paese e le loro famiglie.  In secondo luogo perché le rendite della Comunità sono tutte proprie, né mai vi ha influito né influisce Poggio, poiché provengono dalla fossa che circonda il paese e dal mercato.

A Bologna era avvenuto 26 gennaio scorso un furto strepitosissimo di gioie e cose preziose nel Monte di S. Petronio ammontante al valore, per quanto si riferisce, di mezzo milione di scudi. Finalmente si scoprì il ladro che fu un certo Conte Girolamo Ridolfi bresciano, uomo di grandissimo talento, che con una chiave speciale apriva ogni serratura senza forzarla. La chiave poteva essere ingrandita o impicciolita secondo il bisogno mediante un ferro che si introduceva sopra alla canna. Si sono scoperti molti furti, anche di anni addietro e tutto è stato trovato sepolto nella sua abitazione di via S. Felice. Grandi cose si raccontavano di questo mostruoso ingegno. Cominciò a rubare a dodici anni nel collegio nobile di Ravenna.

In questo frattempo venne l’elogio del padre Felice cappuccino sacerdote da Castel S. Pietro, morto in odore di santità in Ferrara essendo Guardiano. Il suo ritratto è in questo convento di cappuccini. Il compendio della sua vita si trova nella mia raccolta degli uomini e donne chiare per santità di vita.

Il 29 maggio si ebbe riscontro da Roma che, a causa della informazione contraria a Castel S. Pietro fatta da questo E.mo sig. Card. Legato a Roma in pro della Villa di Poggio, era stato decretato dall’E.mo sig. Card. Boncompagni Segretario di Stato che si ammettessero due fanciulli di Poggio a questa scuola gratis, che il medico e chirurgo medicassero gratis gli infermi miserabili di Poggio con la condizione di somministrare loro la vettura e infine che si ammettessero due di Poggio alle adunanze consigliari.

La Comunità subiva di malavoglia l’ammissione di due di Poggio alle adunanze consigliari e a usufruire degli onori e degli utili della Comunità che provengono da suoi effetti. che esistevano molto prima della subordinazione di Poggio e ai quali non confluisce né contribuisce Poggio. Perciò fu fatta replica al Santo Padre da parte della Comunità di Castello affinché decretasse l’esclusione di quelli come consiglieri, non dovendo essi sedere alla mensa a cui non concorrevano.

Essendo nati disordini nella vendita delle carni macellate vendendosi un capo per un altro, fu fatto ricorso dalla Comunità al sig. Card. Legato il quale mediante suo ordine concesse alla stessa la visita delle carni e la loro bollatura per ovviare alle frodi.

Fu contemporaneamente dalla Comunità decretato di fare una conserva sotterranea vicina al macello pubblico con una stalla per le bestie da macellare sia grosse che minute, tutto appare dal mio rogito.

In questo mese di maggio il padre Angiolo da Castel S. Pietro sacerdote cappuccino, al secolo Luigi, figlio di Anna Farnè e di Felice Cavalli, famiglia antica ma povera, dopo avere esercitato bravamente l’ufficio di faccendiere, fu dal R.mo Agostino da Bagnacavallo, generale cappuccino, eletto per suo segretario nella visita generale di tutti i conventi e province della Religione.  Partì col generale da Bologna il 2 luglio ed andò nei Grigioni alla riforma di quei conventi tenendo le strade della Lombardia.

Il 24 giugno fu estratto Consolo il sig. Agostino Ronchi.

Il 13 luglio l’E.mo Card. Gio. Andrea Giovanetti arcivescovo di Bologna venne a fare la cresima. In tale circostanza la Comunità in forma andò a visitarlo in casa dell’arciprete. Qui, entrato nel discorso dell’amministrazione dell’Ospitale degli Infermi della parrocchia, si oppose a tutto e nulla fece. Nell’oratorio dell’Arciconfraternita del SS.mo, essendovi due campane, ne fece levare una per compiacere questo arciprete.

C’erano stati grandissimi freddi e nevi, ciò non ostante si fece un’ottima raccolta di grano. Ora però c’era mancanza di acqua e non si poteva macinare in alcun luogo.

Il 14 luglio per ordine del Senato di Bologna furono piantati i termini miliari nella via romana. Risultò che dal principio del nostro Borgo fino alla città vi erano undici miglia[26].

Il 17 agosto fu stipulato, a mio rogito, un contratto fra la nostra Comunità e sig. Lorenzo Trocchi, consigliere, per la costruzione di una conserva sotterranea vicina al nuovo macello pubblico. Fu altresì pubblicata la facoltà concessa alla Comunità di visitare e bollare qualunque carne messa in vendita e ciò in virtù della grazia di sua Em.za sig. Card. Legato Archetti.

La Comunità si attivò subito mediante il nostro pubblico definitore che andò a leggere la facoltà ottenuta nella macelleria pubblica alla presenza del popolo, che applaudì assai.  Per bollatore fu deputato Marcello Babina con lo stipendio di sei scudi l’anno.

Il castrato e le carni bovine si marcano nei quattro quarti nella parte interna con lo stemma della Comunità, le pecore, le capre e i montoni con un altro bollo con le tre lettere iniziali C.S.P. Ciò allo scopo che nessuno si inganni.

Il 17 settembre si cominciò a scavare la pubblica conserva per le nevi presso il macello nella fiancata della porta vecchia.

I dazieri di Bologna, avevano ordinato a questo doganiere di Castel S. Pietro di fare le bollette del grano, marzadelli, semola e farina che si levano dal Castello e si trasportano per la provincia. Questo col pretesto di dovere avere la bolletta della dogana il circuito delle tre miglia nelle comunità sul confine.

Il 6 ottobre i notai del paese furono in necessità di ricorrere al Collegio Notarile di Bologna facendo presente che ammettere questo diritto alla dogana è lo stesso che levare l’emolumento al Podestà locale che è ricavato da tali bollette per cui si pagano 4 quattrini per corba. Perciò il Collegio dei Notai, riconosciuta la giustezza dell’istanza, determinò di fare la guerra contro i dazieri.

Per le gagliarde pressioni che faceva la villa di Poggio presso il S. Padre contro la nostra Comunità, questa il 12 luglio aveva supplicato il sig. ambasciatore di Bologna presso il S. Padre sen. Gozzadini ad interporre i suoi offici presso l’E.mo Segretario di Stato per annullare le istanze dei poggesi.  Il 25 luglio questi rispose favorevolmente che avrebbe messo per noi tutto l’impegno.   Difatti fu presentata la seguente supplica al papa:

alla SS. di N. S. Papa Pio VI per la Comunità di Castel S. Pietro.

Bea.mo Padre

Con quel rispetto che devesi alli ordini de’ superiori, non si può dispensare la Comunità ed abitanti di Castel S. Pietro di portare al trono delle SS. VV. la sua rappresentanza delle providenze, che rispetto le sue municipali adunanze pensa di prendere l’E.mo Legato di Bologna

La terra di Castel S. Pietro contado e giurisdizione di Bologna dall’antichissimo tempo, ha formato da sé sola Comunità e va fornita di tutte quelle Prerogative e Privilegi che a questo uopo richiedevasi. L’anno 1435 sotto il pontificato di Eugenio IV dessiderò ed ottenne di essere a questa terra sottomessa con unione, per altro non già parificativa ma subbiettiva, la Villa di Poggio che non è se non una adunanza di alcune familie, le quali non formano Comunità, o sia corpo fornito di entrata, anzi li individui di queste stesse familie non possiedono alcuna sorta di stabili, industriandosi nel lavorare li beni d’altri. Qualche secolo dopo seguita la unione sud. cominciò la Villa di Poggio a tentare di sottrarsi dalla subordinazione sud. ed almeno di essere considerata come eguale, pensiero per altro mancante di ogni fondamento. Portata questa loro ultimamente pretensione al giudizio del E.mo Segretario di Stato, trovò questa non avvalorata la dimostrazione sud., riconobbe mal fondata la pretesa eguaglianza, onde esclusa l’una e l’altra dette qualche providenza per che dal medico, dal chirurgo e dal maestro di scuola un qualche sollievo proporzionale alla popolazione ne sentissero anco li poggiesi e siccome questi pagano unitamente a Castel S. Pietro le gravezze e colette che si impongono non già dal comune di Castel S. Pietro  ma dalla Ecc.ma Camera di Bologna e che servono per  pagamento de sudd. ministri e per li pesi che a comune vantaggio della Provincia si pagano alla Camera sud., credette forse che tutte le rendite di Castel S. Pietro fossero comuni alla Villa di Poggio, onde nella lettera in cui si suggerì le providenze sudd. aggiunge: Che siccome li Poggesi contribuiscono nella rendita comunitativa, così è dovere che influiscano nella amministrazione, avendo luogo nel Consilio municipale e si potrebbe stabilire che la sesta parte de consilieri fossero poggesi.

Quanto trovarono giuste le altre providenze li O.ri, altrettanto credettero o non bene fondate o non bene interpetrate dall’E.mo Legato di Bologna l’admissione de due poggesi in Consilio. Quindi se si presentarono novamente con dei ragionati e somariati fogli all’E.mo Segretario di Stato, gli fecero riflettere e probarono con autentici documenti che la unione di Poggio non era  parificativa ma subiettiva , che Castel S. Pietro aveva le sue particolari rendite, in cui niente contribuiva la Villa di Poggio, che li consilieri, secondo lo statuto, devono avere una possidenza di mille lire e che non era possibile ritrovare questa possidenza nei poggesi, gente tutta miserabile e mancante di facoltà. Che essendo finalmente Poggio distante qualche miglio da Castel S. Pietro si rendeva molto difficile il chiamarli a quelle consiliari adunanze che il bisogno della popolazione e gli ordini del Governo molte volte esige che si tenghino sul momento, come potrà la Santità Vostra rilevare dalla sommariata memoria che esiste in Segretaria di Stato.

Il cardinale Legato per altro è di sentimento diverso dall’E.mo Segretario di Stato e pensa di non limitare la interferenza dei due poggesi alle consiliari adunanze nel modo che si è rilevato, ma di darle assolutamente due posti in Consilio coll’opzione alle prime cariche, ricorrono per tanto li O.ri da questa imaginata providenza alla Santità Vostra e come già ne pregarono l’E.mo Segretario di Stato e così alla giustizia e clemenza della S. V.ra per che li due poggesi non si amettano al Consilio che come deputati della lor villa ed in quelle sole adunanze in cui di interessi a loro comuni si tratta.

Quanto si è fin qui esposto e le Ragioni più diffusamente dedotte nella sommariata Memoria che esiste in Segretaria di Stato siccome provano fondata la instanza de recorenti, così fanno sperare li med. la grazia che implorano.

L’unione di Poggio seguita nell’anno 1433 sotto il pontificato di Eugenio IV non è parificativa ma subiettiva per che nella Bolla anessa alla d. Memoria sotto la lettera A fu detto: Quod homines Podi S. Blasi intelligatur esse de cetero sub curia C. S. P.ri.

L’unione subiettiva non dà diritto all’interessenza ai Consili. Li felicissimi stati della S. V. sono pieni di città e di terre che hanno Ville, anzi dei Luoghi e dei Castelli sotto di sé, non si è mai inteso che questi abbiano preteso l’interessenza ai Consili.

Non si chiamano che in qualità di deputati delle loro Ville e Castelli a quelle adunanze in cui si tratta di imporre o di trovare la maniera di esiggere gravezze a loro comuni.

Infatti dal 1435 a questa parte in cui seguì l’unione sud. mai li poggesi né come Consilieri né come Deputati hanno avuto posto in Consilio. Oltre che la Villa di Poggio niente contribuisce nelle rendite particolari di Castel S. Pietro, essa non paga unitamente ai Ricorrenti che le tasse e gravezze le quali non dalla Comunità di Castel S. Pietro, ma dalla Ecc.ma Camera di Bologna si impongono, come dalli attestati che si umiliano segnati let. A, B. La Comunità di Castel S. Pietro ha le particolari sue rendite di cui lo specchio fu annesso alla stessa nominata memoria esistente in Segretaria di Stato. Con queste rendite si supplisce alle particolari sue spese e si danno anco delle annue recognizioni ai Consoli ed a qualche consiliere in carica, delle amministrazioni di queste si tratta nelle consiliari adunanze.

Quali Ragioni per tanto possano avere li poggesi di assistere ne medesimi e di partecipare in questa guisa delle Recognizioni, che provengono da rendite in cui essi non contribuiscono. Non pare fondata la suplica che ha fatto qualche impressione nell’animo del Card. Legato, che essendo la Villa unita di Poggio a Castel S. Pietro, le rendite di questo si rendano a quella comune. Si ritenga che l’unione subiettiva, che nell’atto di questa subordinazione non portò, né ha mai portato Poggio alcuna sua rendita a Castel S. Pietro, che questa possedeva le particolari sue rendite molto prima, che a lei subiettivamente si unisce la Villa di Poggio e si vedrà che il discorso non regge e che l’unione subiettiva non dà alcun diritto alle rendite di una città o terra a cui una qualche villa si unisce.

Si aggiunga a tutto questo che lo statuto di Castel S. Pietro richiede nei Consilieri la Possidenza di almeno mille lire, e che questa possidenza non si può trovare ne’ poggesi, che sono tutti lavoratori delle altrui terre, li quali niente possiedono.

E’ stato supposto al Card. Legato di Bologna che vi siano nella Villa di Poggio delle persone che abbiano una simile possidenza, ma questa supposizione deve ben cedere alla prova esclusiva di una tale possidenza che esibiscono li Ricorrenti, anesse alla loro Memoria sotto la lettera D e che novamente umiliano.

Finalmente anco la distanza è una ragione per non accordare la assoluta ed intera interessenza ai Consili per la difficultà di convocarli a quelle sessioni che conviene tenere sul momento a questa distanza senza fondamento si rivocarebbe in dubbio.

Doppoichè in più informazioni venute e richieste dalla Santità Vostra sperano li Oratori e di vedere limitata la Interessenza de poggiesi a quelle sole consiliari adunanze in cui delle gravezze e di altri affari comuni si tratta e che a questa intervengano come deputati della loro Villa.

Il 30 agosto i Tribuni della Plebe avevano querelato dal loro Magistrato i macellai di grossa e di minuti a motivo di avere date le pelli al nuovo conciatore di questo luogo Mellini col pretesto che ne risulterebbe danno all’Arti de Calegari, Pelacani e Cartolari[27] di Bologna. Quindi fu determinato nel Consilio di questa Comunità di sostenere la causa contro tali Arti che volevano levare la materia locale al nostro conciatore.

Prima però di intraprendere il giudizio, essendo stati deputati dal consiglio i due Assonti Francesco Conti ed Ercole Cavazza, fu da questi interposta la mediazione dell’Assonteria di Governo presso L’Assonteria d’Arti, affinché volesse ponderare le nostre ragioni ed ordinare all’Arti avversarie di desistere dalla lite. Per questo fu presentato al Governo un elenco delle nostre ragioni stante la supplica data al Santo Padre dalla nostra Comunità e rimessa al Legato.  Questi prima di decidere con voto fece sapere alla Comunità che voleva riesaminare da capo tutta la causa.

Nel 1734 la nostra Comunità aveva dato il suo accordo ad una nuova congregazione istituita da Don Giovanni Langagni, missionario in questo luogo, che fu chiamata della Carità o dell’Ospitale degli Infermi. In essa era stato dichiarato priore il Consolo pro tempore. La Comunità, allo scopo di erigere lo Ospitale, concesse a questa congregazione un suolo di piedi 60 in lunghezza e piedi 30 in larghezza, fuori dalla porta Montanara.

Per sostenere la questione promossa estragiudizialmente avanti l’E.mo Arcivescovo Giovanetti perché il Consolo pro tempore fosse reintegrato nel suo officio da cui ne era stato spogliato da codesto arciprete Calistri che volle essere lui il plenipotenziario dell’Ospitale, furono avanzate al Governo di Bologna tempo fa le istanze della Comunità. L’Assonteria si offerse per la soddisfazione delle richieste qualora si fosse trovato la delibera senatoria per la concessione del suolo. Questa non si era potuta finora trovare e quindi l’affare rimase sospeso.

La Comunità aveva deciso di fare la conserva della neve per comodità della macelleria pubblica e delle genti che intervengono al mercato dei bovini. Il 6 settembre deliberò di costruire presso il macello un portico di due occhi che fu eseguito per l. 150 dal sig. Trocchi.

Il pubblico daziere di Bologna aveva ordinato a questo suo ufficiale di fare esso le bollette dei grani che si portano fuori da questo Castello e si trasportano per la provincia. Queste bollette si facevano dal vice podestà, che 9 settembre fece richiesta alla Comunità onde si interessasse perché non venisse un danno al nuovo vice podestà.  Fu scritto al daziere Gaetano Terzi affinché facesse desistere il suo ufficiale dall’emissione di tali bollette, ma ricusò e quindi tanto dall’ufficiale della dogana che dal notaio giusdicente si proseguì a fare tali bollette.

Il giusdicente non fu contento di ciò e ricorse al Collegio de’ Notai perché assumesse la causa difensiva trattandosi di un interesse che toccava i notai collegiali. Prese la briga il Collegio e fece la sua istanza all’Assonteria di Camera che decretò che quelle bollette dovesse farle il doganiere, perché quelle che emette l’ufficiale si facevano abusivamente per un diritto usurpato anticamente.

Nella piazza pubblica si facevano fuochi artificiali e si sparavano pure mortaretti con pericolo per la gente.  Fu fatto ricorso al sig. Cardinale perché vietasse ciò. Questi aderì alle premure della Comunità e vietò tali fuochi.

Nell’angolo inferiore delle mura del Castello c’era a nord un pezzo di terrapieno nel mercato dei bovini che deformava la piazza. Il 5 ottobre il Consolo Ronchi ordinò che si spianasse. Il lavoro però dispiacque ad alcuni che ricorsero subito agli altri comunisti perché si sospendesse il lavoro. Fu sospeso ma poi, portato l’affare in consiglio, fu deciso che, se non c’era pericolo che cadessero le mura, si proseguisse ma a spese di chi lo desiderava tanto.

A proposito dell’intervento dei poggesi nel Consiglio, l’A. C. di Bologna aveva accordato che, in numero di due, intervenissero nelle adunanze tutte le volte in cui si fossero trattati affari riguardanti Poggio e dovevano essere chiamati Consiglieri e non Deputati. Inoltre, poiché a Poggio vi sarebbero famiglie possidenti terreni, questi poggesi dovrebbero essere abilitati al sorteggio degli stipendiati perché concorrono anch’essi alla paga degli stessi.  Se la Comunità avesse accettato tale progetto sarebbe finita ogni controversia.

La Comunità però, insistendo nelle sue ragioni, rispose di non volere prestarsi in alcun modo a tale progetto. Fece altresì noto come le famiglie pretendenti il diritto di essere ammesse alle adunanze consiliari erano solo quelle dei Dalla Casa e dei Ballarini. Era provato che questi erano fattori e addetti al servizio d’altri e perciò su questo punto la Comunità fu sempre negativa.

In questo giorno venne una pioggia così grande e così violenta con turbini che schiantava le cime agli alberi, fece fuggire la gente e crescere tanto il Sillaro da coprire tutto l’alveo e superare le sponde laterali. Fortunatamente la piena durò per poco e nessuno pericolò nella corrente.

Questa compagnia cappata del SS.mo SS.to aveva ottenuto la grazia dal S. Padre di potere inalberare il gonfalone nel modo che lo inalbera la compagnia del Rosario. Questa grazia dispiacque tanto all’arciprete che maneggiò in modo che il 7 ottobre l’arcivescovo non volle dare l’assenso per l’esposizione di tale distintivo.

Ne nacque perciò un tale dispiacere fra i confratelli dell’una e dell’altra compagnia che le funzioni non si facevano più con il precedente fervore.

La processione che la compagnia del SS.mo faceva col capo di S. Flora si svolgeva, solitamente, per il Castello e il Borgo. L’arciprete, visto che poca gente aveva contribuito alla processione della Immagine SS.ma del Rosario, volle che la processione con la S. Testa fosse fatta solo nella piazza maggiore del Castello. Questo fatto provocò molto mormorio nel paese.   

La fornace da pentole, che era stata in questo Castello fin dal secolo scorso, fu dismessa in questo mese e privato il paese della comodità della terra cotta. L’ultimo pignataro fu Matteo Vacchi che, con cinque figli maschi, se ne andò disperdendosi chi in un luogo chi nell’altro. Il paese se ne risentì molto.

Perduto questo esercizio se ne introdusse uno nuovo nel Borgo di altra specie e fu quello di pastarolo, all’uso di Genova e di Puglia, introdotto qui da Tomaso Sandrini di questo Castello che aveva sposato una sua figlia di nome Domenica con Angelo Visibelli genovese. La pasta riusciva di ottima bontà e se ne faceva un tale smercio che gli imolesi ne fecevao buone provviste e la si mandava anche nei castelli del contado e sopra tutto a Budrio e Medicina.

I Fratelli Antonio e Bartolomeo Dalfiume figli del fu Annibale, che già erano espatriati anni fa in seguito alla baruffa avvenuta con Pellegrino Mei detto Vajna, tenente degli sgherri di Bologna, erano diventati capi caccia nel veneziano nella Villa di Giacciano sotto Ferrara.

Qui avevano avuto una notevole baruffa con alcuni ferraresi che, riuniti in 18, pretendevano fare pesca e cacciare fagiani. Capo di questi era un certo Romano Petrucci che li dispose in semicerchi a poca distanza l’uno dall’altro in modo che, se avessero incontrato resistenza, potevano comodamente circondare chi li avesse contrastati.

Mentre procedevano nella cacciagione sopraggiunse Antonio che, accortosi dell’abuso che si faceva, diede segno al fratello Bartolomeo che era con Giuseppe Nessoli, detto Fametta, di questo Castello. Finsero di ritirarsi, ma tanto Antonio quanto Bartolomeo, andarono alla estremità della fila dei bracconieri e intimarono l’alt, minacciandoli di morte.

Fametta, di statura piccola ma abile e più temerario, andò protetto da un fosso, alle loro spalle. Quindi cominciò a gridare Alt! alt! I ferraresi, presi in mezzo da tre persone che gridavano, alle quali accorsero pure i villani vicini, furono raggruppati e uno di nome Salinguerra, che tentò di fuggire, si guadagnò una archibugiata in una coscia.

 Atterriti da un tal fatto furono tutti disarmati da tre soli uomini. Fametta e Bartolomeo, con l’archibugio spianato, fecero andare avanti ad uno ad uno con le braccia in alto verso il cielo, minacciando di morte chi le abbassava. Antonio Dalfiume faceva da capo e dava gli ordini tenendo l’archibugio spianato e il coltello in bocca. Il ferito fu mandato a Ferrara in una caretta e così terminò la mischia con lo spargimento di sangue di uno solo.

Per tale fatto crebbe in reputazione Antonio Dalfiume che era divenuto il terrore di quel villaggio e del vicinato, così che fu chiamato per primo guardiano delle Pesche di Comacchio alle quali andò a capo d’anno.

Trovandosi in Bologna l’E.mo Boncompagni ex Segretario di Stato, si ebbe l’avviso come uno di questi giorni sarebbe venuto a Castel S. Pietro per salutare codesto nostro arciprete e partire poi per Roma. L’arciprete, saputo ciò, fece preparare in casa propria l’occorrente per dare una colazione, fece ripulire la chiesa e pregò il Consolo Ronchi di fare accomodare i selciati almeno entro il Castello e ripulirlo da alcuni mucchi di pietrisco che erano presso le case di questi Padri di S. Bartolomeo. Il Consolo eseguì ciò prontamente e poi, per non trovarsi presente alla venuta e non doversi poi inchinare, andò a Bologna.

La mattina di venerdì 9 ottobre, avendo di già dimessa la carica di Segretario di Stato e di Commissario Generale dell’Acqua, l’E.mo Card. Ignazio Boncompagni, venendo da Bologna, ove era stato da luglio per rimettersi in salute, passò di qui nel passaggio che fece per andare a Roma. Si portò nella nostra arcipretale alla visita della B.V. del Rosario e dopo si congedò da questo arciprete Calistri, che sentì amaramente, per essergli stato un validissimo protettore in tutto, non solo la partenza ma anche la dimissione dalla carica di Segretario di Stato.

Il 10 d. si ebbe notizia che il nostro Dott. Paolo Dalmonte laureato nella università di Pisa ed attualmente bibliotecario nella Biblioteca Imperiale di Roma, istitutore dei principini Borghesi, era morto in casa loro, ove gli davano alloggio, in età d’anni 55. Fu sepolto in S. Spirito.

I pellacani in questo frattempo fecero istanza nel magistrato dei Tribuni di Bologna perché codesto nostro nuovo pellacano potesse avere le pelli da questi macellai. Ricorse la Comunità all’Assonteria d’Arti perché a tavolino si valutassero le sue ragioni, senza pregiudizio del giudizio in corso a Roma.

Il 6 novembre fu terminata la costruzione della conserva delle nevi della Comunità.

Quelli di Poggio fecero una nuova istanza presso l’A. C.  di Bologna per entrare in Consiglio in qualità di consiglieri ponendo ancora pure il voto sopra gli stipendiati. La Comunità continuò nel suo rifiuto.

Giunse notizia da Ferrara come in quella Università era morto nel giro di tre giorni nello scorso ottobre il padre Francesco M. O., dottore e lettore pubblico di S. Teologia.  Fu un giovane di ottima indole ed il maggiore di dodici fratelli tutti viventi e figli di questo Gio. Battista Grandi e Caterina Andrini tutti di Castel S. Pietro. Fu molto dispiaciuto e compianto anche dalla sua Religione.

La mattina di martedì 17 novembre giunse in questo Castello il R.mo Padre Generale dei Cappuccini e fece la visita al convento. Egli è bravissimo oratore avendo predicato l’anno scorso in S. Pietro di Roma, possiede rare virtù ed è speciale per le cose meccaniche, il suo nome è padre Angelico da Sassuolo. Dimorò qui fino al venerdì 20 novembre avendo trovato questo convento ben corredato ed accomodato essendo ora guardiano il Padre Giulio da S. Giovanni.

Il 22 aprile dell’anno scorso questa compagnia del SS.mo SS.to aveva ottenuto per Breve apostolico la facoltà di alzare il gonfalone essendo stata eretta in Arciconfraternita. Fu presentato il Breve all’E.mo Arcivescovo onde si degnasse di ordinarne l’exequatur. Questi però ricusò istigato da questo arciprete e non solo negò la esecuzione della grazia, coll’addurre che il Breve non era chiaro ma altresì cavillò, tenendosi il Breve ed altri indulti papali fatti alla compagnia. La lusingò che in una nuova disamina da farsi in settembre, che è già scaduto, avrebbe provveduto a tutto. La verità è che

nulla fece e tutto fu lusinga. Avvedutasi di ciò la compagnia ricorse al S. Padre per averne la dichiarazione del suo Breve e così nel giorno 4 settembre 1789 il memoriale ebbe risposta favorevole.

Il 16 dicembre nella estrazione degli uffici utili, fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il marchese Giacomo Marulli.

Il 27 dicembre fu estratto Consolo per il primo semestre il sig. Gio. Battista Fiegna.

Fin dal 3 luglio 1788 fu assegnato ai fratelli e sorelle del 3° ordine di S. Francesco di Castel S. Pietro come titolare S. Margherita da Cortona all’altare della Comunità.  Padre Diego lettore morale e direttore spirituale di tale congregazione diede supplica alla Comunità per farvi le funzioni e collocarvi un ciborio. La Comunità assentì con favore.

Il 28 dicembre, giorno degli Innocenti, la sera dopo l’ora di notte, siccome si giocava alle farine in varie case, fu ordita una trama dai due cugini Luigi Bertuzzi fu Giuseppe e Ciriaco di Nicola Bertuzzi di questo Castello contro Luigi Musi, detto Bargnocola. Il motivo era che Luigi Bertuzzi, detto Pistolino, trattava (se la faceva con) la moglie del Musi.

Luigi Musi aveva rifiutato di condurre le sere precedenti la moglie al gioco della farina a casa di Pistolino stante le mormorazioni che si facevano.  Questi per vendicarsi di ciò si unì con Ciriaco  per fargli un agguato per ferirlo a morte. Bargnocola avvisato si nascose in casa di suo fratello Francesco Musi, detto la Mona, presso la chiesa della soppressa compagnia di S. Caterina, prima che fosse assalito dai cugini Bertuzzi.

Il caso volle che Francesco Musi, ignaro di tutto, se ne tornò a casa. Entrato dentro e, mentre si accingeva a salire le scale, Ciriaco Bertuzzi gli diede una pistolettata nel basso ventre.  Accorse il vicinato per impedire un maggior male. I Bertuzzi uscirono e fecero alt contro chiunque e imbestialiti schiaffeggiarono alcune donne accorse per soccorrere il ferito. Spenti di nuovo i lumi tornarono di nuovo con i coltelli a ferire il Musi, che si raccomandava la vita. Intanto si affollò gente e gli assalitori furono costretti a partire e a cercare asilo.

 Si portarono entrambi in luogo immune e poi la mattina seguente andarono nella bassa Romagna. Pistolino andò nelle valli di Comacchio a ritrovare Antonio Dalfiume, capo della guardia di quelle. Ciriaco se ne andò al ferrarese poi, non trovandovi il suo interesse, andò pure lui nel comacchiese. Qui si innamorò di una bella ragazza.

Accadde che ad una festa da ballo la trovò che ballava con un soldato della guardia delle Gabelle di Roma.  Volle levargli la ballerina, ma il militare fece resistenza ponendo mano alla sciabola. Ciriaco, che era un giovinotto snello ed alto, si lanciò al collo del soldato e gli levò la sciabola. Il soldato per non essere strozzato dovette abbandonare.

Credeva il soldato di potere nuovamente assalire il Bertuzzi e, poiché la sciabola era passata in mano dei pacieri, gli si avventò contro con un coltello. Ciriaco fu più abile, scansò l’attacco e, dato mano ad un coltello, prese per i capelli il soldato gli taglio l’orecchio destro e poi, presolo per la nuca, gli diede tanti colpi col manico del coltello che lo lasciò scimunito. Nessuno dei presenti alla festa poté fermarlo tanto era imbestialito e così una festa piena di allegrezza terminò in mestizia.

In questa giornata si ebbe notizia che in Avignone era accaduta una sollevazione e quella provincia si era ribellata al Papa[28]. In Roma furono contemporaneamente affissi biglietti con il motto quemadmodum ego Feci, ita, et vos Facciatis, sopra una coccarda, detta della Libertà. Coccarda recentemente inventata in Francia che è tutta in scompiglio e sollevata contro il Re.

A questi cartelli se ne aggiunsero altri di diversa tipo ma tutti tendenti a deprimere la quiete, la pace e tranquillità pubblica.

Pure a Bologna medesimamente si ritrovarono sparsi per la città biglietti che dicevano: Moja il malgoverno, viva la libertà antica. Mojano i traditori della patria.

1790

Sparsi a Bologna biglietti seducenti e provocanti alla ribellione. Misure di Ordine pubblico. Arte dei Pellacani interviene contro i nostri macellai per consegna pelli. Notizie di rivoluzione in Francia provocata da Liberi Muratori. Gesta e storia di Cagliostro. Allargamento porta di sopra. Scontri a Bologna tra militari e sbirri. Vicende dei fratelli Lunghini. Cattive notizie dalla Francia, assalti ai vescovi.

Attesa la scarsità di olio, pesce e mancanza di altri viveri arrivarono al S. Padre suppliche per avere una benigna condiscendenza alla povertà e alla popolazione nella prossima quaresima. Egli pertanto mosso a compassione il 9 febbraio 1790 esentò le diocesi non solo di Romagna ma anche di Bologna dalle vigilie e concesse l’indulto di uova, latticini e carni di ogni tipo,.

Essendo stati sparsi biglietti seducenti e provocanti alla sollevazione, per ovviare per ciò agli scompigli, l’E.mo Legato Archetti promulgò il 9 marzo un Bando di taglia.  Inoltre, per incutere poi maggior timore alla gente, chiamò in città tutte le sbirraglie, messi, ministrali e guardiani con le armi. Fece poi affiggere tale Bando pubblicamente a suono di tromba con i bidelli, che venivano protetti da sbirri. La gentaglia se ne rideva.  

Quei biglietti avevano dato l’avviso di trovarsi, giovedì sera 11 marzo, tutti nella Montagnola con armi. l’E.mo allora fece attaccare la Corda in piazza, guardata da sbirri, presidiare la Montagnola dai guardiani, tenne chiuse alcune porte della città e i tribunali, Quindi partì da Bologna la sera stessa. La maggior parte dei nobili, temendo di notte tempo qualche tumulto, chiusero le porte ai loro palazzi.

 Le comunità del contado stavano tutte in aspettazione di novità ma con cautela. La nostra di Castel S. Pietro diede ordine ai ministri di guardare le torri ove sono le campane pubbliche e fu loro ingiunto di stare pronti con l’armi. Ma grazie a Dio nulla avvenne né in città né fuori.

Solo si annotò in questa contingenza che la truppa di presidio nella città non sembrava essere stata impegnata, anzi si comportava con indifferenza non impugnando nemmeno un fucile e nemmeno si duplicarono in qualche luogo le sentinelle. Fu perciò creduto che i biglietti sparsi provenissero dalla stessa milizia. Questo perché si vociferava che si sarebbe tolto e sciolto il presidio anche per liberare la città e la provincia da questo dannoso aggravio poiché non si capiva a quale scopo si mantenesse tale soldatesca.

Non passò poi molto che per la città si videro altri biglietti così cantanti, attribuendo che quelli sparsi in precedenza provenissero dai capi del presidio che sentivano male il licenziamento

Gli inventori de biglietti

son que ladri maledetti

di Marviz e di Boldrini

del paese assassini

impicate esta canaglia

poi donate a me la taglia.

Marviz francese era il generale e il capitano Boldrini bolognese, di famiglia oriunda di Castel S. Pietro, era primo capitano del presidio.

In questo tempo era cresciuto il prezzo del grano fino a paoli 26 e 27 la corba e il formentone fino a paoli 19.  Si sentivano non piccole proteste. Si dubitava di nascondigli di grano come purtroppo successe a Bologna, essendosene ritrovato parecchio in diverse case. l’E.mo ordinò che si dovesse dare alla sua cancelleria la denuncia tanto dei grani quanto della farina e in seguito delle bocche delle famiglie, il che seguì e fu riparato a tutto.

Gli uomini della Villa di Poggio avevano fatto nuovamente istanza al S. Padre perché venissero approvate le loro domande e di sottrazione a Castel S. Pietro e di un governo a parte, dichiarando Comunità la loro Villa.  Fu rimessa la causa all’E.mo Legato pro informazione et voto.

La Comunità di Castel S. Pietro si adoperò in modo che l’Uditore di Camera Arduino Guglielmi, a cui fu affidata la espressione del voto, ascoltasse le ragioni della Comunità e che, per finire la stomachevole questione, scrivesse che la più opportuna, non trovandosi la Comunità di Castel S. Pietro in alcuna cosa flessibile, sarebbe stata che ognuna delle parti sperimentasse le rispettive ragioni nelle arene giuridiche. Così fu espresso il voto e spedito al S. Padre.

Il 2, 4 e 9 aprile, feste di Pasqua di Resurrezione di N. S., venne una nevicata che coprì tutto il terreno e le nostre campagne. Nel venerdì scorso, che fu il venerdì santo, si tenne nella chiesa ed oratorio della Compagnia del SS.mo SS.to una Accademia Letteraria sopra la passione e morte di N. S. G. C. davanti alla immagine miracolosa di questo S. Crocifisso. In questa occasione fu promossa la reviviscenza della perduta Accademia degli Immaturi che nel secolo scorso qui esisteva. Furono i promotori Don Luigi Facendi, cappellano della compagnia ed il dott. Muratori Giuseppe, medico condotto.

In questo tempo si scopri a Roma l’empia setta dei Liberi Muratori[29] e furono trovati sul fatto i capi in una stanza. Il primo di questi sedeva in mezzo agli altri su una alta sedia con braccia e cosce nude e tutto altero. Teneva nella mano sinistra un compasso e con la destra gesticolava. Sotto le pudende c’era un cartello con su scritto Libertas. Ai piedi teneva tutti gli strumenti e attrezzi da muratore. Gli altri che gli facevano corona sedevano anch’essi mezzo nudi, con le braccia scoperte e solo con un piccolo corpetto a coprire il petto. Furono tutti carcerati e condotti al S. Ufficio.

In questo stesso tempo giunse alla nostra Comunità notizia da Roma che nella vertenza con gli uomini e la villa di Poggio, era stato commissionato a Mons. Uditore Roverella, di nominare una Congregazione particolare di Prelati che decidesse la controversia, remota apellazione.

In questo frattempo l’Arte dei Pellacani, mal sopportando la nuova conceria di Castel S. Pietro, citò i nostri macellai per obbligarli a consegnare loro le pelli secondo l’uso antico.

I macellai col nuovo conciatore Antonio Melini ricorsero alla Comunità affinché patrocinasse le ragioni pubbliche concorrendo alle spese giudiziali. La Comunità fu pronta ed impugnò la pretesa della consegna delle pelli. Quindi, per procedere con le corrette regole, scrisse immediatamente all’Assonteria d’Arti supplicandola di considerare che il paese godeva dell’universale ed indistinto privilegio di essere libero per ogni e qualunque Arte ed esercizio. Per ciò imponesse all’Arte dei Pellacani di desistere dall’iniziato giudizio contro Antonio Melini, attuale pellacano, che intendeva avere sia le pelli grosse che le minute da questi macellai del paese. La Comunità, qualora vedesse resistenza ed insistenza nell’Arti avversarie, era in grado di ritornare al giudizio sostenuto in Roma anni sono contro il Senato avanti la Segnatura ove aveva ottenuto a pieni voti un rescritto favorevole in forza di tanti passati giudicati.

La Assonteria rispose che per questa volta si lasciassero andare le pelli a Bologna e che si procedesse intanto con le proteste legali. A questo la Comunità contro dedusse e l’Assonteria, valutando le nostre ragioni più non replicò.  Forse era restata appagata o forse non voleva assistere le Arti avversarie, quindi la Comunità non ricevette alcun avviso.

In Francia era recentemente avvenute delle rivoluzioni che prendevano di giorno in giorno sempre maggiore piede così che il Re a nulla era più considerato. Fu detto che ciò era stato provocato dalla tirannia dei Liberi Muratori seminata dall’empio Caliostro[30] e poi patrocinata da un certo avvocato Rovespierre[31] mostro di condotta quanto fino di talento.

Questo Caliostro aveva un altro nome che aveva usato, quando aveva creduto convenisse alla sua malignità, e che esercitava in qualunque occasione gli si presentava. Costui fu autore dei tanti raggiri fatti al povero Cardinale di Roan[32] a cui furono imputate tante indicibili immoralità.  Fu accusato enormi sottrazioni, dichiarato falsario di cedole, di essere sobillatore ed amoroso della Regina per la quale avrebbe fatto il furto di una insigne collana di gioie, monili, perle, di emissione fatture bancarie false, di imitazione di scritture e sigilli reali e di tanti altri fatti di cui ne sono piene le gazzette, i giornali e gli avvisi che girano per la nostra Italia.

Per tali rivoluzioni nella Francia erano fuggite molte famiglie che si rifugiarono nello stato ecclesiastico e si sparsero per tutta l’Italia. La causa di tante avversità fu imputata al Caliostro che, nello stesso modo, era venuto a Roma per infestarla. Infatti troppo liberamente vi seminava falsi dogmi e sentenze.  La sua consorte divenne sospettosa del suo comportamento e fu consigliata di confidarsi ad un giovane e dotto confessore.

Raccontò finalmente la sua vita sacrilega e perciò fu posta in luogo sicuro dal tribunale della confessione. Accusò il marito Caliostro come uno dei motori della “libertà” e della sollevazione francese, aggiunse che tanto si macchinava anche a Roma. Fu costretta  a darne la più esatta notizia al governo ed al S. Padre. Fu poi rinchiusa per precauzione in un monastero. Fu  subito carcerato il marito, rinchiuso in Castel S. Angiolo e poi processato. Da suoi aderenti si contestò quanto la moglie aveva raccontato.

Lo accusò di avere tramato con i Muratori e un’altra setta per mettere in sollevazione tutta Roma. La cosa avrebbe dovuta essere messa in atto durante gli ultimi giorni di carnevale, quando di notte il popolo si da alle feste ed alle sregolatezze, approffittando della confusione.

Era usanza fino ad allora, che fu l’ultimo anno, che quando si sentiva il colpo dell’ora di notte , ciascun ambulante della città teneva preparata una candela detta  volgarmente moccolotto, e ognuno gridava Moccolotto! Moccolotto! e così si  accendevano e si  camminava baccannalando per la strada. La plebaglia talora accendeva le parrucche e le cuffie in testa alle persone, onde ognuno stava molto attento e cauto.

Il Caliostro aveva tramato con i suoi aderenti di incendiare un fienile e, mentre il popolo correva all’incendio, gridare libertà, distribuire coccarde e con quelli aventi i moccolotti salire al Campidoglio e farvi la sede dei malcontenti e dei settari.

Ma Dio troncò la strada a tanta scelleratezza, che sarebbe stata la rovina totale della chiesa cattolica, e permise fosse scoperta mediante sua moglie, donna di singolare bellezza.

Era tanto ridotto male il selciato nella via consolare del nostro Borgo, che non si poteva quasi più transitare. Andavano di continuo premure alla Comunità affinché si impegnasse e facesse fare ai frontisti le rispettive riparazioni al selciato. La Comunità, che non era sorda, ricorse più volte, mediante il suo Consolo, al Senatore deputato che promise sempre di dar mano, ma non corrisposero le promesse al risultato. I postiglioni e i viaggiatori avanzarono le loro istanze al Legato che, chiamato il Consolo, gli impose di far riparare tutte le buche che si trovavano nel Borgo.

Il Consolo, per non gravare la Comunità, intimò ai frontisti il ristoro d’ordine del Card. Legato. Questi invece di selciarla, riempirono le buche di ghiaia. Le proteste aumentarono onde la Comunità ed il Consolo ricorsero al Legato per il provvedimento.

Essendo molto tempo che non pioveva e si vedeva che la campagna era mal preparata per i lavori, la compagnia del SS.mo non tardò a scoprire la sua miracolosa Immagine del Cristo e il 3, 4 e 5 giugno fece un triduo. Il terzo giorno se ne ebbe la grazia con abbondante pioggia.

Si ebbe notizia da Francesco Galassi che suo nipote Benedetto, virtuoso alla corte di Madrid, aveva fatto tali produzioni di musiche sia teatrali che ecclesiastiche che quel sovrano, per gratificarlo, gli aveva concesso il titolo di Insigne Cembalista con un aumento di 100 pezze annue finché fosse stato alla corte.

Caliostro, che ben guardato stava in Castel S. Angiolo, fu condannato a finire i suoi giorni nell’orrendo carcere di S. Leo. Non fu giustiziato pubblicamente per evitare il tumulto dei suoi seguaci fra quali vi erano anche dei principi.

Costui era figlio di una schiava marocchina. Questa è la storia. Un tempo l’Imperatore del Marocco e tributario del Gran Turco aveva l’obbligo di presentargli ogni anno sei giovinette delle più belle del suo regno. Queste mentre venivano trasferite per mare furono fatte prigioniere, con la nave turca, da cattolici maltesi. Fu portata a Malta e, come si racconta, il Gran Maestro se ne invaghì, ebbe commercio con lei e la ingravidò. Intanto, con le altre compagne, fu riscattata. Portata al Gran Turco questo, conosciutala gravida, la ripudiò e la rispedì a Malta. Qui diede al mondo il fanciullo che poi fu chiamato Cagliostro.

Fu fatto allevare dal Gran Maestro, educare nella legge cattolica e ammaestrato in ogni lingua. Riuscì in affari di importanti, in ogni scienza ed arti, viaggiò tutta l’Europa, gran parte dell’Asia ed America e finalmente si stabilì a Parigi e qui si affermò. Si degradò in ogni vizio, cosi ché, non rispettando alcuna legge, si dedicò a quella di vivere a suo talento e piacere, che è quella dei Liberi Muratori, nella quale si distinse e vi fece molte regole.

La porta maggiore del Castello sotto la torre era stretta per il passaggio dei carri carichi di fieno, paglia ed altri strami, così i carrettieri  si lagnavano. Per ciò Lorenzo Trocchi, uno dei consiglieri, fece istanza alla Comunità per allargare la porta di sopra. In Consilio, quantunque vi fossero delle opposizioni di alcuni consiglieri per non avere la licenza, la proposta fu approvata a maggioranza dei voti. Il Trocchi mise subito mano ai lavori. Andò la notizia al Governo e per ora non si ebbe alcuna risoluzione.

Nel frattempo venne una lettera dall’Assonteria che proibiva alla Comunità di far alcun lavoro nella porta vecchia per ingrandire il macello, per le istanze fatte al sig. card. Legato dal sig. conte Luigi Bentivoglio abitante nella mia casa vicina alla torre.

Contemporaneamente l’Assonteria il 23 giugno avvisò aver avuto riscontro da Roma che N. S., nella causa tra la Villa di Poggio e Castel S. Pietro, aveva delegato una Congregazione di Prelati per che esaminassero le reciproche ragioni.  I prelati furono Paracciani, Mastrozzi, Erschine inglese famoso, Consalvi ed Alessandro Lante.

Il 24 fu estratto Consolo il sig. Francesco di Lorenzo Conti, notaio. Questi dopo avere intesa la proibizione dell’Assonteria di non dovere fare alcun intervento presso il conte Bentivoglio, prese in sé il carico di presentarsi in Assonteria a difendere le ragioni Comunitative sia per la licenza non avuta che per i lavori previsti e sul modo di pagare la spesa. Con esso furono deputati il Consolo Gio. Battista Fiegna e Francesco di Pietro Conti.

Era consuetudine che la Comunità in forma andasse a visitare la chiesa dei Padri M. O. ed ivi il 29 giugno, ascoltare la messa cantata, assisterla e ricevere i soliti riti. Sapendo però che il giorno di S. Pietro non c’è in questo Castello alcuna funzione, il Consolo Fiegna ordinò che la Comunità si portasse in questo giorno, 24 giugno, alla visita di S. Bernardino e Pietro al proprio altare, solennizzandosi così la festa anche del Principe degli Apostoli, primo protettore di questo luogo di cui ne riportò il nome. Di questo fu avvisato il Governo.

Poiché la chiesa cattolica si trovava molto travagliata da eresia, da sedizioni, tumulti e sollevazioni, il Papa, temendo qualche grave novità, l’8 giugno ordinò un giubileo universale, che fu esteso a tutte le diocesi dello Stato Ecclesiastico, lasciando in libertà agli ordinari di determinare i giorni e le chiese.

Però il nostro arcivescovo di Bologna ebbe poco in considerazione le faccende della campagna ci aveva donato abbondantissimi e ancora di più non avrebbero potuto digiunare i tre giorni destinati nel Breve. Nell stesso modo anche i poveri montanari non avrebbero potuto ricevere le beneficenze di S. Chiesa e visitare le loro rispettive Parrocchie per ricevere la Indulgenza ed il tesoro di tanta grazia. Il Vescovo infatti destinò gli otto giorni prescritti dall’ultima domenica di giugno fino alla prima di luglio. Quindi vi furono infinite lamentazioni, dicerie, biasimi e offese allo stesso arcivescovo, perché pochi avrebbero potuto usufruire di questo bene. Sarebbero stati così più i peccati che si sarebbero commessi del possibile bene acquistato.

Il 7 agosto l’E.mo Ignazio Boncompagni si ammalò a Lucca ove era andato ai bagni.  Si prese una febbre putrida e biliosa e, dopo un forte vomito di malaria gialla, il 9 passò all’altra vita in età di anni 47. Le esecrazioni, gli improperi, le maldicenze, i sarcasmi, le satire e le imprecazioni che uscirono dalla bocca dei malcontenti bolognesi e romagnoli furono indicibili, non che inimmaginabili per varietà ed invenzione.  Il motivo era che questo virtuosissimo prelato era stato il motore di tante novità nello stato ecclesiastico. Fu sepolto con onore.

Il 13 morì in questo Castello Flaminio Fabbri, decano della Comunità, d’anni 84. Questa famiglia si regge su di un solo rampollo che è suo figlio Floriano, uomo tanto precipitoso nel suo operare, quanto compatito da ognuno.

Alcuni giorni fa era qui venuta a villeggiare nella casa Caldarini la Marchesa Cospi Ghisellieri, già favorita dell’E.mo Boncompagni. Il 23 fu visitata da Don Abbondio Rezzonico, cognato del E.mo e Senatore di Roma. Fu ricevuto con quegli onori ed accoglienze che si convengono a chi tiene tale carica e dignità dell’antico Senato Romano. Carica che è sempre posseduta da un parente pontificio.  Fece alla marchesa le dovute condoglianze e partì la mattina seguente per Bologna.

Lunedì 30 venne una tempesta orribile che rovinò tutta la prossima vendemmia.  Fu accompagnata da turbini e si scoprirono molte case nel quartiere del Gaggio. Fu così grossa ed improvvisa che i volatili perirono numerosamente e i colombi si portavano a ceste alle osterie.

Si incominciò la vendemmia solo alla fine di settembre. Per la gran siccità i fiumi erano scarsi di acque e le bestie soffrivano per la sete. Quasi tutti i pozzi di questo Castello furono senza acqua, così che non vi fu casa che non li facesse ripulire per avere un poco più di acqua, ma servì a poco. 

Domenica 3 ottobre L’Arciconfraternita del Rosario, avendo pubblicato l’invito per la solenne festa, vi aggiunse anche la corsa di cavalli berberi, che non fu poi mai più fatta in questo Castello. Parteciparono 4 cavalli, la mossa fu nella via romana all’altezza di Marazzo e la ferma fu alla chiesa di S. Bartolomeo. Furono giudici della mossa il tenente Gian Francesco Andrini e Stefano Grandi, alla ferma Francesco di Pietro Conti.

La festa nella chiesa fu bellissima, Nicolò Giorgi fece le veci del sig. senatore marchese Periteo Malvezzi Lugari, priore della Compagnia del Rosario. Vi fu un gran concorso di forestieri. La corsa dei berberi si eseguì con licenza dell’E.mo Legato, che scrisse che si eseguisse con l’assistenza e la vigilanza del Consolo della Comunità che, se fossero successi degli inconvenienti, dovesse darne subito la relazione.

La mattina del 19 ottobre, su le ore 13, arrivò l’E.mo sig. Cardinale Duca d’Yorch[33] con la sua corte e qui si fermò per una intera ora, andò all’arcipretale, celebrò la S. Messa all’altare del Rosario con la S. Immagine scoperta, assistito da questa Arciconfraternita del Rosario. Prese poi il cioccolato e se ne partì per Roma con la sua corte.

Nella stessa giornata si pubblicò la notizia che a Francoforte era stato eletto Imperatore Leopoldo d’Austria[34] fratello del defunto Imperatore Giuseppe, genero del Re di Spagna, cognato del Re di Francia e cognato del Re di Napoli per due sue sorelle. Cognato altresì di Don Filippo Duca di Parma e Piacenza.

Quaranta mila zecchini e 40 mila talleri coniati in Napoli furono gettati al popolo a Francoforte per ordine del Re. Si tralasciano le altre buttate di danaro e feste che si fecero in questi stati.

La guerra dell’Imperatore, con la Moscovia (Russia) contro il Turco prendeva sempre più fuoco, cosicché sembrava queste due grandi potenze alleate lo volessero umiliare. Ad essi si sarebbero uniti anche i veneziani per riavere i loro possedimenti di Candia, Morea e Dalmazia.

Ieri sera a Bologna gli sbirri avevano trovato un cadetto militare del presidio, di nome Vitale Mansani dozzese, in compagnia di una donna, lo arrestarono assieme alla donna, quantunque facesse resistenza con la spada. Nel condurli alle carceri incontrarono una pattuglia che li fermò. L’arrestato disse ai suoi colleghi militari: Guardate come sono trattato, se avete cuore per l’onore militare, questo è il tempo. Quindi la pattuglia, spianati gli archibugi con la baionetta in canna, fece liberare il Mansani e lo portò via con sé.

Il giorno seguente 20 ottobre, si riunirono gli sbirri nella guardiola in piazza e, fatta fra loro una discussione, decisero di volersi rifare con i soldati ed attaccare baruffa. Fu riferito ciò ai soldati del presidio militare, che si adirarono. Vitalino, con un suo compatriota di nome Domenico Secreti anch’esso cadetto, immediatamente andò con più di cinquanta militari armati nella guardiola degli sbirri.  Gli portarono via le armi e, quanti ne trovarono, li bastonarono. Quindi una parte andò fuori di Saragozza ad una osteria dove erano gli stessi sbirri che avevano catturato Vitalino, li caricarono di bastonate, gli levarono tutte le armi e poi li rimandarono in città.

Vedendo la male parata il Bargello si ritirò col cancelliere in loco immune e poi comandò a tutti i suoi sbirri che andassero fuori di città, come di fatti fecero uscendo notte tempo per porta S. Vitale e S. Isaia. Questa petulante truppa di sgherri ieri mattina andò, in 30, al mercato di Medicina, dove fecero strage nei poveri bottegai e venditori di commestibili portando via la roba a forza.

 Ieri sera, giovedì 21, vennero in questo Castello con le armi spianate. Il primo saluto fu quello di andare alle macellerie e farsi dare la carne che loro piaceva senza pagare. La paga fu una minaccia di bastonate ed archibugiate. Questa mattina, giorno di venerdì 22, si divisero in tre gruppi, uno andò dai venditori di maroni e, sciolti i sacchi, si presero quel che volevano, così per le cipolle, poi dai pescivendoli. Quindi andarono alle botteghe facendosi dare senza pagare ciò che volevano perfino la polvere da schioppo e la stoppa. Sembravano tanti assassini ammutinati, in danno dei poveri bottegai e venditori di robe.  Verso le 15 partirono verso Sassoleone tutti in truppa.

Ecco la prepotenza di questi onesti custodi del buon Governo! ladri impuniti ed assassini della povera gente nella roba ed anche nelle persone. La città non ha per ora che soldati, questi hanno la piazza in loro potere. Si controlla da ogni parte e intanto il Card. Legato è alla cura delle acque.

Martedì 9 novembre Mons. Angelelli, Vescovo di Gubbio, in compagnia del senatore suo fratello, venendo dalla parte di Romagna, la mattina di buon’ora si fermò in questo Castello e alle ore 15 celebrò la sua messa all’altare del Rosario in questa arcipretale e poi subito, preso il cioccolato, se ne andò a Bologna.

Il Papa aveva posto, anni fa, ai confini della Romagna gli uffici della dogana avendo riformati alcuni dazi camerali nelle sue provincie, con esclusione di Ferrara e Bologna. Così, desiderando unire anche la nostra provincia alle sue nuove finanze, fece intendere ai bolognesi che scegliessero uno dei due partiti cioè: o essere soggetti alle sue finanze pontificie o essere considerati come forestieri, in quanto alla marcatura, col pagare il 60 per cento.  Fu imposto al Senato di esporre avvisi affinché ognuno dicesse il proprio parere. Il Senato non affisse gli avvisi ma spedì al S. Padre il consultore Giacomo Pistorini, che ai primi di dicembre se ne partì per Roma col Senatore Savioli.

Girarono vari pareri di avvocati e mercanti, fra questi ultimi ci fu il nostro Rocco Andrini di Castel S. Pietro, che riteneva di doversi unire alla finanza di Roma.  Lo mostrò facendo vedere, con forti ragioni, quali pregiudizi ne sarebbero venuti per il libero commercio con la Romagna se Bologna ricusasse la unione proposta. Per questo suo parere gli furono fatte grandi ovazioni.

Luigi Beltramelli del fu Giacomo Antonio e di Lucia Lunghini, detto volgarmente Magallo, grandissimo ubriacone, non si comunicava da 5 anni e non voleva emendarsi dalla ubriachezza. Il 5 dicembre Dio permise che cadesse nell’osteria di S. Marco, entro questo Castello. Dopo la caduta, perduta la favella, fu portato a casa dove, il giorno seguente, senza dar segno di vita, incapace di ricevere l’assoluzione, privo di cognizione, molto miseramente morì in braccio al diavolo. Stette insepolto fino al giorno 7, vigilia della Madonna, e poi, privo di sepoltura ecclesiastica, fu sepolto nella fossa di questo Castello dietro le mura del cassero della Roccazza senza segnalazione della tomba. Morto questo disgraziato i suoi fanciulli, in tenera età, uscendo di casa, gridavano contenti È morto, è morto il disgraziato. Così il Signore voleva, anche per bocca degli innocenti, manifestare la sua onnipotenza nel far riconoscere i suoi castighi.

Il Magallo aveva altri tre fratelli cioè Tiburzio, Domenico detto Castagnazzo e Diego detto usualmente Don Diego perché era stato tonsurato, poi fu converso dell’ordine agostiniano in S. Bartolomeo di questo Castello. Tiburzio, anch’esso grande ubriacone, circa dodici anni fa e cioè l’anno 1778, essendo completamente ubriaco, pensando di entrare nella propria abitazione precipitò giù da una scala di cantina e restò morto senza sacramenti.

Diego, abbandonata la Religione ed il chiericato si ammogliò a Cento con una vedova che aveva dei figlioli.  Dominato anch’esso dal vino, venendo una sera a casa ubriaco, tentò di picchiare la moglie. Un figliastro gli giunse di dietro le spalle e gli diede con un bastone pesante un colpo sul capo che lo rese apoplettico e che, miseramente e da ubriaco, lo portò in poche ore alla morte. Oggi resta solo vivo dei quattro fratelli Domenico, detto Castagnazzo, grandissimo ubriacone il quale vedendo morire il fratello Magallo, ridendo ed essendo ubriaco esclamò: si muove, si muove, ma noi intanto andaremo a bere un boccaletto all’osteria a dispetto di chi non vuole ed ondeggiando se ne partì ed andò alla bettola.  Ora si attende di  vedere il quarto castigo dell’ira divina contro questa sorta di gente.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro Don Giovanni Lambertini.

Il 27  fu estratto Consolo per il venturo semestre 1791 Giuseppe Montini.

Si ebbe notizia che in Francia, già in ribellione e dove cominciava a vacillare la religione cattolica, 223 vescovi erano stati spogliati dei loro patrimoni per cui volenterosi parroci gli corrispondevano parte dei propri redditi. Altri vescovi si ritirarono a convivere in comune con i loro seminaristi. Il vescovo di Nantes, uomo santissimo e fortissimo nella religione, dopo avere con omelie fortissime esortato la sua diocesi a stare ferma nella fede, fu ricercato da una turba di rivoltosi nel suo palazzo. Per fortuna si accorse del pericolo e fuggì travestito. Furono delusi i masnadieri che lo volevano mettere in una orrida prigione oppure chiuderlo in un carro, inchiodato come una merce e poi consegnarlo alla discrezione di selvaggi corrotti.

L’imperatore Leopoldo, declinando ancor esso dalla via buona, aveva pubblicato il suo decreto che stabiliva nei suoi stati ognuno potesse vivere in quella religione e setta che gli pareva. Fece poi sapere al regnante pontefice Pio VI che voleva la sentenza sopra mons. Ricci[35], vescovo di Pistoia, per punirlo se era colpevole altrimenti voleva che fosse reintegrato nella sua reputazione e coperto della porpora cardinalizia.

Mentre la religione cattolica vacilla sotto la spinta della Francia e dell’Impero latino, dall’altro canto Dio vuole che si estenda nella Polonia ed allarghi le sue radici cristiane poiché quei popoli,

hanno chiesto al S. Padre la reviviscenza della religione dei Gesuiti. Inoltre nella Russia, ove non furono estinti, quella sovrana Caterina II, immortale per le sue grandi conquiste e l’allargamento del suo impero sopra la nazione ottomana, aveva chiesto anch’essa al S. Padre la conferma nei suoi stati della Religione Gesuitica. Questo allo scopo che i suoi religiosi istruiscano le genti nel retto e buon vivere e nelle belle arti e nelle scienze.

Il Pontefice poi, fece intendere al nostro Senato di Bologna che se voleva, con la provincia bolognese, godere delle grazie che aveva dispensato nella Romagna, Umbria, ducato d’Urbino e Marca e cioè che le manifatture dello stato pontificio potessero liberamente girare nello Stato con la sola certificazione di essere roba qui fabbricata, doveva permettere che le finanze bolognesi fossero incorporate nelle finanze generali, restando al Senato i dazi comunitativi.

Perciò al Senato aveva posto il seguente dilemma: o i bolognesi si dichiaravano esteri e forestieri in quanto alla marcatura e pagavano, come tutte le manifatture estere, il 60 per cento, oppure accettavano di essere soggetti alle finanze papali. Per potere decidere il tutto con comune consenso, il Papa aveva ordinato che pubblicassero proclami, anche alle comunità del contado, perché ognuno dicesse il suo parere e si decidesse con voti. Si avvertiva che se si fossero uniti alle finanze papali si avrebbe avuto il libero commercio di bestiami, grani e commestibili senza paga di tratto e gabelle ed oltre ciò si sarebbe potuto esercitare qualunque arte e manifatture e così tenere impiegate le popolazioni nell’industria e nei lavori.  Con ciò terminò il 1790.

1791

Scelta tra incorporazione nella finanza pontificia o essere considerato come stato estero. Senato scegli l’estero, Castello, Medicina e altri non son d’accordo. Memoriale al papa su vessazioni dei dazieri bolognesi. Malefatte di avasi dalle galere pontificie. Costruita conceria in riva al Sillaro. Problemi di lardaroli per dazio.

 Entrato l’anno 1791, non era stato emesso alcun proclama da parte di Bologna, secondo gli ordini pontifici, sopra la scelta tra la incorporazione nella finanza pontificia o la dichiarazione di essere esteri. Le Comunità della podesteria di Casalfiumanese, Castel S. Pietro e Medicina, che sono quelle limitrofe alla Romagna, si consideravano tormentatissime dai dazieri di Bologna per la circolazione dei generi alimentari, concimi, prodotti, bestiami e la libertà dei lavori. Infatti per spostamenti entro le tre miglia dal confine se non si ha l’accompagnamento di bolletta si cade nell’illegalità per sospetto di esportazione.  Non si possono nemmeno abbeverare le bestie di qui nel vicino Sillaro, né condurle al maschio o alla femmina per la procreazione. Già era stata avanzata supplica al S. Padre per essere in qualche modo sollevate ed avevano avuto risposta benevole.

Quindi, non vedendosi altresì da parte di Bologna alcuna risoluzione, fu avanzata altra supplica a Nostro Signore in seguito della quale fu scritto al Senato di Roma che assolutamente decidesse sopra il dilemma posto dal pontefice. Fu pure scritto al Legato che, non essendosi interpellate le Comunità per il loro voto, dovesse il Legato chiamare le Comunità ricorrenti ed anco gli individui componenti le stesse per avere il loro voto.

In seguito di ciò lunedì 24 gennaio il Senato si convocò e, dopo lungo contrasto fra Senatori, fu deciso di chiamarsi esteri in quanto alle merci, però con la supplica al S. Padre di avere la libera e reciproca circolazione per quanto riguardava gli alimenti.

Nello stesso giorno in casa del signor Rocco Andrini si fece una riunione delle suddette comunità sopra il modo di contenersi in questo frangente tanto in rapporto a Roma che in rapporto a Bologna col cardinale.

Intervennero a tale incontro per Medicina i signori Giuseppe Rusconi Consolo, Pietro Modona, Domenico Gentili deputati e ser Giacomo Piazza notaio e segretario, per Castel S. Pietro i signori Francesco fu Lorenzo Conti proconsolo in assenza del Consolo, Francesco di Pietro Conti e ser Ercole Cavazza segretario, per Casalfiumanese i signori Francesco Zuffa Consolo e infine ser Antonio Giorgi vice podestà delle otto comunità della podesteria di Casale.

Dopo un lungo discorso e proposte fatte dal sig. Rocco e da suo figlio sig. Domenico Andrini abitante in Imola e che caldeggiavano l’affare, fu deciso che, se fosse stato chiamato dal Cardinale qualcuno di loro, dovesse informarne gli altri per permettere una azione comune. Ciò fatto, dopo aver altresì fatti diversi verbali con la sintesi dei vari problemi, fu terminata la riunione.

Il legato non chiamò le Comunità né tanto meno gli individui delle stesse. Allora il Curiale di Roma fece nuova premura all’E.mo segretario Zelada, che scrisse di conseguenza al Legato chiedendogli il motivo della non chiamata. Questi rispose che non aveva chiamato gli individui e né fatte convocare le comunità perché Bologna sapeva già del nostro ricorso. Il S. Padre rimise tutto alla congregazione da lui deputata. Quindi perché tutto andasse a dovere si scrisse a Roma al Curiale Francesco Pirelli affinché facesse fare dall’E.mo Segretario di Stato sig. Card. Zelada un ordine diretto alle Comunità ricorrenti perché facessero esse una canonica adunanza e qui si definissero il parere a scanso di qualunque evento sinistro.

Sabato 26 febbraio a Bologna fu decapitato il famoso ladro del Monte di nome Girolamo Luchini, quantunque sia della nobile famiglia Ridolfi dello stato veneto. Fu uomo di acutissimo talento, cui nulla riusciva difficile e chi leggesse, nella stampa del suo processo, la difesa dell’avvocato Magnani, difensore dei rei, non potrebbe che riconoscerlo come un mostro nel talento, per le sue più ardue invenzioni.

Fu pubblicato l’indulto per ogni cibo.

Il 15 marzo Angiola Pasquali di questo Castello, sorella del terzo ordine di S. Francesco Saverio, morì e fu portata alla chiesa di S. Francesco vestita di quell’abito. Le furono fatte, da questi religiosi, quelle esequie e cerimonie che costuma il loro ordine alle monache terziarie. Fu sepolta nell’avello a ciò destinato da Giovan Antonio Bolis.

Il popolo di Medicina per avvalorare le suppliche date da quella loro Comunità al S. Padre per la unione alle Finanze Pontificie e il distacco da quelle di Bologna, fece un lungo memoriale sottoscritto da 150 persone ecclesiastiche e secolari.  Copia si trova anche nell’archivio della nostra Comunità. Contiene gli abusi, le prepotenze e le estorsioni che facevano i bolognesi alla loro popolazione, gli ostacoli all’industria nel fabbricare tabacchi, saponi ed altre cose, la vendita del vino ristretta ai soli tavernieri.

Venuto ciò a notizia della nostra popolazione, su tale esempio, fece anch’essa il suo memoriale diretto alla nostra Comunità sottoscritto da 120 persone, contenente le vessazioni che si avevano giornalmente dai dazieri di Bologna ed altre angustie, il tutto in 11 punti:

1- La oppressione del Dazio Pesce quantunque fosse incamerata da 200 anni fa.

2- Il Dazio Orto instituito per la sola città, che si vuole estendere al nostro paese.

3- Le Arti e le manifatture limitate a capriccio di Bologna.

4- Le liti che si hanno di continuo per le Arti in sprezzo dei giudicati.

5- La cavatura o tiratura dei bachi da seta limitata alla città e proibita nel contado.

6- Il vino che è concesso solo ai tavernieri di venderlo al dettaglio e negato ai produttori, quantunque paghino il loro dazio.

7- Il Terratico gravato e addossato ai soli comitatini e, quantunque paghino l’estimo, se vogliono portare il di più dei raccolti a Bologna debbono pagare anche il Dazio Porta alla città.

8- In Castello nessuno presiede alla vigilanza delle vettovaglie, mentre solo il magistrato di Bologna vuole e si riserva questa giurisdizione.

9- Le strade sono tutte disastrose e malconce perché solo il magistrato dell’Ufficio dell’Acqua di Bologna vuole vigilare e però nulla opera.

10- I Pesi e le Misure non sono controllate in paese e portandosi a Bologna a bollarle nel ritorno sono già rovinate.

11- Infine per quanto riguarda le cause civili sono 4 mesi che sta chiuso questo tribunale ed il cavaliere estratto, senza nulla operare, si pone in tasca a capo d’anno la assegnazione fatta sopra i terreni della nostra podesteria composta di 16 Comunità, che è di 260 scudi.

Occorre poi aggiungere che siccome il nostro Castello fu da Nicolò V restituito a Bologna per che fosse meglio trattato ne è accaduto il rovescio e molte altre indicazioni si potrebbero elencare ma sarebbe lungo il trascriverle.

Il 6 aprile giunse in Bologna la regina di Napoli Donna Carolina d’Austria[36] col marito.  Accompagnava il nuovo Gran Duca di Toscana[37], con la sua famiglia che andava al possesso del suo Ducato. C’erano con loro le due sorelle del povero Re di Francia, fuggite, col pretesto di andare ai Santi Luoghi di Loreto o Roma, dalle rivoluzioni di quel reame.

Il 7 passarono di qui alle ore 20 le suddette Principesse Adelaide e Vittoria, dimostrando nel loro volto senile la maestà ma anche il cordoglio delle loro vicende. Furono accompagnate con 74 cavalieri della Legazione.

L’anno scorso la Comunità fece istanza a codesto sig. arciprete Calistri che, quando essa in corpo interveniva alle funzioni, desiderava essere ricevuta con l’acqua benedetta alla porta della chiesa. L’arciprete prese tempo per decidere.  Fatta nuova istanza dalla Comunità, il 17 ritornarono i due delegati Francesco Conti proconsolo e Conti depositario della Comunità dall’arciprete e questi  replicò che non aveva ricevuto alcun riscontro da Bologna.

Riferito ciò al Corpo comunitativo fu deciso di sospendere l’offerta delle tre libbre di cera e la visita all’orazione delle 40 ore.

Il 20 aprile, mercoledì Santo fu convocato il Consiglio e fu proposto se si dovesse spedire a Roma il memoriale di cui sopra e farlo presentare dal Curiale. Fu deciso con pieni voti affermativi per il sì e poi si fece, a rogito di ser Antonio Giorgi, procura all’abate Francesco Pirelli romano. Inoltre e conseguentemente anche sopra questo affare furono fatti due delegati che sono il sig. Francesco fu Lorenzo Conti proconsolo e sig. Francesco di Pietro Conti con tutte le facoltà necessarie.

Ad imitazione della nostra Comunità e di Medicina, i mercanti della seta di Bologna si unirono e spedirono a Roma al S. Padre l’avvocato Pietro Aldini.  Si vociferava che bramavano l’unione alle finanze pontificie.

Venne avviso che il famoso Caliostro condannato a Roma come istigatore di infinite iniquità, negromante, apostata della religione cattolica e protettore della setta dei Muratori Liberi, era stato relegato nell’oscuro carcere della fortezza di S. Leo.

I mercanti di Medicina, di Budrio e di questo Castello avevano fatto ricorso al sig. Card. Legato per la impraticabilità della strada che dal Borgo porta a Medicina. L’architetto pubblico Gio. Giacomo Dotti fu delegato dagli Assonti di Governo alla visita di questa strada che fu fatta il 3 maggio e andò con lui il sig. Gio. Battista Fiegna, comunista, per la Comunità e Remigio Cella per parte dei ricorrenti.

Il 24 giugno fu estratto Consolo Paolo Farnè.

Ieri mattina, ricorrendo la solennità del Corpus Domini, la Comunità intervenne, secondo il solito alla processione. L’arciprete però non volle prestarsi a riceverla coll’acqua benedetta alla porta della chiesa, perciò la Comunità non entrò nella chiesa e ricevette fuori il SS.mo e lo accompagnò per tutta la lunghezza del cimitero fino ai portici. La Comunità poi, non avendo portato le tre libre di cera all’orazione delle 40 ore la settimana santa, prese questa occasione per regalare la cera alla compagnia del SS.mo facendo il dono con una torcia con lo stemma comunitativo.

Avendo poi il Papa, in seguito del memoriale dato dalla Comunità di Medicina e dalla nostra sopra le angustie presenti, ordinato a Bologna che si abolissero le Bollette di Giro, così il 29 fu pubblicato il Bando della sua abolizione.

Il 30 la Comunità rispose alle petizioni di Antonio Melini per avere il suolo ove costruire una conceria da pelli in vicinanza del fiume. Gli fu concessa per 15 anni la punta di terreno posta fra il macero ed il canale di che ne fu fatto rogito da me Ercole Cavazza.  Dopo aver fatto ciò, rinunciai all’officio di segretario della Comunità dopo il servizio prestato per 30 anni. In seguito di ciò l’Assonteria interpellò la Comunità sulla causa e i motivi di tale rinuncia.

Il 25 luglio, stante l’abolizione della Bolletta di Giro, essendo nati alcuni dubbi, fu fatto, mediante notificazione, un chiarimento.  Le robe o qualsiasi merce che si trasporta da un comune all’altro deve essere accompagnata da bolletta dell’ufficiale e quelle che vanno alla città devono essere accompagnate dall’attestato del massaro locale con il pagamento di un solo mezzo bajocco per bolletta.

Da Civitavecchia erano evasi oltre 600 condannati alle galere pontificie. Parecchi vennero in questi intorni e si nascosero nelle boscaglie, segnatamente presso Castel de’ Britti e Pizzocalvo, nelle nostre colline di Castel S. Pietro e dell’imolese. A Pizzocalvo andarono alle case dei Savini ed alla loro chiesa nei giorni di S. Lorenzo distruggendo le cose sacre. Perciò il comandante conte Camillo Malvezzi, con ordine dell’E.mo Legato Archetti, ordinò al nostro capitano Pier Andrea Giorgi che facesse pattugliare i miliziotti per cacciare o catturare i malviventi che anche qui si erano annidati.

La mattina di venerdì 12 agosto, 4 di questi fuorusciti che erano nelle nostre vicinanze, incontrarono una giovinetta di bell’aspetto che veniva dal palazzo Stanzani per andare a Castello con formaggi e uova. La fermarono e le chiesero cosa aveva nella paniera e alla risposta che teneva del formaggio le tolsero tutto. Poi le gettarono addosso un tabarro per impedirle di vedere e perché non si sentissero le sue grida e la portarono con sé. Questa era la figlia di Angiolo Trocchi di nome Anna. Il 15 fu lasciata in libertà poiché la sbirraglia di Bologna con i villani di questi quartieri si era messa in battuta per averli nelle mani. La notte però riuscirono a fuggire. I capi erano Giacomo figlio di Pietro Ciuchini, detto Pirrone, dei Pianelli del comune di Dozza. L’altro era Giacomo Tomba, detto Scarpetta da Dozza, che fu quello che la notte di S. Pietro scorso incendiò la casa del luogo la Quercia, presso S. Barbara sotto la rocca di Dozza, per incendiar viva la sua amorosa che l’aveva lasciato, anzi scacciato.

Il 22 settembre l’E.mo Legato Gio. Andrea Archetti venne a Castel S. Pietro col suo vice legato monsig. Da Aquino ed altri della loro corte. Stettero in paese tutta la giornata per loro diporto, alloggiarono alla locanda del Portone e furono contentissimi. L’E.mo andò alle fabbriche dei gargioli di questo Borgo e Castello e visitò i lavori. Furono rimproverati alcuni che manipolavano il lavoro alla schiantina e poi lo accomodavano alla nostrana. Andò sulla riva del Sillaro dietro i palazzi poi alla fontana e gli piacque tanto sia il paese che la sua situazione e la sua aria buona, ascoltò messa nella arcipretale poi la sera sul tardi se ne partì per la sua villeggiatura fuori strada maggiore a S. Lazzaro in luogo detto la Cornetta.

Il 29 settembre era terminata la pellacanaria ossia conceria da pelli di Antonio Mellini imolese sopra la riva del Sillaro in una punta di terreno della Comunità, come appare da mio rogito fatto l’ultimo giorno dello scorso giugno. Lo stesso mattino cominciò a conciarvi pelli d’ogni tipo. La Comunità aveva concesso il suolo e i materiali tolti dalla porta Montanara, l’uso dell’edificio per anni 15 e poi il suo rilascio alla Comunità.

Il primo novembre, convocato il Consilio, furono deliberate le conferme degli stipendiati pubblici. Il dott. Giuseppe Muratori medico però fu escluso.

Si scopri quindi un intrigo fatto dal notaio Francesco Conti, attuale cancelliere e segretario della Comunità, che aveva assegnato la condotta medica al dott. Valerio Bartoluzzi, medico avventizio a Castel Bolognese.  Alcuni della Comunità, risentiti da questo sottomano, spinsero il dott. Muratori a presentarsi al senatore marchese Guido Barbazzi, deputato agli affari di questa Comunità, per informarlo della delibera fatta dalla Comunità. Egli ubbidì prontamente e si presentò anche all’Assonteria di Governo. La delibera era stata fatta  in modo fraudolento e prevedeva il licenziamento con la gratificazione però di cento lire all’anno da togliere dall’emolumento del medico successore  come era stato concordato dal Conti col Bartoluzzi.

l’Assonteria disapprovò del tutto per essere incompatibile la gratificazione che si dà per merito, con l’esonero che si da per demerito. Quindi immediatamente ordinò per lettera alla Comunità che si richiamassero tutti i consiglieri e si riproponesse il medico. Rifiutarono il Consolo Paolo Farnè, Francesco di Pietro Conti, Lorenzo Trochi e il cancelliere Francesco Conti, adducendo che il fatto, seguito dalla votazione, era stato legittimo e canonico giusto gli Statuti della Comunità. Perciò rifiutarono di riproporre la deliberazione a differenza degli altri consiglieri che protestarono di volere obbedire agli ordini del Governo. Questi fecero sapere il loro parere all’Assonteria e poi ricorsero anche a Roma. Mentre si attendeva la risposta, il governo di Bologna si presentò in forma all’E.mo Legato facendoli constatare la disubbidienza e l’intrigo. L’E.mo immediatamente scrisse al Consolo perché procedesse alla nuova riproposizione. Il Consolo indugiò nella risposta al sig. Cardinale, nell’attesa di una qualche risposta da Roma.

In questo frattempo era passato il giorno di S. Martino, 11 novembre, in cui i lardaroli dovrebbero macellare i maiali.  Questi non avevano voluto “prendere il dazio” a motivo della tariffa bassa, pagandosi la carne porcina ventidue lire il cento, così che nel paese era gran schiamazzo nel popolo che non aveva grasso, né salsicce, né altri condimenti. Quindi ne andò l’avviso al sig. Cardinale ed ai tribuni e fu spedito immediatamente in questo paese il Magistrato col giudice e, trovato il fatto vero, furono tutti i lardaroli arrestati.

Fra questi cadde anche il Consolo Farnè che faceva andare una bottega da lardaria. Citati tutti a Bologna, vi comparve pure il Farnè che rifiutava di volere macellare maiali. Inoltre questi come Consolo non aveva data alcuna risposta, persuaso del  cancelliere Conti, al sig. Cardinale e nemmeno aveva convocato il Consilio per il fatto del medico.  Così sua Em.za, montato in ira fuori del solito, il 22 novembre fece immediatamente carcerare il Farnè,  poi ordinò al Magistrato che scrivesse subito al proconsole della Comunità perché intimasse personalmente a lardaroli la vendita di grasso e salsicce.

Il proconsolo Mondini non era a Castel S. Pietro, quindi toccò a me Ercole Cavazza, come decano, della Comunità eseguire gli ordini del Magistrato. Mi portai perciò in compagnia degli altri due consiglieri Pier Andrea Giorgi e Gio. Battista Fiegna alle botteghe di tutti i lardaroli e feci loro la intimazione del Magistrato a cui poi ne feci il rendiconto. Giunse poi una lettera dell’E.mo Legato alla Comunità che le imponeva di dovere spedire a Bologna il cancelliere Conti per rendere ragione a su Em.za del motivo per cui non aveva risposto alla sua lettera diretta al Consolo che, ancora in carcere, asseriva essere stato il cancelliere a convincerlo che poteva dilazionare la risposta.

Solamente il 29 novembre, il Conti andò a Bologna e si presentò a sua Em.za che lo minacciò della fortezza e gli convertì poi la pena in otto giorni di carcere per la mediazione del signor Conte Pietro Bianchetti. Scontata, con l’altro,  la pena, vennero a casa la vigilia della Immacolata Concezione.

I villani di Poggio proseguendo a Roma le loro istanze presso la Congregazione deputata dal Papa, comparvero giuridicamente con mandato, come aveva preteso la Comunità per sapere chi era la legale controparte per il rimborso delle spese in caso di vittoria.

Avendo rinunciato alla carica di maestro pubblico il sacerdote Don Giuseppe Tozzi di Massa Lombarda, questa Comunità mise fuori il bando per concorrere a questo pubblico Ginnasio.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro l’avvocato Eligio Nicoli.

Il 27 dicembre fu estratto Consolo per il prossimo semestre 1792 Gio. Alessandro Calanchi e di seguito fu eletto per nuovo maestro l’Abate Giuseppe Castellani faentino, bravo poeta.

1792

Ribellione castellani contro tentativo monopolio macellai. Arcivescovo pone condizioni sul solito  viaggio della comp. del SS.mo a Loreto. Resoconto del viaggio di ritorno da Loreto. Don Calistri mette zizzania nella famiglia del conte Luigi Bentivoglio. Congregazione speciale di5 cardinali decide per lo statu s quo sulla smembrazione. Scoperta a Bologna una cospirazione. Problemi per fuochi artificiali posti davanti all’oratorio del SS.mo. Passano preti francesi emigrati dalla Francia. Memoriale del nuovo guardiano di S. Francesco sulla questione del vicolo. Testimonianza di due sacerdoti francesi accolti in S. Bartolomeo di altri di passaggio in Borgo.

Il primo gennaio cominciò avere il suo effetto il Breve del regnante Pontefice sopra la reciproca esenzione nel commercio delle manifatture, bestiami ed altro.   

Il 5 gennaio Giuseppe Lasi di Castel S. Pietro, abitante a Bologna ed ivi ammogliato, uccise un solfanaro (straccivendolo) perché questi, di nome Giacomo Remedi, voleva crescergli la pigione della casa.  Il Lasi, appena fatto l’omicidio, andò all’osteria della Pigna e dopo avere mangiato fu immediatamente carcerato e condotto incatenato nel Torrone.

Era stata estratta, nella chiesa degli agostiniani di S. Bartolomeo, per Priora della Cintura la sig. Contessa Agata moglie del sig. Conte Luigi Bentivoglio. Il 6, giorno della Epifania, assunse la sua carica con le seguenti compagne cioè: prima compagna Contessa Girolama, seconda compagna Ottilia Cavazza, mia figlia, prima custode Contessa Angiola Bentivoglio, seconda custode Contessa Teodosia Bentivoglio. Tutte erano in abito turchino, avevano per loro porta lumi quattro fanciulli, vestiti con livrea bentivogliesca. Priore fu l’Abate Don Giuseppe Sileva ex gesuita messicano e la funzione fu bellissima a vedersi.

Domenica 15 gennaio si seppe che il senatore Giuseppe Marescalchi era stato deputato sopraintendente agli affari di governo per la Comunità di Castel S. Pietro.

Nello stesso giorno, stante la risoluzione fatta da questa compagnia del SS.mo SS.to di portarsi alla visita della S. Casa di Loreto con la miracolosa immagine del suo S. Crocefisso, si fece la sera l’esposizione del SS.mo SS.to e, scoperta la S. Immagine nel suo oratorio, si cantarono le laudi di Maria SS.ma con la declamazione del Santa Maria Lauretana Ora Pro Nobis e Tantum Ergo in musica.  Poi fu data la benedizione del SS.mo al numerosissimo popolo.

Il 9 febbraio l’egregio giovane Caetano di Francesco Conti di questo Castello prese la laurea dottorale in Bologna more civium in filosofia e medicina, fu scolaro del dott. Gaetano Uttini, egli è giovane di grande aspettazione.

Il 20 febbraio fu pubblicato l’indulto da carne di ogni sorte eccettuato il mercoledì per il burro e i giorni delle quattro tempora, con i primi tre giorni ed ultimi di quaresima per l’olio. Il predicatore fu il Lettore Luigi Spisani bolognese agostiniano che cominciò le sue fatiche il 22, giorno delle Ceneri.

Il 7 marzo Lorenzo Trochi, subappaltatore del Dazio Dettaglio per Castel S. Pietro e sua giurisdizione, aveva sostituito nel suo subappalto Michele Corticelli, Giacomo Ravasini e Lorenzo Costa di questo Castello con la facoltà di sostituire altri e subappaltare il Dazio dei Minuti. Giuseppe Dal Monte e Pellegrino Battilani, macellai di minuti, si associarono e formarono una privativa fra di loro con animo di angustiare il paese.

Giuseppe Lelli chiese di daziare per una bottega di minuti, gli fu negato onde ricorse all’E.mo Legato Archetti. Questi ordinò al proconsolo Farnè che componesse le parti autorizzandolo di ogni potere e che subito, per la quiete del popolo, il Lelli aprisse la bottega e smerciasse castrato, pecora secondo il solito e così svanisse la privativa fatta fra il Ravasini macellaio di carne grossa e il Dalmonte e Battilani di carne minuta.

Il Farnè propose un accordo tra il Lelli e il Ravasini e compagni con il pagamento di scudi centocinquanta da pagarsi dal Lelli.  Ma il Ravasini e il Trochi, pretesero che il Lelli pagasse anche il dazio proporzionato ai due mesi scorsi quantunque non avesse venduto carni. Il Battilani e il Dalmonte assieme al Ravasini cominciarono a vendere i cascami dei minuti a prezzo duplicato, cioè le cervella di castrato, pecora, capra a due soldi la coppia invece che a un soldo. Le teste vuote e scarnate a soldi 8 che prima erano a quattro, le milze a soldi 3 la coppia, che prima erano soldi 1 e ½, i fegati bianchi col cuore, che si vendevano a soldi 3 ora ne volevano 6, i fegati neri da soldi 4 a 8, gli agnelli e i capretti da soldi due ne volevano 4 per modo che tutto in un punto si vendeva al doppio e si pretendeva anche di più.

Si scoprirono anche altre iniquità cioè di vendere le pecore per castrato ed al prezzo della carne bovina e, sebbene facessero queste ingiustizie, non volevano essere sostituiti da nessun altro nella macellazione. Si ricorse all’A. C. che non riuscì ad accordarli. Successe quindi che il Ravasini, con  i burlandotti ossia le guardie dei dazieri, andò alla bottega del Lelli, gli portò via i castrati macellati e gli fece chiudere la bottega.

Il popolo ad una tale strana novità vedendosi tribolato, cominciò a mormorare e dal mormorio si passò ad un tumulto di donne, ragazzi, uomini che cominciarono a gridare a mezz’ora di notte Assassini! Assassini! vogliamo la bottega aperta, vogliamo carne, vogliamo un’altra bottega fuori dalla privativa! Circondarono poi il proconsole Farnè che era fuori casa e alzarono più forte le grida Siamo assassinati, vogliamo un’altra bottega, al Cardinale, al Cardinale!.

In seguito di ciò il Farnè si unì con Francesco di Pietro Conti e Fiegna e vennero da Ercole Cavazza e così, chiusi in casa, si concertò di quietare il popolo furente. Questo intanto si divise in due gruppi, uno si portò alla casa del Trochi chiamandolo assassino, traditore della patria, nemico della povertà, lo esortò ad uscire e forzarono le porte. Esso fuggì per la parte posteriore, andò in S. Francesco e poi fuori del Castello. L’altro gruppo assediava ora una casa di un comunista ora l’altra gridando al Cardinale, al Cardinale vogliamo altra bottega di minuti!

Crescendo sempre più il tumulto gli altri bottegai, temendo qualche inconveniente chiusero tutti le loro botteghe prima dell’ora di notte, tanto più che i ragazzi erano ricorsi ai sassi.

Finalmente una parte dei sollevati venne alla casa di Ercole Cavazza e qui bussarono fortemente alla porta.  Il Cavazza, con gli altri tre consiglieri Farnè, Conti e Fiegna, si affacciò coraggiosamente al portello contro la turba furibonda e, calmatala con dolcezza, la persuase a deporre la furia, tornare alle loro cose, che la mattina dopo sarebbero andati dal sig. Cardinale e procurato che tutto fosse ripristinato.

La mattina seguente che fu il giovedì si presentarono al Legato i suddetti. quattro pubblici rappresentanti e lo informarono di tutto e del rischio per il paese. Sua Em.za, dopo avere ascoltato, ordinò che si riaprisse la bottega del Lelli e, quanto ai prezzi dei cascami, si vendessero al prezzo consueto. Fece segnare la sua determinazione all’Uditore che subito la fece notificare al Trochi, al Ravasini e agli altri.

Tornarono a casa i quattro consiglieri e, nella strada romana fuori dell’abitato, incontrarono il popolo che chiese il risultato. Inteso il tutto favorevole, cominciarono gli evviva al Cardinale ed ai comunisti Padri della Patria. Quanta fu la gioia del popolo e le acclamazioni alla Comunità, altrettante furono le contumelie dirette al Trochi che poco dopo venne anch’esso ricevuto nel suo ritorno da Bologna.

Alcuni tumultuanti si erano riempite le mani e le tasche di sassi con l’intento, se la cosa andava male, di sfogare la loro ira nella persona del Trochi.  Gli andò bene che fu accompagnato fino a casa con solo fischiate ed ingiurie. Cosi che si coperse il capo col tabarro e tenendo gli stradelli più remoti se ne volò col cavallo alla propria abitazione da cui, per il gran timore per la sua vita, non uscì fino alla mattina dopo a giorno alto. In termine di ciò furono aperte le macellerie dei minuti e così tutto terminò con soddisfazione del popolo.

In questo tempo giunse la notizia da Vienna che il giorno primo marzo l’Imperatore Leopoldo II fu trovato nel letto morto soffocato dal sangue. Alcuni, per contestare tale versione, riferirono essere morto in braccio alla moglie. Ecco la fine dei persecutori della Chiesa che aveva tanto ostacolato in Firenze con provvedimenti più eretici che cattolici, mettendo mano in ciò che competeva al vescovo. Fu acerrimo difensore e protettore del deposto vescovo di Pistoia Ricci.

Codesta compagnia del SS.mo SS.to aveva dato supplica al sig. Card. Giovanetti, arcivescovo di Bologna, per andare processionalmente col suo miracoloso Crocefisso alla Santa Casa di Loreto. Questo dispiaceva all’arciprete Calistri, che voleva continuamente opprimere questa compagnia ora levandole la questua, ora le benedizioni ed ora una cosa ed ora un’altra. Perciò scrisse di soppiatto all’arcivescovo onde non desse la licenza come se fosse la compagnia soggetta a qualche colpa. Il Cardinale, troppo credulo per non dire prevenuto, fece alla supplica il seguente rescritto:

Adi 13 marzo 1792. Dal Palazzo Arcivescovile di Bologna.

 Si concede la grazia del viaggio processionale con la Sagra Immagine di Gesù Crocefisso a condizione però che nessuna persona femmina si prenda nel sud. viaggio e siano tutti uomini della Compagnia fino alla S. Casa di Loreto e così nel ritorno a Castel S. Pietro ed avendo noi osservati gli attestati di Miracoli e Grazie che ci sono stati posti sotto occhio, con che abbiamo anco veduta la facilità di d. attestati e la loro intrinseca debolezza, affinché non nascano inganni e non si pongano in derisione la Casa di Dio massimamente in questi tempi, proibiamo ai Confratelli e a chiunque altra persona che fosse nel viaggio sudd., ancorché fosse sacerdote di raccogliere o fare attestati di guarigioni miracolose o quasi non avendo bisogno di miracoli dubbiosi e sapendo noi per fede che Iddio solo è l’autore di veri miracoli e ne può fare quanti e come vole. Accadendo dunque qualche cosa di portentoso resti questa notata con diligenza da chi pressiede il sagro viaggio ed al ritorno se ne avrà riscontro sottoponendo il tutto al conveniente esame, e così. e non altrimenti.

 Card. Giovanetti Arcivescovo.

E chi non dirà che tale rescritto sia guidato dalla passione e da uno spirito prevenuto? Si accenna che Dio può fare quanti miracoli vuole e come gli pare e poi si aggiunge che ciò è di fede. Ma la conseguenza non corrisponde, poiché si dice di volerli sottoporre ad esame, quasi che Gesù Cristo sia un qualche Santo od anima venerabile soggetta alla canonizzazione. Dio buono!

Il Rescritto accusa che siamo in tempi critici per la chiesa e la fede e poi si vuole invece propagarla col culto alle S. Immagini, coartarla, occultarla e deprimerla. Dabo vobis regem insipientes.

In questi mesi si erano replicate al Governo le istanze per avere un giusdicente. Venne in determinazione l’Assonteria di Governo di deputare due assunti del suo ceto per concordare l’emolumento, ed intanto fu ordinato che io Ercole Cavazza servissi interinalmente per questo anno. A questo scopo il 23 marzo mi fu spedita la patente gratis.

Il 25, Domenica di Passione, si fece, secondo il solito, la processione per il Castello e il Borgo con la S. Immagine di Cristo non velata. L’arciprete Calistri, nemico di tale funzione alla quale interveniva una infinità di popolo, proibì la questua di elemosine in danno della povera compagnia.

Il 30 marzo, ad istanza dei dazieri di Bologna, fu eseguita la citazione perentoria che obbligava la Comunità a depositare nel S. Monte di Bologna tutto il dazio del pesce esatto dall’attuale gabelliere come deposito a vantaggio di chi lo sarà de jure e ciò in conseguenza del rescritto fatto il 28 marzo 1780 dall’E.mo per gli atti del Diolaiti.

La Comunità ha per ciò acconsentito che si faccia tale deposito da questo gabelliere alla condizione che tale deposito resti vincolato usque ad jus cognitum.

Stante la situazione della Francia per cui di quando in quando si susseguono emigrazioni, dei francesi sono entrati in Italia. Quindi i principi cattolici, dubitando che possano infettare la religione, hanno guardie armate che vigilano per farli tornare indietro. Perciò anche la legazione di Bologna, timorosa di ciò, ha ordinato ai capitani della milizia urbana ossia miliziotti di vigilare.  Così l’Uditore generale del Torrone Innocenzo Innocenzi ha scritto a questo capitano Pier Andrea Giorgi che stia preparato e, trovando viaggiatori francesi, li fermi e li mandi a Bologna.

Il 12 aprile fu ritrovata da tre fanciulli, sotto il ponte del Sillaro nell’occhio di mezzo vicino alla corrente, una neonata nuda, senza aver neppure l’ombelico legato, con una percossa nel capo e morta da un giorno, come fu poi rilevato. Fu subito data la relazione e poi portata nel tribunale a Bologna.

Per il viaggio a Loreto di questa compagnia del SS.mo SS.to, dovevano essere ossequiati tutti i vescovi per le cui diocesi si passava processionalmente. Il 15 aprile fu spedito  dal priore della compagnia Giovanni Frascari, il dott. Francesco Cavazza, mio figlio, col collega Giovan Battista Fiegna ad essequiare l’E.mo Card. Gregorio Chiaromonti vescovo di Imola. Gradì questi a tal punto l’ossequio che ordinò agli inviati di farlo ascrivere al Ruolo della Compagnia stessa, il che fu prontamente eseguito.

Fu pubblicata la consueta Notificazione di Governo per l’elenco di tutti i lavoratori al fine di formare il libro camerale. Furono perciò eletti, come uomini dei più pratici del comune, Filippo Monti massaro, Paolo Andrini e Simone di Giuseppe Conti.

Martedì 24 aprile su le 12 la Compagnia del SS.mo partì processionalmente per la S. Casa col suo miracoloso Crocefisso per la settima volta, accompagnato da infinito popolo, paesano e forestiero.

Fece la sua prima fermata, con incontro di tutte le compagnie e clero, a Castel Bolognese con un copioso sparo di mortaretti. Visitò infermi e fece una grazia ad una malata da tre anni in letto. Si proseguì poi a Forlì dove si pernottò. Fu accolto dalla compagnia del SS.mo e si fermò dalle monache del Corpus Domini, monastero fondato dalla pietà del sempre grande senatore Piriteo junior Malvezzi Lupori. La mattina seguente si andò fino a Rimini a pernottare, poi il dì seguente a Pesaro indi a Senigallia poi ad Ancona e finalmente il sabato si arrivò a Loreto.

Qui si fece una sola nottata e la mattina seguente della domenica tutti i cappati della compagnia e le altre persone fecero la comunione generale.

Il lunedì mattina si fece ritorno ad Ancona, ove il miracoloso Crocefisso fece la sua fermata preceduta dallo sparo dei cannoni, ebbe in dono torce e voti di argento e fu presente tantissimo popolo.  Poi partì per Sinigaglia ove fu incontrato da tutte le compagnie, canonici e clero e portato nella chiesa del SS.mo Rosario alla venerazione del popolo. Era qui vescovo il Cardinale Ranuzzi di Bologna a cui fu presentata la stampa del Crocefisso in foglio ed in seta.

 Si venne indi a Pesaro ove si ebbe il secondo incontro delle compagnie, del clero ecc. Il Conte Paolo Macchiavelli Giordani con suo fratello, oltre avere onorata la nostra compagnia di cera, diede anche un pranzo nel proprio palazzo ad otto cappati della stessa, parte confratelli e parte no. Furono il priore Giovanni Frascari, Francesco di Pietro Conti, il dott. Gaetano Conti figlio, il dott. Francesco Cavazza, Antonio Giorgi, il cappellano Don Luigi Facondi, Carlo Bottazzoni.

Il dopopranzo, dopo un copioso sparo di fucileria, mortaretti e cannoni, si presentarono all’E.mo Doria presidente d’Urbino e, dopo avergli offerta l’Immagine del SS. Crocefisso, furono fatti scortare dalla sua guardia fino al porto della città. Si venne indi a Rimini ove si pernottò e la mattina seguente si fu ricevuti con grandissimo onore ed il vescovo, dopo un bellissimo Miserere cantato in musica nel duomo, fece alla S. Immagine il regalo della cera.

Si passò a S. Arcangelo ed a Forlimpopoli ove si ricevettero molti onori che a dirli tutti in dettaglio sarebbe stucchevole. Si venne poi a Faenza ove proseguì l’incontro con molte compagnie e popolo passando dal borgo per tutta la città, qui alla porta imolese si chiuse la S. Immagine. Il seguito delle persone fu sempre numerosissimo ed ognuno si teneva beato di portare la cassa ove si teneva chiusa la S. Immagine che fu sempre accompagnata da due lampioni accesi e sei capati della nostra compagnia.

Si arrivò poscia a Castel Bolognese e qui fu trattenuta a forza da quel popolo e si volle inalberata la S. Immagine e portata nel Duomo. Si presentò allora un fanciullo di sette anni con la madre che onorò questa S. Immagine. Da storpio che era, tanto che camminava con le grucce, le lasciò a vista di tutto il popolo ai piedi della croce, camminando perfettamente. Mosse il fatto una grande commozione negli astanti che ognuno per tenerezza piangeva. Accrebbe il pianto della gente  la vista della viva fede della madre del fanciullo che, prostratasi davanti alla S. Immagine tenuta dall’arciprete Camerini, disse ad alta voce: Signore voi mi avete liberato il figlio, conosco in voi la forza del potere vostro, le vostre misericordie, ve ne ringrazio coll’intimo del cuore, ma se questo mio figlio dovesse essere risanato per poscia nel crescere degli anni amareggiarvi e perdere l’anima, finché è di voi degno, ecco che ve lo offro, prendetevelo e cada piuttosto vittima ai vostri SS.mi piedi, che vittima del demonio colla perdita dell’anima, che vi costò tanto sangue.

Non poté l’arciprete Camerini articolare parola né alcun altro benché animoso, restando soffocati dal pianto di tenerezza ogni altro atto umano. Data la S. Benedizione si venne ad Imola accompagnati da numeroso popolo. Il figlio risanato è il villanello Luigi Barbieri e la madre si chiama Francesca Regoli.

Giunti in Imola, inalberata la S. Immagine ad una piccola chiesa fuori città, si andò processionalmente alla chiesa del Corpo di Cristo detta la Chiesa Nuova presso il palazzo vescovile. Qui intervenne il Card. Gregorio Chiaramonti, vescovo della città e volle davanti ad essa ascoltar messa. Per si bella occasione essendosi voluto questo porporato aggregare alla compagnia, gli fu fatta la dedica di un sonetto.

Terminata ogni funzione si venne a Castel S. Pietro ove il 6 maggio il Crocefisso inalberato fu accolto nel Borgo dal clero secolare e regolare. Dal Corpo della Comunità ebbe il dono di due torce di cera. Poi fu portato alla sua chiesa e si diede la benedizione al popolo e fino a tutto il pomeriggio di lunedì 7 stette alla pubblica venerazione. La sera dell’arrivo si fecero fuochi di gioia.

 Il seguito di nove carrozze oltre altri legni con paesani e cavalli e pedoni fece nella Marca e nella Romagna non poca impressione per cui si ricevettero onori e favori. Fra gli altri le monache di Cesena regalarono bellissimi fiori di seta, Donna Teresa Braschi monaca regalò cera e così tutte le monache di Pesaro a cui fu portato processionalmente la S. Immagine, cosi che dalle 22 fino all’ora di notte si camminò per la città che sembrava una rogazione. Ciò accordò quel vescovo per indulto speciale e deroga dal suo sinodo. In questa occasione furono stampate composizioni poetiche, che saranno in seguito trascritte. La nostra compagnia aveva con sé quattro cantori, un violoncello e due corni che in musica accompagnavano una canzone fatta per questa occasione. Le bande di soldati delle rispettive città accompagnarono anch’esse con i loro suoni la S. Processione.

 Chi volesse annoverare le grazie e miracoli veduti impiegherebbe troppo tempo. A Pesaro appena intonata la prece: Ut congruitemi pluvia davanti alla S. Immagine si cominciò a vederne l’effetto con una lieve pioggia. A Faenza una certa signora Teresa Catani, mortalmente malata ed ormai assistita dai sacerdoti, alla quale, per ultimo rimedio, erano stati applicati i vessicanti[38], si alzò di letto sentendo il suono delle campane per la partenza del crocefisso e, con lo stupore degli assistenti, balzò dal letto, prese le proprie vesti ed a forza volle andare ad accompagnare la S. Immagine. Andò a piedi dalla piazza pubblica fino alla porta imolese e qui ricevette la S. Benedizione, poi se ne ritornò sana alla casa paterna, con seguito di popolo ammirato.Fu accompagnata dalla signora Anna Mori Laghi faentina, conoscente di mia figlia Ottilia e di mia moglie Caterina Brachettoni.

Tante altre grazie e miracoli speciali si potrebbero riportare che si omettono, per ovviare ai ricorsi ed all’indignazione dell’E.mo Giovanetti arcivescovo, troppo fautore di codesto arciprete Calistri, ostinato e giurato nemico della compagnia del SS.mo.

Nel viaggio allorché si inalberava la S. Immagine venivano cantate lodi al Signore in musica da due cantori con accompagnamento di violoncello e corni, tanto nell’andata che nel ritorno, così tali canzoni con parole di Don Giuseppe Tozzi e musica di Giacomo Giordani furono stampate in Pesaro con dedica al conte Paolo Machirelli.

Lunedì 14 maggio ad istanza dell’Arti dei Pelacani, Allegati e Cartolari di Bologna fu eseguita inibizione a questi macellai e al nostro conciatore di pelli Antonio Mellini, onde la Comunità si prese la cura di difendere a Roma la causa avanti l’A. C. affidando la difesa all’abate Francesco Pierelli a cui furono spediti tutti i documenti.

 Il 24 giunse notizia che un bastimento con 500 francesi era approdato fra Luca e Livorno e perciò si sta in timore di un’altra violenta irruzione di questa nazione in Italia.

Contemporaneamente nella causa del Dazio Pesce tra la Comunità ed il firmiere Terzi, per gli atti di Filippo Amadesi nel foro civile di Bologna, si è ricevuto il decreto sul depositare le somme pagate al gabellino di Castel S. Pietro nel Monte di Pietà ed intanto si vada avanti nella nostra causa.

Il 26 fu chiusa la Tassa delle Teste degli Uomini del nostro comune ma non del Castello e Borgo stante il privilegio e l’immunità di essere considerati i nostri abitanti urbani come cittadini. Questo fin dall’edificazione del paese come dal decreto di quel tempo e reiterato da tanti altri del Senato e per la Bolla di Papa Eugenio IV che chiama immuni gli abitanti di Castel S. Pietro da pesi personali. Tale nota fu passata all’Imposta di Bologna e dall’Ufficio della medesima accettata.

Il 23 giugno l’Assonteria di Governo scrisse alla Comunità che non ostante la inibizione di Agostino Ronchi perché non venisse eletto Floriano Fabbri come consigliere, ordinava si deliberasse. Il giorno 24, dopo essere stato estratto Consolo il cap. Pier Andrea Giorgi, fu convocato il Consiglio per il 9 luglio prossimo.

Contemporaneamente venne notizia come il Re di Spagna, per suo decreto segnato il 25 maggio scorso, intimava a tutti i suoi sudditi ex gesuiti di rimpatriare sotto pena della privazione della loro pensione mensile.

Martedì 3 luglio, dopo essere stato nuovamente presentato ai Consiglieri della Comunità l’avviso di intervenire la sera in Consilio per la elezione di Flaviano Fabbri come consigliere, fu immediatamente mostrata la citazione camerale avanzata ad istanza di Agostino Ronchi avanti l’E.mo e R.mo Cardinale Prefetto della Segnatura, per cui non si  doveva procedere alla elezione suddetta, avendo presentato appello alla risoluzione dell’Ecc.ma Assonteria a norma della lettera del 23 giugno scorso,  sotto le pene  ecc.  in seguito ecc.

La sera stessa, radunato il Consiglio, quando si fu all’atto pratico di doversi porre a partito il Fabbri insorse il notaio Francesco Conti impugnando la votazione. Ercole Cavazza replicò doversi procedere secondo la lettera dell’Ecc.ma Assonteria né doversi attendere la citazione di appellazione essendo quella di nessun valore per nullità della stessa perché irregolarmente ed illegittimamente presentata, dovendosi, secondo lo Statuto municipale del bolognese, eseguirsi o alla Residenza della Comunità oppure alla stessa allorché fosse o in tutto o in corpo riunita ed a norma della solennità statutaria prescritta nella rubrica del modo di eseguire le citazioni alle Comunità del contado.  Il Cavazza insistette che si ponesse il voto e nessuno si astenesse. 

Cosicché il Consiglio, si divise in due partiti eguali, chiedeva il voto il Consolo Giorgi, Ercole Cavazza, Giuseppe Mondini e Gianbattista Fiegna e gli altri quattro, cioè il notaio Conti, Francesco Conti figlio di Pietro, Trochi e Farnè non vollero che si votasse e quindi fu imposto di doversi tutto notificare all’Assonteria di Governo, il che fecero il Cavazza e il Mondini di persona.

Gli avversari poi, cioè Farnè, Trochi e i due Conti andarono anch’essi a Bologna e con Agostino Ronchi si portarono dell’E.mo Legato e gli presentarono un memoriale perché venisse privato della carica di Consolo e consigliere il capitano Pier Andrea Giorgi, stante la presente vertenza del Dazio Pesce con i fermieri di Bologna, per essere egli il loro ufficiale a Castel S. Pietro.

Contemporaneamente arrivò l’avviso da Roma che la causa degli abitanti della Villa di Poggio per la loro smembrazione da Castel S. Pietro sarebbe stata decisa nei primi giorni del prossimo agosto.

Il 15 luglio l’E.mo Gregorio Chiaramonti, cardinale e vescovo di Imola, già dichiaratosi confratello di questa arciconfraternita del SS.mo SS.to, regalò all’Immagine miracolosa del SS. Crocefisso un bellissimo padiglione di lustrino paonazzo contornato di una frangia e di una guarnizione d’oro. La compagnia riconoscente di tanto favore, mandò subito a ringraziarlo l’abate Don Giuseppe Sila col dott. Francesco Cavazza, Antonio Giorgi e Gio. Battista Fiegna, i quali furono accolti con sentimenti di gratitudine da quel degnissimo porporato.

Codesto arciprete Calistri era stato licenziato dalla famigliarità che teneva in casa del sig. conte Luigi Bentivoglio.  Il motivo era che intendeva amoreggiare con la figlia maggiore del conte di nome Girolama Bentivoglio. C’erano poi molti contrasti in questa famiglia perché il figlio maggiore, conte Antonio, parteggiava per l’arciprete che frequentava quotidianamente col pretesto di studiare, sotto di lui, la legge civile. Il 22 luglio, su le tre di notte prima di andare a letto, venuto a discorso sopra il contegno dell’arciprete il conte Luigi chiese al figlio di smettere di frequentarlo e di andare a casa sua perché temeva che per questo mezzo passassero ambasciate alla figlia. Aggiunse anche la proibizione di frequentare la casa di Nicolò Giorgi ove amoreggiava con la figlia del Giorgi di nome Marianna, giovane di buon aspetto e garbata. Antonio la amava teneramente e questo sentimento, che spiaceva al padre, era invece alimentato dall’arciprete, che talvolta permetteva ai due giovani di incontrarsi in casa sua. Si quindi venne ad un forte diverbio tra il padre e figlio tanto che tentando il padre di battere il figlio, questi ebbe il coraggio di opporsi e gli disse che gli avrebbe sparato se fosse entrato nella sua stanza.

Don Giuseppe Tozzi, pubblico precettore della Comunità e alloggiato in casa dei Bentivoglio, si interpose e così fu calmata la grande agitazione. Lo stesso Don Tozzi che doveva andare a fare le vacanze estive a casa sua a Massa Lombarda, si trattenne per mantenere la pace, che però fu solo apparente.  Infatti l’arciprete non cessò di coltivare le suddette amicizie e di mostrare ostilità contro i genitori Bentivoglio, non degnandoli nemmeno di saluto, quando s’incontravano.

Il primo agosto giunse notizia da Roma, che la causa di Poggio con Castel S. Pietro per la smenbrazione andava a decidersi dalla Congregazione deputata dal Papa il giorno 6. Il Santo Consesso fece anche sapere che in avvenire volendosi dalle Comunità del contado eleggere qualunque ministro, anche come cancelliere e depositario si dovesse dare il concorso pubblico altrimenti le nomine stesse sarebbero non valide.

La famiglia dei fratelli Bolis di questo castello, che si era stabilita a Bologna per le vicende passate della compagnia e a causa dell’arciprete, fu dichiarata insolvente e furono per ciò messi all’asta i suoi beni.

Il 2 agosto l’Assonteria di Camera scrisse alla Comunità che notificasse a tutti che solo le certificazioni dei parroci era ammesse per il trasporto nei pubblici mercati ed alla città di prodotti e manifatture, mai dei proprietari perché accadevano falsità.

Nello stesso giorno la Assonteria di Governo scrisse alla Comunità e le impose che, stante la nullità della decisione camerale fatta ad istanza di Agostino Ronchi per la nomina di Flaviano Fabbri, si facesse sollecitamente tale nomina, altrimenti si sarebbe proceduto a misure spiacevoli. Letta tale lettera in Consiglio, dove c’era anche il Ronchi, fu determinato che si mandassero gli avvisi a tutti i consiglieri, secondo lo Statuto comunitativo, cioè otto giorni prima.  Fu perciò fissato il giorno dodici del corrente agosto e furono spediti gli avvisi.

Il 12 agosto si radunò il consiglio in numero di nove consiglieri e fu proposto il Fabbri che riportò solo tre voti favorevoli e 6 contrari. Fu supposto che questo fosse stato preparato dal notaio Conti poiché non volle nemmeno che si mettesse in votazione il suo competitore Bertuzzi.

Il 13 arrivò da Roma la notizia che la Congregazione particolare, deputata dal Papa, con i monsignori Paracciani, Mastrozzi, Erskine, Consalvi ed Alessandro Lante sopra la smembrazione pretesa di Poggio dalla sottomissione a Castel S. Pietro era stata decisa favorevolmente alla Comunità di questo Castello, senza accordare a poggesi alcun provvedimento ma che dovessero stare nella situazione in cui erano e sono.

Questa causa è stata gloriosamente vinta con la assistenza dell’abate Giovanni Celestini curiale romano che ha ottenuto il decreto favorevole sopra il seguente dubbio. An sie locus separationi, seu dismembrationi Ville podi ab oppido Castri S. P.ri in casu. Responsum fuit: negativa absque ulla providentia.  Tutto il paese ne fu rallegrato.

La documentazione di questa causa con le scritture e le pretese di Poggio è nel nostro Libro dei Diplomi ed altri documenti di Castel S. Pietro[39].

Il 13 agosto su le 14 morì Gio. Alessandro Calanchi, uno dei consiglieri della Comunità. Non ebbe eredi e così questa famiglia restò totalmente estinta in Castel S. Pietro e solo un rampollo soggiorna a Imola.

Nello stesso tempo fu pubblicato lo speciale Senato Consulto sulla elezione dei ministri delle Comunità del Contado per togliere qualsiasi abuso nella loro nomina. Vi è compreso anche il depositario, il cancelliere ed il procuratore, cosa che per l’addietro mai si è usato.

Il 23 agosto fu scoperto a Bologna una cospirazione per una sollevazione e furono carcerati due capi cioè Lorenzi Bitelli, guardaportone di casa Caprara, e un certo Filippo lardarolo. Appena ciò fu scoperto, il principale ideatore, che fu un falegname, se ne fuggì e non si poté prendere. Immediatamente furono fatti i loro ritratti e spediti alle Corti di Modena, Parma e Milano. Questi cospiratori avevano accordi con Don Giuseppe Frassineti, prete abitante a Imola, che fu subito carcerato e condotto a Bologna nel Torrone.

Iniziata che fosse la sollevazione a Bologna, doveva seguire l’altra a Imola per soccorrere gli insorti bolognesi. La notte del 24 si doveva accendere un fuoco nei quattro quartieri della città per richiamarvi il Presidio. Nel frattempo si dovevano prendere le carceri, ammazzare i quattro Uditori del Legato, cioè Ardovino Guglielmi, Innocenzo Innocenzi, ambedue del Torrone, l’abate Putti civile e l’uditore Pistruzzi del vescovato. Il programma del piano si ritrovò tutto scritto in casa Caprara con la cassa di 80 mila lire per allettare il popolaccio, 400 fucili, polvere e palle in molta quantità.

Si dovevano immediatamente impiccare i principali incettatori di grani, il fornaio di S. Stefano Galassi col socio Antonio Jussi.  Si dovevano salvare i Principi ed il Confaloniere con la magistratura. I conventi dei frati dovevano solo dare il quartiere ai capi della sollevazione e così poi prendere il Palazzo pubblico e cambiare il governo. Quattro senatori dovevano assecondare, cioè Segni Lodovico, Legnani Girolamo ed altri.

Tutta la procedura fu trovata scritta a lettere cubitali in un grande cartello, perché potesse essere letta  ed intesa da tutti per essere immediatamente eseguita.   

Il 5 settembre si ebbe riscontro da Roma come i Callegari, Cartolari e Pellacani associati contro la nostra Comunità per opprimere il nostro pellacano, avevano rinunciato alla lite avanti E.mo Prefetto di Segnatura così che la causa radicata in Roma non poté trasferirsi a Bologna come si pretendeva, ed il ricorso degli avversari spedito avanti il Card. Camerlengo fu circoscritto.

Quelli di Poggio, dopo avere patito la sentenza contraria, chiesero, mediante Mons. Paracciani, che il medico col chirurgo servisse gratis i poveri miserabili, somministrandogli però la cavalcatura. Chiesero pure l’ammissione di due fanciulli gratis alla scuola pubblica. Il detto Monsignore propose alla Comunità di aderire.

Il 9 settembre i fratelli Giuseppe ed Antonio Bertuzzi figli del fu Giovanni avevano fatto ricorso all’Assonteria di Governo per coprire il posto del loro defunto padre Giovanni. Tale posto era stato conferito a Lorenzo Trochi per condiscendenza dei medesimi a petizione del notaio Francesco Conti loro cognato. L’Assonteria per ciò ordinò ai Bertuzzi che rivolgesse le loro istanze alla Comunità. Così si fece ma fu sollevato il dubbio dal Conti contro il primogenito Bertuzzi se avesse perduto o no lo jus quesito. Fu sospesa la ballottazione e chiesta la soluzione alla Assonteria.

C’era stato un ricorso fatto dai commercianti di Medicina, Budrio e Castel S. Pietro all’Ufficio dell’Acque per accomodare la strada che parte da questo Borgo e va verso Medicina, detto la Via di S. Carlo, per renderla praticabile.  Il Marchese Annibale Banzi con suo fratello Monsignore si era liberalmente prestato a concedere gratis il terreno per allargarla per tutta la estensione dei loro beni. Quindi si cominciò a mettervi mano e il direttore fu il tenente Gio. Francesco Andrini a cui fu addossata la briga di tutto per tutti gli interventi e le premure che aveva fatto per questa opera.

La chiesa di questi Padri Agostiniani di S. Bartolomeo, era in riparazione per il coperto che minacciava rovina e non si poteva più in essa officiare. Perciò il 16 settembre fu portata la statua di S. Nicola in S. Francesco e da lì partì la solita processione del Santo per il Borgo e il Castello ove fu data la S. Benedizione. Quindi fu riportato nella chiesa dei francescani in cui si fece la festa. Don Luigi Sarti, che era priore della Compagnia del Suffragio, non volle intervenire alla funzione e si disse essere ciò avvenuto su istigazione dell’arciprete Calistri che era troppo suo padrone e nemico dei frati.

Il 7 ottobre, domenica del SS.mo Rosario, i soldati non intervennero alla solita festa solenne che si stava facendo nella arcipretale. Il motivo fu di volere evitare i disordini per le divisioni nella Compagnia del Rosario e per non contrariare la compagnia del SS.to.  Anche perché la gente era in agitazione ad imitazione dei francesi, fra loro discordi, chi per ruberie, chi per religione, chi per comando e chi per salvar la vita.

Un corpo di 25 mila francesi aveva preso Nizza nella Savoja facendovi stragi e ruberie.

In questa giornata il priore Luigi Dal Monte, detto Bufferla, della Compagnia del Rosario, volle anche esso distinguersi, ad istigazione dell’arciprete Calistri, col fare un grave sgarbo alla Compagnia del SS.mo ed alla Comunità. 

Aveva fatto venire da Castel Bolognese un artificiere con un mezzo migliaio di mortaretti, li fece piantare tutti sotto la ringhiera della residenza della Comunità e fece portare la batteria presso i gradini della chiesa del SS.mo. Luoghi questi ove le persone erano soliti stare a ricevere la S. Benedizione.

I confratelli del SS.mo fecero le opportune richieste al Bufferla, affinché spostasse tutto l’apparato perché si correva il rischio di danneggiare la loro chiesa, l’organo, le vetriate e così pure la Comunità. Rifiutò il Bufferla e disse che non dipendeva da lui, che questo glielo aveva ordinato l’arciprete, che egli era padrone come tutti della piazza pubblica e che questa volta non voleva restare sopraffatto come successe alla sua compagnia l’agosto 1787.

Spiacque una tale ostinazione ai confratelli del SS.mo, quindi Carlo Conti cominciò, nella linea dei mortaretti, a ribaltarli e Antonio Bertuzzi continuò nella batteria. A tale esempio i ragazzi, le donne ed altri del paese proseguirono e così fu scompigliato tutto l’allestimento e non si poté dar fuoco nemmeno ad un mortaretto.

L’arciprete fortemente sdegnato cominciò a preparare denunce e spedì al vescovato la relazione.  Il priore Bufferla si presentò all’arcivescovo informandolo con la sua versione. Da quest’altro canto la Comunità e gli indiziati del tumulto ricorsero alla Legazione facendole constatare il pericolo, che vi sarebbe stato per il popolo e per la chiesa, e il poco rispetto della stessa.

Il Legato intesa la questione rispose che avrebbe provveduto a tutto. La sera stessa del S. Rosario non si vedevano in giro che gruppetti, conventicole e adunanze di gente per modo che si temeva qualche disordine essendo tutti amareggiati.

Lunedì 15 ottobre alle ore sette di notte si sentì una scossa di terremoto preceduta da un piccolo rombo.

Contemporaneamente si venne a sapere che i francesi erano stati sconfitti, sotto Parigi, con 7 mila morti e 8 mila feriti e prigionieri, con la perdita di 50 cannoni, due casse militari piene di luigi d’oro, baracche e di tanti altri bagagli militari[40]. Erano rimasti padroni del campo gli austriaci, i prussiani, i russi ed altri che si erano alleati per rimettere il Re sul trono al quale sembra che l’assemblea abbia avviato un processo con mille infinite falsità.

Era venuto a Castello Domenico Barbieri esecutore per l’esattore Filippo Contoli, socio del fu Marco Zani collettore generale dei libri comunitativi. Il Barbieri non voleva abbonare cosa alcuna a chi aveva pagato e nemmeno fornire le ricevute.  Nacque un non piccolo mormorio e fu convocato il Consiglio, nel quale intervennero i minacciati di tassazione e i tassati quantunque avessero le loro prove del pagamento. Furono presi i loro nomi e le loro istanze e fu tutto spedito al sig. Card. Legato.

 Il Barbieri, aveva anche fermato dei soldati e. non volendo attendere la decisione dell’Assonteria di Camera e di Milizia, si trovò in rissa con alcuni di questi miliziotti. Infine fu richiamato alla città e gli fu ordinato che osservasse il decreto e la pronunzia dell’Assonteria del 23 maggio.

In seguito giunse a questi religiosi conventuali la circolare riguardante l’accoglimento dei poveri  cattolici emigrati dalla Francia  che dovessero essere ricevuti, ospitati e aiutati in quel numero che  avesse deciso  il superiore arcivescovo di Bologna.

Nella Città ve ne erano molti dei quali il Vescovo per assicursi che fossero sacerdoti, li faceva esaminare, spiegare il Vangelo e se li trovava non preparati li cacciava e non gli accordava di  celebrare la messa.

 Si sentiva riferire di molte stragi e barbarie che si commettevano in Francia tanto che si rilevava una persecuzione alla Chiesa e la Francia diventava l’arena degli attuali martiri cattolici.

Domenica 21 ottobre su le 22 cominciarono a passare drappelli di preti ed altri sacerdoti in abito clericale emigrati dalla Francia ed andarono alle città della Marca.

Il 24 vennero 26 preti francesi, pernottarono all’osteria della Corona. Erano male in arnese e era loro capo un vescovo, detto di Vienes (Vienne).  La mattina seguente partirono per Recanati.

Il 25 ne vennero altri 41, alloggiarono alla Corona e poi partirono per Loreto ove erano destinati.

Il 28 ottobre, stante gli intrighi passati per le conferme dei ministri di questa Comunità, il Dott. Muratori medico condotto diede supplica all’E.mo Legato affinché fosse differita la votazione fino a che non fossero riempiti i posti vacanti dei comunisti Fabbri e Calanchi.  In seguito di ciò l’Assonteria di Governo diresse una lettera al consiglio che si sospendessero le votazioni delle conferme fino a nuovo ordine e così furono delusi gli intriganti.  

Il 31 l’Assonteria, ordinò, con sua lettera che si mettesse a delibera anche Giuseppe Bertuzzi, con gli altri due competitori, per essere decaduto dalla nomina, ordinò pure che nella nomina si mettesse come primo il Bertuzzi. Suo cognato Francesco Conti non la intese bene e mise avanti due consiglieri affinché lo pregassero di rinunciare al posto e alla nomina in favore del fratello minore Antonio Bertuzzi. Giuseppe non si volle prestare quindi il Conti fu deluso in un altro suo maneggio. Così furono spediti gli avvisi ai consiglieri per il giorno 11 novembre.

L’8 novembre si facevano le devozioni in tutta la diocesi a causa dei progressi di quei rinnegati di francesi, giusto le ammonizioni pastorali dell’arcivescovo. Questo arciprete non si era preoccupato di fare alcuna funzione, quindi la povera compagnia cappata del SS.mo pensò di andare processionalmente alla visita della B. V. di Poggio. La Comunità stessa determinò in questo giorno di accompagnarsi anch’essa con la compagnia a fare a quella S. Immagine una offerta di tre libbre di cera ed una elemosina di sei sacrifici il giorno prossimo di domenica 11.

Oggi è giunse lettera del Governo che chiedeva alla Comunità informazioni sulla chiusura del vicolo o passaggio dei due portoni presso la chiesa di S. Francesco, altre volte conteso e, dal 1761 al 1764, con lite a Roma.

Ciò si richiede in seguito del memoriale dato all’E.mo Legato dal nuovo guardiano di S. Francesco cioè Fra Benvenuto da Bologna, il tenore del quale era il seguente:

All’ E.mo Principe. Sig. Card. Gian Andrea Archetti Legato di Bologna per li Religiosi MM. OO. di Castel S. P.ro.

E.mo Principe. Posto questo vicolo lungo la muraglia della chiesa da un capo rinpetto alla piazza, dall’altra su la riva del fiume, su tutto il giorno il gioco e trastullo della canaglia, delle doniciuole e si de fanciulli che lo frequentano e che co’ loro cicalecci, fischiate, stridori, urla, schiamazzi lo rendono, senza riguardo al santuario, ignomignoso postribulo, per modo che noi sacerdoti ai confessionali, agli altari ed in coro spesse volte non possiamo intendere ciò che facciamo e così, raddoppiando le esecrabili loro profanazioni, compongono una casa del diavolo alla casa di Dio, che è casa di orazione, senza potersi santificare il suo Santo Nome divotamente.

Quindi, premesso il bacio della S. Porpora, umilmente suplichiamo l’Em.za vostra per le viscere benedette di G. C. signor nostro a volere togliere un sì pernicioso abuso onde, ad onore di Dio e della sua casa, voglia ottenerci per sua autorevole dignità e potere la conferma della legge fatta ed antico decreto dato in iscritto dall’Ill.mo Reggimento di Bologna per la clausura di questo convento e che sia annullata la dannosa facoltà data in vece di aprire questa sgraziata porta, ma di tenerla sempre anzi serata in perpetuo e per tutti li secoli.  Avvi, non più di 30 passi al di sotto di questo, un altro vicolo, che va dritto filo allo stesso muro del Castello ed alla parte istessa che guarda il fiume, dove possono farvi porta di loro comodo e libertà essendo sito del tutto voto e sgombero d’impaccio. Tanto ripromettesi dalla benignità grande dell’E. V. che tienesi l’evento si felice come una prova finita, una grazia già fatta, una partita già vinta. onde e della grazia, Quam Deus.

Il Cardinale aveva scritto All’Assonteria di Governo perché riferisse e desse un suo parere.

A questo memoriale fu unito anche il seguente documento, con le analisi e riflessioni fatte scioccamente dal detto guardiano e sono quelle che sono segnate e commentate da cui si rileva quanto sia sciocco.

 Alli Ill.mi ed Ec.mi Sig. Rifformatori dello Stato di Libertà nella Assonteria di Governo a Bologna.

Copia della cessione del vico di Castel S. Pietro in clausura per li frati di S. Francesco detratta dal libro mastro del convento.

Alle supliche del padre Sante da Castel S. Pietro e de relligiosi, l’Ill.mo Regimento di Bologna con decreto dato l’anno 1675 li 29 agosto, concedette a puro uso de religiosi un picolo vicolo già serato dalle parti delle mura del Castello, che era posto fra l’orticello ceduto al convento e la chiesa, con che venne a restare tutto orto e vico imediatamente anesso al Convento e del tutto serrato in clausura ed ecco il Decreto dell’Ill.mo Senato di Bologna:

Die 29 augusti 1673. (…) Che li P.P. facino un ochio conforme alli altri del portico della loro chiesa e facciano un portone nel collochio che chiuda, attacato allo spigolo della chiesa e tirino la muraglia rimpetto alla colonna del portico per unirla a quella dell’orto de Rondoni e che ristorino e rissarciscano le mura del Castello principiando dalla porta di presente serrata di esso Castello per quanto dura il loro sito, cosichè però servendo d. mura in quella parte per clausura del loro convento non vi aquistino mai jus, né possesso alcuno, ma restino sempre in potere del publico ed a tale significato debbano conficarvi le arme del publico in macigno dentro e fuori delle mura e colla espressa proibizione di non poter mai in alcun tempo aprire la porta serrata nelle dette mura ne farvi alcuna apertura senza espressa licenza dell’Ill.mo Senato. Contrariis haud obtantibus quibuscumque.

Queste ingiunte penitenze si sono tutte esattamente adempite e rigorosamente osservate.

 Nel mille seicento settantacinque sotto la legazione dell’E.mo Bonacorsio Bonacorsi il P. Sante da Castel S. Pietro, come guardiano di quel tempo e familiare di d. porporato, ottenne per suo mezo in voce dall’Ill.mo Senato di Bologna di potere aprire la porta già serrata che guarda il fiume posta nel vico con questo (bel vantaggio) che la Religione la tenesse sempre custodita di portone e chiavi e che queste stessero sempre appresso il superiore locale del convento per maggiore cautela del paese, (ottima occupazione e santo ministero) così pare per comodo, (anzi grave incomodo,) de religiosi la quale fu aperta il 23 maggio 1675 e si fece il portone necessario finito di ferramenti a spese della relligione per compimento della grande opera che forse si aurà meritato un pezzo di purgatorio L. +. B.

In tale estratto può capire quale sia la debolezza del glossatore analista e quale sia l’animo e il carattere dei frati, che anche dopo la morte si odiano.

In seguito di ciò L’Assonteria spedì alla Comunità la rinuncia alla lite del 1764 fatta dai frati, affinché la Comunità li conservasse nell’Archivio.

Contemporaneamente fu pubblicata una stampa dell’arcivescovo sopra le presenti calamità e progressi che fanno i francesi scismatici.

Il dott. Muratori aveva fatto una bellissima cura alla figlia secondogenita del Conte Luigi Bentivoglio qui residente. Gli fu fatto a Bologna un sonetto, che poi fu spedito a Castel S. Pietro, facendo fremere fortemente i malevoli.

Stante le calamità della chiesa e la persecuzione dei francesi, su suggerimento dell’arcivescovo e del Pontefice, ogni luogo fece delle devozioni. Qui in Castello gli agostiniani, con la statua di S. Nicola, fecero un triduo che cominciò il giorno prima della festa del patrocinio di M. V. I francescani fecero lo stesso e lo cominciarono il 10 novembre. A Bologna in tale occasione molti andarono alla visita di M. V. di S. Luca, alla quale dedicarono una medaglia che da una parte mostra l’immagine in gloria sopra la città e dalla parte opposta si legge la prece, Ut omnes (…) et S. Eclesie enim humilare, desperdere ac fugare digneris. Nel contorno alla madonna si legge: Ut fructi terri pare et conservare digneris.

Il giorno 11 novembre la nostra Comunità, assieme a molto popolo, con la compagnia cappata del SS.mo si portò processionalmente alla visita di M. V. di Poggio con l’offerta di dodici candele di cera, nel viaggio si cantarono sempre laudi e l’officio di Maria V. La Comunità vi mandò pure sei sacerdoti a celebrare messa.

Il 15 venne una grossa neve, che danneggiò molto le querce e gli altri alberi che avevano foglie, facendosi molta legna.

Il 24 novembre si cominciarono le missioni nella arcipretale. Erano i missionari i seguenti: dott. Antonio Grossi bolognese capo e catechista, conte abate Pellegrino Carletti fiorentino predicatore di grande capacità ex gesuita, D. Luca Bortolotti, D. Alessandro Rapini e D. Vincenzo Bragagli catechista. Durarono fino al 9 dicembre.

Vennero a S. Bartolomeo due sacerdoti francesi che erano: un parroco cioè Don Natale Vergnes parroco di Poujol in Linguadoca e il cappellano Don Giovanni Remezy dello stesso Castello. Questi furono espulsi dallo Stato di Monpellier il 19 settembre e non portarono con sé altro che la vita. A Tolone furono di nuovo svaligiati e picchiati dai francesi.

La presente memoria è scritta dagli stessi francesi. Natalis Vergnes parochus è loco du Poujol in diocesi Beziers in provincia occidania oriundus in oppido gigniaco in eodem diocesi. Ioannes Remezy, vicarius eiusdem supra dicta parochia oriundus eisdem oppido. Ambo espulsi ex Gallia 13 9.bris anni presentis 1792, capti in mari dun (…) ectarent ducti in Tolonem et incarcerati in navi in portu eiusdem con (…) per septem dies et espoliati omnibus robes a municipalitate Toloni. qua petiit ab eis juramento fidelitatis constitutionis gallica sub pena mortis. (….) liberati sunt ambo quasi miraculo a furore palratorum qui lepissime tentarunt variis modis cum fune, cum cultello, cum (…) eos occidere.

Nota quod ingressi sunt mas navem in portu agda agalense dia 13 septembris hujusce anni 1792

Il 26 novembre la Comunità venne alla nomina del consigliere al posto del defunto Giovanni Calanchi. Vi fu molta discussione per la nomina, finalmente la votazione riuscì favorevole ad Antonio Bertuzzi in luogo di Giuseppe e degli altri candidati. Il cancelliere Francesco Conti spedì di nascosto il tutto a Bologna. 

Martedì 13 dicembre alle cinque di notte morì l’arciprete di S. Agata in età di anni 57. Aveva prima, come si disse due anni fa, passata la chiesa al fratello dott. Giuseppe Conti di questo Castello. La sua morte fu causata da una apoplessia.

I francesi in questo tempo facevano grandi progressi contro la chiesa.  Era stato scoperto che, mediante un tradimento, il Papa doveva essere ucciso la notte di Natale inter solemnia missa, ma il traditore fu condotto in Castel S. Angelo condannato e lì strozzato. Quel tribunale non ha tramandato il suo nome e cognome perché era persona di rango romano.  In seguito di ciò ne furono carcerati molti altri e condotti in Castel S. Angiolo ove si faceva giustizia immediatamente, a segno che in una giornata il carnefice, dopo avere impiccato quattordici complici, i rimanenti tre, essendo troppo stanco, li fece fucilare.

Passavano continuamente sacerdoti francesi mal forniti di panni e senza danari. I loro danari erano cedole stampate in piccoli pezzi di carta bollata e firmati dall’assegnante. Queste cedole erano chiamate assegnati. Ne possiedo una di soldi due, che fu lasciata da un povero sacerdote ad uno di questi osti e da me raccolta a memoria dei posteri.

Avendo poi io parlato con alcuni di questi sacerdoti, alloggiati nell’Ospitale dei Pellegrini in Borgo, sopra le vicende francesi mi fu descritto l’Albero della Libertà e la coccarda distintivo della Repubblica Francese. Consiste questo in un lungo palo fasciato con tre fettucce o cordelle di tre colori, cioè turchina, rossa e bianca e così è pure la coccarda. Nella sommità dell’albero c’era un ferro che sosteneva una beretta rossa, dove era piantato il ferro vi erano tre bandiere di tre colori, nel corpo dell’albero vi era un rampone ove si attaccavano le persone sotto il mento come impiccarli quando non volevano giurare la “Libertà”.

Il 28 novembre secondo gli ordini della Ec.ma Assonteria, la Comunità mise in votazione seguenti concorrenti che ottennero

Giuseppe Bertuzzi, voti 4 bianchi e 4 neri

Antonio Bertuzzi, voti 5 bianchi e 3 neri

Giuseppe Magnani, voti 6 bianchi e 3 neri

Giacomo Lugatti, voti 4 bianchi e 4 neri

Giulio Andrini, voti 5 bianchi e 3 neri

Antonio Giorgi, voti 4 bianchi e 3 neri

Pietro Facendi, 3 bianchi e sei neri

Fino a questa epoca l’esercizio dell’ufficio giudiziario nei Capoluoghi dei Distretti della Legazione di Bologna veniva eseguito dai notai locali che sostituivano il notaio collegiato nominato dal senatore od altro nobile estratto negli uffici utili. Accadeva che, non essendovi emolumento sufficiente, spesso i castelli e i capoluoghi della provincia restavano privi del giusdicente, mentre i notai non avevano che un miserabile indennizzo dalla cassa pubblica di Bologna. Per la mancanza del giusdicente la povera gente subiva un notevole danno dovendo ricorrere alla città anche per cose frivole ed affari di poca importanza.

Fu perciò fatta istanza da alcune Comunità al card. Legato Andrea Archetti ed al Senato. Fra queste popolazioni e comunità territoriali vi fu anche Castel S. Pietro che restò un anno e mezzo senza giusdicente locale. Preso in considerazione un tanto disordine, fu ordinato che i notai locali, se richiesti, dovessero obbligatoriamente servire. Fu perciò in proposito emanato un provvedimento.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il senatore Giacomo Sebastiano Beccadelli, che nominò per suo notaio giusdicente Annibale Brusa, notaio collegiato di Bologna. Questo nominò suo sostituto Antonio Giorgi di Castel S. Pietro, ma questi rifiutò di servire. Successo ciò si riunirono i quattro notai del paese, cioè Ercole Cavazza più anziano, Francesco fu Lorenzo Conti, Antonio Giorgi e il dott. Francesco Cavazza, figlio di me Ercole scrivente le presenti memorie.

 Tutti concordemente fecero petizione al Senato per avere un compenso ed emolumento pecuniario fisso per le loro fatiche. Questo perché recentemente erano state levate a questo ufficio le bollette di uscita o di accompagnamento agli intervenienti a questo mercato per il trasporto delle granaglie fuori da questo Capoluogo, per cui si pagavano quattro quattrini per ogni corba. Inoltre c’era il fatto che gli atti giudiziali erano tutti una grande briga, difficoltosi nel lavoro di composizione delle parti. Non c’era un emolumento proporzionato alla fatica né prezzo per l’opera.

Intanto l’Ufficio restò vacante ed a capo di un anno fu chiuso ed il popolo mormorava.

Il 27 dicembre fu estratto Consolo per la prima volta il sig. Lorenzo Trochi. Si ebbe in seguito che erano stati fatti consiglieri i seguenti individui, Antonio Bertuzzi in luogo del fratello, Giovanni Calanchi, Floriano Fabbri in posto del suo defunto padre Flaminio.

I francesi stavano facendo grandi progressi verso l’Italia per impadronirsi di questi stati e minacciavano la Chiesa Romana. Il Papa ordinò ai Governatori e ai capi delle provincie di armarsi, dare il conto della popolazione e affrettare la preparazione.

Ma a che serviva? Si faceva poco frutto a motivo dei giacobini interni nemici della chiesa, detti ancora framassoni, iconoclasti, scismatici e libertini.

Si vedeva perciò una spinta alla rivolta, ma ciò non ostante fu fatto l’elenco richiesto che fu poi pronto il primo gennaio 1793, ma spedito a Bologna solo il 15.

Si vide perciò aperta la strada ad una fiera persecuzione della Chiesa ed aperta la casa del diavolo come prevedevano alcune profezie in proposito.

Il 25, 26 fino al 30 dicembre venne, in questi ultimi giorni dell’anno, una neve grossissima in modo che crebbe fino a mezza gamba. Perciò i villani non poterono andare alla S. Messa nei presenti giorni festivi e qui terminò l’anno 1792.

1793

Uccisione ambasciatore Baseville a Roma. Decapitazione Luigi XVI. Negata apertura seconda spezieria. Vietata esportazioni grani. Problemi per costo legna da ardere. Calistri contro conte Bentivoglio. Cavalcata per rovesciamento fuochi artificiali in piazza. Villani di Poggio chiedono un massaro, negato. Problemi con Romagna e Castel Bolognese per l’estrazione di grani. Richiesta informazioni sulla presenza di francesi. Uccisione della Regina Maria Antonietta.

I francesi stavano facendo irruzioni in Italia ed attaccavano anche con la loro flotta. Minacciavano di invadere lo stato papale, avendo armata molta gente che mirava a Roma. Il 2 gennaio il Papa aveva ordinato alle sue provincie di dare nota distinta delle persone abili alle armi come di vigilare sui lidi e sui porti. Il Governo bolognese intimò ad ogni sua comunità di fare la descrizione degli uomini. Il nostro Consolo ordinò allo scrivano e al massaro di procedere secondo gli ordini alla descrizione. il 3 si cominciò a descrivere la campagna, poi il 7 e 8, si fece la descrizione nel Castello e Borgo, una copia è in archivio della Comunità a memoria dei posteri.

Il capitano Pier Andrea Giorgi anch’esso, dovette spedire i ruoli di questa compagnia di Castel S. Pietro al fine di riempire i posti vacanti.

Le armi temporali hanno però poca forza se non vengono corroborate dall’aiuto spirituale, così il Papa ordinò un altro giubileo universale per i suoi Stati. A Bologna fu pubblicato ed eseguito. In seguito il Cardinale arcivescovo lo partecipò alla diocesi facendolo prima precedere da una notificazione pastorale, al tutti i parroci.

Il 12 gennaio l’Assonteria di Governo scrisse alla Comunità che aveva confermato per quest’anno sopraintendente ai nostri affari il sen. Marescalchi. La Comunità confermò di avere ora tutti i suoi stipendiati non ostante le traversie passate.

Il 13 gennaio avvenne in Roma una sollevazione contro un certo Basville[41], ambasciatore di Francia, che intendeva alzare la bandiera della “Libertà” per cui, essendo stato assalito dal popolo, gli convenne rinunciare.

Furono per ciò fatti alcuni sonetti in Roma sopra l’audace richiesta di Basville per l’innalzamento dello stemma della Repubblica di Francia in Roma due dei quali sono i seguenti

No’ disse Pio, l’ostil richiesta indegna

luogo non ha fra le cristiane mura

l’inferno mai non prevarrà, sicura

sopra Base immortal la Fè qui regna.

L’ode Basville e nell’udir si sdegna

grida, minaccia e la vendetta giura,

e inteso a seminar la sua congiura

spiega sul crin di Libertà l’insegna.

All’aborrita vista il popol freme

l’empio ferisce e un suon confuso e misto

di furor l’ode e di letizia insieme.

Oh suon loquace, che confonde il tristo,

che rassecura al suo Pastor la speme

alla patria l’amor, la fede a Cristo

Nell’altro è l’ombra di Basville ucciso che ritorna a Parigi

Dai furibondi Galli infra la schiera

di libertà sull’aborrita traccia

sen vola di Basvil l’ombra severa

tinta in volto d’orror e di minaccia.

Giunta collà ferocemente straccia

la coccarda fatal, la ria bandiera,

onde costretto da Romani in faccia

vide de giorni suoi l’ultima sera.

Mostra l’ampia ferita e bieco in volto

del popolo latin disse: Tuttora

fedeli al suo sovrano le voci ascolto.

Pera, dicea, la Francia. Il Papa viva.

Deh fugite quel suol, nascono ancora

li Manlii ed i Camilli al Tebro in riva

Il 21 gennaio 1793 fu decapitato miseramente in Parigi il Re Luigi XVI con dispiacere di tutte le corone.

Il lunedì 27 fu presentato alla Comunità un memoriale dal sig. Giuseppe Sarti di questo Castello per aprire una seconda spezieria, la Comunità dette tutto il suo assenso.

Lo stesso giorno aprì la sua scuola pubblica in questo luogo il prete Don Giuseppe Tetfauf, tedesco di nazione, ma nato a Bologna.

Perché poi crescevano gli insulti dei francesi e si temeva di una invasione anche dal mare negli Stati della Chiesa, così il Papa rifece l’ordinanza di stare tutti pronti all’armi.

Il 6 febbraio l’arciprete pubblicò il Giubileo in questo Castello, che terminò il 17 prima domenica di quaresima.  In questo tempo l’arciprete aveva ordinato a queste compagnie cappate la visita processionale col clero alle tre chiese dei regolari. Accadde che si portò alla chiesa di S. Francesco nella quale, pensando di comandare come nella propria, trovò chiuso il presbiterio. I suoi seguaci della compagnia del Rosario, fattisi impertinenti, saltarono sopra la balaustra ed aprirono forzatamente il cancello da dove entrò come sovrano l’arciprete. Nacque perciò un gran bisbiglio.  Pretendendo poi l’arciprete i giorni seguenti entrare in quella chiesa, il guardiano gli fece sapere che se avesse usato un po’ di creanza chiedendo ed avvisando della sua andata sarebbe stato accolto secondo le convenzioni. La prese a picca l’arciprete, non volle più andare in quella chiesa, ma vi sostituì la chiesa dell’Oratorio del SS.mo andando alla visita del Crocefisso. Ciò venuto a notizia dei superiori, fu poi sistemata la differenza.

A proposito della morte del re di Francia decapitato dagli insorgenti giacobini, furono prese in considerazione certi avvenimenti della sua vita sempre in data del giorno 21 del mese.

21 aprile 1770, sposalizio a Vienna.   21 giugno 1770, sue nozze a Parigi.  21 gennaio 1782, feste per la nascita del Delfino di lui figlio. 21 giugno 1791, suo arresto a Varenne in Francia. 21 settembre 1792, sua deposizione. 21 gennaio 1793, sua morte e innalzamento della “Libertà”.

Queste cose furono notate da un erudito lettore di belle lettere e si considerò fosse accaduto quanto l’immortale Torquato Tasso nella sua Gerusalemme Conquistata, al lib. XX stanza LXXVI, presagì funesti eventi in Francia, che ora accadono, con questi versi.

La Francia adorna or da natura ed arte

squallida allor vedrassi in manto negro,

ne d’empio oltraggio inviolata parte

né loco dal furor rimaso integro,

vedova la corona, afflitte e sparte

le sue fortune, e ‘l regno oppresso ed egro

e di stirpe real percosso e tronco

il più bel ramo, e fulminato e il tronco

Composte le differenze coll’arciprete e francescani, con convenienza comune, tornò la processione e la visita a S. Francesco. Il 10 febbraio fu ricevuto l’arciprete alla porta della chiesa con l’acqua benedetta, assieme al clero, le compagnie e il popolo.

Il 13 febbraio, primo giorno di Quaresima, non si ebbe la consueta predica perché nessun predicatore volle venire a questo pulpito stante la scarsità del compenso di l. 60 che le passa la Comunità. Per la verità l’emolumento era scarso per un predicatore quaresimale che predicava tre volte la settimana cioè domenica, mercoledì e venerdì e le feste, se ve ne sono fra la settimana. Inoltre non partecipava che alle elemosine di una sola predica nel secondo giorno di Pasqua. Infatti tutte le altre le elemosine andavano tutte in mano dell’arciprete, che non somministrava al povero predicatore né l’abitazione né il vitto e tutto doveva stare a carico del povero predicatore. È una grande ingiustizia che una chiesa come questa non pensi a nulla, avendo una entrata più di mille scudi liberi da tasse.

Se si ricorre al superiore, come si è fatto tante volte, questo chiude l’orecchio e non vuole intendere né ascoltare il popolo, che resta privato dell’alimento spirituale, e lascia impinguare la borsa di questo parroco che si è fatto troppo prepotente e opprimente.

Le feste di precetto, in questo tempo di quaresima, si sono solo distinte solo due volte con la predicazione dal pulpito dell’arciprete Mazzoni di S Martino di Petriolo. La Comunità non è mai intervenuta alla predicazione.  Si starà a vedere a chi sarà passato il compenso del predicatore.

Il 16 febbraio, il memoriale dato dal sig. Giuseppe Sarti al Collegio dei Medici di Bologna per aprire la seconda spezieria in questo Castello aveva avuto risposta negativa. Ciò era riuscito ad ottenere il forte impegno di Stefano Grandi, attuale speziale. la Comunità fu necessitata a chiamare in giudizio a Roma il Grandi.

Il 17 febbraio, prima domenica di quaresima, terminò il giubileo già pubblicato. In questo giorno pure fu pubblicato l’indulto per la corrente Quaresima per la carne di ogni sorta, eccettuati i primi quattro giorni e gli ultimi quattro per il pesce e tutti i mercoledì per burro e uova.

In questo giorno l’arciprete invece di predicare fece un Catechismo da un palco e fu poco gradito dal popolo.

Il 24 fu presentata una supplica alla Comunità sottoscritta da molti paesani che chiedevano un intervento sopra i prezzi dei fasci e della legna, perché da contadini si voleva fino a 30 paoli del carro di fasci e 24 della legna grossa.

Mentre si teneva consiglio arrivò un’altra supplica con schiamazzo e tumulto popolare in cui si chiedeva di aprire una seconda spezieria. Il tumulto fu grande, la Comunità informò il tribunale. Lo speziale Stefano Grandi, perché i tumultuanti si quietassero, dispensava danaro ed alcuni li condusse in casa dandogli vino a volontà. L’Assonteria aveva scritto alla Comunità che non voleva che si facesse la lite per la spezieria. La Comunità rispose che trattandosi di sostenere una lite già radicata in Roma per le arti non credeva dovere chiedere la licenza, che questa nuova questione con lo speziale era un corollario e un aspetto della lite già in essere che si credeva giusta ed opportuna per il paese.

Il 29 marzo venerdì Santo alle ore 18 si appiccò un incendio nella casa rurale del sen. Dalla nel quartiere della Lama in luogo detto la Colombara, durò fino alle 21 cosi che andò tutto distrutto. Si salvarono solo le creature di Giovanni Bedetti detto Cavicchio con le bestie, tutto il resto fu bruciato e fu tale l’incendio che consumò fino i letamai e liquefece tutti i rami e i metalli.

In questo accidente non si osservò il rito di Santa Chiesa, cioè di non suonare la campana, ma invece si cominciò a suonarla e durò molto.

Si seppe che i francesi erano stati distrutti nell’elettorato di Maganza e in Olanda ove perdettero tutta la artiglieria, cassa militare di 16 milioni di lire, morirono più di tremila uomini, i feriti riempirono 40 carri e gli altri furono tutti prigionieri col loro generale M. Demolier[42] ferito.

Si è anche narrato che essere nata a Parigi una fierissima rivolta durante la quale si sparò per più di 40 ore. Il duca di Orleans[43], zio dell’ucciso Re Luigi, fu assalito e dopo avergli cavati li occhi fu miseramente tagliato a pezzi e gli fu saccheggiato il palazzo.

Il 2 aprile, ultima festa di Pasqua, la sera si tenne la congregazione della Arciconfraternita del Rosario, ove fu proposto di fare un oratorio, per cantar ivi l’officio della Beata Vergine, fabbricandolo dietro alla cappella nel cimitero. Fu deciso dagli adunati di tassarsi, presente l’arciprete ed il priore della Arciconfraternita capitano Pier Andrea Giorgi.

La Toscana scarseggiava di grani a causa delle esportazioni fatte da Livorno per la guerra contro i francesi e anche perché i fiorentini avevano fatto uno scarso raccolto. I montanari di Sassoleone, Piancaldoli e luoghi vicini al confine scendevano a Castel S. Pietro a comprare grano e biade e lo trasportavano nella Toscana ove il grano si vendeva da 40 a 45 paoli la corba. Il popolaccio di questo Castello se ne accorse perché vedeva tali trasporti, che si facevano di notte tempo.  Considerato che questi generi andavano fuori Stato e che non veniva più grano dalla Romagna ma che andava tutto verso Roma per i 20.000 soldati papalini, pensò, vedendo vuotarsi i granai di Castel S. Pietro, di ricorrere alla Comunità perché ricorresse al Legato per provvedere prontamente. 

Ma giunto mercoledì 13 aprile, essendovi mezzo mercato, i popolani videro molti montanari condur via del grano. Andarono alla via della fontana della Fegatella presso il Campo della Baruffa e aspettarono questi montanari con i muli carichi, fecero ritornare tutti indietro e consegnarono i carichi al Massaro della Comunità ed al ministrale Francesco Bocciardi, non volendo che più fossero portati al monte questi generi.

Un’altra parte del popolo andò su la via di Viara o sia via Cupa e dei Cappuccini facendo lo stesso, cosi che fu chiuso ogni passo verso il monte e fu fermato ogni genere, non la perdonarono ad alcuno. Capi di questo fatto furono Serafino Ravasini, uomo di statura e corpo gigantesco, Leonardo Cavina detto Disdotto (18), Luigi Bergami detto Buldrina e Luigi Magnani detto Granelluccia. Era il popolo ammutinato armato di bastoni, armi da taglio e da fuoco. La Comunità informò immediatamente la legazione.

Il grano in tanti carichi fu fermato sotto il portico della Comunità, la maggior parte era di Pietro Strada. In seguito a ciò la Comunità per evitare inconvenienti ed a maggiori sussurri popolari, credette bene radunarsi in casa mia, come Decano del Consilio in assenza del Consolo, e quivi prendere le rissoluzioni più opportune. In questa mia casa, già palazzo del senatore Piriteo Malvezzi, ci sono due ingressi, uno davanti nella strada maggiore del Castello e l’altro posteriore nella via di Saragozza di sotto, contro la piazzetta angolare del Castello dalla parte di levante presso la torre, ove facilmente si possono fare sortite ed ingressi. I capi popolo, Leonardo Cavina detto Disdotto e Zan Zano, che in questa occasione fu nominato Capitano del Popolo, Serafino Ravasini, Luigi Bergami detto Boldrina e Luigi Magnani detto Graneluccia a quali si erano uniti Filippo detto Pippo, Giovanni Vignali detto Gabanino ed altri avevano con portato una infinità di popolo, e camminavano coraggiosamente sbracciati e con la sola vita come tanti manigoldi, tutti giovanotti da far spavento a chiunque con la sola vista.

Quello che si vide fu che camminavano apertamente e pattugliavano senza armi, senza bastoni e senza sassi ma in guisa di disperati, non offendendo alcuno né con ingiurie né con minacce né fatti, ma tutti silenziosi e muti, cosi che non si poteva comprendere l’animo loro.

Adunato il Consiglio in casa mia in numero di sette consiglieri cioè: Il cap. Pier Andrea Giorgi proconsolo, Francesco di Pietro Conti tenente o sia vicecapitano, Paolo Farnè, Gio. Battista Fiegna, Antonio Beruzzi e me scrivente questa storia, dopo tutte le riflessioni fatte fu deciso che il ministrale o sia nunzio esecutore non lasciasse più il grano in abbandono sotto il portico della residenza consolare ma lo introducesse in casa propria e lo custodisse in una cella, ben guardato dalle irruzioni popolari mediante serratura,. Questo prontamente eseguì e tenne in casa oltre ai suoi due figli, uomini adulti, anche padre e figlio Cenni, cioè Domenico e Luigi detti Gattino vecchio e giovane.

La Comunità poscia fece il suo resoconto e lo diresse al Legato mediante i due consiglieri Fiegna e Farnè che si presentarono in persona con la lettera di questo nostro Consiglio. Furono umanamente e con tutta l’amorevolezza accolti. Il Legato li ringraziò per la nostra prudente condotta e, presenti gli uditori maggiori cioè Antonio Innocenzi del Torrone e Vincenzo Delli Antoni della Camera, promise ogni suo sovrano provvedimento.

Domenica 7 aprile vennero il capo notaio del Torrone dott. Cristoforo Romiti e l’Uditore di Camera sig. Vincenzo avvocato Delli Antoni. Il primo cominciò a fare processo per scoprire se nel tumulto vi fosse stato qualcuno che l’avesse promosso. Interrogò i suddetti Ravasini, Cavina, Granellino e Boldrina e tutti concordi risposero che essi non avevano avuto alcun direttore ma che l’impulso era provenuto da un loro zelo poiché non si affamasse il paese, molto più che gli incettatori di grano avevano sussurrato di volere accrescere il prezzo nel primo mercato.

Il colonello Galgano Guidotti comandante di questa compagnia di Castel S. Pietro ordinò al capitano Pietro Andrea Giorgi ogni più esatta diligenza e vigilanza nell’estrazione dei grani da questo luogo per la Toscana, concedendogli, con accordo del Legato, la facoltà di pattugliare con soldati, sequestrare grani e bestie che li portassero fuori, riportarli qui e darne successivamente il resoconto alla Legazione e Assunti di Milizia. Il paese è consolato e quieto a tali notizie. Vennero anche due squadre di sbirri a guardare il mercato e controllare i mercanti.

La stessa mattina di domenica fu convocato il Consiglio nella propria residenza per le ore 13 in punto e adunato in numero di otto consiglieri vi intervenne l’Uditore di Camera.

In seguito fu pubblicato un Bando del Cardinale in cui ordinò che nessuno potesse levare grano, marzadelli, farina da questo luogo, se non era munito di fede oppure di attestato di quel massaro o parroco del luogo ove si introduceva il genere accennato. Era così ritornato l’uso delle Bolette de Grane che di cui fu data l’incombenza ai gabellieri del contado pagando però un solo mezzo bajocco per bolletta e per qualunque quantità di roba.

Il 21 aprile, stante che per le grandi ed incessanti piogge i seminati di marzatelli, di grano, canape e gli erbaggi per li bestiami pativano assai per mancanza di caldo e per le brine che si vedevano alcune mattine, la compagnia del SS.mo SS.to fece un solenne triduo alla sua miracolosa Immagine del Cristo esponendolo per tre giorni nell’altare maggiore della sua chiesa. Appena esposto, si videro dileguare le nubi e venire placidamente il sereno.

Questa compagnia, odiata da questo arciprete Calisti, non volle che si questuasse per chiesa con bacini ma solo con cassetta, avendo così fatto decretare l’arcivescovo. La devota popolazione comunque non volle astenersi di fare offerte ancora più copiose, quindi si videro gettare nella predella dell’altare davanti all’Immagine esposta monete d’argento, di rame ed ogni altra qualità, toltone però l’oro cosi che, a marcia confusione degli odiosi, fioccavano, anche durante le messe, i danari e se ne fece buona raccolta. La chiesa era riuscì a ricevere tutta l’affluenza del popolo. Non si diede mai la benedizione del SS.mo le sere che fu esposta l’Immagine che furono il 18, 19, 20 aprile perché l’arciprete fu contrario.

Oltre le tre giornate sud., perché si erano fatte grandi elemosine, la compagnia volle convincere ogni mal’animo e compiere le intenzioni dei benefattori quindi ottenne, se pure con grande stento, di potere tenere esposto il Cristo anche la domenica e cantare solennemente con musica il Te Deum la sera che fu il 21. A questa funzione intervenne tutto il Corpo della Comunità in forma ed ogni buon cattolico, toltone l’arciprete che mai in queste circostanze venne alla chiesa e ciò non ostante volle ogni giorno la doppia. Quando i superiori sono accecati, corrotte le Corti e ci sono parzialità anche l’onor di Dio va a monte.

Era stata fatta istanza a sua Em.za Legato dalla Comunità per una supplica data dal popolo per avere una provvidenza sopra i combustibili divenuti carissimi. Si pagavano i fasci di scavazzatura fino a 30 paoli il carro. Deducendo che ciò proveniva dal consumo delle fornaci da calce qui vicine, il Cardinale chiese alla Comunità il numero presso poco delle fascine che si potevano consumare ed altre notizie a ciò attinenti.

Rispose la Comunità che c’erano nei nostri intorni 6 fornaci di calce e due da materiali, cioè alla Masone, alla Boldrina, al Ponte, alla Gajana Malvezzi, alla fornace da pietre ed a S. Martino di Petriolo e che per ogni cotta di calce si calcolavano più di 400 carri, senza contare la legna.

Si era pure fatto ricorso a sua Em.za per la richiesta popolare dell’apertura di un’altra spezieria, stante che la presente esercitata dai fratelli Grandi, troppo patrocinata dal dott. Luigi Laghi e dal Protomedicato[44], non serviva bene il popolo, aggiungendosi che spesso era sfornita dei necessari medicamenti.  Perciò si faceva istanza, essendo, stata negata dal Protomedicato l’apertura della seconda spezieria, al sig. Cardinale affinché interponesse la sua autorità perché fosse soddisfatto il popolo.

Rispose il Legato che essendosi informato dei privilegi del Collegio medico, questo aveva un indulto apostolico che gli concedeva il diritto di riconoscere e decretare se aprire o no nuove botteghe di spezieria.

Lunedì 29 aprile il magistrato dei Tribuni della Plebe venne a Castel S. Pietro ove, chiamato il Consolo, il Cancelliere ed una pattuglia di nostri soldati, si portò a tutte le case dei trafficanti in grano di questo Castello e dove gli era stato indicato trovarsi grani incettati. Si fece la visita e furono trovate solo duemila corbe di grano ed ottomila di formentone. Ciò non ostante il grano si vendette l. 18 la corba. Il grano che fu sequestrato col formentone, fu poi venduto nella pubblica piazza a suon di tromba ed al calmiere di l. 9 la corba.

Adi 5 maggio domenica delle Rogazioni giunse messo da Bologna con lettera del Card. Legato al capitano Pier Andrea Giorgi. Questi doveva portarsi con soldati a sequestrare grani, formentoni e farine a Varignana da Battista Bianchi al palazzo Scarselli, al mulino Palesi da Filippo Venturoli, a Monte Armato da Vincenzo Fiorentino ed a Castel de Britti dal mugnaio Minghetti. Partirono subito e trovarono 200 corbe in tutto e ne fecero il sequestro a disposizione del Legato che poi rimunerò la soldatesca per il suo operato.

Nella stessa mattina la Comunità intervenne in forma a ricevere l’Immagine di S. M. del Poggio.  Siccome per l’addietro quando si andava alla processione sempre andava davanti il Consolo col medico, così questa volta fu decretato che andassero avanti i consiglieri più giovani con gli stipendiali e alla fine restasse il Consolo col medico. Fu pure decretato che il Consolo si distinguesse in chiesa con sedia e cuscino davanti nell’inginocchiatoio, il che fu eseguito anche, secondo i Capitoli della Comunità, nell’Oratorio del SS.mo assistendo la Comunità alla messa solenne.

Sette anni fa il Conte Luigi del fu Conte Antonio Bentivoglio di Bologna, per risparmiare, si era qui stabilito con la famiglia di sette figlioli, cioè cinque femmine e due maschi.  Le tre figlie maggiori, Contessa Girolama detta Momina, Angiola ed Eudosia erano state levato dal monastero di S. Guglielmo di Bologna. Per guadagnare in salute, dei medici bolognesi avevano ordinato alla Momina il moto su qualche calesse di quanto in quanto.  L’arciprete Calistri, perché era di bello aspetto e graziosa, si offerse di condurla nel suo calesse al passeggio in compagnia però del fratello maggiore Conte Antonio Bentivoglio. Fu accettata l’offerta, ma questa degenerò dalla sua essenza ingenua, così il paese cominciò a mormorare della amorevolezza dell’arciprete.  Il fatto venne a notizia dei genitori Bontivoglio.

Questi non furono sordi alle ciarle, né ciechi alle appassionate maniere dell’arciprete, tanto più si intese di qualche cosa sospetta perché, questo, pretese di avere acquistato un diritto sopra la ragazza e coraggiosamente chiese alla Contessa Madre una obbligazione scritta di doverla lasciar con sé al passeggio ogni volta che volesse. Stessa cosa poi alternativamente, con l’altra sorella Angiola, forse per nascondere i suoi disegni.

La madre Contessa Agata, fattasi coraggio, negò costantemente di condiscendere alle brame dell’arciprete, anzi, sospettando, lo ringraziò delle attenzioni passate e lo pregò di astenersene in avvenire.

Montò in collera l’arciprete e, dopo non poco sussurro, mordendosi la mano, disse, anche in presenza del padre Conte Luigi, che voleva fargliela pagare. Quindi in seguito cessò le passeggiate ma cominciò a seminare zizzania col figlio maggiore Conte Antonio. Nacquero nella famiglia non indifferenti dissapori e minacce di usare le mani fra padre e figlio.

Per tanto l’arciprete si accordò con i figli maggiori Antonio, Momina ed Angiola, e procurarono di levare il governo ai genitori e sottometterli ad un comando esterno. Fu per ciò fatto un memoriale al S. Padre, a nome della famiglia del conte, in cui si chiedeva un economo per controllare la sua condotta. Fu presentato l’anno scorso in agosto. Da Roma fu rispedito all’arcivescovo Giovanetti pro informazione. Questi chiese all’arciprete Calistri la fondatezza dell’esposto nel memoriale. La risposta fu affermativa e fu corredata, da due attestati dei suoi soliti preti D. Baldessaro Landi e D. Sebastiano Dall’Oppio e dal chierico Giovanni Tomba, che affermavano essere il Conte Luigi uno scialone e la sua consorte una dilapidatrice. Tali “prove” furono spedite a Roma.  Il Papa approvò che fosse assegnato un economo.

Alla fine dello scorso aprile il Conte Luigi con i tre figli maggiori fu improvvisamente chiamato a Bologna. L’arcivescovo fece rinchiudere le femmine nel ritiro del Padre Recati detto delle Salesiane, poi fece accettare al povero Conte Luigi su due piedi il controllo economale, senza punto comunicargli la causa, le ragioni e i rescritti. Così fu strozzata la giustizia non avendo voluto comunicargli i documenti per permettergli la doverosa difesa. Le figlie maggiori mal soffrendo il ritiro furono dopo tre giorni collocate nel collegio della SS.ma Trinità con la retta a carico del povero Conte.

Che santa, che bella economia! Gravare un di più a chi deve risparmiare! Poi fu ordinato che in seguito si portasse con tutta la famiglia a vivere in città. Ottima riflessione!

A Castel S. Pietro si faceva una sola tavola, una sola spesa, i viveri si avevano ad un terzo meno della città, il vestiario era normale.  A Bologna due spese, la domestica e le monache, i viveri più cari ed il vestiario più impegnativo. Questo sarebbe zelo e questa sarebbe economia. Quando l’arciprete giurò che voleva che i Bentivoglio gliela pagassero non pensò certamente male ed ecco l’esito della sua malignità.

In conseguenza di questi fatti fu nominato per economo il Marchese Gaetano Conti di Bologna. Il giorno 15 maggio la famiglia Bentivoglio, dopo sette anni di dimora a Castello, se ne andò di buon mattino a Bologna, chiudendo la casa. A tutto il paese dispiacque molto per la bontà del cavaliere e della sua famiglia, dalla quale nessuno è stato disgustato, per le elemosine che faceva, per gli operari che faceva lavorare, il bene spirituale alle chiese e per ogni e qualunque titolo.  In sette anni che è stato qui nessuno si è potuto dolere di una parola e di un minimo sgarbo. Trattavano tutti affabilissimamente pur con quelle distinzioni proporzionate al grado.

Il Conte volendo però giustificare il suo operato e la sua condotta, si procurò attestati da tutte le persone e dignità del paese. Solo l’arciprete fu restio a farlo, ma sentendo i rimproveri del paese e le accuse di essere stato lui autore e fomentatore di questo sporco fatto, fece un miserabile attestato, che se ne farebbero di migliore al più vile birbante del paese. Glielo fece ma alla condizione che non lo usasse con l’arcivescovo nelle presenti circostanze. Ecco la prova che esso è stato il direttore di questa iniquità.  Se pure non è l’autore come moltissimi pensano, non volendo che si faccia uso dell’attestato, ha timore di subire rimproveri ed anche qualche penitenza.

Il 19 maggio 1793 fu pubblicato in questo Castello la Notificazione del Card. Legato sopra la Condotta delle Grane a Molini fuori dello Stato, che imponeva, tanto ai proprietari di confine, quanto a chiunque altro che voglia portare grani a macinare fuori dalla provincia., di prendere dall’ufficiale gabelliere delle Comunità limitrofe la bolletta. Di ad esso col genere da macinare e poi dovere farsi mettere da molinari esteri l’attestato a tergo della bolletta della molitura. Ordinava pure che, venendo forestieri a macinare nei mulini della provincia, si debba procedere nello stesso modo da nostri molinari che non dovranno macinare se non vedono la bolletta. Ordinava infine che locali che avevano macinato fuori Stato si presentassero di nuovo col genere macinato all’ufficiale per il riscontro della quantità e qualità della roba macinata. Cosa che riuscirà di grave incomodo ai poveri abitanti presso il confine e soprattutto nella montagna cioè doversi ripresentare all’ufficiale con la roba prima di ritornare alla propria abitazione.

In questo giorno stesso, Domenica delle Pentecoste, si tenne scoperta l’Immagine di M. SS.ma del Rosario in questa arcipretale. Questa Immagine abbraccia il S. Bambino con il braccio sinistro e la mano. Questa mano si cavava per portarla ai malati e benedirli. Così per tutti questi tre giorni restò la S. Immagine priva di questa mano con stupore del popolo. Fu per ciò dato memoriale di ricorso alla Congregazione del Concilio in Roma e, poiché cod. E.mo Giovanetti è sostenitore dell’arciprete, così fu aggiunto nella istanza che si prendesse la informazione dall’E.mo Chiaramonti vescovo d’Imola, oppure da questa Comunità. Il problema era che si trattava del culto ad una Immagine sospesa.

Fu contemporaneamente pubblicata una notificazione del Legato che imponeva di dare la denuncia, entro 15 giorni alla sua Cancelleria, di grani e farine e delle famiglie e persone aventi tali grani e farine. Cosa che si crede originata per il passaggio di milizie papaline che si dice vadano contro la Francia per ordine del Papa.

Il Protomedicato di Bologna aveva rifiutato di condiscendere alle petizioni ed istanze di questa Comunità di Castel S. Pietro per avere una seconda spezieria, come c’era pochi anni fa.  La Comunità fu costretta a farle eseguire una ingiunzione in Roma coram A. C. il che fu eseguito sopra il mantenimento del Privilegio dell’Arti il 20 maggio e così si fece anche con questo speziale Stefano Grandi.

Il 25 maggio il Conte Luigi Bentivoglio con moglie e figli sloggiarono da questo Castello per ordine dell’arcivescovo e restò la sua abitazione vuota, che è la mia casa alla destra di questo Castello, subito entro l’ingresso maggiore. La precipitosa partenza gli fu di gran danno, infatti fu costretto a vendere i suoi capitali nella maggior parte qui a prezzo vile, persino i le cibarie e i combustibili e comprarne a Bologna a maggior prezzo. Quindi vedere fare il trasporto della roba, oltre otto carri e dodici birocci, fu cosa lacrimevole. Molto più ciò dispiacque ai paesani perché questa nobile famiglia lasciava danaro al paese e faceva lustro.  Si vide in questo fatto la perfidia del maligno arciprete.

Il 30 maggio giorno del Corpus D., secondo il consueto la Comunità intervenne alla funzione del SS.mo.  Sotto il presente consolato di Lorenzo Trochi si cominciò ad usare nelle funzioni comunitative il cuscino d’appoggio al Consolo. Il donzello della Comunità lo aveva portato nella parrocchiale senza passar parola all’arciprete, questi lo rimandò indietro. Questo fatto amareggiò molto il corpo della Comunità che pensò di rifarsi a tempo opportuno.

Erano ormai quindici giorni che continuava la pioggia. I marzadelli stavano male, il fieno non si poteva custodire, i frutti non legava e cadevano tutti i fiori. C’è timore di penuria. Il grano vale oggi 26 paoli la corba, il formentone 15. Dio ci assista.

La notte antecedente il primo giugno venne un forte turbine da settentrione su le sei ore di notte che, oltre a dirottissima pioggia, venne, verso Sassoleone e Piancaldoli, non poca neve che cagionò danni ai castagni ed agli altri alberi con foglie.

Il primo giugno il dott. Luigi Farnè, arciprete di Varignana ma originario di Castel S. Pietro, andò con altri compagni a fare le missioni nella città di Gubbio, chiamato da quel suo zio vescovo.

 L’8 giugno, la notte del sabato venendo alla domenica, si sentì su le 6 una piccola scossa di terremoto.

Fino a questo oggi, 24 giugno, è sempre stato freddo, così che nessuno aveva ancora messo via gli abiti invernali ed il grano era bianco nella campagna e la spiga non biondeggiava ancora. Il grano si vende a 25 paoli la corba ed il formentone a 15.

Fu estratto Consolo per il secondo semestre Francesco fu Pietro Conti abitante in questo Borgo.

Venne un impetuoso vento, assai freddo, che danneggiò molto i frutti primaticci.

Ad istanza di alcuni confratelli della arciconfraternita del Rosario venne a Castello l’Uditore Fenucci, processante del Torrone. Questa venuta riguardava il fatto avvenuto l’anno scorso il 7 ottobre domenica del Rosario. Allora alcuni confratelli della compagnia del SS.mo avevano rovesciato la sparata dei mortaretti che era stata collocata, mentre tutto il popolo era in processione nel Borgo, davanti la porta della chiesa del SS.mo e presso la casa della Comunità dove concorre tutto il popolo a ricevere la S. Benedizione di M. V.

La scelta di questa collocazione fu fatta per fare un affronto tanto alla Comunità quanto alla compagnia del SS.mo. Mancò poco, per ciò non accadessero dei disordini, come accennai all’epoca.

Per fare venire questa Cavalcata fu fatto un deposito di quaranta scudi da un gruppo di confratelli del Rosario, indotti e diretti da questo arciprete Calistri. Quelli del Rosario furono Giacomo di Antonio Ravasini, Lorenzo di Pier Antonio Alvisi, Carlo fu Sante Tomba, Pascale fu Sante Castellari detto Granadello, tutta povera gente, ma di animo cattivo.

In questo procedimento, che durò quattro giorni, si esaminarono solo i confratelli del Rosario. Quello che fu più bello fu che i suddetti quattro furono interrogati sul rovesciamento dei mortaretti, deposero su ciò che avevano veduto mentre invece erano in processione nel Borgo, onde non avrebbero mai potuto vedere quello che succedeva seguiva in piazza. Con la loro malignità, accusarono anche che c’erano armati e persone che nemmeno erano in paese, tanto era l’odio di questi birbanti.

L’istanza criminale era stata fatta, senza che ne fossero a conoscenza né il priore né il corporale del Rosario non essendosi tenuta alcuna congregazione sopra ciò. Il priore Pier Andrea Giorgi volle giustificare la sua innocenza e ne fece attestato giurato della sua ignoranza e del non dato consenso.

Poiché nel procedimento veniva anche interessata la Comunità fu fatto immediatamente ricorso a sua Em.za, corredato da informazione del sig. avvocato Ignazio Magnani, Difensore de Rei in Bologna, avvocato civile di altre cause per la Comunità e la Compagnia del SS.mo.  Si pregava sua Em.za di cancellare il processo estorto e di stabilire per luogo delle sparate e dei fuochi artificiali la piazza dei bovini fra il Borgo e Castello ove è la fossa interrata.

In questa processura pretesero anche di attaccare il capitano Pier Andrea Giorgi perché che alla festa del Rosario non era intervenuto con i soldati alla funzione secondo il passato e gli ordini del Legato e dell’Assonteria di Milizia. Ma non lo poterono fare perché, l’ordine era arrivato solamente la sera del Rosario alle 2 di notte[45].  Il capitano si era fatto fare nella stessa lettera l’attestato, da chi la portò di Bologna e da chi la vide consegnare, sull’ora della consegna.

Il Legato di Bologna fu informato che il raccolto di grano era stato scarso e che dalla Romagna il grano veniva portato nel fiorentino. Poiché temeva che anche da questo nostro territorio se ne potesse portare fuori, chiamò a Bologna il nostro Consolo sig. Francesco fu Pietro Conti ed il capitano Pier Andrea Giorgi col cap. Giuseppe Rovaglia di Sassoleone e il 22 luglio fu fatta una riunione in casa dell’Uditore di Camera avvocato Delli Antoni.

Ma non si poté prendere alcuna decisione senza l’autorità del principe, così il martedì seguente 23 si portarono tutti e tre con l’Uditore dal Legato che era in villa alla Scornetta presso S. Lazzaro. Qui ordinò ai capitani mettere guardie e picchetti volanti ai passi del confine.   Sassoleone furono mandati venti soldati e dieci a Castel S. Pietro ai passi della Rivulla, con la paga di un paolo a testa ed il terzo del sequestro del contrabbando, se ne facevano.

Ordinò poi anche che la Comunità di Castel S. Pietro si facesse una relazione sopra gli abusi dei bottegai e dei macellai su cui avrebbe autorizzato il Consolo ed il V. Podestà pro tempore. Questa relazione non si effettuò sul momento ma la Comunità prese tempo a formarla.

Il 18 agosto si lesse in Consilio la lettera pervenuta da Roma dall’Abbate Francesco Pirelli difensore della Comunità nella lite con l’Arti contro i pellacani, calegati e cartolari e in quella contro il Protomedicato per la vertenza delle spezierie. Si esponeva che, dopo il silenzio di alquanti mesi era venuto in campo il Protomedicato con un enorme volume contro la nostra Comunità esponendo in esso le prerogative del Protomedicato di Bologna.  La Comunità decise di rispondere in maniera categorica e ingiunse al cancelliere che chiedesse al Pirelli la sua risposta per analizzarla. Così pure chiese che le fossero spediti i sommari e le scritture dei pellacani per potere suggerire le opportune risposte.

Fu nello stesso Consilio esibito precetto dell’Officio dell’Acque in seguito di commissione dell’E.mo Legato.  Fu mandato per il ricorso da me fatto sopra la via dei Confini con Dozza dalla parte della collina presso la possidenza di Domenico Cugini denominata il Macchione. Su questo la Comunità deputò i consiglieri Lorenzo Trochi, Antonio Bertuzzi assieme col Consolo.

Fu ordinato a Francesco di Pietro Conti di scrivere alla Comunità di Dozza per trattare sulla via Confine, qualora il Cugini fosse restio ad accomodarla come per il passato.

Giorni fa i prigionieri di Civitavecchia, dopo avere ucciso le guardie e il capitano, si erano impadroniti di una galera pontificia ed erano approdati nel litorale pontificio in numero di trecento. il Pontefice impose la taglia di dieci scudi per ciascuno evaso vivo e cinque a chi ne recava la testa.

Molti malcontenti si unirono ad essi ed ora hanno un corpo di 500 assassini sparsi per la Marca e che anche qui si stanno spargendo.  Perciò per evitare mali maggiori in questa Legazione, il Legato ordinò a tutti li Massari della provincia di stare in guardia, fermare ed uccidere questa canaglia insorgente contro la quiete pubblica.

Finalmente nel Consilio si lesse la lettera dell’abate Celestini, avvocato romano, sulla vertenza di questa Comunità contro i malcontenti di Poggio, nella quale era esposto che di nuovo quei villani facevano istanza per avere un massaro. A questo scopo avevano presentata a Mons. Paracciani il seguente promemoria che il nostro consiglio rigettava totalmente.

All’Ill.mo e R.mo Signore Monsignore Paracciani. Memoria per il Comune di Poggio.

La negata smembrazione dal Comune di Castel S. Pietro, che domandavano i poggesi, non è derivata dal non riconoscersi la esorbitanza degli aggravi a cui li hanno assogettati i Sampietrini, né la mente della Congregazione particolare deputata da nostro Signore ha tolto loro dal Reclamo, che anco è stata di avviso che si debbano cercare altri compensi fuori della totale smembrazione.

Sono stati i Sampietrini li primi a contestare questa verità innegabile, perciò amando di declinare una particolare discussione su li diversi articoli di aggravi hanno essi li primi ultroneamente esibito per mezo della med. Congregazione un progetto di accomodamento, progetto questo opportuno per fissare la massima della necessità di una qualche modificazione, altrettanto irragionevole quallora si restringesse ai soli termini da essi esibiti.

Non altro esibiscono li Sampietrini a compenso delli infiniti aggravi, de quali riclamano li Poggesi se nonché: quallora si abbandoni la lite riceveranno due figlioli gratis alla publica scola del Castello, sempre che abbiano li Riquisiti ricercati dai Capitoli e permetteranno che il Medico e Chirurgo, dandosi egli la cavalcatura, attendono gratis alla cura de poveri, che siano brazzenti e pigionanti e non mai lavoratori o coloni parziari della terra altrui.

Tutto ciò è presso che un nulla, giacchè li Poggesi essendo in maggiore distanza da Castel S. Pietro che da altri Castelli di quelle contrade, gli accomoda assai più di mandare li figli a quelle scuole e di farsi curare da que Medici e chirurghi di Castel S. Pietro ma bensì dall’avere dovuto contribuire senza altro alcun profitto corispettivo all’aspetto di tal contribuzione,

Un più ragionevole progetto che con poco o niun interesse de Sampietrini può esimerli da una lite, che cagiona ai medesimi un giusto sgomento, si è quello che si presenta da li abitanti di Poggio. Chiedono di essere autorizati a scieglirsi : un Massaro nel loro Ceto e da pagarsi da essi soli Poggesi, sebbene incorporati con Castel S. Pietro. Chiedono altresì di essere sgravati da que pesi che diconsi spirituali i quali appartengono al Culto divino, che indipendentemente si esercita nella separata Parochia di Castel S. Pietro

restando a carico de Poggesi per l’intero il divin culto della loro particolare e separata parochia.

L’uno e l’altro articolo nulla interessa il publico erario, niun torto reca né alle onorificenze né all’interesse ragionevole de sampietrini. Molti comuni, sebbene incorporati in altri, hanno nulla di meno che il loro proprio Massaro, anzi li comuni più vasti ne hanno due o tre ancora. L’incorporazione procalamata da sampietrini porebbe a rigor di ragione il contributo di questa nuova spesa sopra li sampietrini, nulla di meno li Poggesi sono si moderati che ne asumono di bon grado a loro carico la spesa.

Il ben pubblico poi ed il gran riparo ai disordini ocorenti preligono ad ogni conto la scelta di un tale particolare Massaro e chi ostasse alla med. si opporebbe al ben publico. A questo si attenda e nulla si curi l’interesse.  Perdano pure li Sampietrini della supremazia che godono sopra Poggio, siano gli arbitri delle entrate, senza profittarne punto de Poggiesi, coprano tutti li posti del loro Consilio e ritengano il Governo di quella Municipalità, esclusi per sempre i Poggesi, ma non tolgano ad essi, a loro proprie spese, l’unico mezo per riparare al nocumento e disordini di quella separata, numerosa e distante populazione di Poggio.

Li sgravi altresì dai pesi spirituali di Castel S. Pietro, che chiedono li Poggesi è del pari equitativo tutte le volte che questi hanno la loro particolare parochia, alla quale non contribuiscono li sampietrini. Tanto più che li Poggesi per ragione del proprio pascolo spirituale, che presso loro (…) a motivo della distanza niun profitto ritraggono da atti di religione che si esercitano dai sampietrini nel loro Castello.

Sembra per tanto che per ogetto di tanta ragionevolezza ed a si poco interesse da sampietrini, non dovranno questi rifiutare una tale proposta di accomodamento, atteso specialmente che si redimerebbero in tal guisa dalle conseguenze di una lite per essi dispendiosa, non onorevole e produttiva di modificazioni assai maggior peso per li med. quando con particolar esame si abbiano a sogettare gli infiniti capi di aggravi, dai quali intendono altrimenti di riclamare li Poggiesi e di ottenere per l’intero la meritata liberazione.

Lunedì 9 settembre, essendo stati sospesi, per bando pontificio, i mercati di Castel Bolognese perché non si comprassero generi nella Romagna per trasportarli nel bolognese, si videro perciò in questo Borgo di Castel S. Pietro chiusi tutti i magazzeni e fu sollevato un gran clamore. Il Legato di Bologna andò immediatamente a Ravenna da quel Legato E.mo Stiliano Colonna per ottenere almeno delle partite, questo si dimostrò disponibile onde l’affare si mise nel tavolo pontificio. Intanto il Legato di Ravenna stimolato dal suo Uditore Guido Fabbri cominciò procedura contro quelli di Castel Bolognese che avevano comprato generi nella sua Legazione, e facevano anche trasporti di grani nella Toscana. Alcuni li fece imprigionare a Imola, aspettandoli con imboscate mentre venivano a Castel S. Pietro.  Ai catturati convenne pagare una multa sebbene non avessero colpe. 

Di queste penali caricò anche molti imolesi con il pretesto di essere incettatori di grani, cosicché si riempì la Curia di migliaia di scudi. Quelli di Castel Bolognese non rimasero inerti e avendo scoperto che l’Uditore stava cercando di farsi una privativa nel commercio dei grani e spediva suoi addetti nella Toscana, illuminarono il nostro Legato di Bologna il quale maneggiò tanto che furono scarcerati i contrabbandieri e si pensò ad un temperamento per il comune interesse.

La Comunità era stata precettata dall’Officio dell’Acqua per accomodare della via dei Confini di sopra detta anche la via dei Pretini.  Perciò due deputati della Comunità fecero visita alla strada che in passato era sempre stata mantenuta dalla Comunità di Dozza e fu deciso avanzare istanze contro quella.

Perché proseguiva la processura dell’Uditore Fabbri contro i mercanti di Castel Bolognese, questi fecero nuovamente ricorso al Legato di Bologna. Chiedevano facesse constatare al Legato di Ravenna che era tutta una perfidia del suo uditore che imputava molte calunnie a quei mercanti. Ricorsero pure alla nostra Comunità che gli fece un attestato giuridico che tali mercanti tengono botteghe aperte nel nostro mercato ogni lunedì e venerdì per vendere a quelli di Bologna e del contado i frumenti e le biade con tutta onestà, carità e quiete. Furono elencati i seguenti mercanti: signori Matteo Contoli de Bianchi, Francesco Pacifico Barbieri, Francesco de Giovanni, Biagio, Domenico e fratelli Salvestri, Francesco Gattavilli e fratelli detti di Gagnolo, Antonio Budini, Cesare Valdire, Paolo Panazza e fratelli detti di Sovaja, Pietro Franceschelli detto Carozza, Giovanni e Domenico Antoni, Domenico Beri, Tomaso Mattioli e Mattiolo Contoli.

Domenica 4 ottobre, festa del SS.mo Rosario, non si usarono i soldati perché l’anno scorso successero inconvenienti.

Era stato eletto Colonello di questa truppa di Castel S. Pietro il nobil uomo Galgano Guidotti, il 28 venne qui e fece la sua rassegna avendo fissato il suo quartiere in casa del capitano Giorgi in questo Borgo.

La Legazione di Ravenna continuava ad arrestare quelli di Castel Bolognese e ad impedire il transito dei grani per l’imolese quando venivano qui. La nostra card. Legato vedendo che si dava poco ascolto alle sue andò in persona a Ravenna a trattare il modo perché i suoi sudditi potessero avere libertà di traffico e transito da Castel Bolognese a questo nostro Castel S. Pietro.

Tanto si adoperò che fu stabilito la seguente procedura: I commercianti di Castel Bolognese prima di levare da lì qualsiasi tipo di grani dovevano notificarlo a quei dazieri, poi il Consolo di quella Comunità con il Podestà locale dovevano dare al commerciante una carta di accompagnamento in stampa, sottoscritto dal Legato di Bologna, diretto al Consolo di Castel S. Pietro, che ne doveva poi attestare nello stesso documento di avere veduta l’introduzione del genere e carico qui trasportato. Questi doveva poi, a capo di ogni settimana spedire alla legazione di Bologna tutte le accompagnature a scarico dei detti commercianti. che poi fu a me Ercole Cavazza comunicato per essere Decano e suo successore nel consolato il venturo 1794.

Il 29, 30 e 31 ottobre, era stata convocata una Dieta provinciale nel convento di S. Bartolomeo di questo Castello dal moderno Rev.do provinciale P. M.ro Nicola Bibiena al fine dare alcuni provvedimenti ai conventi della provincia. Intervennero i seguenti regolari agostiniani che, per essere il convento piccolo, alloggiarono come segue.

Il Rev.mo Pietro M.ro Domenico Picini di Bologna ex Generale assieme col R. P. M.ro Nicola Bibiena di Bologna Provinciale in S. Bartolomeo. Il P. M.ro P.ro M.ra Scarella di Cento ex Provinciale priore di Cento col P.ra M.ro Francesco Giorgi ex provinciale priore di Bologna unitamente al P. Bacelliere Lett. Agostino Firnacciari di Castel S. Pietro in S. Bartolomeo.

Il P. Bacel. Tomaso Brusatelli definitore di Ravenna in casa del sig. Gio Battista Fiegna presso S. Bartolomeo. Il P. Bacel. Adiodato Valentini Del Finale Definit. del Finale di Modena in casa de sig. Graffi e finalmente il P. Bacel. Andrea Bollini di Cento Definit. nel convento di S. Francesco.

Nella d. Congregazione, oltre la conferma dei Priori e V. Priori, furono esaminati il P. Lettore Gio. Michele Cervelli di Castel S. Pietro per il Baccellierato ed il P.ro Giuseppe Azzi per il Lettorato, i due passarono. Erano in casa mia. Il segretario era il Padre Fornaciari.

Il 6 novembre la infelice regina Maria Antonietta d’Austria, vedova dell’infelicissimo Luigi XVI, Re di Francia, subì Parigi in un palco la decapitazione[46]. Era stata condannata da quei spiriti diabolici dei sollevati francesi, giacobini, della setta dei muratori, ebrei, ugonotti, sanculottes, cioè straccioni senza braghe, libertini e protestanti. A questa seguirono successivamente altre stragi nelle città di Francia contro i poveri cattolici e i realisti.  Nessuna età passata né futura avrà mai un’eguale epoca così miserabile come questa. Questo darà larghissimo campo agli storici per scrivere di tante barbarie, di tante oppressioni, incendi, omicidi e desolazioni in quel regno così florido e bello, che in tutto il mondo non ha mai avuto l’eguale, ove si sono bruciate tante e grandi cose.

La notte del 25 novembre venendo al 26 fra le ore 8 e 9 di notte si fece sentire il terremoto, soprattutto in questo Borgo.

Il 27 novembre il dott. Gaetano figlio del nostro Consolo Francesco Conti, giovane di gran talento, aspirando ad una cattedra medica a Bologna fece le sue conclusioni nel Quartiere del Senato di Bologna proponendo 8 tesi sopra le lacrime dando, dopo il terzo argomentante, luogo a chiunque. Le sue proposizioni furono dedicate al Marchese Bartolomeo de Buoi, Confaloniere.

Queste sue conclusioni furono replicate in 12 Tesi il di 17 dicembre e dedicate allo stesso confaloniere ed al Senato e ne riportò grande lode.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il Senatore Marchese Girolamo Legnani e fu sostituito il suo notaio.

Il 27 fu estratto Consolo per il primo semestre 1794 io Ercole Cavazza scrittore della presente storia.

La Comunità accordò alla Compagnia del SS.mo piedi dieci di terreno nel suo orto per costruire la sagrestia come dalla pianta e disegno dell’architetto pubblico Dotti senior e così terminò l’anno.

1794

Uditore di Camera di Ferrara spedisce grano ai francesi. Nuovo ordine legato su controllo e relazione su francesi presenti a Castello. Ripresa Accademia letteraria detta degli immaturi. Compagnia del SS.mo costruisce sacrestia a fianco oratorio. Contrasti per campanello Comunità nel campanile. Denuncia possidenti occupanti parti de strade pubbliche. Papa levato Castel Bolognese a Bologna e passato a Ravenna. 60 uomini di Castel Bolognese armati protestano a Bologna. Arte dei Pelacani di Bologna insiste a Roma per privativa pelli castellane. Scoperta trama rivoluzionaria, incarcerato Luigi Zamboni. Frate guarisce da scabbia con acqua Fegatella, stampa lodi.

Il 5 gennaio il nostro Legato per evitare che vengano trasportati fuori di provincia grani, biade ed altri simili generi fece di novo pubblicare in questo luogo una notificazione affinché ognuno fosse bene ammonito.   Tanto più che si era scoperto che l’Uditore di Camera Mancurti in Ferrara aveva dei traffici e fu anche quello del tesoriere Antonio Gnudi di Ferrara, ma nostro bolognese in Macerata, per intelligenza col Mancurti avendo spedito una infinità di grani ai francesi.

Il Papa in queste turbolenze certamente non guardava né a dignità né a parenti dei quali ne ha fatto rinchiudere in Castel S. Angelo Mons. Onesti e Mons. Falconieri privandoli della mantelletta e di ogni onore. Il Gnudi, quantunque fosse quasi considerato l’occhio e la pupilla del Papa per la stretta e lunga amicizia, ha subito anch’esso a questa sorta di carcerazioni.

Il 20 dicembre 1780 fu stabilito che i podestà estratti negli uffici utili, dovessero entro quindici giorni fare le dovute prove per ottenerlo e nello stesso tempo nominare un notaio collegiato che esercitasse

tale officio. I notai però spesso ricusavano di esercitare tale ministero. Perciò il 22 dicembre 1792 per Senato Consulto fu determinato che il notaio collegiato nominato dovesse accettare la nomina, oppure provvedere l’officio dando garanzia, nel qual caso potrà il fumante esercitare in nome proprio l’officio. Tutto ciò è accaduto in vista che essendo la podesteria di Castel S. Pietro decaduta dagli utili non si trova notai in altri luoghi che vogliano esercitare l’officio.

Sabato primo marzo giunse la Notificazione dell’E.mo Arcivescovo dell’indulto di carni d’ogni sorte nella prossima quaresima tolti i primi quattro giorni, le quattro tempora, la vigilia della SS.ma Annunziata, tutti i venerdì e sabati e gli ultimi quattro giorni della settimana Santa. Tutto ciò è a causa dalla scarsezza degli oli che si pagano per fino a soldi 13 la libbra.

Il 2 il dal Duca di Toscana aveva intimato l’espulsione dei francesi fuggiaschi dopo la presa di Tolone e Marsiglia dagli inglesi e spagnoli. Ciò per le presenti penurie ed anche per assicurarsi dai tradimenti. Questi francesi si erano diretti nel bolognese e il papa, temendo qualche avvenimento funesto ordinò ai suoi Legati di vigilare.  A questo scopo il Card. Legato Archetti di Bologna, mediante il suo Uditore criminale del Torrone Innocenzo Innocenzi, ordinò ai Consoli della provincia, e segnatamente a me Ercole Cavazza Consolo di Castel S. Pietro, di informarlo sul numero di tali nazionali francesi che qui soggiornavano.  Si rispose che si trovavano solo i quattro sacerdoti stabiliti qui dall’E.mo sig. Card. Arciv. Giovanetti nei conventi dei regolari ove cattolicamente vivono cioè:

Don Natale Varnes, parroco, e D.on Gio. Remesci, suo vicario, in S. Bartolomeo. Don Gulielmo Dalle Vigne in S. Francesco e Don Pietro Andrea Miminerval dai Cappuccini.

In seguito ho ingiunto ai nostri ministri pubblici ed ai locandieri di stare avvertiti e darmene conto nel caso venissero e si fermassero in questo loco dei francesi, per rincontrarne il Governo.

La stagione era così bella, l’aria tiepida, non essendosi vista per niente la neve, cosi che la gente se ne stavano all’aria aperto. Si cominciò anche in questo tempo a bere l’acqua della Fegatella, che negli anni passati si faceva in agosto.

Il P. Filippo Carlo di Cento, sacerdote cappuccino, la esaltò mediante una canzonetta stampata. Il religioso propose la reviviscenza dell’antica Accademia Letteraria, che qui, sotto il titolo degli Immaturi, esisteva dal secolo scorso fino al principio del presente. Perciò ne propose la sua ripresa ad onore di questo miracoloso Crocefisso. Ciò fu fatto nella domenica di Passione nell’Oratorio, essendo egli l’oratore e il principe il Padre Guglielmo Marcolini, riminese, Lettore teologo dei Carmelitani, che era qui come predicatore quaresimale.

La compagnia del SS.mo cominciò la sua sagrestia nell’orto della Comunità a fianco dell’oratorio.  Fu innalzata, a forza di elemosine, in pochissimi giorni, con dispiacere però degli avversari.

Il campanello della nostra Comunità esistente nel campanile presso questa arcipretale, l’anno scorso, si era rotto. Fu mandato ad Imola per evitare le soverchierie dell’arciprete che non voleva accettare che il campanaro fosse nominato dalla Comunità. Questa però insisteva di non volere rimettere la campana

se prima non le si dava ragione. Venne perciò lettera dalla Assonteria che imponeva alla Comunità, sotto pena di multa, di rimettere il campanello al suo posto. Fu avversa la Comunità, onde per ciò l’Assonteria spedì in questo Castello il senatore Conte Giuseppe Malvasia ma in forma privata al fine di calmare

l’animo della Comunità esacerbata dalla condotta del sopraffattore e prepotente arciprete.

Il senatore si offerse come garante che la Comunità avrebbe avuto il suo intento e che perciò spedisse le sue ragioni accompagnate da informazioni. Questo fu subito fatto da me scrivente la presente storia e se ne conserva in Comunità la copia. Intanto nel sabato della domenica in Albis, fu il 26 aprile, fu posto il campanello al suo posto.

Nella scorsa solennità di Pasqua i Cappuccini di questo Castello esposero nella loro chiesa due quadri nuovi nel primo e terzo altare laterale ove erano il quadro di S. Antonio opera di Mons. Langè detto Monsù Lans, bravo pittore bolognese ma di nazione francese, e un Cristo del Tiarini[47]. I due nuovi quadri, opera di di Pietro Menarini pittore romano rappresentavano S. Antonio, i santi Giuseppe da Leonessa, Fedele da Sigmaringa e Giuseppe da Corleone.  I due quadri vecchi furono messi nel coro, ove presentemente si vedono. Fu un peccato levare due quadri di pennello maestro per metterne due di un pennello assai e di gran lunga inferiore.

Il 3 maggio essendo grande la siccità e la mancanza di acque si fanno tridui in S. Francesco e alla parrocchia per ottenere la pioggia.

Non pochi possidenti di terreni aderenti le strade pubbliche dello stato avevano occupato e si erano impadroniti di terreno di ragione pubblica.  Così le strade restavano impoverite e ristrette per il passaggio delle persone. Furono fatti ricorsi al Governo, che quindi, prese le opportune informazioni, intimò a tutti i massari di doverne fare la denuncia al Governo.

Nel nostro comune fu così provveduto dal massaro Filippo Monti

6 lulio 1794 Castel S. Pietro. In seguito della intimazione datami per l’Atti di V.S. molto Ill.ma, stampata li 26 marzo1794, sopra le comutazioni di strade, drizzagne, usurpazioni di strade publiche denunzio a lei sig. Not. le seguenti e cioè: – Sig. Conte Zini in loco detto il Palazzo dietro la strada maggiore di circa piedi 4 verso detta strada in lunghezza di pertiche 20 circa. – Sig. Conte Malvasia in loco detto Mezavia in strada Maggiore da circa pertiche N. 1, in lunghezza di pertiche N. 18 circa. – Li R.R. P.P. de Servi in loco d. Il mercato verso lo stradello morto da circa un piede, in lunghezza pertiche 30 circa. – Sig. Pietro Gordini in loco detto il Merlone, nella via che conduce alli Capuccini in circa piedi 3, in lunghezza pertiche N. 16. – Sig. Domenico Cuppini nella via de Confini tra Dozza e Castel S. Pietro di circa pertiche N. 3 in larghezza e lunghezza pertiche 11 circa.

Gianpietro Zanoni di Bologna, come successore nei terreni Vacchi aderenti alla fossa pubblica di questa Comunità, aveva fatto istanza all’Assonteria di Governo affinché si riparasse al danno, che soffriva per lo straripamento dell’acque. Il 13 maggio fu per ciò spedito in visita l’architetto e perito pubblico Gio. Giacomo Dotti che esaminò la situazione. Si convenne, con lo stesso Dotti, di arginare la fossa e prepararne progetto, che fu poi adottato nel successivo giugno.

Stante le istanze fatte per il selciato della via corriera nel Borgo si era ottenuto per grazia dell’Assonteria la sovvenzione quindi il 26 maggio si diede inizio ai lavori.  

Come risultato delle orazioni fatte, cominciarono in questi giorni le piogge, ma così copiose che durarono quasi tutto giugno onde fu necessario ricorrere di nuovo a preci per la serenità come si dirà in seguito.

Giovedì 29 maggio, giorno della Ascensione, dopo una lunga malattia morì Alessandro Sarti ultimo maschio di questo ramo. La morte di questo povero ragazzo non fu dissimile da quella del padre Lorenzo nella quale si videro gli effetti della scomunica, per avere fatto fuggire Don Giuseppe Giorgi dalla religione Cappuccina, ove teneva il nome di Padre Remigio. L’ultimo crollo che ebbe questo povero giovine fu causato dall’arciprete Calistri che lo fece carcerare dagli sbirri del vescovato, che lo trascinarono a Bologna febbricitante. Fu tradotto alle carceri di Bologna per l’accusa di aver deflorata una fanciulla. Dopo esservi stato pochi giorni fu rimandato a casa per la sua infermità da cui non scampò più la vita, infatti in meno di 15 giorni lasciò questo mondo. appena giunto a casa da Bologna gli fu somministrato il viatico e l’olio santo. Scorse diceria nel paese per la irregolarità incorsa dall’arciprete nel volere di nuovo carcerare un povero ragazzo infermo dopo che li sbirri lo avevano rilasciato poche ore prima per il suo malanno.

Il 6 giugno per bando speciale della Legazione e di Roma furono dichiarati decaduti i privilegiati dal loro preteso jus di non fare la inghiaiazione e ciò in vigore delle Costituzioni Apostoliche e per le istanze fatte al S. Padre dal Governo di Bologna.

Venerdì 20 giugno venne un temporale così grande con pioggia tuoni, saette e lampi che sembrava il diluvio. Crebbe talmente la corrente nel Sillaro che spezzando l’alveo venne ad allagare fino al macero vicino agli argini. Le pile del ponte erano tutte coperte. Durò questo turbine dalle ore 19 fino alle 20 ½. Si vide la Biscia Bora che rovinò alberi, svelse querce dalle radici e si ebbero anche rotte di fiumi. Il freddo regnò come in febbraio, tutti vestirono da inverno. Lo straripamento dell’acque portava via i covoni e i mannelli di grano. I contadini piangono, il raccolto va molto male e i mietitori non possono far opera intera.

Il 3 luglio continuando la pioggia furono cominciati i tridui dalle Religioni per la serenità.  Il 9 luglio cominciò il tempo a rasserenarsi, ma i grani sono cattivi di odore e germogliano nei barchi e nei campi. Il loro prezzo è cresciuto per il grano fino a l. 14 la corba e il formentone è tornato a l. 10.

Giunse notizia come il papa aveva levato totalmente Castel Bolognese dalla giurisdizione di Bologna e l’aveva sottomessa a quella di Ravenna in tutto e per tutto.

Prima che a ciò fosse stato dato esecuzione sessanta uomini di Castel Bolognese, dei più bellicosi, vennero a Bologna tutti armati, entrarono in città senza ostacolo. Si presentarono a monsig. Camillo Santoboni, Vice Legato, perché il Legato era fuori alla visita delle acque, chiedendogli di resistere alla violenza che a loro si faceva. il Vice Legato li persuase a non rumoreggiare e che si sarebbe impegnato per e loro. Si portarono poi dal Confaloniere e dagli altri senatori, tutti promisero che, a nuovo pontificato, si sarebbe tentato con tutto il calore di ottenere la deroga alle presenti determinazioni pontificie. Ai suddetti tutti regalarono contanti cosicché misero assieme più di trecento scudi. Ritornando questi a Castel Bolognese si fermarono a Imola implorando dall’E.mo Chiaramonti, vescovo di questa città, come suoi diocesani di mantenerli nella sede in cui sono.

Questo porporato benigno si impegnò per questo. Quando seppe della presenza il 22 luglio del vice legato di Ravenna a Castel Bolognese, lo andò ad incontrare. Ciò non giovò e, poiché era già stato tutto deciso a Roma, il 31 luglio fu preso il possesso dalla legazione di Ravenna.

Tutti gli atti comunitativi di Castel Bolognese furono trasportati a Bologna al Senato e così ancora tutti gli atti criminali che furono portati al Torrone. Prima che avvenisse il possesso furono da Castel Bolognese trasportati tutti i generi di grani a Castel S. Pietro. In meno di otto giorni furono trasportate, e di giorno e di notte, migliaia di grani, toltone però i formentoni che non erano maturi, come si rileva dalla nota delle introduzioni in questo luogo, tenuta da me come deputato della Legazione.

Gio. Pietro Zanoni aveva fatto istanza al Card. Legato affinché la nostra Comunità interasse la latrina ossia fossa di deposizione delle feci del Castello. La Comunità sostenne valorosamente il suo possesso e la ragione di approfittare di queste deposizioni per un reddito comunitativo.

Lunedì 17 settembre il Legato Card. Gio. Andrea Archetti venne in visita a Castel S. Pietro anche per visitare i magazzeni di grani stante lo scarso raccolto. Visitati i magazzini in compagnia di me Ercole Cavazza proconsolo, di ser Francesco Conti segretario della Comunità ed altri due colleghi cioè il cap. Pier Andrea Giorgi e Francesco Conti fu Pietro, si andò poi alla visita della latrina o fossa morta, intervenendovi anche il Zanoni. Si ebbe un lungo contradittorio fra le parti coram E.mo e la decisione fu che si osservasse la perizia dell’architetto pubblico Gian Giacomo Dotti. Questa era stata fatta nei mesi addietro per ordine dell’Ec.ma Assonteria, cioè che si arginasse, secondo il progetto della Comunità, la fossa, si scavasse oltre il fosso portante le acque chiare in modo da non danneggiare con il traboccamento il sig. Zanoni e così fu terminato tutto il diverbio nel quale il segretario si portò lodevolmente coi lumi da me avuti sui fatti dalla Comunità nei tempi andati.

Ciò fatto l’E.mo si portò a pranzo al suo albergo in casa di Nicola Manaresi nel Borgo ove erano l’abbate Tortosa ex gesuita spagnolo, uomo veramente seccante, presuntuoso e prepotente, come sono la maggior parte di questi spagnoli ex gesuiti che pretendono di saper tutto di tutto e che nessuno li eguagli.  C’era l’abate Sachetti di S. Salvatore bolognese, uomo prudentissimo, l’abate Polini d’Imola, segretario del Legato.

Al pranzo volle anche i quattro comunisti dando loro quelle distinzioni che di solito si meritano i Capi dei paesi. L’arciprete fu escluso, cosa che fece ammirare tutto il paese.

Soggiornava da agosto in villeggiatura la Marchesa Barnati Coppi Ghiselieri col vice legato suo favorito. Sentendo la venuta del Legato di Bologna, andarono a Faenza a trovare il Legato di Ravenna, zio del vice legato. I principi per convenienza sanno evitare tutti per non sottomettersi fra di loro. Partito il Legato la Comunità fece arginare la fossa ed il Legato dette riscontro del suo gradimento.

In questo mese morì in Modena Anna figlia di Teresa Zogoli detta la Lissina, moglie di Matteo Guidi di Castel S. Pietro. Questa Anna era cantatrice virtuosa di sua Altezza il Duca Ercole d’Este, faceva grande impressione per la bellezza e la virtù. Fu donna onorata, morì in due giorni non senza sospetto di avvelenamento.

L’arte dei Pelacani, Calegari e Pelliciari di Bologna ritornò agli atti giudiziali a Roma pretendendo la privativa di raccogliere qualsiasi tipo di pelli in questo luogo in virtù di concessione fattagli dal Senato. Non considerava che, in vigore del vigente chirografo di N. S. Pio VI sopra la libera circolazione dei generi fra le cinque provincie di Bologna, Romagna, Stato di Urbino, pubblicato e stampato in Bologna l’anno 1791, si accorda, all’articolo N. 21, la estrazione delle pelli grezze da questa nostra legazione alle altre provincie onde di conseguenza viene che è abolita la suddetta privativa.

Il 16 dicembre fu estratto per Podestà di Castel S. Pietro il senatore Ulisse Gozzadini, suo notaio fu Zenobio Teodori. 

Per i progressi che da ogni parte stanno facendo i francesi, l’arcivescovo Giovanetti con notificazione circolare ordinò devozioni. In questo frattempo si scoprì una trama rivoluzionaria. Furono carcerati come capi Luigi Zamboni con la madre, il dott. Angelo Sassoli, il dott. Pietro Gavassetti, i Suzzi della Molinella e molte altre persone.  

Il 27 dicembre fu estratto Consolo dalla nuova imborsazione il sig. Agostino Ronchi e così si terminò l’anno 1794.

Certo padre Francesco da Bologna, cappuccino, era guarito, per consiglio dei medici, da alcuni malori causati da herpes e scabbie bevendo e anche lavandosi le croste, di cui ne era molto coperto, con questa acqua della Fegatella.  Produsse e fece stampare una composizione per lodare le qualità curative dell’acqua di questa nostra fonte. 

1795

Supplica Andrini al papa per avere una fiera di tre giorni per S. Bartolomeo. Aumento del prezzo dei generi alimentari. Ragazzi spigolano abusivamente. Calistri difende ragazzo. Maneggi dell’arciprete per fare interdire oratorio SS.mo per debito compagnia. Scontento e subbuglio popolare per mancanza di pane. Provvedimenti del Legato. Ottenuto dal Papa autorizzazione per fiera d’agosto. Intrighi don Calistri contro comp. SS.mo, intervento Cavazza. Suicidio in carcere di Luigi Zamboni. Sue scritte incise sulla parete della cella. Grande successo della fiera. Copertura chiavica maestra dalla porta del Castello al Torrazzo. Storia di fra’ Basilio. Ordinanza per taglio alberature e riparazioni alla via consolare.

Il senatore e attuale Confaloniere Ulisse Gozzadini era stato estratto per Podestà di Castel S. Pietro. Questi nominò come suo notaio Ser Antonio Franchi che, per farsi sostituire da un notaio locate di Castel S. Pietro, pretendeva avere una regalia pecuniaria. Tutti e quattro i notai, cioè Ser Francesco Conti, Ser Antonio Giorgi, me Ercole Cavazza e mio figlio il dott. Francesco Camillo Cavazza, rifiutarono di prestarsi a questo patto.  Fu sanzionato il senatore dal Senato e fu imposto al Franchi fare l’officio.

Questi, riconoscendo non convenirgli, rinunciò all’officio.  Fu poi nominato il notaio Carlo Lemmi che pretendeva anche lui la regalia e che l’officio andasse sotto il suo nome. Tutti noi quattro notai del posto non solo rifiutammo ma che volevamo che l’officio andasse in nostro nome. Tutto ciò fu scritto al senatore, che era duro a prestarsi. Finalmente veduta la legge e sentito che io come notaio, secondo la convenzione fatta fra noi dal 1788, dovevo questo anno coprire il posto, decise e fece la nomina nella mia persona il 17 febbraio. Così solo il 12 marzo, prima settimana di quaresima, fu aperto l’ufficio.

Il 14 febbraio si pubblico l’indulto di carne e latticini per tutta la quaresima, eccettuati i primi quattro, gli ultimi tre giorni e le quattro tempora.

Il 18 cominciò a predicare nella parrocchia Don Lucca Bartolotti prete bolognese e il parroco lo tenne in casa dandogli da mangiare, cosa non più usata dagli arcipreti.

Sabato 7 marzo il dott. Gaetano figlio di codesto Francesco Conti fu Pietro di Castel S. Pietro e di Maria Pisi, laureato pochi anni fa nella nostra università di Bologna more civium, ottenne una cattedra di lettore pubblico con 25 voti bianchi ed uno nero dal Senato con lo stipendio di l. 200 annue. Questo riuscì a questo paese di singolare onore e di piacere al parentado. Il giovane era in vero di sublime talento, di alta statura e anche di bell’aspetto. Tra i dottori che presentemente tengono vivo questo Castello è quello che, col dott. D. Luigi Farnè, arciprete di Varignana, spicca più di tutti gli altri.  Questi sono il dott. Don Luigi Trochi, il dott. D. Giuseppe Conti arciprete di S. Agata, il dott. Francesco Cavazza che, per la gracilità della sua persona, abbandonò la città per fare vita privata ed attendere solo alla poetica per piacere ed all’arte notaria col padre. Infine il dott. Simone Gordini che, dopo essere stato nella condotta di Castel Guelfo, di Casola Valsenio, di Castel del Rio, ora si trova al Serraglio dei S.S. Albergati col figlio D. Luigi, avendolo abbandonato gli altri due maschi. Di questi uno sta a Livorno a fare il chirurgo e lo speziale e l’altro, Don Cesare, sta a Faenza come segretario del vescovo.

Il 19 marzo, giorno di S. Giuseppe, la sera in questa pubblica piazza di Castel S. Pietro Battista Gasparini di Piancaldoli, ma qui domiciliato, uccise Luigi Oppi suo lavorante canapino con una coltellata al cuore. Cadde a terra e rimase con gli occhi aperti che non sembrava nemmeno morto. Nessuno poté soccorrerlo nemmeno con i sacramenti. Il peggio fu che era ubriaco e morì anche pasqualino di vari anni[48], per questo fu detto il disgraziato Oppi, che per soprannome si chiamava Scolina. Usava una imprecazione quando voleva sostenere una cosa e diceva: che io sia amazzato se ciò non sussiste, e purtroppo fu esaudito.

La sera di sabato 9 maggio venne a Castel S. Pietro l’Immagine miracolosa di Poggio e lunedì 11 incominciarono le rogazioni.

Il tenente Gio. Francesco Andrini aveva dato, mediante il Vice legato Erizzo, supplica al S. Padre, anche a nome dei commercianti di questo luogo, per avere una fiera perpetua annuale di tre giorni per la solennità di S. Bartolomeo. Il S. Padre spedì la supplica per la informazione al Card. Legato Archetti, che la comunicò all’Assonteria di Governo la quale il 9 maggio scrisse alla nostra Comunità per sentire il suo parere. Aderì la Comunità, scrisse al Governo per esprimere tutta la sua compiacenza onde si attendeva in breve la Grazia.

Gaetano Giorgi, figlio di mia sorella Rosa Cavazza e del capitano Pier Andrea Giorgi, essendo studente di filosofia in Bologna sotto il dott. Palcani, ebbe in concorso la scuola minore di latino nella scuola Pia di Bologna con l’emolumento di sessanta scudi annui

Il 23 l’Assonteria, in seguito alla nostra risoluzione sopra la fiera richiesta, rispose alla Comunità che era favorevole e se ne sarebbe occupata ma che qualunque spesa fosse poi occorsa la Comunità non doveva prestarsi come si era convenuto col sig. Card. Legato.

In questo Castello erano stati scoperti diversi ladretti, nove ne furono carcerati.

Il 23 maggio, la festa delle Pentecoste, Giuseppe Bianchi fu assalito in Castello da Gaspare Raggi, Francesco Manaresi e Luigi Ferri detto Rigidorino, tutti ragazzi. Fu condotto fuori con scappellotti e quando fu ai Cappuccini gli levarono quel poco di danaro che aveva. Fu anche carcerato Francesco di Pietro Conti, detto dalla Fornace, come capo di ladri a Castel Guelfo. Poi in Castello furono carcerati come ladri Fedele Amadesi e Natale Galavotti e portati a Bologna.

Si sentivano sussurri in paese a causa della farina che si vendeva al prezzo che volevano i bottegai. Il popolo aveva fatto ricorso alla Comunità, il ricorso fu spedito al Legato Archetti affinché provvedesse al disordine di pagarla fino a 15 quattrini la libbra ed al piacere del bottegaio venditore.

Ma che poteva fare il Legato se dalla sua cancelleria venivano spedite tali licenze stampate. La carne in questi giorni, per assecondare il monopolio dell’unione maledetta dei beccai, era accresciuta in Bologna a soldi 7 la libbra e nel contado a soldi sei. Grano non se ne trovava e si vendeva fino a 37 paoli la corba. La città era disagiata. Giacomo Lugatti, per il Senato, aveva fatto provviste di grani in Romagna per 5.000 corbe, ma questo non si poteva avere. Ne aveva fatte altre provviste a Tossignano, Cotignola e Bagnara ma il popolaccio l’aveva arraffato tenendolo per sé.

 Ciò non ostante, attendendosene una quantità entro il corrente mese di maggio a Castel S. Pietro, il Senato ha emesso un ordine diretto al Consolo di allestire 160 carri al comando del Lugatti per levare da qui tale grano e trasportarlo fino alla Campana, pagando il carriaggio ai villani 10 soldi per ogni miglio e

imponendo di ciò eseguire entro 10 giorni. La miseria è assai grande per l’indolenza di chi governa.

Si è poi avuta notizia che, essendo nato in Parigi un disparere fra i deputati divisi in due partiti, cioè di moderati e di terroristi o giacobini, abbia prevalso questo partito[49] e siano per ciò stati massacrati tutti gli emigrati che erano rimpatriati e i preti. C’era timore di un grande conflitto.

  Ciò ebbe conferma anche da lettere dal Piemonte ove di abitano nostri paesani, fra questi si distingue Angiolo Maria di Antonio Galassi detto volgarmente di Marocchino, che pochi anni fa piantò la sua casa in Bologna ove esistono solo due suoi fratelli, cioè Benedetto bravo suonatore di contrabasso, che fa il gargiolaro, e Francesco che fa il sarto.

Angiolo dilettante di musica fu anni fa fatto accademico filarmonico, divenne poi mastro di cappella dai Padri de’ Servi di Bologna da dove fu chiamato nella Sardegna per mastro di cappella nella cattedrale della citta di Sassari che porta il titolo di arcivescovato primario della Sardegna e Corsica. Vive in questi giorni, benché vecchio, decentemente ed onorato nella professione a Tirne.

Il 15 giugno, alquanti ragazzi si erano portati sui campi di questi P. di S. Bartolomeo a spigolare sebbene vi fossero ancora i mannelli per terra. Non vollero ascoltare le sgridate del contadino perché andassero via finché c’era il grano nei campi.  Intervenne il Padre Andrea Arnolfi, ne castigò alcuni, ma uno di essi lo battè fortemente e poi, presolo per la giubba, lo gettò fuori della siepe nella strada. Il ragazzo, scaltramente si finse svenuto, onde fu portato nello Ospitale degli infermi e, dando pochi segni di vita, gli fu dato l’olio santo. Il chirurgo Domenico Giordani, ingannato dalla furberia di questo ragazzo, diede immediatamente la relazione di pericolo ai tribunali. Avutosi l’avviso a Bologna il giorno dopo, 17 giugno, venne per scoprire tutto il P. Andrea Muraglia priore del convento di Bologna e, trovata la malizia del ragazzo, se ne partì subito dopo aver pranzato.

La compagnia del SS.mo aveva ottenuto dal S. Padre la grazia del gonfalone.  L’arciprete Calistri e fece dare sottomano al Card. Braschi suo protettore una informazione sinistra nella quale si minacciava la sconsacrazione della chiesa e la sua assegnazione ai creditori della compagnia, con la chiusura dell’Oratorio e la sospensione della possibilità di officiarsi. Fu scoperto il maneggio e tosto si pensò al riparo scrivendo al canonico Rochettani e, per informazione, al S. Padre.

Ragazzo di cui si è detto era un secondo cugino di questo arciprete Calistri che veniva dai Boschi di Granaglione e si fingeva fiorentino. Di costui si era presa tutta la protezione l’arciprete, sia per essere suo parente, sia perché aveva in odio i frati, massime quelli che gli possono dare soggezione e che di esso non abbisognano. Fece il processo al frate e, per aggravare la sua posizione, una mattina mandò due stampelle al ragazzo perché mostrasse di servirsene. Ma Dio non vuole che sempre trionfi la malignità e il ragazzo rifiutò le stampelle e anzi faceva tutti li sforzi per andarsene dall’Ospitale ove era ben custodito dagli ospitalieri.

Non valsero tutte queste imposture a molto poiché il ragazzo di quando in quando scappava sulla porta dell’Ospitale col camiciotto di cui si vestono i convalescenti. Però cosi vestito non avrebbe potuto facilmente fuggire perché la veste che sarebbe stata riconosciuta, mentre tutta la mira dell’arciprete era di farlo mantenere di vitto e vestito dalla Religione di questo convento di S. Bartolomeo.

 La mattina del 25 giugno il ragazzo da scaltro, vedendo fuori l’ospitaliere, chiese alla sua donna di andare nell’orto per asciugare una sua camicia bagnata, gli fu concesso. Qui essendoci un albero di prugne, lo ascese poi, saltato sul muro di recinzione, discese nel vicino campo e se ne fuggì. Non si seppe dove e così l’arciprete restò deluso nella sua malignità. E non poté proseguire col processo e far credere alla Curia quel male che le aveva suggerito. Il chirurgo Giordani fece in seguito le sue scuse. il medico Muratori, con attestato, provò che il ragazzo nel tempo che era stato ricoverato non aveva mai avuto alcun sintomo di febbre, sicché tutto in vanas evanuit auras.

Il 28 giugno venne la funesta notizia che il Delfino fanciullo, figlio dell’infelice Luigi XIV Re di Francia, era morto nel carcere del Tempio in Parigi asfittico[50]. La morte non fu creduta all’asfissia ma da tutti opera di veleno. Si infermò il 4 maggio e morì il 4 giugno, il chirurgo che lo medicava, morì tre giorni prima e, secondo l’opinione comune, fu morte propinata. Era in età di anni undici, di forte complessione, ma dovette cedere alla fatalità, come purtroppo si aspetta debba succedere alla sorella giovinetta anch’essa relegata nel Tempio[51]. Avutasi tale notizia si sentirono in seguito nell’Assemblea alcune voci esclamare Viva la libertà francese!

L’8 luglio su le 9 del giorno scoppiò un grandissimo incendio in una casa rurale di Gio. Antonio Bolis detta il Guercè, che tutta andò distrutto. Non si diede alcun segno con le campane pubbliche perché codesto arciprete non si voleva prestare all’intervento del Massaro e aveva imposto ai suoi famigliari di non svegliarlo quando dormiva. Affermava poi che non era necessario radunare popolo per gli incendi perché ne avrebbero approfittato i ladri.

Il 9 luglio stante la scarsa raccolta e la mancanza di viveri il Card. Legato fece il calmiere a l. 13 la corba, che era prima di l. 21. La siccità farà ancora crescere il prezzo agli altri grani e siccome i farinotti del paese ed il fornaio pubblico non aveva più modo di fare il pane per mancanza di grano, il Legato ascoltò i clamori e per quietare il popolo, fece la seguente ordinanza, che poi diresse al Consolo.

L’E.mo e R.mo sig. Card. Legato ordina e comanda a Lei sig. Consolo di Castel S. Pietro che visto il problema ella intimi subbito ai fumanti di cod. Comunità e suo distretto, loro affittuari o agenti e segnatamente alli signori Francesco Zuffi, Paolo e fratelli Farnè, signori eredi del cap. Lorenzo Graffi, sig. Carlo e fratelli Conti, come ancora agli agenti della Comenda di Malta, che esibiscano a Lei imediatamente nota aperta del grano raccolto dai loro beni e che quello, dedotto il necessario per il consumo delle loro famiglie pure da individuarsi, si ritengano alla disposizione di sua Em.za R.ma.

Qual grano resta fino ad ora determinato alli fornari di cod. terra alli quali in conseguenza potranno, anco senza alcun ulteriore ordine, a detti fumanti venderlo in ragione del vigente calmiere a pronti contanti nell’atto di levarlo. Avvertendola di tener conto delle ressidue levate, per esibirle alla cancellaria maggiore di sua Em.za a capo di ogni mese. Dia pronto riscontro della esecuzione del presente ordine che Ella potrà far vedere ai detti fumanti, loro affittuari e agenti indicando i nomi delle persone alle quali sarà fatta tale intimazione, affine di procedere contro di essi irremissibilmete alle pene più rigorose ad arbitrio della prelodata Em.za sua R.ma in qualunque caso di rimanenza od eccezione o scusa in contrario che non sarà assolutamente ascoltata, aggiungendo che non sarà neppure ammessa la ecezione di avere forse a questi o ad altri venduto, assegnato o in qualunque altra maniera disposto del grano sud. È volontà di sua Em.za che l’ordine dato di sé comprenda anco li luoghi pii e gli aclesiatici sicolari e regolari possidenti in cod. distretto. Bologna 9 lulio 1795.

In seguito di quest’ordine il vice consolo Agostino Ronchi andò dalle persone accennate e gli impose di non vendere grano senza ordini di sua Em.za e tenerli a disposizione di questo fornaio pubblico Giulio Viscardi.

Ciò però non quietò il popolo che mancava di farine quindi, arrivate nuove proteste novo al principe, arrivò al vice consolo quest’altro ordine.

Il sig Proconsolo di Castel S. Pietro farà immediatamente somministrare a Giulio Viscardi fornaro in d. luogo le corbe undici formento raccolto in quest’anno di parte dominicale nel podere Tassinari condotto in affitto da Sabatino Beltrandi, dovendosi dal d. fornaro pagarne l’importo in ragione del corrente calmiere, il qual importo si potrà da d. fornaro, in assenza del proprietario del grano, depositare in mano del sig. Proconsolo per pagarlo indi al med. proprietario, allorchè si presenti a riceverlo. Tanto è mente di sua Em.za R.ma Card. Legato. Bologna questo dì 21 lulio 1795.

Protestando ancora il popolo per la mancanza di farina venne questo altro ordine,

Sig. Proconsole pregiatissimo. È mente di sua E. R. il sig Card. Legato che ella intimi subito a cod. bottegari, sotto pena del carcere ed altre ad arbitrio della stessa E. S. R., di provedere imediatamente le loro botteghe di farina a norma dell’obligo da essi assunto, che è tanto più riprensibile che manchino, quanto che ne mesi addietro il Castello è sempre stato proveduto di grani forestieri e i bottegari giustificandone la gravezza vendano la farina con libertà di prezzo.

Se per provedere al momento vi fosse una qualche partita di fumanti, benchè eclesiatici, secolari o regolari, ella potrà determinarla segnatamente a favore de sudd. bottegari dando conto del quantitativo e de fumanti che avranno somministrato.

L’E.mo Card. Legato aspetta riscontro della esecuzione di questi ordini 22 lulio 1795.

Il 23 d. vennero i Tribuni e, trovate le botteghe mancanti di farina, citarono i delinquenti a dar ragione della loro mancanza a fronte dell’obbligo assunto.

Si scoperse in questo tempo una trama dell’arciprete Calistri avente lo scopo di opprimere la compagnia capata del SS.mo. Approfittando del fatto che questa aveva un debito col sig. Luigi Tassinari di 240 scudi, diede a intenderle alla Congregazione dei Vescovi e Regolari che questa era una compagnia torbida, litigiosa, insubordinata e, per i suoi debiti, impossibilitata a sostenersi.

Scoperta tale calunnia, si procurò il pagamento al Tassinari ed io ne feci, a rogito di ser Francesco Conti, la obbligazione a pagare il debito. Poi fu informato il Cardinale Braschi protettore della compagnia. Fu altresì accusata la compagnia di non ricevere correttamente nella sua chiesa e oratorio la Comunità di questo Castello quando andava alle funzioni. Si scoprì che l’arcivescovo Giovanetti pensava al modo di farsene rendere bon conto dalla compagnia, avendo già di ciò informatol’E.mo Braschi. La Comunità pensò a provvedere a tutto ciò e ricorse a Roma perché fossero mantenuti i suoi diritti di rito.

Faceva ombra e rabbia all’arciprete che la Comunità, quando va in modo ufficiale alle funzioni pubbliche, precede il clero ed è posta fra la religione più antica del paese ed il clero secolare, che quando è in chiesa tiene il tappeto paonazzo nel suo inginocchiatoio tanto nella chiesa di S. Francesco de M. O. quanto nell’oratorio. Il Consolo non ha poi altro di particolare che il cuscino davanti e di essere ricevuto all’ingresso della chiesa con l’acqua benedetta dal cappellano Tutte cose che non piacevano all’arciprete perché il suo operare è diretto solo al disprezzo delle persone, dei ceti ed alla conculcazione dell’onor divino e delle altre onorificenze.

La visita pastorale a Castel S. Pietro che era fissata per il 9 agosto fu differita al 24 dello stesso mese per essere stato L’E.mo Arcivescovo Giovanetti attaccato da raffreddore.

Il raccolto dei grani è mediocre e si teme assai per i marzatelli per la scarsezza dell’acqua.

Contemporaneamente l’arciprete Calistri fu accusato a Roma, avanti il Card. Segretario di Stato, di tante prepotenze e fu presentata la previsione, continuando la oppressione della compagnia di un tumulto popolare per essere questa la chiesa più frequentata dal popolo e la più devota nelle funzioni del paese. Fu accusato anche alla Congregazione del Concilio per tante sue nequizie.

Il tenente Gio. Francesco Andrini che aveva dato al S. Padre una supplica, a nome dei commercianti per avere una fiera annua di tre giorni in questo Castello, ottenne il favorevole rescritto il giorno 13 giugno.  Perciò fece affiggere tanto in paese che fuori i manifesti di avviso.

Codesto arciprete Calistri odiava fortemente la Compagnia del SS.mo.  Si scoperse un suo intrigo per toglierla ai confratelli, oppure sopprimerla. Aveva scoperto che il sig. Luigi Tassinari di Castel Bolognese andava creditore dalla compagnia per la somma di l. 240 qual successore mediato del fu sig. Giuseppe Rinaldi, esimio benefattore della Compagnia di cui ne era confratello, a motivo di danari pagati all’Ospitale della Vita di Bologna qual fidejussore di questa in occasione della fabbrica della chiesa e oratorio. Il Tassinari non aveva ancora avuto l’intero e fu spronato dall’arciprete fare un ricorso alla Congregazione de Vescovi e Regolari all’oggetto di pignorare la chiesa ed espellere la compagnia come quella che era impossibilitata a sostenersi. La supplica fu rimessa all’arcivescovo Giovanetti che, parzialissimo dell’arciprete e disinformato sulla povera compagnia, adottò la petizione del Tassinari. La Congregazione però sospese il suo voto. Intanto, venuto ciò a notizia di alcuni paesani e di me scrivente la presente memoria, sollecitai i capi della compagnia a fare a Roma le opportune istanze alla Congregazione suddetta, a quella del Concilio ed all’Uditore SS.mo per fare nei rispettivi tribunali il Nihil trasfeat e l’Advertatur.

In frattempo si prepararono i danari ed io mi offrii di sborsare le l. 240 al Tassinari col patto di subentrare nelle di lui ragioni ed avere da quattro confratelli l’obbligazione di pagarmi entro 4 anni il capitale ed anche il frutto di quello a die solutionis facto al Tassinari.

Da Roma intanto si riseppe che era già stata fermata ogni contraria esecuzione alla compagnia. Il Tassinari poi fu avvisato di documentare la risoluzione della S. Congregazione decisa in parte a suo favore. Si deduce da questa che la assegnazione di questo oratorio e chiesa era tutta diretta dall’arciprete.

Questi aveva fatto fare dallo statuario Filippo Scandellari[52] bolognese una statua di S. Giuseppe in conformità ed esecuzione della disposizione testamentaria di Mariana Cheschi fu Carlo di questo luogo da me rogata.  Non si trovava il posto ove collocare tale immagine, come non lo trova anche ora, e sono mesi che la conserva in casa per poterla poi fare benedire all’arcivescovo quando verrà in visita. In tale occasione pensava di farne fare il decreto che sarebbe stato inappellabile. Restò deluso e scorre già il mese di agosto che il cardinale, attaccato da asma, sta nel palazzo e a letto onde per quest’anno non si aspetta la visita in Castello già fissata per il 9 agosto poi protratta al 24 e finalmente sospesa ad mentem.

Nella lettera della Congregazione si vede con quale finezza macchinava per sterminare una compagnia che è il lustro del paese, che è quella che fa le sue principali funzioni, quella che è composta dal cardinale Chiaramonti, dal Card. Braschi Onesti, da molti nobili bolognesi, imolesi e pesaresi e da tante famiglie civili, quella che con singolare devozione conserva il culto al miracoloso crocefisso di questa terra. E perché mai questo? diranno i posteri che leggeranno queste memorie.

La corrotta corte del Cardinale con la sua sordida avarizia, le sue soperchierie e la giustizia guadagnata col danaro fa che il medesimo non ascolta i ricorsi, onde poi ne derivano odii ed iniquità.  Così si può dire coll’Ecclesiastico, vidi sub sole in loco juditii inpietatem et in loco justitie inequitatem, Che ottimamente parafrasò Filoteo Achillini nelle seguenti ottave:

In queste cose vane e incostanti

che abbondan sempre di perversi mali

vidi che di giustizia i luoghi sacri

contornati son da rai mortali

che alla bontà la frode è posta avvanti

e così opressa è la Ragion e vinta,

sogiace ai falsi doni in tutto estinta.

 Ma chi volesse dire di più, senza esagerare, non mancherebbe certamente la materia e voglia Iddio che tutto finisca bene.

Intanto passiamo a scrivere della proposta della fiera. Qui si faceva annualmente il giorno di S. Bartolomeo, una festa con i banchetti come a Bologna di cui già si scrisse nel primo secolo delle nostre memorie di Castel S. Pietro.

Parve al tenente Gio. Francesco Andrini, vedendo che ogni luogo del contado faceva una volta l’anno una fiera, poco onorevole che Castel S. Pietro, non fosse onorato di questa prerogativa, tanto più che la situazione del paese era più che opportuna. Quindi presentò supplica al S. Padre Pio VI il cui tenore è il seguente:

Alla Santità del S. Papa Pio VI felicemente regnante.

Li commercianti di Castel S. Pietro, legazione di Bologna e per essi Giovanni Francesco Andrini, umilmente prostrato a piedi della S. V., espone che per immemorabile consuetudine in d. Castello si fa una fiera il giorno di S. Bartolomeo 24 agosto, la quale non ha il concorso della mercatura per la ristretezza del tempo. Si suplica pertanto la S. V. degnarsi benignamente di accordare un prezioso Rescritto che la suddetta fiera si possa fare perpetuamente per lo spazio di tre giorni compreso il sud., potendosi formare in tal maniera un’ottima fiera generale, stante ancora la vantaggiosa formazione del paese, concedendosi tal grazia senza pregiudizio dei Dazi e Gabelle. Tanto si dà l’onore di implorare dalla sovrana magnificenza della S. V. intenta sempre al bene de suoi sudditi, per cui i sudd. sempre più porgeranno fervorose preci all’altissimo per la prosperosa conservazione della S. V. Che della grazia, quam Deus.

Il rescritto poi fu il seguente:

Ex audentia S.S die 19 junj 1795. Nunc audita Relatione et voto E.mi ac R.mi D. Card.Legato Bononie, benigne annuit pro gratia ampliationis nundinas pro diebus de quem antecedentibus solita celebrationem  videl die XXII et XXIII augusti juxta volut (…) E.mi Legati ac  presens Resch. sedet Loco Chirographi. Pro R.mo D. Card Cameraria A. Rusconus And. Die 13 Augusti 1795.

La sera del 17 agosto, a quattro ore e mezza di notte, Luigi Zamboni, carcerato da otto mesi per la tentata sollevazione di Bologna, era in una cella con altri due compagni.  Stanco delle angustie della carcerazione, riuscì a togliere una ferla dal tavolaccio ove dormono i carcerati. Con questa, dopo avere cercato inutilmente di fare una breccia per fuggire, disfece il tamarazzo su cui dormiva, si costruì una fune con la quale legò i due compagni poi si impiccò con un laccio fatto con le dette funi. I suoi compagni cominciarono a gridare che il Zamboni si impiccava, passò il rumore agli altri carcerati, che replicando le stesse parole si fecero sentire per tutta la contrada vicina.

Il card. Legato intese male questa morte causata, a suo parere, dalla indolenza del tribunale nello sbrigare il processo. Furono per ciò carcerati alcuni, ma a che pro. Quando è perduta l’anima, che giova punire chi non ha reato?  A Bologna si gridò e si protestò molto.

Venerdì 21 agosto la sera su le 23 giunse da Bologna un distaccamento di soldati del presidio sotto la condotta del sergente Alberto Cenacchi per guardare la nuova fiera che incominciò sabato 22. Il suo alloggio fu destinato in casa mia. I soldati appena giunti furono schierati presentando l’armi poi si prepararono per la diposizione della fiera.

Questa cominciava dalla porta di casa mia fino alla piazza. Sotto li portici vi erano i banchi preparati per i negozianti, che furono pieni di ogni sorta di merci. I macellai con una tenda stavano negli stradelli Graffi e Vanti ove era anche le sentinelle, altre erano all’imbocco della piazza, alla porta del quartiere ed alla porta del Castello.

Io fui deputato come giudice ordinario delle cause e questioni semplici e miste. La domenica mattina piovve e fu poco il concorso. Lunedì 24, festa di S. Bartolomeo, vi fu grande affluenza numeroso da ogni luogo a procurarsi di lane, saponi, coralli, merci e di ciò tutto che occorreva. Vi erano cinque argentieri bolognesi. Ogni banco pagava per il nolo un paolo al giorno. Il dopo pranzo vi fu un tale mercato di bovini, cavalli e bestie da soma che non si ricordava a memoria d’uomo. Tutto il mercato dei bovini era pieno, pure la via del Borgo e lo stradello morto. Piena era pure la strada circondaria della fossa del Castello dalla parte di ponente, cosi che fu incalcolabile il numero dei bovini. I mercanti più pratici delle fiere asserirono che si oltrepassò il numero di cinque mila capi di bovi, aggiungendo che la massima di Lugo nulla poteva competere con questa nei bestiami. I principali mercanti aggiungevano di non averne mai veduta simile in altri luoghi dello stato pontificio.

La via maggiore del Castello cominciando dalla porta del Castello fino alla piazza era coperta di un tendone di tela per difesa dal sole a comodità dei partecipanti.  Nella piazzola di S. Pietro nel Borgo c’era la fiera degli archibugi e armi d’ogni tipo purché non proibite. La piazza per i cavalli e bestie da somma era davanti alla casa Stella nella strada che va al fiume, opposta al mercato dei bovini. Tante altre minutezze si omettono per la loro quantità.

In questa contingenza furono arrestati due famosi giocatori di cordella e dei tubi che si possono dire ladri impuniti, il primo fu Crisistomo Pirani di Cento, l’altro Francesco Baraldi modenese.

 Furono da me fatti porre nelle carceri pubbliche di questa Comunità e poi diedi la relazione al Legato. Nella perquisizione gli trovarono danari entro le scarpe, 

Tante altre causette poi furono da me decise sul momento e così terminò la fiera. In seguito di esse io ne ebbi il riscontro dal comandante Conte Camillo Malvezzi, nel quale si lagnava della scarsa considerazione del tenente Gio. Francesco Andrini alle necessità dei soldati. La paga a medesimi fu due paoli il giorno per ciascuno, al caporale quattro paoli ed al sergente otto, oltre il cibo due volte al giorno e il vino, tutto a spese dell’Andrini. Partirono i soldati il martedì 25 agosto contentissimi del paese e dell’alloggio ove ebbero anche il comodo di letti e fuoco per farsi da mangiare. Consumarono tre corbe e mezzo di vino. La spesa per i militari ammontò a scudi 22.

Il 27 il tenente della squadra degli sbirri Carlo Chiegali venne a prendere i due carcerati, che, con ricevuta, gli furono da me fatti consegnare, come si conferma negli atti della podesteria.

Dieci giorni fa si era impiccato nella segreta l’infelice Luigi Zamboni che si voleva far capo della sollevazione a Bologna. Si trovò, scritta nella parete con una punta di ferla, la seguente memoria,

1795,  12 lulio

Apongo a sua infamia del dott. Antonio Suzzi della Molinella

contro li democratici bolognesi del 1794.

Impunito seduttore ed accusatore de propri fratelli.

Traditore della più sacra amicizia del proprio partito,

vile disertore, uomo iniquo e disleale

fratello disnaturato, finto amico e patriotto falso.

Scritto l’ottavo mese della sua carcerazione avvinto da catene

Luigi Zamboni democratico bolognese

Sotto poi vi era quest’altra inscrizione incisa

Joanni Erolandi pedemontanensi

Probo juveni, vero amico et frate democratico

monumentum gratie amicitie eternum potuit Aloisius Zamboni bonon.

Più sotto si leggeva questa altra, scritta da Vittorio Conti, diretta alla sua amata moglie

Angela Razani Conti

optima, dilectissima, venusta

monumentum eternum, catena aristocrat..

in carcere strictus posuit

A. Z. bononiensis

scripsit quia somniavit die 5 juli 1795.

In francese Ai piedi delle accennate epigrafi in francese era scritto cioè

Luis Zamboni, Libertè, Suretè, Egalitè.

In questo stesso giorno 27 agosto fu convocato il Consiglio della Comunità per prendere atto del decreto patito nell’Officio dell’Acqua per la manutenzione della via dei Confini con Dozza, presso la via Romana contro i terreni del Macchione.  Fu altresì informato che essendo morto monsig. Savacciani, uno dei cinque prelati componenti la congregazione deputata dal papa nella la vertenza con Poggio, era stato delegato al suo posto monsig. Alessandro Malvasia, fratello del segnalatore Conte Giuseppe.  La Comunità, avendo saputo che nel prossimo settembre sarebbe venuto a Bologna, deputò due consiglieri cioè il segretario Ser Francesco Conti, e me Ercole Cavazza per omaggiarlo, affinché ci fosse favorevole protettore. Come di fatti facemmo e, ricevutosi con ogni compitezza, volle essere informato a voce da noi e ci suggerì di fargli avere prima di Natale il resoconto che egli allora sarebbe a Roma e sarebbe stato per noi tutto propizio. Accolse poi la nostra proposta, che ottenuta la favorevole decisione si ponesse una memoria alla vista del popolo incisa in piazza.

Era venuto in testa ad alcuni paesani di coprire il fosso della chiavica maestra del Castello che parte dalla porta maggiore contro i casamenti del conte Stella e va fino alla voltata del Torrazzo contro il canale. Questo per evitare il fetore che talora emanavano le acque scolatizie del Castello. Il 12 settembre ne fu fatta la proposta in Consiglio, nel quale nacque qualche diverbio fra i consiglieri, ma la ostinazione del Consolo Floriano Fabbri fece sì che se ne facesse la richiesta all’Assonteria.  Si domandò che per la spesa che oltrepassava i cento scudi, si facesse il comparto nei Libri Camerali. Il Fabbri propose inoltre di ribassare anche la mura del Castello dall’angolo del mio orto mio fino alla strada dei Pistrini e poi con i materiali edificare una bettola nella piazza dei bovini. Questo fu da me impugnato e quindi non si procedette oltre.

Dovendo poi passare il convoglio dell’E.mo Card. Pignatelli, Legato di Ferrara, fu accompagnato da un distaccamento di cavalleria pontificia presente in questo tempo a Imola. Furono così impertinenti i soldati che vollero a forza dalla nostra Comunità i foraggi per loro e per i cavalli.

Si scoprì in questo tempo una epidemia di bestiami che veniva dal Piemonte. La Legazione prese grandi precauzioni mediante rigorosi Bandi.

In seguito si ebbero notizie di come i francesi facevano progressi nel genovese essendosi impadroniti di alcuni borghi nella riviera di quella repubblica. Si vide stampata per ciò in alcune gazzette la seguente profezia:

Anno 1791 et 1792.  Gallus suscitabit cum pace bellum.

1793. Gallus invadet magnam terre partem.

1794. Gallus habebit victoria.

1795. Crux et aquila suoniliabuntur.

1796. Crux et aquila exaltabuntur.

1797 et 1798. Gallus peribit.

Prophetia Abbatis Joachim

Poi se ne vide un’altra con il seguente titolo:

Prophetia inventa in tumulo monachi ungarensis qui habebatur dum vivebat ut sanctus,

Pose mille expletos a parte vigentis annos

et septingentos rursus ab inde datos

ochos pesimus octavus mirabilis annus

impruet et faciem tristia facta ferat

si non hoc anno totus malus obtruet ortis

si non …………………………

cuncta tamen mundi sursum abunt atque derosat

imperia et grandis undique luchis erit.

Tutti questi pronostici però ebbero ed hanno pur troppo finora sortito l’effetto, infatti si sentono calamità, crudeltà, empietà e barbarie tali, che chi leggerà la storia di questi tempi gli sembreranno quasi fatti favolosi ed incredibili.

Il 29 settembre i Padri de’ Servi di Bologna intendevano chiudere il vicolo che si trovava tra il loro piccolo fondo detto il Mercato, dietro il fronte del Castello denominato la Larga della Roccazza e compensare poi la Comunità col raddrizzare il semicircolo che fa il loro terreno difronte alla piazza dei bovini. Ne diedero perciò la supplica alla Comunità la quale si prestò a dire di sì, ma il Conte Stella fu negativo onde non se ne fece più niente. 

In questo tempo fu sospesa la questua dell’uva che facevano i frati di S. Bartolomeo per la compagnia del Suffragio. Questa questua fu introdotta da certo P. Giuseppe Vechi agostiniano bolognese ma fatto figlio di questo convento e sagrestano dal 1745. Fu zelantissimi del Purgatorio e si può dire il restauratore della compagnia cadente. Ma siccome divenne tanto petulante nel questuare, perdeva il rispetto di molti, tanto più che egli baciava tutti i donatori onde, per l’abitudine fatto di baciare la gente inavvedutamente baciò una donna contadina che fu mortificata. Le furono fatte satire per ciò e venne nominato fra Basilio.

 Quando andava in campagna prendeva con sé un certo Giuseppe Bergami, soprannominato Razzone, suo socio nel luogo detto la Scania di ragione del convento. Gli fu fatta la seguente ottava ed affissa di notte tempo alla porta del convento,

Allorchè il padre Vechi in birba andava

un paro di somar seco egli aveva

sovente sovra d’un ei cavalcava

e sovra l’altro il buon Razzon sedeva.

Giunto sull’ara, u il villanel spullava

la pala dal man tosto ei prendeva

e per che piena e colma gli è la faccia,

La nova statua di S. Giuseppe fatta di stucco dall’artefice Filippo Scandellari statuario bolognese era stata portata in casa dell’arciprete senza poter decidere in quale posto ed altare di dovesse collocare. Costò dodici scudi e fu un legato fatto dalla zitella Marianna Chechi figlia del fu Carlo, famiglia estinta come previsto nel suo testamento da me rogato anni sono. Fu benedetta in casa dell’arciprete dal sacerdote D. Luca Bartolotti bolognese e missionario che era qua a questo scopo. Fu poi trasportata nella chiesa della Annunziata nel Borgo. L’arciprete voleva che questa prima funzione fosse fatta dalla sua compagnia del Rosario escludendo la compagnia del SS.mo, quando nei decreti pastorali era stabilito che qualunque nuova funzione e processione si facesse in questo luogo dovesse essere diretta dalla compagnia del SS.mo. Quattro confratelli del SS.mo cioè Sandrone Alvisi, Pietro Oppi, Luigi Masi e Pietro Cervellati fecero formale istanza all’arciprete di non incominciare tale funzione senza la compagnia del SS.mo altrimenti sarebbe accaduto uno scandalo e si sarebbero adoperate le mani contro la compagnia del Rosario.

L’arciprete ciò intese e, fosse che egli temesse questo sconcerto o che temesse l’indignazione dell’Arcivescovo per la trasgressione dei decreti, il giorno preventivo alla festa di S. Simone anzi la sera di nottetempo fece all’oscuro riportare l’immagine di S. Giuseppe nella parrocchia e la collocò all’altar maggiore alla pubblica venerazione senza alcuna processione.

Quello che fece impressione a tutti nel paese fu quello di vedere tutti i contadini della compagnia del Rosario, che erano già stati invitati per tal funzione, arrivare con la cappa sotto il braccio ed il lume e poi ritornarsene a casa senza aver fatto nulla. Terminato il giorno di notte tempo si levò la statua dalla chiesa e non si seppe poi dove fosse stata collocata. L’intenzione dell’arciprete era di collocarla nell’oratorio e chiesa della compagnia del SS.mo allorché fosse stata soppressa, come aveva macchinato e avrebbe dovuto accadere nella visita pastorale preparata nella estate passata e che andò poi a monte.  Nel frattempo si era anche scoperto il maneggio con il Tassinari di Castel Bolognese come dicemmo.

Il 28 ottobre giorno di S. Simone il nuovo Card. Legato Ippolito Vincenti fece la sua solenne entrata in Bologna in qualità di Legato apostolico e fu incontrato fuori di strada Maggiore ed accompagnato dal Senato alla sua residenza con tutto il seguito ministeriale.

Il 9 novembre il Padre Tomaso da Castel S. Pietro, dell’ordine cappuccino, fece le sue conclusioni teologiche nelle pubbliche scuole di Bologna dedicate all’E.mo Card. Duca d’Iliore sopra gli attributi di Dio, sopra l’augustissimo mistero della SS.ma Trinità, sopra il mirabile mistero della Incarnazione e ciò si eseguì nella chiesa del Bon Gesù e riscosse un universale e singolare plauso. Questo giovine è di ottimo talento ma di scarsa comunicativa, figura perciò nella Religione moltissimo ed è di buoni costumi e temperamento forte, egli è figlio del fu Ottaviano Delfoco e di Umiltà Lucarelli, il primo è di famiglia antica di Castel S. Pietro, l’altra è di nazione fiorentina.  Padre Tomaso al secolo aveva nome Luigi nato a battezzato in Castel S. Pietro.

Il suo mecenate è stato ed è l’incomparabile e piissimo senatore Piriteo Malvezzi che da fanciuletto lo prese ad amare per essere figlio del detto Ottaviano uno dei suoi mastri muratori e selciai nella impresa di Castel Guelfo. Dagli libercoli stampati si vede e si legge tutta la materia su cui è consistita la sua disputa. Non andrà molto che diverrà Lettore. Altre dispute pubbliche ha fatto a Ferrara con acclamazione ed onore del paese e della Religione.

Perché il male nei bovini faceva strage nel Piemonte e si temeva perciò che si inoltrasse nei nostri stati, essendosi con Bandi provveduto all’introduzione die bestiami, restava soltanto da istruire le genti per la qualità dei mali.  Il 16 novembre fu pubblicato un istruttivo editto. In seguito la nostra Comunità chiamò a sé tutti codesti maniscalchi, gliene fu data copia e gli si ordinò la sua stretta osservanza. Pure al Massaro fu imposta una diligente osservanza e di quanto in quanto la visita alle stalle di questo nostro territorio.

Il di 20 novembre venne una orrida neve alta più di un piede, durò due giorni a nevicare, poi seguì un vento sciroccale che la distrusse e perciò vennero piene nei torrenti e nei fiumi.

Il Cavaliere e Principe Alessandro Falconieri Generale delle Poste Pontificie aveva fatto istanza al S. Padre Pio VI per il ricorso fattogli dai Mastri di Posta della Marca, Romagna ed altri fino a Roma a motivo che la via consolare era maltenuta ed in alcuni luoghi impraticabile. Si chiedeva di accomodarla in quei luoghi ove era troppo stretta, ove era senza fossi e scoli o bipartita in due vie, cosicché accadevano spesso intoppi, incontri funesti, pericoli e ritardi dei viandanti per la loro speditezza del viaggio. Il papa accolse il ricorso ed ordinò con bando sovrano l’allagamento della strada ove necessario fino alla larghezza di 25 piedi.

Ordinò anche alle proprietà fronteggianti l’abbattimento delle alberature che le facevano ombra per cui si asciugava male, eccettuati i mori e i pioppi.  In caso di rifiuto incaricò le Comunità di procedere more principis et manu regia. Ordinò poi l’allungamento dei ponticelli che attraversavano la via e di sprofondare i fossi, il tutto a spesa delle Comunità fronteggianti. Ciò si eseguì nel territorio di Dozza, ma nel nostro di Castel S. Pietro nulla si fece e per ciò vi fu mormorio.

Il dott. Gaetano di Francesco Conti nostro compatriota, già fatto Lettor pubblico di Medicina, diede il  10 dicembre nella Università di Bologna, la sua prima lezione Questa lezione la fece nel teatro anatomico, dove che mai più fu fatta lezione da alcun pubblico lettore.  Fu fatta davanti al Confaloniere Vitale de’ Buoi, altri senatori, il suo seguito e molti altri lettori pubblici. Questo nuovo lettore che corrispose con sapienza ed eloquenza alle aspettative, così che il collegio medico lo onorò del titolo di Eccellente Giovane e riscosse grandi onori.

Il 16 dicembre fu estratto Podestà di Castel S. Pietro il cavaliere, conte e senatore Vincenzo Graffi e così terminò l’anno 1795 di nostra salute.

Gennaio 1796 – Giugno 1796

Intenzione di fare un nuovo teatro. Arrivo di truppe al soldo degli inglesi. Compagnia di emigrati, loro divise. Varie colonne di cavalleria napoletane verso la Lombardia. Comandi per carriaggi. Termine vertenza tra comp. SS.mo e Luigi Tassinari. Sentenza su compagni di Zamboni. Impiccagione di De Rolandis e immagine di Zamboni. Riparazione strada di S. Carlo. Notizie di vittorie francesi. Napoleone a Milano. Francesi a Parma. Vari tridui per attuali gravi contingenze. Bando Monte di Pietà per ritiro beni. Tentativo di trattare per evitare invasione degli stati della Chiesa. Richiesta di 40 milioni di scudi e opere d’arte. Notifica di fare elenchi argenterie celle chiese. Bando segreto da aprire domenica 19 giugno, era su seta e bachi.

Il primo gennaio entrò Consolo Lorenzo Trochi per la seconda volta e Podestà Il senatore Conte Vincenzo Graffi che nominò per suo notaio il sig. Antonio Giorgi

Essendo passati alquanti anni senza carnevale e festeggiamenti, alla fine di questo mese fu autorizzata la maschera. Si fecero perciò mascherate per il Castello e Borgo con carrozze e cavalli, feste da ballo e rappresentazioni in teatro.  Ma perché il teatro attuale, che era sopra l’abitazione dei macellai e una volta sopra le due porte maggiori del Castello, era angusto, fu proposto di farne uno di pianta nuova oppure trasferirlo dove hanno presentemente residenza le guardie della Ferma Generale di Bologna. Fu proposto di edificarlo nelle mie case mie dietro alle mura fronteggianti la piazza del mercato dei bovini dalla parte di ponente nell’angolo inferiore del Castello.  Un’altra proposta prevedeva di farlo entro il torrazzo dell’angolo inferiore del castello dalla parte di levante, nella piazzetta dietro al palazzo Malvezzi, ora mio. Di questo progetto ne fu autore il Trochi che ne fece fare il disegno, ma non fu plaudito per la sua ubicazione e per la spesa. Sopra gli altri due progetti fu fatto il disegno dal perito Vittorio Conti. Sinora nessuno si effettua per difetto di danaro e comunque nel paese si sono formati due partiti.

Le vicende del mondo stanno andando di male in peggio. Le truppe francesi si sono inoltrate nel genovese contro le imperiali e inglesi. I francesi hanno chiesto alla Repubblica genovese le fortezze, gli furono negato quindi, temendosi attacchi anche dalla parte marittima, gli inglesi pensarono di fortificare la Corsica levata a francesi col mandandovi truppe. Fu chiesto il passo al Duca di Toscana, ma fu negato. Si ricorse per ciò alla S. Sede che non fu restia.

Quindi gli inglesi, assoldati duemila svizzeri per mandarli in Corsica, dovevano imbarcarli a Civitavecchia essendogli stato negato il transito per la Toscana. Il papa nominò perciò il capitano Martini in qualità di commissario e l’aiutante Renò con due altri officiali i quali vennero a Forturbano a ricevere la suddetta truppa ed assisterla in tutto l’occorrente per il viaggio fino a Civitavecchia. La truppa era divisa din due reggimenti distinti. I due regimenti sono chiamati uno Royal Etranger e l’altro Ghiringam.

Il 29, ultimo di giorno di febbraio giunse ordine al Consolo Trochi di preparare bovi e comandare villani per ricevere l’equipaggiamento militare e condurlo fino ad Imola col pagamento ai villani di un paolo per miglio per ogni coppia bestie. Fu pubblicato l’editto pontificio con altri provvedimenti relativi alle truppe e quartieri militari.

Dovevano essere qui il 6 marzo ma la neve, che sta cadendo già dal primo giorno del mese, ha impedito la venuta che si attende solo per lunedì 7.

Il Bando su accennato fu anche fatto affiggere nelle Comunità vicine di Liano, Casalecchio, Varignana.

Lunedì 7 marzo su le 19 giunse l’avanguardia del regimento Renò e dopo un’ora arrivarono 480 pedoni metà fucilieri e metà granatieri ben forniti di monture ed armi bellissime con berrettoni alti rotondi, diversi da quelli comuni, con fiocchi bianchi. La montura era rossa trinata di cordella bianca. Avevano con sé sei grandi carri da trasporto e la cassa militare e delle munizioni in un carro tutto coperto di tela cerata e verniciata di rosso che fu portato dietro i palazzi Malvasia e Locatelli, guardato sempre da due sentinelle con fucile una e l’altra con sciabola sguainata.

L’ufficialità alloggiò tutta nel palazzo Malvasia, le donne e i malati nel convento di S. Francesco, gli altri soldati nel palazzo Locatelli nei suoi pagliericci, essendogli stato somministrato dal nostro pubblico dieci libbre di paglia per ogni soldato.

Aveva questo distaccamento due medici e due cappellani, la bandiera del Sovrano Giorgio Re d’Inghilterra, e la sua banda di trombe, corni, clarini, fagotti, timballo e zufoli oltre ai tamburi e plettri suonati da un moro. Tutta bella gente, ben fornita di abito ed uniforme scarlatta e rovescio turchino trinato d’argento. I calzoni, turchini di colore, erano tutti lunghi fino ai piedi all’uso degli ussari. Fra questa truppa vi erano emigrati francesi che, per distinguersi dagli altri, portavano in capo un berrettone rotondo di pelle di lupo cerviere (lince) con la coda che gli pendeva di dietro. Questi emigrati sono quelli che accompagnarono il Re e fecero baruffa tanto contro i repubblicani allorché vollero carcerare il povero Re e poi con gli svizzeri che erano la sua guardia. Andarono sotto la condotta del Conte di Condé[53] fratello del Re e fecero guerra unitamente agli imperiali contro i sanculotti o repubblicani francesi ed ebbero la peggio sulle rive del Reno.

I militari componenti la banda alloggiarono dai cappuccini e così le case dei paesani furono esentate da questo incomodo. I cariaggi, ove era tutto il bagaglio, stettero sparsi nella piazza entro il Castello, guardati da sentinelle, Nel palazzo Locatelli furono messi diversi banchi per la distribuzione di carne, commestibili, vino, caffè ed altre vettovaglie. Fu assegnato a ciascuno il rispettivo posto dal senatore Filippo Bentivoglio avente titolo di Giusdicente con ampie facoltà. Il nostro fornaio Giulio Viscardi diede una pagnotta ad ogni soldato del peso di tre libbre e mezzo l’una. Il fornaio vendeva questo pane grande alle persone particolari che lo volevano, a nove soldi l’uno ma ai soldati lo vendeva a sette soldi. La paga militare, comprensiva della pagnotta e di una libbra di carne, era di soldi ventotto e mezzo per ogni soldato.

Partirono il mercoledì 9 marzo alle 13 della mattina e non diedero alcun danno. Nella partenza come nell’arrivo furono scortati da sette dragoni pontifici a cavallo. 

Mercoledì 9 nonostante la neve giunse su le 17 avanti mezzodì un altro distaccamento di 250 pedoni di ed alloggiarono come sopra, poi partirono il venerdì alle 11 ed alle 19 giunse un distaccamento di 400 fucilieri con l’avanguardia dei suddetti dragoni ed alloggiarono negli stessi palazzi con la ufficialità, le donne e gli ammalati invece in S. Francesco. Questi avevano quattro carri con fucili e poco bagaglio.

Il 12 marzo, domenica di Passione, partì questa colonna di inglesi per Imola alle ore 13 ed alle ore 19 giunse un’altra colonna dello stesso reggimento preceduta dai dragoni pontifici a cavallo ed alloggiò nei medesimi palazzi e poi stette fino al 15.

 Martedì mattina su le ore 18 giunse una nuova compagnia di emigrati in numero di 400 con la sua banda e la bandiera del Re d’Inghilterra. Questi erano denominati Cacciatori, avevano il fucile corto, baionetta e sciabola, l’uniforme era tutta rossa di taglio corto, la divisa gialla, il capello rotondo con lo zuccolo alto trinato di bianco, con una coda di orso sopra che formava una cresta e sembrava un elmo. Erano divisi in due gruppi uno di granatieri che aveva tutti lo zuccolo del capello ricoperto all’interno d’una fascia di fettuccia di pelo di castoro e nella parte davanti aveva l’immagine di una granata, che splendeva come una stella, nel resto il capello era come gli altri già descritti con la coda di orso che formando una cresta sembra una celata. Gli altri fucilieri avevano la coccarda nera. Questo battaglione aveva con una banda altrettanto numerosa con ogni strumento da fiato e tamburo con lo stemma d’Inghilterra.  Era vestita tutta di panno turchino strinato di striscia bianca ricamata.

La sera stessa nove granatieri disertarono fuggendo verso la collina tenendo la via di Firenze per la via di Viara. Furono subito inseguiti da un picchetto di dieci fucilieri con cappellano.

In questa colonna vi erano il Duca Chelus e il Principe di S. Clù (Cloud?).

Giovedì 17 alle 12 partì la suddetta colonna per Imola ed alle ore 12 dello stesso giorno giunse l’ultima colonna di simile uniforme, aveva questa con sé solo due tamburi che continuamente batterono venendo da Bologna a questo Castello e cosi fecero le altre colonne. C’erano in questa dei nobili francesi che portavano il distintivo del loro ordine in petto e furono il Principe di Comoransì che aveva avuto una contesa per la corona col fratello di Luigi XIV. Partì questa il sabato mattina alle ore 12 e fu il 19 marzo.

Il 23 venne l’ordine di prepararsi per l’arrivo il 6 aprile di una cavalleria napoletana in numero di 10 mila, in più colonne, proveniente da Napoli per andare nella Lombardia.  Per questo arrivo fu spedito qua l’agente di casa Caprara che si fece fare la obbligazione dagli osti del Borgo Nicola Farnè e Gaspare Sarti per la fornitura di fieni necessari. La valutazione fu per il fieno l. 4 per cento e l’orzo l. 10: 16 la corba, cioè soldi 13 per quartirolo per sei squadroni di cavalleria di sua Maestà siciliana, essendo 60 cavalli per ogni squadrone.

Lunedì 28 marzo la notte venne una grossa neve ma durò poco poiché il giorno seguente si squagliò tutta. È da notare che il giorno 19, festa di S. Giuseppe, non era stata fatta la processione prevista fin dall’anno scorso per non dare valore alla compagnia del SS.mo Ss.to per le processioni e le nuove funzioni, essendosi fatto parecchio mormorio tra la popolazione anche quest’anno. Per ciò furono carcerati alquanti sussurroni del Castello ma poi rilasciati per evitare altra inquietudine alla popolazione.

Mercoledì 30 marzo, con il proposito di avere un nuovo teatro, il Consolo Lorenzo Trochi cominciò a far tagliare internamente i grossi muri del torrazzo o baluardo nell’angolo sinistro inferiore del Castello su disegno di Vittorio Conti.  Ma sono di così dura materia, che bisogna usare degli scalpelli.

Il 31 si sparse la notizia era già stata fatta la pace universale fra i repubblicani francesi, l’Imperatore, l’Inghilterra, Torino e le altre potenze alleate per reprimere la sollevazione e l’assemblea di tutta la Gallia[54].

Mercoledì 6 aprile venne il senatore Filippo Bentivoglio deputato dall’Assonteria di Milizia a preparare i quartieri per la truppa a cavallo napoletana che andava in Lombardia. Si convocò il Consilio nel quale intervenne il senatore, che presentò una nota di letti, biancheria ed altri utensili domestici per mandarli nei palazzi Locatelli, Malvasia e Stella per esentare i paesani dagli incomodi della soldataglia. Si fece una spartizione tanto di biancheria che di letti, coperte ed altre cose a diverse famiglie del paese. Fu convenuto che se tale roba andasse persa o fosse danneggiata pagasse la Comunità poi rimborsata dalla Assonteria. Per effettuare questa operazione furono deputati, in presenza del senatore, il Consolo Trochi, Agostino Ronchi e Francesco di Pietro Conti.

Giovedì 7 aprile ad ore 16 giunse l’avanguardia della cavalleria e furono i cavalli alloggiati nelle stalle dell’osterie del Portone e della Corona. Al Castello fu comandato di trovare i carri e i bovi occorrenti per il trasporto del bagaglio dando per paga a villani dodici bajocchi per miglio fino alla osteria della Campana per i giorni 7, 9, 11, 13, 15, 17, 19 aprile.

Il giorno 8 aprile su le 20 giunse la prima colonna della cavalleria napoletana, brutta gente, mal in ordine con cavalli mediocri e bagaglio miserabile. L’uniforme era turchina cordonata di rosso nelle cuciture, corta come un corpetto e aveva una fascia rossa alla cintura, il cappello era grande e senza bordo. Restò alloggiata tutta nelle locande del Borgo. Non fece né male né bene al alcuno, onde tutto il gran preparamento fatto fare dal senatore Conte Filippo Bentivoglio a nulla valse.

Il sabato mattina questa colonna partì alle ore 12 senza fare alcuna mostra come quando giunse che solo prima di entrare in Borgo si fermò al mulino e si schierò in una sola fila per contare il numero dei militari. La sua bandiera era bianca ricamata d’oro ma piccolissima, larga come un fazzoletto da naso, così che era e sembrava a tutti ridicola. Lo stesso giorno, 8 aprile fu convocato il Consilio dal Consolo Trochi ed espose in esso, radunato in numero di nove consiglieri, l’istanza da presentare al Cardinale dal Ronchi e dal legale Serafino Betti. Contemporaneamente fu affisso il Bando della Legazione sopra il passaggio delle truppe.

Domenica 10 aprile su le 16 arrivò la seconda colonna di cavalli napoletani in 140, gente tutta mal corredata con la bandiera simile alla prima e pure l’abito con pochi cariaggi.

Il senatore Bentivoglio, a causa del memoriale contrario datogli da tutta la Comunità, non si vide in paese ma venne il sen. Conte Carlo Caprara, uomo piuttosto bestiale e grossolano che non ebbe riguardo a minacciare il Consolo Trochi di farlo legare e pure il segretario della Comunità ser Francesco Conti a motivo del memoriale dato contro il suo compagno. In seguito venne una lettera dall’Uditore di Camera Berni delli Rutony diretta alla Comunità, che rispondeva al suddetto memoriale.

Si accennava in esso alla compiacenza del Papa per il maneggio del Conte Bentivoglio, poi riprendeva la Comunità per avere dato tale supplica al Cardinale ed infine che la istanza fatta era originata da alcuni individui della Comunità, che non amavano la subordinazione.

Si rispose a tutto e segnatamente all’argomento della insubordinazione dicendo che il trattamento al comune di Castel S. Pietro si doveva fare umanamente conforme la lettera apostolica di Nicolò V Papa, riportata nello Statuto di Bologna, affinché il paese avesse più felice sviluppo.

Lunedì 11 aprile partì la colonna, in cui c’era il Viceré di Napoli attesoché erano venute cattive notizie per i progressi dei francesi nel genovese ove gli austriaci furono chiamati alla difesa Genova.

Martedì 12 venne il sen. Bentivoglio, non ostante il memoriale datogli contro dalla Comunità, ma però come si suol dire, castrato. Al suo arrivo il Consolo Trochi gli diede il ben tornato. Questi rispose: Sono il Senatore Bentivoglio, ed il Trochi, quantunque uomo poco esperto nella diplomazia, replicò Ed io sono il Consolo di Castel S. Pietro ai comandi dell’Ec.za V.ra, della Sig. di Assontaria e del sig. Cardinale Legato e qui finì tutto.

Lo stesso giorno alle ore 19 giunse la terza colonna della cavalleria siciliana tutta bagnata per lo scroscio d’acqua e tempesta seguita. Alloggiò nei soliti quartieri. La sera il comandante dei dragoni pontifici di nome Fioravanti, raccomandato a me dal comandante Borgianelli di Monte Lugone, mio amico, diede in casa mia una festa da ballo ai suoi ufficiali e la mattina seguente alle ore 11 partì per Bologna con la cavalleria.

Giovedì 14 aprile giunse la terza colonna alle ore 20 ed alloggiò ai soliti quartieri.

Intanto era giunta lettera dall’Assonteria di Governo diretta alla Comunità sopra il ricorso fatto.  Il Consolo Trochi col cap. Pier Andrea Giorgi e me Ercole Cavazza si presentarono al senatore Bentivoglio che, 

capacitato del motivo per cui era accaduto il ricorso, promise di porre tutto in silenzio.

Martedì 19 aprile alle ore 12 partì l’ultima colonna della cavalleria napoletana per Bologna e così tutto finì.

La vertenza che esisteva tra questa compagnia del SS.mo e il sig. Luigi Tassinari, di cui si scrisse l’anno scorso, oggi è stata terminata col pagamento di duecento scudi dei quali, non avendo la compagnia che 80 scudi io diedi gli altri 120, e così fu del tutto liberata la compagnia. La mia sovvenzione dovrà poi essermi rimborsata a scudi 40 l’anno in tre anni.

Il 13 aprile si diede esecuzione alla sentenza dei rivoluzionari di Bologna, compagni di Luigi Zamboni. Il primo fu Giovanni de Rolandis da Asti piemontese, collegiale del Collegio Ferrero di Bologna detto della Viola[55], che fu impiccato nella Montagnola con accanto un pupazzo di stracci imitante il già Luigi Zamboni. I tre fratelli Suzzi della Molinella furono condannati il primo alla galera per anni cinque, il secondo in fortezza per anni 10 e l’altro al perpetuo esilio dalla provincia di Bologna. Il Bambocci di Ancona con il dott. Pietro Gavasetti bolognese alla galera per anni cinque, il dott. Angiolo Sassoli bolognese agli esercizi per tre mesi. Le donne cioè Brigida Zamboni, madre del Luigi con la figlia furono condannate a vita nella casa di correzione di Roma.

Il 20 aprile, attesa la penuria d’acqua e le grandi rughe che corrodevano le foglie agli olmi per cui le bestie si vedono in pericolo di mancanza di cibo. Si fece quindi un triduo a Maria SS.ma del Rosario esponendo alla pubblica venerazione la sua Immagine e il mercoledì si diede la S. Benedizione all’altare maggiore della parrocchia. In questi giorni faceva gran freddo e spiravano venti rigidi.

La sentenza di cui sopra è stata solo adesso resa pubblica ed è quella qui riportata così come si è avuta dall’ufficio.

Giovanni de Rolandis di anni 22 collegiato del collegio Ferrero alla morte su la forca.

Luigi Zamboni che si uccise da sé, effigie dipinta nell’esterno delle carceri.

Dott. Antonio Suzzi della Molinella fortezza per anni 7 poi esilio dallo stato pontificio.

 Brigida Zamboni, madre del sud. con Barbara Borghi, mendicanti in vita da (…).

 Antonio Farnè e Camillo Galli, che dovevano fare da carnefici al Legato, V. Legato, Confaloniere e Uditore, criminali sotto la forca, furono salvati per nullità del processo, avendo l’Uditore scritto le deposizioni delli sud. in causa propria mentre il reo Galli disse che doveva anco impicare il med. esaminante; poi  in galera in vita sotto bona custodia.

Camillo Tomesani, galera per anni 10 con Giuseppe Suzzi fratello del sud., poi esiglio dallo stato pontificio.

Tomaso Bambocci da Ancona e dott. Pietro Gavasetti galera per anni 5 poi esiliato come sopra.

Filippo Marzochi repertus non culpabilis.

 Dott. Angiolo Sassoli dimittat. ad mentem E.mi et ad exerciziam.

Alessio Succi della Molinella fratello delli sud. esiglio come sopra.

Luigi Montignani e Giovanni Calori dimittatur exilio satis.

Giovanni Osbel tedesco e Gio. Battista Neri esilio come sopra.

Giacomo Comaschi carceriere per che sciolse la catena al Zamboni onde si appicasse ad opus per anni tre.

Tutti li accenati sono bolognesi ecetto quelli che si è notata la sua patria.

Angela Conti moglie del devito Vittorio Conti fu asoluta.

Sabato primo maggio si andò a prendere la S. Immagine di Poggio per le rogazioni.

La strada di Medicina, detta volgarmente di S. Carlo, era ridotta in condizioni disastrose per non esservi mai stato fatto alcun beneficio. Due anni fa furono fatte istanze al card. Legato Andrea Archetti che le rimise all’Officio Acque. Fu decretato il risarcimento e ne fu delegato il tenente Gio. Francesco Andrini per soprintendente.  Allo stesso fu accordata una parte della inghiarazione di Castel S. Pietro da farsi ne luoghi necessitati. L’Andrini, essendo la strada in alcuni luoghi angusta, ottenne dai frontisti, coll’approvazione dell’Officio Acque, di chiudere i fossi da una parte. Il massimo benefattore fu il marchese Annibale Banzi e mons. Banzi suo fratello, possessori di un lunghissimo tratto di terreni da Poggio fino a Castel S. Pietro. Il 2, domenica mattina, l’Andrini fece pubblicare la nota dei villani tenuti al lavoro.

 Il 3 maggio, primo giorno delle Rogazioni, venne nova come i francesi avendo dato una battaglia in Piemonte, ove erano tre generali austrosardi ed imperiali[56]. Furono soccombenti gli austriaci con perdita di un reggimento intero del comandante Argentò[57] che fece tradimento. Le perdite fra prigionieri e morti furono 22 mila. il generale Colli[58], ed il generale Buliò[59] tedesco, avendo preso il posto della Rochetta, convenne loro fermarsi per la sua difesa. I francesi erano 180 mila, gli austriaci non arrivavano a 100 mila onde, accostatosi per altre parti i francesi a Torino, convenne al Re domandare la pace la quale sta in potere della assemblea francese[60].

Per effettuare la quale il generale francese ha voluto in ostaggio Tortona con la fortezza, Cuneo, Mondovì, Ceva ed alcuni altri luoghi da esso presi e resta fermo a 15 miglia da Torino. Si teme ora che invadano gli stati pontifici, perciò si fanno devozioni per lutto. A Castel S. Pietro si trattiene la B. V. di Poggio per un triduo e stette fino alla domenica del corrente maggio. La Comunità in forma intervenne ricevuta alla porta della chiesa dell’oratorio con l’acqua benedetta, assistette a tutta la messa solenne in musica celebrata dall’arciprete Calistri. Ricevette la Comunità, oltre l’acqua benedetta anche la Purificazione presente l’arciprete.

La sera di lunedì 9 maggio fu tutto il paese in commozione a motivo che Luigi Visibelli, pastarolo di paste all’uso di Puglia, raccontò per cosa certa che i francesi erano avanzati fino a Modena con un corpo di 15 mila militari facendo fuggire la gente. Era però vero che solamente questo corpo si portò all’interno di Parma. L’ambasciatore francese, ricevuto a Colorno, chiese a titolo di sussidio per la truppa 36 milioni di lire e la fornitura del cibo. 

Il Duca gli fece presente che per la pace seguita fra l’Assemblea francese e la Spagna[61], alla quale apparteneva il ducato di Parma e Piacenza, non doveva dargli nulla. Il comandante replicò che non a titolo di contributo ma a titolo di sussidio gli chiedeva tanto. Il Duca per ciò gli fece pagare immediatamente 400.000 scudi, 28 bovi, vino e molta farina. Ottenuto ciò il corpo venne alla volta di Modena e Reggio feudi imperiali. Il duca di Modena Ercole I d’Este[62] partì per Venezia il sabato notte con la moglie per assicurarsi della vita. Entrò in Bologna alle 5 e alle 6 partì per la porta di Galliera verso Ferrara. Il marchese Rangoni con altri nobili modenesi e reggiani partirono per Firenze.

Il 10 sera si quietò poi lo spavento quando si intese che nella pace, seguita pochi anni fa tra la Spagna e la Assemblea della Repubblica Francese, fu incorporato lo stato e ducato di Parma e Piacenza nello stato pontificio confinante onde si misero in quiete gli animi della nostra popolazione e si rasserenarono tutti.

Ma chi si può fidare di gente senza legge e senza Capo, che tante e tante volte nella presente rivoluzione ha mancato nelle parole ed ha vinto con il tradimento?

Giovedì 12 maggio stante le notizie cattive che si erano avute ed avevano dei progressi dei francesi nella Lombardia austriaca ove si erano impadroniti di Cremona, Lodi ed altre città e minacciavano il mantovano, si pensò da alcuni devoti del nostro Castello di fare un triduo di suppliche a M. V. detta del Soccorso nella chiesa della soppressa compagnia di S. Caterina. Questo si effettuò e fu portata la S. Immagine dalla sua nicchia all’altare maggiore della sua chiesa il sabato santo vigilia delle S. Pentecoste, ove stette esposta fino al lunedì sera. Si diede qui la S. Benedizione col SS.mo. Vi fu concorso grande di popolo ed abbondanza di messe. Erano 24 anni che non si era mossa dalla sua cappella.

Durante questo triduo, il giorno 15 maggio si ebbe l’infausta nuova come Milano era stato circondato dai francesi e che il loro generale Bonaparte le aveva intimato la resa imponendo una contribuzione di danaro impossibile da soddisfare.  I francesi avevano abbattuto tutti gli stemmi dell’Imperatore e delle aquile, e avevano predato molte casse d’argento con altri bottini. Nella città erano i nobili che facevano le sentinelle e non i popolani per tema di una rivoluzione. Il generale Buliò austriaco si era ritirato verso il Piemonte ma con poca gente e con la sola speranza di avere un tardo soccorso dalle parti di Mantova e scarso in proporzione della moltitudine francese.

 I nostri bolognesi, temevano anch’essi di una ritirata dei francesi dal milanese, stanno in gran timore del popolaccio, e per ovviare ai disordini che in questi frangenti accadono fanno battere moneta d’oro e argento con le argenterie pubbliche oltre l’avere preso in prestito da genovesi settantamila scudi.

Da Bologna sono partiti e partono molti poveri francesi emigrati e preti deportati, il mondo è in gran conflitto. L’ira di Dio è sopra la terra. Non si vede scampo se non per un miracolo. Anche Bologna si sono abbattute gli stemmi augustei e tutti quelli che portano l’aquila per timore di una insurrezione a favore dei repubblicani francesi.

In questa contingenza furono spediti quattro senatori alla volta di Parma per esaminare la situazione. Si dice che si presentano col nome di repubblicani bolognesi o come indipendenti dal Papa. Sono questi i senatori Lodovico Savioli, Conte Carlo Caprara, Vincenzo Marescalchi e Conte Giuseppe Malvasia.

Il 16 maggio, seconda festa delle Pentecoste, era terminato il triduo fatto a M. V. del Soccorso in questa chiesa di S. Caterina. Ogni sera si era fatto la benedizione col venerabile che fu custodito in quella chiesa ogni notte, avendovi l’arciprete fatto fare in aderenza la abitazione di un custode.  Quantunque il giorno fosse piovoso si diede finalmente questa sera con la S. Immagine la benedizione al popolo in mezzo alla strada dopo 24 anni che ciò non si era fatto.

Il 17 poi, ultima festa di Pentecoste, fu chiamato Consiglio, in esso fra le altre cose il Consolo Trochi propose di fare un triduo nella presente situazione di crisi della Francia con la chiesa e le potenze cattoliche per la quale era tutta in scompiglio la provincia di Bologna. Si sentivano rivolte le armi contro lo stato pontificio e nel modenese dove Modena era stata dichiarata città di conquista francese. Fu perciò determinato che il Consiglio in forma si sarebbe portato il terzo giorno alla solita visita all’altare di S. Bernardino nella chiesa dei francescani. Fu inoltre deciso che se il triduo si fosse fatto ad onore dei santi Bernardino e Pietro protettori del paese, la Comunità avrebbe contribuito dalla propria rendita con sei candelotti di cera di una libbra l’uno da portare il giorno della visita.

Il giorno 20 d. si cominciò il triduo dando ogni sera la benedizione col SS.mo all’altare della Comunità.

In questo tempo si pubblicò un bando dai Monti dei Depositi o sia di Pietà di Bologna di dovere entro tre giorni riscuotere i pegni di argento ed oro, altrimenti sarebbero stati banditi. Nello stesso tempo girava un foglio per la città e le contrade sopra la libertà. Si diceva provenisse da Genova ma pur troppo si crede nato in Bologna.

Il bando del Monte di Pietà avendo fatto nascere a Bologna un sospettoso sussurro della prossima invasione dei francesi e fu in qualche pericolo la città. Fu perciò moderata la notificazione riguardo ai pegni fatti chiarendo che riguardava gli ori ed argenti maggiori delle lire venti di contanti per ogni pegno. Così quelli di valore minore e le altre robe preziose non sarebbero andate all’incanto e quanto al tempo fu dilazionato ad otto giorni per il contado.  L’affluenza di popolo nelle riscossioni o il timore dei francesi prossimi, che erano poi andati alla volta di Mantova, fece nascere impressioni grandi tanto che molti murarono gli argenti e le robe preziose.  Tanto più che si era vociferato che si facevano coniare nuova moneta al fine di darla in un contributo ai francesi allorché fossero venuti. È certo che si fece coniare una certa quantità di moneta ma a Zecca chiusa e solo di rame per non intimorire ancora di più il popolo.

Il grano e il formentone crebbero di prezzo, il formentone da l. 9 la corba ascese a l. 10 in un momento e così il grano da l. 12 andò a 18 a motivo che il Senato aveva fatto un acquisto di quattro mila corbe di grano nella Romagna, sebbene la stagione andasse bene.

I Padri M. O. di S. Francesco nella cui chiesa si faceva il triduo fecero funzioni di penitenza e orazioni pubbliche. Solo le genti oziose e scapestrate in questo luogo facevano Glubbi (Club) all’uso francese ossia conventicole per modo che molte persone e famiglie del quartiere e contrada di Saragozza dovettero ricorrere al Legato per la revoca delle licenze date a questi osti.

La Villa di Poggio continuava ad essere turbolenta contro la Comunità di Castel S. Pietro e diede una nuova supplica al Papa onde si degnasse riconsiderare questione dei pesi insopportabili che voleva far credere che le venissero imposti dalla Comunità. Il Papa rimise la supplica al suo Uditore. Poiché l’argomento principale per la smembrazione era fondato su quello delle gravezze, la Comunità impose al suo difensore ser Giovanni Celestini di procedere negli atti giudiziali dinanzi alla Congregazione, nella quale era stato sostituito Mons. Eschine, promosso alla porpora, da mons. Napalioni e mons. Paracciani morto da mons. Alessandro Malvasia.

Il 21, giorno della ottava di Pentecoste, la Comunità andò in forma alla visita dei SS. Pietro e Bernardino protettori del paese, non secondo il solito alla messa cantata con la compagnia del SS.mo, ma con una offerta di cera in sei candelotti portati da due fanciulli cappati della compagnia suddetta con lo stemma sopra della Comunità.

La notificazione del Monte sopra i pegni da riscuotere fu prorogata dai tre giorni a otto per le proteste della povertà. In seguito, dopo questa dilazione, fu, a suon di tromba, fatto sapere alla popolazione che per ora erano sospesi i pignoramenti.

In tutta la Legazione si stavano spargendo pareri diversi tra chi parteggiava per la nazione francese chi per l’austriaca. Per evitare maggiormente lo spavento in cui era tutta la città e per evitare anche qualche ammutinamento o idea di insurrezione fu pubblicato un bando che proibiva il parlarne in alcun luogo.

Si ebbe notizia come i milanesi, mal sopportando le soperchierie dei francesi, insorsero contro questi. Nacque una sollevazione interna alla città in occasione di una festa da ballo e la città restò divisa in due fazioni, una parteggiando per la Francia, l’altra per l’Austria. Questa fu la vincitrice e cacciò l’altra con uccisione di persone dall’una e all’altra parte. Similmente ciò accadde a Pavia, a Collegno ed in altri luoghi

del Piemonte e della Lombardia austriaca.

In questo frangente il ministro di Spagna Ezarra con il tesoriere di Ferrara Francesco Bottoni erano stati inviati al generale francese Bonaparte, che teneva la sua truppa nel parmense e minacciava l’ingresso nello stato pontificio, a trattare perché non facesse danno allo stato. Poco mancò che fra Parma e Piacenza il primo, non rimanesse ucciso mentre era scortato da piccolo distaccamento francese. Furono ricevuti e trattati bene a Piacenza ma poi spediti a Basilea ai delegati autorizzati dalla Assemblea di Parigi a trattare la pace o fare altre determinazioni secondo il bisogno.

 L’esito di questa faccenda fu che i francesi chiesero al Papa quaranta milioni di scudi, la Specola di Bologna e quattro quadri inapprezzabili, cioè il famoso S. Francesco di Guido Reni in casa Zambeccari, il S. Pietro dello stesso autore nella galleria Sampieri e quattro altri quadri eccellenti nella stessa galleria, tra questi il famoso S. Pietro del Reni e il Baccanale di puttini dell’Albani. Non si sa la risposta pontificia a queste richieste. Quello che si teme è che nella Lombardia i francesi hanno grande appoggio, massime poi Modena perché quel popolo è stato angustiato dal suo sovrano Duca Ercole d’Este, che lo ha dissanguato con enormi tributi.

L’Ezarra che a Basilea aveva trattato ed esplorato l’animo dei deputati francesi intorno ai movimenti dell’armata che era in Lombardia, fece sapere, mediante corriere espresso, al Senato ed al Legato che la Francia non aveva mai fatto guerra e provocazioni contro il Papa e suoi Stati.  Quindi per ciò deponessero ogni timore di irruzioni e contribuzioni ed in conseguenza vivessero tutti tranquillamente ed in pace. Lasciati i dispacci a Bologna, il corriere proseguì la sua corsa veloce a Roma per questa parte di Loreto il primo giugno che fu il martedì santo, onde ognuno si rasserenò d’animo.

Stante le presenti angustie che facevano i francesi nella Lombardia e le contribuzioni che imponevano massime a Milano dove quei cittadini erano trattati barbaramente, il Papa temeva che i francesi non rispettassero le promesse fatte di non volere molestare né imporre contribuzioni agli Stati pontifici. Perciò fece prendere nota di tutte le argenterie delle chiese di Bologna, eccettuati i vasi sacri, e furono incaricati il Legato e l’Arcivescovo. Fu poi fatta la stessa cosa nel contado. Qui fu incaricato questo nostro arciprete Calistri che il 3 giugno spedì all’arcivescovo la nota di tutte le argenterie spettanti alla Compagnia del Rosario e furono otto candelieri grandi da altare e due medi, la croce grande della palliola, lo stendardo grande tutto di lamina d’argento, le lampade e i turiboli, per un valore di 4 mila scudi sicuramente. Le altre chiese sono mancanti di queste ricchezze.

Ciò fu stato fatto per battere moneta per pagare contributi al nemico al bisogno. Ma intanto non si prendono provvedimenti contro i bulli del paese che ogni giorno si accrescono e si fanno audaci, insolenti e prepotenti con le ruberie e col gioco a motivo si danno le licenze di giocare non ostante i bandi.

Per il rumore non si poteva più vivere nelle case né passar per le strade per le bestemmie e il gioco della palla che si faceva nella piazzola dietro a questa mia abitazione, detta volgarmente al Torrazzo.  Dovetti ricorrere con supplica al Cardinale il quale ordinò all’uditore del Torrone di proibire a Vincenzo Trapondani di permettere il gioco in questo luogo essendo egli l’oste vicino.

Trovandosi nel collegio seminario di Bologna Emidio unico figlio maschio del sig. Francesco Conti, il 17 giugno alle ore 21 fece, nella sala dello stesso seminario, le sue conclusioni pubbliche sotto il Lettore pubblico Giovanni Aldini con 11 tesi de Deo eiusque attributis more accademico e si fece molto di onore.

Il 17 giugno il Card. Legato di Bologna spedì una circolare stampata a tutte le Comunità della Provincia con plico incluso da non aprirsi se non domenica 19 giugno e allora pubblicare al popolo il suo contenuto.   

Finalmente il 19 domenica mattina, dopo l’ora dei divini offici, essendo convocato il Consiglio da me Ercole Cavazza decano della Comunità per l’assenza del Consolo Lorenzo Trochi e del segretario Francesco fu Lorenzo Conti fu aperto il plico spedito da Bologna con tanto segreto che aveva fatto stare in spavento ed agitazione la nostra popolazione.  La sua apertura, premesso il suono non solo della campana pubblica della torre ma anche della campana maggiore nel campanile vicino alla parrocchia, ha reso noto un lunghissimo Bando sopra la seta e i bachi, il quale accorda la libertà di esportare la seta greggia e i bachi fuori di provincia senza tratta e dazio, limitatamente a quest’anno, stante l’incaglio dei veli e delle sete nella città di Bologna per le presenti guerre della Francia, Austria, Inghilterra ed altre potenze di Europa. Oltre questo Bando ne fu pubblicato un altro e sopra le monete nuovamente coniate cioè quelle da sei paoli, da 25 e da 15 e sue spezzate.

Questi provvedimenti furono poi sospesi a motivo dell’ingresso nella città delle truppe francesi.

Giugno 1796 – Dicembre 1796

Domenica 19 giugno Napoleone a Bologna. Bologna dichiarata repubblica e associata alla Francia. Arcivescovo invita parroci a prestare obbedienza. Vari editti e notificazioni, varie requisizioni. Richiesta contributi vari in danaro, argenti e merci. Console, a nome Comunità, giura fedeltà. Passaggio e sosta truppe francesi. Causa Poggio sospesa. Rivolta a Lugo e Argenta. Notizie di Madonne che muovono gli occhi. Scontri vari per Mantova. Elenco nuovi bandi. Ruberie a castello. Sconfitte francesi a Mantova. Leva per servizio militare, fare sorteggio. Censimento abitanti Comunità. Decreto abolizione titoli nobiliari. Federazione con Ferrara, Modena e Reggio. Rappresentanti si riuniscono a Modena, per Castello Ercole Cavazza. Decisione formare Federazione, prossima riunione a Reggio. Alzato a Bologna l’albero della libertà, disordini. Sroria dei tre ufficiali bolognesi a Castello. Elezione decurioni per approvazione nuova costituzione. Esibizione arciprete Calistri. Storia della sepoltura della novantaseienne Francesca Dalfiume.

La sera stessa arrivò il generale Giuseppe Bonaparte con 5 mila francesi, parte a cavallo e parte a piedi, introdotti dal senatore Carlo Caprara il che spiacque molto alla popolazione. Immediatamente fu presa la piazza, scacciato il presidio bolognese, arrestato il Legato Vincenti, il vice legato Corsini poi fu munita la piazza con due pezzi di cannone, un mortaio da bomba e fucileria. È quantunque si facesse la solenne processione per la via degli Orefici riccamente addobbata, ciò non ostante restò molto scompigliata dalla presenza di tali forestieri.

Il lunedì 20 Bologna fu dichiarata repubblica e subordinata alla Francia. Il ConfaloniereFilippo Ercolani restò in palazzo, furono chiusi tutti gli uffici e licenziate le magistrature. Lo stesso giorno fu pubblicata l’intimazione a quelli di Castel Bolognese di essere reintegrati nel dominio bolognese. Il card. Legato, nel giro di tre ore, fu mandato via da Bologna, gli uditori del Torrone cassati. Il Card. passò da Castel S. Pietro per la Romagna. Il corriere di Roma non si poté inoltrare e stette fermo a Imola fino al martedì successivo. Gli uditori criminali Federico Pistrucci e Fenucci fuggirono sopra un mulo alla volta di Medicina.

La stessa giornata fu per Bando del suddetto generale ordinato che si portassero tutte le armi da fuoco nelle scuole pubbliche e tutti i cavalli da sella si radunassero nel prato della chiesa di S. Francesco. In questo conflitto di cose nessuno più ardì parlare.

La mattina fu fatto prigioniero di guerra tutto il presidio pontificio nella città di Bologna, indi la guardia svizzera del palazzo. Gli ufficiali del presidio col maggiore Conte Pirro Malvezzi furono poi spediti, sotto buona custodia alla volta di Nizza in Provenza, ma furono poi richiamati. Furono altresì sequestrate e sigillate tutte le casse pubbliche dei Monti, della dogana, dei dazieri, della tesoreria e del pubblico e con esse arrestato Antonio Gnudi diletto del Papa, i tesorieri, Vincenzo Galli appaltatore del Tabacco e Gaetano Terzi capo della ferma che in appresso furono poi rilasciati.

Nella stessa sera di notte tempo verso le 2 fu presa la fortezza urbana con uno stratagemma e fatto prigioniero il castellano.

Lo  stesso giorno, il Cardinale arcivescovo Giovanetti mandò una circolare ai parroci della diocesi con l’invito a prestarsi alla obbedienza delle nuove autorità.

Il 21 giugno si fece una riunione nel Senato e restò tutto il palazzo in mano al generale francese, furono levate le insegne pontificie e al loro posto vi furono poste quelle della Francia e del Senato.

I tribunali furono anche essi chiusi ma poi aperti e seguirono altre cose nella città che da altri scrittori e diaristi saranno forse più esattamente scritte a memoria dei posteri

 Il Senato con suo editto confermò i Magistrati e ne creò dei nuovi. Nello stesso giorno ordinò una requisizione di cavalli con l’indicazione di condurle sul prato di S. Francesco entro la città di Bologna, al che si diede la pronta esecuzione. Finalmente in questo stesso giorno il Senato pubblicò un editto di non doversi fare alcuna estrazione di generi commestibili.

Bonaparte con i Commissari di Guerra Saliceti[63], si impadronì di tutti i Monti di deposito, delle robe preziose ed altro. Quindi, notando il malcontento della popolazione, ordinò con suo proclama che gli oggetti di vestiario e tutti gli oggetti non eccedenti il valore di lire duecento (l. 100 bolognesi) siano restituiti ai rispettivi proprietari. In questo atto il rilasciare la roba ai legittimi proprietari, quando questi sono di classe indigente e non hanno alcuna colpa., volle mostrare la generosità francese.

Il 24 giugno il Senato in riferimento ai decreti dei Commissari di Guerra Saliceti, Garau e Bonaparte emanò un proclama nel quale manifesta alla popolazione la generosità francese per la restituzione delle robe e pegni esistenti nei Monti di Pietà, contemporaneamente pubblicò un avviso sopra la restituzione de cavalli requisiti.

Il 25 giugno furono pubblicati diversi editti e notificazioni.

 Editto del Senato che rese noto che i generali Bonaparte, Garau e Saliceti chiedevano contribuzioni per quattro milioni di lire tornesi equivalenti a tre milioni di lire bolognesi in contanti, ori, verghe di argento ed altre materie preziose con il frutto del 5 per cento annuo.

Editto della Giunta criminale in cui si ordinava la tranquillità pubblica, l’osservanza delle leggi e si esortavano gli esecutori a non violentare come per l’addietro i contumaci. Il Senato pure mediante avviso manifestò di volere procedere alla nuova Costituzione della Libertà, formandola voto pubblico.

Editto dal Senato sopra le contribuzioni o in contanti o in oro o in argento. Cioè di portare, entro 24 ore, tutto ciò al palazzo dei Monti in S. Barbaziano, con quietanza esprimente la quantità che ognuno potrà dare. Fu contemporaneamente pubblicato avviso del Priore del Monte di Pietà che, per quanto riguardava gli effetti devoluti alla nazione francese non soggetti all’ordinato gratuito disimpegno, sarebbe stata nuovamente avvisata la popolazione indigente.

Notificazione del Presidente Vincenzo Zambeccari della Giunta sulle Contribuzioni sopra una requisizione di tele e canape vendibili per servizio dell’armata francese da pagarsi al prezzo conveniente quando tali generi siano riconosciuti della qualità ricercata.

Notificazione del Senato sopra lo zolfo e salnitri. Obbligo di darne la nota entro due giorni si dovrà per averne la contribuzione.

Il 26 giugno arrivarono da Bologna mille francesi a piedi alle ore 11, formarono il loro campo nella via romana all’ingresso del Borgo, vi stettero fino alle ore 13, ebbero dalla comunità una pagnotta e un boccale per ciascuno poi partirono per Imola.

Si pubblicò una notificazione che si volevano da Bologna quattro milioni, metà in argenterie, capitali di seta e canapa e l’altra metà in moneta e contanti. Le notificazioni e proclami furono tre, si spogliarono perciò le chiese delle argenterie come fu convenuto col senato.

Il 26 fu pubblicata una notificazione del Confaloniere Filippo Ercolani sopra le materie preziose e la derogazione dai Fedecomessi.

Il 27 un editto del Senato contro i rivenditori di generi alimentari perché si vendevano a più della tariffa ai francesi.

Il 27 ritornarono da Imola 900 soldati a cavallo con 34 carri da Faenza carichi di fucili, archibugi ed altre armi da fuoco e 8 mila cartucce presi da quella città e 84 mila scudi levati da quel Monte. Si fermarono un poco poi alle 12 partirono per Bologna.

All’arrivo dei francesi a Crevalcore seguì un furto sacrilego alla chiesa di Branunzio. Fu preso il reo e fu tosto punito. Dopo queste cose fu chiamato l’arcivescovo Giovanetti dal generale Bonaparte. L’Arcivescovo non voleva presentarsi adducendo scuse, ma gli convenne ubbidire e portatosi a Palazzo riscosse dal generale una ammonizione affinché il clero fosse più cattolico, meno scandaloso, più studioso e meno simoniaco. Era troppo informato di tante assurdità bolognesi, come era verissimo che accadevano.

Nello stesso Consiglio tenutosi dopo la estrazione del Consolo, in seguito agli ordini avuti di Bologna, furono eletti due consiglieri che con il Consolo andassero il 30 alla città a giurare in mano del Confaloniere fedeltà e ubbidienza alle leggi fatte ed alle nuove da farsi. Furono col Consolo Francesco fu Pietro Conti e Floriano Fabbri.

La nota dei grani trovata nei magazzini è la seguente

Nei magazeni delli sig. Conti Gini custoditi da Crispino Tomba, grano di ragione di Giacomo Facini d’Imola detto Nardone, corbe 1200.

Del sig. Matteo Contoli di Castel Bolognese, corbe 30.

Nelli magazeni del sig. Giulio Andrini custoditi da Domenico Zechi, grano di ragione del sig. Pirazzoli d’Imola, corbe 150.

Di ragione del Piancastelli, corbe 50

Di ragione di Vincenzo Vanini d’Imola, corbe 150

Di Giuseppe Camerini di Castel Bolognese, corbe 125

Di Biagio Silvestrini, corbe 300

Nelli magazeni del sig. Giovanni Caprara di Simone Minghetti. Grano di Giovanni de Giovanni e Gottarelli, corbe 300.

In altri magazeni del sig. Giulio Andrini custoditi dal d. Minghetti di diversi padroni, corbe 200

In d. magazeno altro grano del Gottarelli, corbe 30

Nei magazeni del sig. Lugatti custoditi da d. Minghetti, corbe 300.

Nei magazeni del sig. Landi custoditi da Lorenzo Marabini, grano di ragione di Francesco Barbieri di Castel Bolognese, corbe 630

In un magazeno del sig. Nicola Manaresi custodito da Francesco Sassatelli, grano di Sebastiano Rafini, corbe 90

In altri due magazeni, grano di diversi padroni, corbe 250.

Grano in tutto corbe 3775

Dopo data questa nota arrivò una lettera diretta alla Comunità e al Consolo Trochi che li invitava a stare bene attenti affinché grano e formentone non uscissero di provincia e dovesse essere mantenuti per comodità della truppa francese.  In seguito si precettarono verbalmente i custodi dei magazzini. La nota dei formentoni ritrovati fu la seguente

In un magazeno de sig. Conti Zini custodito da Crispino Tomba, formentone di Giacomo Facini d’Imola, corbe 130. Altro di diversi custodito dal detto, corbe 30

di Giovanni Caprara d’Imola, corbe 100

del sig. Matteo Contoli di Castel Bolognese, corbe 40

in un magazeno del sig. Giulio Andrini, corbe 150

altro di Giacomo Facini d’Imola detto Nardone custodito da Domenico Zechi, corbe 140

in due magazeni del sig. Antonio Inviti custoditi da Francesco Sassatelli, di Tomaso Matioli, corbe 50

di un faentino altro formentone, corbe 30

di Gio. Guarini in un magazeno delli Facenda custodito da Giacomo Mazzini, corbe130

Di N. N. Giuseppe da Cotignola, corbe 110

di N. N. di Bagnacavallo in due magazeni del sig. Nicolò Giorgi formentone, corbe130

In tutto formentone Corbe 1030

Il 28 giugno, vigilia di S. Pietro, ritornò la truppa francese da Imola con 16 carri carichi di fucili, argenterie e munizioni da guerra levati da questa città con sei bellissimi cannoni del Papa nei quali vi era sopra scritto: ad servandam pubblica tranquillitatem Pius VI anno 1794.  La truppa si fermò fino alle ore 12, molto irritata per la resistenza avuta da Forlì che non l’aveva voluto ammettere in città ed aveva avuto contrasto per levarle il danaro del Monte che fu calcolato in un milione di scudi fra contanti, ori, argenti. Partì alle ore 12 dello stesso giorno.

Nella notte scorsa si portarono da questo Castello a Bologna le argenterie della Compagnia del Rosario, cioè trono d’argento, pallio, altarino, messale, turibolo, croce, candelieri, reliquiari, lampade, bastoni da novizi ed altri argenti di ornato che furono 900 once[64]. Così fece la Compagnia del SS.mo portandovi il frontale della Madonna di Poggio, turibolo, crocefisso da mano e perfino i voti delle tavolette appesi all’altare del miracoloso Crocefisso, il totale fu di once 120.

Ai francesi che erano qui la Comunità diede mille boccali di vino, si servì in tutti questi passaggi da interprete di francese il mio unico figlio dott. di legge canonica e notaio Francesco Camillo Cavazza.

Finora nel paese non sono state levate le armi da fuoco.

Il 28 fu pubblicato un editto sopra il comprare armi dai francesi, quelle comprate dovranno essere immediatamente nelle scuole pubbliche. Nello stesso giorno la Giunta delle Contribuzioni notificò al pubblico che non essendosi prestate che poche persone nella spontanea offerta, per ciò si invitava a concorrere con ori, argenti ecc. altrimenti si minacciava l’obbligo ed altre penali.

Il 29, giorno di S. Pietro, giunse in questo Castello di Bologna ad una ora di notte uno distaccamento francese di 50 pedoni ed alloggiarono alla locanda del Portone nella rimessa, partirono alle ore 6 della notte.

Il 30, ultimo di giugno, arrivarono da Bologna 60 cavalli francesi e partirono poche ore dopo per la Romagna.

Il primo luglio, entrò Consolo il notaio Francesco Conti.

La mattina arrivarono 300 pedoni, dopo la solita colazione di pagnotta e vino, andarono alla volta di Cesena ove si era ribellata quella bella popolazione con i vicini castellani e villani. Seguì nella piazza una baruffa e restarono prigionieri 100 francesi, per cui altra truppa francese proveniente da Bologna andò alla volta di quella città con cannoni ed un grosso mortaio da bomba.

Il primo luglio fu pubblicato un proclama sopra come formare il nuovo governo, furono 30 gli aggiunti, Confaloniere fu nominato il Senatore Vincenzo Graffi.

Lo stesso giorno si lesse un proclama del Presidente Vincenzo Zambeccari sopra la requisizione della polvere d’archibugio che doveva essere denunciata e portata al palazzo Monti. Ci fu poi un altro proclama dello stesso presidente sulla requisizione dei cavalli. Fu pure affissa una notificazione che proibiva di seminare timore sopra le presenti guerre.

Il Consolo Trochi e i deputati della Comunità dopo aver prestato il giuramento riferirono che si dovevano premurare di tenere il paese in quiete da sussurri.

Sabato 2 luglio arrivò uno distaccamento di 50 cavalli francesi provenienti dalla Romagna che accompagnavano i carri caricate a Ravenna e in altri luoghi di Romagna ammontanti al valore di 400 mila scudi fra argenti, ori e contanti.

Si ebbe notizia come in Ancona una immagine di M. V. dipinta apriva e chiudeva gli occhi a vista del popolo con orrore di chi la vedeva. Nello stesso tempo venne a sapere che a Lugo si era ammutinata quella popolazione con i cotignolesi, bagnacavallesi e massesi in numero di 4 mila e avevano formato un campo militare per resistere a ferraresi e francesi che volevano le argenterie[65]. Si pagavano gli arruolati con i danari degli ebrei a soldi quindici al giorno per ciascun soldato, fabbricandosi ivi pane ed altre munizioni da guerra.

Dio ci assista dalle tante disgrazie che ci sovrastano.

In questo stesso giorno la nostra Comunità di Castel S. Pietro, si riunì in casa del Consolo Conti che era infermo. Questi lesse l’ordine del nuovo Presidente Criminale Giuseppe Piella che gli imponeva di vigilare affinché non nascessero tumulti e, a capo di ogni settimana, dovere dare riscontro di quanto accadeva nel paese dovendo esserne esso il responsabile.

Di Roma si ebbe notizia dal sig. Celestini che la causa di Poggio restava sospesa come pure quella delle Arti, fino a nuovo ordine. L’arcivescovo Giovanetti per contribuire alla quiete della popolazione mandò una circolare a tutti li parroci e capi di religione per persuaderli a non parlare contro il Governo ed essere cauti nel confessionale e nelle prediche. Si intese contemporaneamente come la popolazione di Lugo, della Massa, di Cottignola e Bagnacavallo si erano tutti ammutinati e avevano formato un campo militare a Lugo di 4 mila e più persone tutte armate e con cannoni per fare resistenza ai francesi che volevano portar via le argenterie e fare pagare una contribuzione. Fu fatto capo di quegli armati un certo Pignotti lughese. Si aprirono tre fucine per formare palle da canone e mitraglia. in seguito si spedirono avvisi stampati dal campo di Lugo ad Imola per chi volesse arruolarsi.

 Mediante proclama del 2 lulio fu prescritto dal Governo di non dovere licenziare i corrieri cavalcanti a causa della requisizione dei cavalli.

Il 4 luglio fu ordinato dal Confaloniere Graffi e dai Tribuni della Plebe di osservare le Tariffe dei generi alimentari come per il passato.

Un ordine simile fu proclamato contro i fornai da scassa e i pastaroli che dovevano proseguire nel loro mestiere, sotto rigorose pene. Fu pure nello stesso giorno proclamata, d’ordine del Confaloniere, la denuncia e la introduzione di grani nella città.

Nel sentire che i francesi si erano impossessati di tutti i Monti di Bologna, nacque un po’ di bisbiglio nella popolazione per quelli che avevano crediti nel Monte Matrimonio.  Siccome questi non erano stati contemplati dai francesi, i presidenti del Monte Matrimonio il giorno 4 notificarono al popolo con proclama che nella requisizione non cadevano i crediti dotali del Monte Matrimonio.

 Poiché la truppa francese era tutta male in arnese di vestiario, così il Senato che aveva previsto di fornire delle tele, invitò con proclama le donne della città a cucire dei sacchi.

Il 6 luglio il cardinale Arcivescovo Giovanetti pubblicò per la stampa una notificazione che esortava il suo clero e il popolo di Bologna a vivere sottomesso alla nuova autorità e a non seminare zizzania.

Sempre il 6 d. il Senato invitò con proclama il popolo a formare una guardia civica per la Città e così pure per la campagna e luoghi murati, che poco dopo fu organizzata. In questa Guardia Civica, che fu anche detta sedentaria, fu nominato per capo battaglione ossia capo legione del paese il dott. Francesco Cavazza. Si videro in questa contingenza bellissime armi da taglio, cioè sciabole di buon valore e rifornimenti di vestiario.

Il 6 fu pubblicata una notificazione sopra le tele da fare sacchine (bisacce) ai francesi con ordine di portarle al palazzo pubblico. Nello stesso fu pubblicato l’ordine del comandante della piazza di Bologna B. Yann che nessun mercante e venditore ricevesse per contanti gli assegnati francesi.

Non si può evitare di raccontare quanti avvenimenti accadano nelle presenti emergenze in cui si vede preparata una orribile profanazione alla Chiesa. Nel duomo della città di Ancona, una Immagine di Maria V. dipinta in tela fu vista e si vede da molte persone aprire, chiudere gli occhi e lacrimare con spavento delle persone. I tremori della terra in Ascoli non sono stati indifferenti. Gli uragani, detti comunemente biscie bure, che spezzano alberi, scoprono edifici, trasportano bestiame dimostrano che Dio è sommamente sdegnato. I fanciulli che ancora lattanti parlano danno indizi di gran cose. Di mano in mano che accadranno le riporteremo fedelmente.

Nello stesso giorno su le 23 ½ rovinò il portico della chiesa della madonna della Scania.

Si fece in Bologna una raccolta di cavalli per la truppa francese. La notte stessa passarono per Bologna 100 cavali alla volta della Massa e Lugo ove si sono fatti forti i lughesi, massesi, bagnacavallesi e cotignolesi contro la Francia. Per quanto si racconta si sono trincerati, hanno tagliato i ponti, fatto fosse ed argini contro lo stato imolese. Capo di questa insorgenza dicesi sia un fabbro.

Questa mattina su le 12 in punto arrivò lo spoglio di Cesena, di Faenza e Forlì in 140 carri di argenti, armi, munizioni e cannoni con sei prigionieri cesenati fra quali un prete, uomo di 50 anni con capestro al collo e alle braccia, che si confessò sotto il portico dell’osteria del Portone.

 Si videro da questa nostra posizione verso le parti di Lugo e Massa cinque altissime colonne di fumo. Fu perciò sospettato che fossero in quelle parti incendi tanto più che dalle parti d’Imola erano state condotte 10 carri di Si sta attendendo un gran fatto perché dicono si siano ammutinate 16 mila persone contro i francesi.  Anzi si aggiunge che essendo inoltrata in quelle parti l’avanguardia di 60 cavalieri ne siano stati uccisi 53 dagli imboscati lughesi nei formentoni e nei canapai e si sta attendendo la certa relazione.

 Fra i cannoni condotti a Bologna ve ne sono due di Sisto V avendo nella culatta l’emblema di tre monti e sono pezzi da batteria lunghi 7 piedi circa. Non si contano gli archibugi e le sciabole e spade nelle birocce.

Verificate le notizie di cui sopra, arrivò quest’oggi su le 12 la notizia che c’era stata nella vicinanza di Lugo una fiera battaglia tra i lughesi e i francesi. I primi avevano già disposto il loro campo e le strade che a quello menavano ma in esse erano state fatte fosse coperte con stuoie, che erano pari al suolo ed erano coperte tutte di sabbia e terra ben disposta, all’intorno c’erano argini di legnami, dietro ai quali stavano gli insorgenti.

Venne impetuosamente la cavalleria che credeva di attaccare la schiera dei lughesi. I cavalli corsero sopra i trabocchetti coperti dalle stuoie, profondarono ed ebbero campo i lughesi di uccidere i cavalieri. In questo combattimento restarono soccombenti 206 cavalieri francesi. Riposata la truppa per 5 ore, su le 17 i francesi fecero un altro attacco e riuscirono ad entrare in Lugo ove la Comunità fece la sua contribuzione salva roba e persona. I fuorusciti andarono dispersi qua e là ed abbandonarono i due pezzi di cannone che avevano tolto ai francesi.

Mentre si battevano, lughesi furono traditi dalla parte di sotto, cioè dal ferrarese dove sopraggiunsero 200 francesi invece dei 200 papalini promessi dal marchese Bevilacqua di Ferrara.

Si ebbe contemporaneamente una simile battaglia sotto la Massa con i massesi che infine patteggiarono ma, nel mentre che capitolavano, un massese sparò una archibugiata al comandante francese senza colpirlo. Qui di nuovo cominciò entro la Massa un altro scontro che fu poi calmato da quella Comunità con la contribuzione preparata. 

Ad Argenta alla sera fecero una sorpresa, su l’Avemaria scoppiò una baruffa per due ore continue. Capo degli argentani fu Filippo Zogoli figlio di Antonio di Castel S. Pietro, detto per soprannome Patano, che si pose alla testa di 200 insorgenti. Durò fino alle 4 poi, nella confusione delle urla della gente, Patano si ritirò alla campagna lasciando però al limite dell’abitato alcune sentinelle, che vegliavano sulla possibilità di un attacco. Si infrappose il cavaliere Saro Porcari con altri del paese perché i francesi minacciavano di incendiare il paese. In seguito fu sospeso ogni tumulto. Un picchetto di francesi che, col loro comandante, voleva inseguire i capi degli insorti, ebbe poca fortuna poiché i ribelli retrocedendo spararono e misero in fuga li francesi fino a Solarolo uccidendone alquanti e in particolare con tre fucilate il comandante francese.

Accaddero poi altre piccole baruffe e il nostro Zogoli, arresosi con gli argentani, riportò con gli altri il perdono alla condizione che consegnassero le armi ai francesi. Così fecero ma poi per ciò arrischiare la vita nel rimpatriare.

Il generale Aggerò[66] che si trovava a Imola fu pregato da cardinale Chiaramonti di perdonare i lughesi. Non fu sordo alla pietà del vescovo infatti liberò tutti i frati, preti, monache ed altri che erano stati imprigionati, purché non avessero usato le armi, in più donò 2 mila franchi in sollievo di quella povertà.

Domenica 10 luglio si tenne Consiglio in esso si lesse una lettera del sen. Francesco Marescalchi che avvisava ed imponeva non dare alloggio ai forestieri provenienti dalla Romagna. Si lesse pure una lettera di mons. Vincenzo Zambeccari che ingiungeva di spedire a Bologna le ricevute delle sovvenzioni fatte alla truppa francese dalla nostra Comunità. Furono tosto spedite ed ammontavano a l. 400.

 Successivamente fu pubblicato un Bando sopra le denunce e la introduzione di grani ed altri generi in città.  Ordinava di non andare nemmeno a macinare fuori stato. Ci furono proteste nel popolo per la penuria di farine, quindi fu incaricato il consigliere Floriano Fabbri di presentarsi in Senato e fare presente le nostre angustie e l’usanza passata di andare a macinare a Imola con la bolletta di questo doganiere.

Il Consolo poi presentò una lettera dell’Aggiunto Criminale la quale imponeva di riferirgli ad esso settimanalmente quanto accadeva. Furono pubblicati molti altri avvisi e come si vedranno di mano in mano si possano avere.

Perché a Mantova[67] erano fortemente impegnate tanto le truppe imperiali che le francesi, i soldati di Bologna tolsero il campo alle sei della notte lasciando solo un presidio di 250 militari.

Stante l’assedio dei francesi a Mantova il generale Bonaparte, che era ora in Bologna, fece fare un solenne triduo alla madonna di S. Luca. Intanto a Lugo e nella bassa Romagna continuava l’ammutinamento degli insorgenti fuggiti. I

l Senato spedì una staffetta a questo nostro Consolo con lettera di dovere stare guardinghi e non lasciare entrare alcuna sorte di armati.

Contemporaneamente si pubblicò l’impegno che faceva la Francia di proteggere e mantenere repubblica Bologna e suoi stati.

Il 10 luglio venne pure una grande tempesta che rovinò le canape e l’uva nei quartieri di Poggio, Granara e Gaggio. La parte della collina fu esclusa.

Si pubblicò nuovamente un proclama di Savito nel quale si avvisava che chi avesse notizie storiche o di altra natura sopra il metodo dell’antico governo di Bologna quando era repubblica le presentasse all’avvocato Giuseppe Cacciari di Bologna.

Il 14 luglio i francesi cominciarono a bombardare gagliardamente Mantova. Si sentono i rombi anche da qui. 

Domenica 17 luglio si ebbe notizia da Roma che si erano scoperte si scoprirono immagini di M. V. e di altri Santi tenuti in maggior venerazione che aprivano e chiudevano gli occhi. A Osimo un miracoloso Cristo mostro lo stesso e fece tramortire il custode della chiesa, la relazione tutto narra. A Ascoli, Spoleto e molte altre città della Marca si videro simili prodigi.

Negli stessi giorni si scoprì a Roma una congiura contro il Papa per mozzarli il capo. Fra i capi dei ci congiurati un bolognese ed un anconitano. In seguito, quando il Santo Padre lo vorrà, si avrà la relazione di tutto ciò.  Ma essendo esso di singolare bontà, si vocifera che fatta la giustizia in Castel S. Angiolo, si taceranno i nomi a scanso di amarezze.

I preti spagnoli ex gesuiti, tanto a Bologna che nelle diocesi, furono forzati con i loro secolari nazionali a portare una coccarda rossa sopra il capello per essere distinti da tutte le altre nazioni.  Fu una cosa ridicola per gli italiani, ma penosa per la nazione spagnola troppo vanagloriosa di natura.

In queste contingenze il Papa, avendo consultati molti prelati cattolici sopra le tante profezie e pronostici di anime buone, fece chiamare a sé la contadinella profetessa di Viterbo che tante altre cose aveva profetizzato intorno alla S. Chiesa e da essa intese che il giorno 19 del corrente luglio sarebbe avvenuto e visto un grande prodigio ed un fatto che avrebbe fatto stordire chiunque. Il mondo cattolico è in grande aspettazione. il Papa vive impazientissimo e con animo lieto di vedere la fine.

Giovedì scorso 14 luglio si ebbe tra i francesi e gli imperiali un forte scontro mentre tentavano la presa di Mantova. Furono respinti con la perdita di 14 mila uomini. Sabato 16 seguì un altro attacco e il campo francese perse 6 mila militari fra prigioni e morti. Gli imperiali avanzarono a tutta forza uniti con i veneziani. Si narra che i primi siano in 108 mila soldati, i secondi non si sa con precisione. Bologna è in timore. Raccontare tutto ci vorrebbe molto soprattutto i reciproci strattagemmi, le sorprese e le invenzioni militari.

La raccolta è discreta nel grano, ma nei formentoni va male a cagione della mancanza della pioggia.

Recano lettere da Parigi che il giorno 27 fu macchinata una insurrezione popolare che reclamava un monarca. Quel popolo era troppo stanco di vivere a discrezione.

Si conferma la perdita vistosa di 500 e più francesi e all’incirca di 100 lughesi. Se non fossero stati traditi dal march. Bevilacqua di Ferrara restava tolto il campo francese di cavalleria e fanteria tanta fu la bravura di quelli insorgenti.

Da Bologna si hanno continuamente nuovi Bandi e proclami. Un elenco di questi, pubblicati in luglio

 ci piace qui inserirla e cioè:

8 Lulio, Avviso ed invito a quelli che hanno soministrato alogi alli francesi di doverlo portare al palazzo Caprara per renderne conto.

8 d. Editto per fare il sindicato all’uditore del Torrone. Simile per fare giudicato all’avocato Vincenzo Berni delli Antoni e così pure contro il dott. Federico Pitrucci uditor criminale

9 d. Sindicato contro l’avocato Angeloni uditore del V. Legato.

9 d. Editto del Senato sopra li negozianti che hanno soministrato robbe alla truppa.

10 d. lettera del comissario Saliceti al Senato con cui annunzia lasciare in Bologna il generale Agerò alla testa della aministrazione per il bon ordine.

11 d. aviso a chi ha in dogana mercanzie inglesi.

12 d. fu publicato editto su la sanità de bovini.

12 d. Bando che tutti li oziosi e vagabondi debbino partire entro tre giorni dal teritorio.

Editto del Senato che, essendosi allontanate le truppe francesi, debbasi guardare la città dalla truppa urbana, in seguito del quale vi andarono li villani delli orti vicini, che per essere vestiti di rigadino tella fu detta la Guardia delli Rigadini.

13 d. Notificazione sull’appalto del pan bianco e simile su l’asportazione fuori di stato delle granalie, sentendosi agressioni notturne per il contado.

 16 d. il Senato con notificazione impose l’aresto di questi malviventi. Furono per altro bando sospese tutte le fiere del teritorio e solo accordati li soliti mercati, massime li normali che sono C. S. Pietro, S. Gio. in Persiceto, Castel Franco, le Terme. Li Birri e burlandotti ed altri esecutori facendo questua nel teritorio furono bandite.

Adi 22 d. scopertosi contaggio ne bovini in Lombardia fu proibita l’introduzione delle bestie ne mercati di Bazano, S. Giovanni ed altri castelli limitrofi alla Lombardia.

22 d. Proclama del Senato che esorta le genti alla contribuzione tanto di danari che di argenti.

22 d. Li Tribuni della Plebe stabiliscono le ore concesse ai venditori in piazza, che sono distribuiti a mese per mese.

22 d. Instruzione medica del veterinario Gandolfi fu publicata.

22 d. Il comandante della piazza di Bologna B. Yann con proclama ritirò tutte le licenze di caccia.

Nello stesso giorno il Senato ordinò alli fornari di città dessero l’avvanzo de grani a fornari del contado e la denunzia parimenti

29 d. il Senato ordinò il rispetto alle chiese, la conservazione del culto a Dio e minacciò la pena a bestemiatori secondo le leggi,

ordinò pure con altro proclama che la notte stessero aperte solo quattro porte della città, cioè strada Maggiore, strada S. Stefano, S. Felice e porta Galliera.

Adi 30 d. fu pubblicato un editto del Senato intorno alli bovini da macellarsi per il contado e cioè di non doversi macellare bestia se non visitata dal marescalco e Consolo con fede della sanità da spedirsi poscia alla cancellaria del magistrato ogni sabbato.

Fu ripetuta la affissione del bando sopra la introduzione delle granaglie in città, al quale si pretendevano soggetti i generi che erano in questo Borgo di Castel S. Pietro, introdotti dai contrabbandieri.

Gli uomini di Castel Bolognese, che avevano in questi nostri magazzini i grani fermati dalla truppa francese e non ancora deliberati dal Senato, male la intendevano e fecero sapere ai sen. Bevilacqua e Marescalchi che non avrebbero più condotti generi tanto più che nel loro castello si era voluto fare affiggere il bando sulla introduzione delle granelle nella città. A questo si erano opposti unitamente con la popolazione sia ecclesiastica sia laica. A questo scopo i preti avevano già scritto a Roma e i secolari ritenevano che se la Comunità aveva prestato il giuramento di fedeltà a Bologna doveva essere questo comprendere anche le convenzioni ed esenzioni del Castello. Perciò, se le cose non mutavano faccia, volevano si convocasse un Consiglio Generale.

Il 18 luglio per il cambiamento di Governo la gente si era fatta insolente, si commettevano assalti, ruberie e ogni male che loro piacesse. Qui si era fatto un complotto di scapestrati, andavano alle case dei villani a mano armata e la nuova giustizia non ci faceva nulla. Le vittime fecero un memoriale alla Comunità chiedendole la sua interposizione presso il governo.

I capi di questi malviventi furono Antonio Cenni detti Gattino, Gaspare figlio di Luigi Raggi, Tomaso Chiri detto Bussolai, Antonio Marchi detto Sgambillo e Luigi Ferri detto Rigidorino, che andavano alla campagna armati e le guardie non gli facevano nulla. La partizione delle ruberie avveniva in modo che Gattino ne aveva 22, Ruggi 7, Bussolai 11, il Rigidorino 9 e gli altri ancora ne avevano la loro parte. La comunità prese l’impegno, scrisse alla nuova Giunta Criminale che rispose che avrebbe presa l’accusa in considerazione, come pure avrebbe voluto avere l’elenco degli altri scapestrati. Il nuovo Governo fece pubblicare un Bando che imponeva di espellere tutti i forestieri anche lavoranti quando non davano prova della loro necessità, abilità e vantaggio del loro mestiere e dei buoni costumi, dando un tempo di otto giorni a quelli che abitavano nel contado, così la Comunità ebbe molto su cui impegnarsi.

Pure molti fornai del territorio avevano rinunciato al loro ministero a motivo che l’anno scorso l’Assonteria d’Annona non volle dargli il frumento necessario per usarlo secondo il calmiere ed essi avevano comprato il grano a 36 paoli ed il calmiere era di 27 e non gli volevano abbonare il danno patito perciò si trovavano nei guai. 

L’Annona scrisse per espresso alla Comunità che gli suggerisse qualche alleggerimento. La Comunità rispose che se si desse la libertà a ciascuno di vender pane come nella podesteria di Casal Fiumanese il paese sarebbe sempre ben servito e provvisto, tanto più che nei tempi andati, in occasione di penuria, si diede per lungo tempo la possibilità ai forestieri di introdurre e vendere il pane. Tale risposta fu immediatamente spedita per lo stesso espresso che portò quella dell’Assonteria di Annona.

Furono poi pubblicati altri Bandi intorno alla denuncia delle canape e uno sui malviventi in cui si accordava ai massari ed a chiunque un premio di l. 5 per ogni arrestato.

il 19 di notte tempo fu rovinato l’uscio alla fonte della Fegatella ed il tubo di bronzo che portava fuori l’equa a beneficio della gente e furono levati tutti gli infissi. Premio ben degno al proprietario attuale, che non ha altri titoli sulla fontana che quello del possideo[68], mentre sono poco più di 100 anni che era in potere legittimo della Comunità, come si rileva da atti e documenti nel suo archivio.

Prosegue intanto l’assedio a Mantova e, quantunque non si vedano soccorsi dalla Germania e i francesi abbiano preso il borgo di S. Giorgio che è in capo del ponte che introduce nella città, quel comandante austriaco si difende valorosissimamente, con una sortita ed una immediata fuga simulata, diede una ai francesi comandati dal generale Bonaparte.

Da Bologna si spediscono al campo francese ferramenti e carri con bestie per portare e riempire tanti sacchi pieni di terra e sabbia che ammontano al numero di un milione per formare un monte solido su cui piantare una batteria di cannoni e bombe per battere quella città.

Continuavano i miracoli delle immagini e figure dei Santi e di Cristo a Roma, nella Marca e in altri stati pontifici, fuori che nella Romagna e nel bolognese, che a raccontarli tutti ci vorrebbe assai.

Gli inglesi nemici dei francesi hanno preso Porto Ferraio nella Toscana per impedirgli le spedizioni alla Corsica.

La raccolta riusciva discreta nel grano ma in altri generi e massime nel formentone era assai scarsa per mancanza di pioggia.

 Si teme di una nuova insurrezione a Lugo, così pure un qualche torbido a Castel Bolognese. Da questo posto non è sperabile avere più grano in avvenire. I mercanti erano malcontenti per avergli il Senato di Bologna incagliato il grano vecchio, averlo riservato per la truppa francese e non averlo levato né pagato. Il lunedì scorso avanzarono lagnanze a questa nostra Comunità. Questo fatto, se non muta faccia, pronostica conseguenze funeste. Alla fine dello scorso giugno erano stati sequestrati grani e formentoni forestieri ai mercanti che l’avevano in questi magazzini. In seguito della istanza venne ordinato alla Comunità il rilascio, che fu tosto intimato dai proprietari a rispettivi magazzinieri. I fornai del contado si erano impegnati nel corso delle loro obbligazioni di mantenere i forni da scasso aperti alla popolazione e provvisti di pane. Il Senato intimò loro di proseguire. Molti rinunciarono e molti si confermarono.

Il fornaio di Castel S. Pietro ricusò per la perdita fatta nelle provviste passate fuori stato e per non avere avuto dal Senato il promesso ristoro. Ma perché nessuno concorreva a questo forno, il Senato fu obbligato a pregarlo di continuare per il prossimo agosto, con facoltà di provvedersi di circa 300 corbe di grano e lo smercio del paese computando un mese per l’altro alla ragione di once 16 per ogni 4 baiocchi di pane bianco.

A questo proposito il Senato ingiunse alla Comunità la vigilanza sopra le provviste ad essa accordate le limitatamente alla giurisdizione di Castel S. Pietro e sopra i grani dei fumanti e dei comitatini. Ciò seguì in conseguenza anche delle istanze fatte da mercanti al Senato. Nei giorni scorsi fu pubblicato un proclama sopra i forestieri abitanti nella città e contado avrebbero dovuto sloggiare dalla città e provinci. Si sentì non poco bisbiglio onde furono abilitati alla permanenza quelli che avessero la prerogativa di mestiere necessario ed abile con atti della Comunità e dei parroci del loro buon costume.

In luglio fra gli altri bandi che si pubblicarono fu pubblicato il Bando della denuncia dei grani e delle moliture con l’aggiunta che per la molitura si dovesse dare al molinaro un quartirolo di grano per corba e non pagarla in contanti per che sopra pretendeva il magistrato di averne poi esso il riparto dai fornai. Impone altresì il Bando che tutto il di più del grano che ogni comitatino avesse del proprio consumo domestico lo dovesse dare al fornaio della rispettiva comunità, comprese le primizie. Ciò dispiacque a molte Comunità, si unirono Budrio, Castel S. Pietro e altre a chiedere l’attenuazione di tale bando. Fu altresì pubblicato il bando contro li Sbirri che andavano alle botteghe nel contado a farsi dare carne, minestra ed altre robe, il che fu di molto gradito dalla provincia.

Crescendo i rumori e il fermento divenne il bolognese diviso in due partiti uno per il Papa e l’altro per i repubblicani.  Il primo era popolare e l’altro civico. Fu in necessità il Senato di mandare un distaccamento di miliziotti che nel giorno di S. Anna, 26 luglio, passarono di quivi in 60 vestiti col proprio abito e senza alcuna montura, altra divisa non avevano se non quella delle tre fettucce di color bianco, rosso e turchino sul braccio sinistro simile alla coccarda. Poi il Senato comprò mille marsine e qui crebbero le spese. Si sentono pochi discorsi di insurrezioni a Bologna. Il popolo è diviso in tre opinioni, la prima sta per i republicisti, la seconda per gli imperiali e la terza per i papalini che si uniscono agli imperiali, onde i cittadini temono succeda qualche massacro.

Il senatore Girolamo Legnani tanto potente nei giorni andati, è sequestrato in casa con la moglie. Nel suo palazzo in S. Mamolo c’è una guardia francese, altri nobili battono la ritirata. Il sen. Conte Giuseppe Malvasia, che fu uno dei primi che maneggiarono la successione della città alla Francia, più non agisce e con la comprensione del male che ne è venuto e che ne avverrà a Bologna ed alla provincia, talora vaneggia. Il popolo si duole molto, il ceto civico non si quieta, gli operai languiscono. Insomma Bologna è tutta mutata, al qual proposito è stato scritto il seguente distico di funesto pronostico e voglia il cielo non si effettui come è probabile se gli imperiali vincono la guerra:

Felsina vel tibi si nimiun confisu Senatu es

nam mala cuncta fluent et bona cuncta ruent

Questo distico dicesi fatto di notte tempo nella occasione che il Senato non si volle sottomettere alle notificazini del Papa attuale.

Egli è certo che gli imperiali fanno belle operazioni sebbene in pochi arrivino in aiuto di Mantova. In due sortite che hanno fatto i mantovani, soccorsi da un corpo di ussari, hanno riportato due vittorie. Nella prima sortita hanno lasciati morti sul campo 4 mila francesi, nella seconda, aiutati dagli ussari e dai cacciatori austriaci, che hanno introdotto nella fortezza 11 mila ungari, hanno portato via 160 carri fra munizioni da bocca e da guerra, argenteria tolta negli stati pontifici e 14 pezzi di cannoni da batteria. I francesi in questi due fatti d’armi hanno perso circa 9 mila soldati fra morti, feriti e partiti.  Ammontano poi a 14 mila aggiungendovi le malattie. In quelle parti si è scoperta l’epidemia nei bovini per cui si sono qui stampati e pubblicati i soliti Bandi.

Domenica 24 luglio si sentì un orrido bombardamento, si crede che sia la fortezza e la città che batte le trincee e gli attacchi che fa là il Generale Bonaparte oppure un qualche fatto d’armi. Cominciò verso le 3 della notte al lume di luna, e sono così forti che fanno tremare la terra pur essendo distanti 70.

Dalla parte della Toscana sono giunte sotto Livorno 200 legni inglesi, hanno domandata la fortezza al Granduca dandogli tempo 18 giorni per decidere. Porto Ferraio è stato preso dagli inglesi.

Le immagini di M.V.  nella Marca fanno strepitosi prodigi, massime a Ancona, Sinigaglia, Macerata, Fano e perfino a Savignano e noi siamo privi di tante belle e divine opere di Dio.

Il 28 luglio seguì sotto Mantova una grande battaglia tra i francesi assedianti e i mantovani. Negli scontri e nelle cannonate perirono 12 mila francesi, parte dei quali furono sepolti e parte gettati nel Po. Per questo i francesi chiesero una tregua di tre giorni, ma il comandante della città gli accordò solo 24 ore. Egli è certo che i francesi lavorano gagliardamente, hanno fatto una grande breccia e con alzamenti di terra si sono inoltrati nel lago sotto le mura dove, per essere coperti dal tiro del cannone si sono fatto argini e temono di un attacco ed una sorpresa degli imperiali.

La città di Ferrara, che i francesi avevano spogliata di guarnigione, di nuovo l’anno guarnita e di più hanno fatto una spianata di tre miglia attorno anche alla fortezza.

Gli inglesi hanno con molte navi bloccato Livorno e sono ancora ne contorni del porto di Ancona. Si sa di diserzioni tanto dalla parte di Mantova, che della Toscana di francesi che stanchi del combattere fuggono negli stati pontifici.

A Roma il popolo strepita contro i francesi ed assolutamente nega di dargli nella contribuzione le rarità di Roma. A questo proposito si ritrovò domenica 24 un cartello scritto alla porta dei commissari francesi così cantante

Viva Gesù, viva Maria

ma le statue e codici non si portan via

In Bologna si sta in grande aspettazione di nuove dai quattro inviati per il Governo Legislativo della Repubblica e molti sono di parere che tutto possa divenire una azione comica a tal segno che hanno battezzati gli inviati con quattro soprannomi, maschere della comedia cioè Dottore, Pantalone, Brighella ed Arlecchino. Il Dottore è il nostro Conti, il Pantalone è Sebastiano, il Brighella è l’avvocato Aldini perché il Brighella è quello pronto ai ripieghi, l’Arlecchino è infine il senatore Savioli perché di personale piccolo e rotondo, spiritoso, non già sciocco, ma destro e vivace.

Non ostante tutte queste vicende si è saputo che l’assemblea francese ha risposto che nulla determinerà né sopra Bologna, né sopra Ferrara se non a pace seguita col Papa. Intanto la nostra città è esaurita di soldati e cavalli mentre se ne chiedono altri 3 mila essendo stata quasi che disfatta la cavalleria sotto Mantova.  Si aggiunga che Bonaparte chiede un milione e mezzo di contanti in puro prestito ed il Senato non ne ha uno e si pensa ad una nuova requisizione.

In Terracina la notte si sentirono naturalmente suonare tutte le campane delle chiese. Il popolo sbigottito corse ad aprirle sul timore di qualche tradimento, ma nulla trovò se non le immagini illuminate di M. V. con gli occhi aperti.

 Nel castelletto di Coriano sopra Rimini si scoperse una immagine di Cristo morto su la croce che aprì gli occhi, la bocca e mosse i SS. piedi. Il popolo atterrito gridava misericordia, onde quel vescovo spedì i frati M. Osservanti ad ascoltare le confessioni.

Il 31 luglio giunse a Ferrara una avanguardia di 20 mila tedeschi che tosto fece sloggiare quei pochi francesi che vi erano di presidio i quali, avendo inteso l’avanzamento dei nemici, intimarono ai poveri ferraresi una contribuzione di 80 mila scudi nel termine di 3 ore sotto pena del sacco. Furono subito pagati e poi i francesi inchiodarono tutti i cannoni e le polveri e le palle furono gettate nell’acqua della fossa della fortezza. La sera all’imbrunire arrivarono i tedeschi che si impadronirono di tutta la città e della fortezza.

Non sapendo il nostro Senato come guarnire le porte della città per la partenza dei francesi e dei miliziotti, scrisse una circolare ai castelli del territorio ed agli altri comuni. Con essa si ordinava di eleggere nei castelli due terrazzani e quattro villani e negli altri comuni solamente due villani. Questi avrebbero dovuto portarsi a Bologna a servire per un anno da cominciare dal prossimo 11 prossimo agosto. Ordinò di più che, ove rifiutassero le persone di prestarsi volontariamente, si dovesse fare la imborsazione di tutti i giovani non ammogliati dai 18 ai 40 anni. Perché nessuno si volle prestare fu necessario alla Comunità procedere a una notificazione pubblica al popolo di quanto si voleva dal Senato.

L’Imperatore sdegnato della ribellione di Bologna al Papa e della dedizione del Senato alla Francia, fermò nei suoi stati tutte le cambiali di mercatura e i beni stabili dei bolognesi. Cosa che fece non piccola perplessità nella mercatura tanto della Toscana che della Lombardia dove i nostri bolognesi hanno interessi.

 Le nuove che vengono di Mantova sono che i francesi soccombono e sono dai mantovani battuti con gravi perdite e la città è difesa da bravissimi artiglieri due die quali sono cappuccini ed uno è un ex gesuita di Valenza per nome Cantò

Il 28 luglio avvenne questa battaglia. Erano avanzati i francesi fino all’ultimo steccato e presso alla città mediante un ponte di legno preparato per una ritirata e già i primi avevano preso per fino le bocche dei cannoni ed abbracciato uno. Al presidio mantovano convenne tagliare loro le braccia con la le sciabole potendo impedire poco la moschetteria francese.

Intanto il generale tedesco Vumfer[69], nipote del famoso Laudon, dopo avere data nel confine veneziano un colpo ai francesi corse velocemente a soccorrere Mantova. Colpi i francesi con l’artiglieria, tagliò loro il ponte provvisorio tagliandogli la ritirata. Si combatté aspramente da ambo le parti ma i francesi dovettero cedere. Avendo poi preso il passo della Peschiera, fece crescere l’acqua nel lago circondario di Mantova e così quella parte che non fu uccisa dall’armi fu soffocata dall’acqua.

Si impadronì di tutto il blocco consistente in mille cannoni, di tutte le bombe, attrezzi militari, provviste di guerra e bocca, fece gettare nel Po più di 100 carri di morti francesi e quei pochi che poterono fuggire rimasero tutti dispersi.

I prigionieri francesi al numero di 2 mila appena entrati in Mantova furono tutti ad uno ad uno decapitati, perché così avevano fatto i francesi con gli imperiali, non volendo mantenerli e risparmiando per i suoi.

Inoltre altre cose sono accadute. Il comandante Agerò francese è stato ferito mortalmente, anche Userò. Il 2 agosto furono condotti prigionieri a Milano. Bonaparte è fuggito alla volta di Piacenza dove si pensa si sia stato arrestato in un piccolo castelletto dai locali terrazzani. Sua moglie col fratello, che fuggivano scortati con 40 cavalli alla volta di Milano sono stati arrestati. Il bagaglio perduto è indescrivibile, mille cavalli abbandonati, bestiami, viveri ed altre robe, escluso farine, grani e vino perché non ne avevano. Questo loro campo è stato interamente disfatto. Un contingente austriaco calò dal Tirolo, si impadronì subito di tutte le piazze venete di confine, occupate dai francesi cominciando dal lago di Garda fino a Cremona. Il presidio francese di Peschiera di 8 mila soldati è stato fatto prigioniero.

Vusmer per la ritirata dei francesi si è impadronito del Po e del ponte fatto dai francesi a Piacenza ove ha posto il suo quartiere generale.

Il 2 agosto furono poi pubblicati altri bandi sopra il male dei bovini e provvedimenti per il loro macello.

Si è avuta notizia di come il generale francese Clarmen[70] venga a tutta forza con 40 mila fanti e cavalieri a soccorrere i corpi sparsi qua e là. In questa contingenza sarà sloggiarono tutti i francesi da Bologna, che venne evacuata. La perdita dei francesi nell’assedio di Mantova e nella battaglia è stata in totale di 46 mila. I mantovani nella battaglia, dal 4 luglio a tutto il tempo che è durato l’assedio è stato di 26.600 persone. Le palle dei cannoni francesi erano di venticinque libbre, le più grosse ritrovate[71].

La nostra Repubblica di Bologna è in uno spavento grandissimo. I Senatori non si vedono, si tengono le riunioni e le assemblee di notte tempo. Lo stemma della libertà che è una donna nuda che poggia su una mezza colonna, con fascio di verghe e mannaia e tiene con la destra il bastone con la beretta sopra, ancora esiste sopra la porta del palazzo con l’altra insegna di Bologna. Ma però la città è mesta.

Il passato 6 luglio allo scopo di scansare in questo Castello i tumulti e la insurrezione popolare per la estrazione dei militari che devono guardare la Città ed anche perché il Corpo comunitativo non fosse assalito se si fosse riunito nella propria residenza consolare, si convocò il Consilio, senza avviso ma privatamente, in casa mia. Qui si trattò dell’affare della estrazione accennata.

Fu deciso di spedire immediatamente una lettera al Confaloniere sen. Vincenzo Graffi con la nota di quelli che si credevano forniti dei requisiti richiesti e così restare la Comunità illesa e liberati i suoi rappresentanti dalle insurrezioni dei malcontenti. Infatti il popolo si vantava di non volere servire la città, di farle la guardia e lasciare la propria patria per essa e forse dovere andare alla guerra per difendere gli stati altrui. La nota dei giovani è nell’archivio della Comunità. Arrivò poi la seguente risposta cioè che assolutamente si facesse la imbustazione con però l’istruzione che se il Massaro ha più di un figlio se ne imborsi uno. Se il fattore ha più di figlio libero si imborsi. Tutti i garzoni si imborsino. Un figlio unico non si imborsi. Se nella casa di un miliziotto vi è più di uno abile, si imborsi. I possidenti locali non si imborsino. Gli esenti dei dodici figli non devono andare esenti ma si imborsino secondo si è detto degli altri. Gli artisti capi di bottega non si imborsino. In seguito, chiamati due testimoni in Consilio, si è fatta fare da un fanciullo la estrazione e sono usciti: del Castello Francesco Astorri e Natale Galavotti, del comune Giacomo di Andrea Castellari ed Antonio Brini e infine della Villa di Poggio Angiolo Mascagna e Francesco di Andrea Fabbri. Quindi, affinché nessuno alleghi ignoranza, la Comunità ha fatto affiggere ai luoghi soliti una notificazione perché si presentino al capitano Giorgi per averne poi l’accompagnamento con lettera della Comunità.

Fu delusa l’aspettativa poiché ognuno ricorse ai possibili ripieghi e convenne alla Comunità fare una nuova estrazione per il Castello e Borgo e per la campagna, soprattutto poi per la Villa di Poggio onde si durò fino al giorno di S. Bartolomeo a fare le estrazioni e i cambi.

I grani, che erano stati sequestrati a diversi proprietari, stante la buona raccolta, furono pagati dal Senato come pure le sovvenzioni fatte dalla nostra Comunità alle truppe francesi che ammontarono a lire 1.300.

Uscì poi un altro Bando che imponeva settimanalmente ai consoli di dare notizia alla Giunta Criminale dei tumulti che fossero  successi e che inoltre non si desse ospitalità a forestieri massime agli insorgenti di Lugo e Romagna.  Di conseguenza la Comunità intimò ciò ai locandieri del paese.

 Uscì un altro Bando sopra i forestieri abitanti nella città e provincia.  Il Governo intendeva espellerli quando non fossero artisti necessari.  In questo luogo vi erano scapestrati  e fu data supplica alla Comunità contro i loro capi cioè Antonio Cenni detto Gattino, Gaspare Ruggi, Tomaso Chiari detto Bucellai, Antonio Marchi dettto Sgambillo e Luigi Ferri detto Ripidorino. Costoro radunati in conventicola andavano alle case di campagna, derubavano e facevano ciò che pareva. La Comunità ne diede l’istanza a Bologna ma costoro, accortisi di ciò spatriarono.

Era divenuta questa provincia sconvolta perché i fornai da scassa non volevano più fare pane. Il Governo di Bologna scrisse alla Comunità onde suggerisca come intervenire. Le si rispose che sarebbe stato opportuno procedere come nella podesteria di Casal Fiumanese, che tutti fanno pane da vendere, osservando sempre le tariffe. Si aggiunse che in passato in tempi di carestia nel contado furono fatte quattro frumenterie[72]. Il Governo impose poi alla Comunità di vigilare che non vi fossero estrazioni di grano da Castello e così finì il mese di luglio

Seguì lo strepitoso fatto d’arme sotto Mantova, in cui furono perdenti i francesi. Persero tutto il campo, mille canoni, tutte le argenterie, munizioni, casse pubbliche ed altro levato dallo stato pontificio, da Bologna e Ferrara. La preda fu calcolata in più di dieci milioni. Le perdite francesi furono dovute in parte alla fucileria e in parte all’annegamento per l’aumento delle acque nel lago per il taglio fatto nell’Adige dal generale tedesco Vumster. Queste perdite furono incalcolabili e così fu liberata quella importantissima piazza.

Crescendo poi i male nei bovini furono pubblicati bandi, come pure altre provvidenze intorno al culto divino.

Non si prosegue per ora a scrivere degli accidenti giornalieri dato che dispiace anche solo parlarne in bene o in male. Il Governo teme una qualche insurrezione popolare sia per il Bando improvviso sopra le monete pontificie sia per le contribuzioni sempre nuove che tutti i possidenti avrebbero dovuto immediatamente pagare nel termine di tre giorni. Tasse che erano applicate senza giustizia e proporzione.

Il 17 agosto il Governo spedì a questa Comunità un corriere affinché la stessa sera si provvedesse albergo e vitto a 50 soldati provenienti da Bologna, condotti dal tenente Nicola Raimondi che doveva ricevere dalla parte di Romagna una parte dei contributi imposti al pontefice. Questi arrivò sull’avemaria con credenziali dell’Assonteria di Milizia. Contemporaneamente ricevette dalla Romagna una lettera del notaio Belmonte di Rimini, che aveva l’impegno di accompagnare, con i dragoni pontifici, il danaro che scriveva che non sarebbe venuto avanti per non sacrificare la sua gente, essendovi malcontenti nella Romagna.  Perciò Il tenente la notte seguente andò sulle 6 ore alla Toscanella e qui fu fatta la consegna del tesoro in 14 carrettoni di argenteria e contanti che si disse essere di 5.180.000 scudi. Giunse nel Borgo accompagnata dai nostri militari con alcuni francesi, qui si fermò, si rinfrescò e partì sul pomeriggio alla volta di Bologna.

Intanto cresceva un sospetto per salute negli uomini a causa delle carni macellate. Questa comunità temeva di essere in qualche pericolo poiché i nostri macellai hanno usavano il macello della vicina Toscanella ove si mettono in vendita carni senza controllo non essendo soggetto ad alcuna visita. I nostri macellai di nottetempo portavano gli avanzi di quelle carni nel nostro macello e qui si davano al popolo. Perciò la Comunità scrisse all’Assonteria di Sanità onde provvedesse al disordine. Ascoltò essa l’istanza e la passò al marchese Giacomo Malvezzi feudatario che interdì quel macello.

 Nello stesso tempo giunse alla Comunità una lettera della Giunta di dovere dare nota di tutta la popolazione del Castello, Borgo e campagna.  La rilevazione fu ricavata dallo stato delle anime della parrocchia e fu la seguente che fu subito trasmessa

Castello

Sacerdoti secolari N. 11

Uomini e donne N. 971

Fanciulli e fanciulle N. 392

Totale N. 1374

Borgo

Sacerdoti secolari N. 3

Uomini e donne N. 589

Fanciulli e fanciulle N. 274

Totale N. 866

Campagna

Uomini e donne N. 943

Fanciulli e fanciulle N. 454

Totale 1397

il totale è di 3.637 anime

Non essendo compreso Poggio per ciò si ingiunse a quel parroco Don Alessandro Dal Bello di spedirla e fu la seguente:

Villa di Poggio

Sacerdoti N. 4

Uomini e donne N. 438

Fanciulli e fanciulle N. 176

Totale 618

Totale complessivo 4.255

Il vicariato del S. Ufficio, che sino ad ora era sempre stato in mano dei frati e qui in mano del frate di S. Bartolomeo P. Agostino Gasparini, oggi è passato in mano dell’arciprete Calistri per essere vicario foraneo.

 Uscì anche una circolare del vescovato ai suoi parroci di non dovere parlare, né in bene né in male, delle corone belligeranti. La pena sarebbe stata per i frati l’espulsione e la confisca dei beni, per i parroci la perdita della chiesa e l’espulsione dallo stato ecclesiastico e per gli altri preti l’esclusione dallo stato ecclesiastico. Gli ex gesuiti spagnoli furono presi in sospetto, quindi si teme che possano essere espulsi da Bologna. Furono bandite tutte le coccarde, ad esclusione delle spagnole per ii nazionali spagnoli e le francesi.

Da Roma si hanno relazioni di infiniti prodigi di S. Immagini di Maria e di Santi.

E perché si sospettava che il male de bovini potesse essere trasmesso agli uomini mediante la carne delle bestie macellate, fu ordinato che prima di essere macellate fossero visitate dal maniscalco, dal Massaro ed anche da uno de pubblici rappresentanti. I nostri macellai di Castel S. Pietro tenevano ancora in affitto la macelleria della Toscanella cosi c’era il sospetto che in quella si macellassero bestie di qualunque tipo e provenienza e che le loro carni possano essere infette. La Comunità scrisse all’Assonteria di Sanita che provvedesse lei al disordine altrimenti sarebbe stato necessario ricorrere al legato di Ravenna. l’Assonteria prese in considerazione il fatto, fece i suoi risentimenti al mandatario Giacomo Barone e quel macello fu subito sospeso.

Il 26 agosto per porre termine alle controversie, nate fino dall’anno 1794, sopra la Via de’ Confini tra Dozza e questa Comunità, si fece sapere al marchese Malvezzi che, senza spedizione di periti, la nostra Comunità avrebbe proceduto al suo riattamento in comunione colla comunità di Dozza. A questo scopo il giorno 6 settembre i nostri delegati andarono sul posto ove, intervenuto il governatore di Dozza dott. Giovanni Soriani, fu tutto composto.

A Bologna i deputati avevano ultimato la stesura del nuovo sistema di governo repubblicano. Questo non piacque ai nobili e vi fu un grosso diverbio con i deputati nel Senato perché i primi si vedevano diminuiti nella autorità e nella partecipazione ai tre gradi di cittadinanza cioè medici, giuristi, mercanti e cittadini. Quindi per escludere questi il Senato pretese che nessuno di questi ceti potesse partecipare al Governo quando non avessero almeno una rendita annua di mille scudi. Ciò era lo steso che escludere quasi tutti, pochi giuristi, medici e mercanti avevano tale rendita.

La conclusione però fu che si esaminasse nuovamente il piano della Assonteria de Magistrato, la quale pendeva più per la nobiltà che per la cittadinanza. Fu perciò chiesto ai legislatori o per dir meglio ai compilatori delle leggi di emendarle e fare un nuovo statuto. Questi si opposero dicendo, che avendo il Senato trasfuso in essi la facoltà legislativa non volevano dimettere la loro autorità, se non con il consenso di tutta la città. Intanto fu lasciato tutto in sospeso.

Crescendo poi il male dei bovini, e morendone parecchi nel nostro comune il Console dovette isolare nelle case i coloni le cui bestie erano state colpite. Tra questi ci fu la famiglia di Innocenzo Dalfiume, socio dei Farnè alla Pellegrina, Marco Marabini socio alla Porzana del sen. de’ Buoi. I romagnoli, temendo di essere attaccati, posero le guardie e dei soldati alla Sellustra e non lasciavano né uscire né entrare alcun tipo di bovino, solo cavalli e bestie da soma. Perciò ci furono problemi anche per il macinare non potendo entrare con bestie nella Romagna.

Venne poi una orrida grandinata che distrusse quasi tutta l’uva del territorio di Castel S. Pietro.

In questo tempo venne un emissario francese di nome Giuseppe de Michelis che visitò tutto il Castello, informò sulle famiglie e sulle possidenze della chiesa, si fece pagare dalla Comunità la il cibo per sé e il cavallo a ragione di l. 18 il giorno e stette qui due giornate. Osservò i palazzi, per porvi i quartieri d’inverno in caso di bisogno.

Il Senato, vedendo che le bestie bovine avevano patito e si temeva di loro sterminio, esentò con bando tutti i contadini dalla inghiaiatura per quest’anno.

Venne avviso che il Duca di Modena Ercole d’Este, che era fuggito a Vienna, aveva rinunciato al ducato con lettera alla reggenza di quella città. I cittadini capirono male la cosa e vollero pure essi partecipare al governo, andò la città a rumore, seguirono uccisioni ed in ultimo fu proclamato: Viva la Libertà francese e fu inalberato l’albero nella pubblica piazza.

Nuovamente i francesi posero l’assedio a Mantova.  Per tentare di fare breccia nelle difese a Ferrara si fece un a requisizione di botti vuote di qualsiasi tipo. Le botti furono 900 e furono spedite a Mantova per riempirle di sabbia e fare una strada nel lago.

Un corriere dalla Lombardia portò la notizia che una insurrezione di 15 mila contrabbandieri fra Novi e Tortona avevano depredato ai francesi tutto il tesoro pontificio con 2.500 cavalli e muli.

Chi volesse raccontare non che segnare tutte le cose che giornalmente accadono e si vociferano nelle contingenze presenti, dovrebbe giornalmente e continuamente avere la penna in mano. Ma ciò non potendosi, né dovendosi fare perché tutto poi non reggerebbe, scriverò soltanto ciò che sarà puramente necessario e che accadrà nel paese o avrà correlazione con lo stesso.

La vendemmia riuscì scarsa non solo a motivo delle grandinate, ma anco per il commercio di bestiami fra la nostra provincia e la Romagna. Ora che siamo alla B. V. di settembre si paga 12 scudi la castellata. La epidemia dei bovini cresce e si estende anche nella Romagna. Nel comune di Anzola ne sono morti quasi 400 e i villani non sanno come lavorare.

Il 6 settembre si fece la visita alla strada dei confini con Dozza. Erano presenti per Dozza quel Governatore Giovanni Soriani e Paolo Manaresi e per la parte nostra Antonio Balduzzi e me Ercole Cavazza. Fu concluso, salva l’approvazione delle rispettive Comunità, che la strada si tenesse in fondo al corso dell’acqua fino dove si poteva, poi al Lavino si riportasse al suo percorso antico. Il lavoro si avrebbe dovuto fare a spese comuni spese delle Comunità e piantumazione degli alberi sulla sponda spettasse alla Comunità di Castel S. Pietro.

Giovedì 8 settembre, giorno dedicato alla natività di M. V., la compagnia del SS.mo secondo il consueto andò alla Madonna di Poggio. La Comunità nostra non mancò di portarsi in Corpo alla visita della S. Immagine con l’offerta di cera e di sei messe.

Lo stato della chiesa si trova in critiche e lacrimevoli circostanze per l’epidemia de bovini che non si lasciano transitare di una provincia all’altra e nemmeno attaccare agli aratri e ai carri causando   l’impossibilità di fare i lavori della campagna.  Le guerre stanno inondando l’Italia, i governi hanno perso ogni stima, Il clero libertino ed  esoso ha tutto ingozzato. Tutto ciò sembra all’universo un castigo divino. La cosa più deplorevole nella popolazione è poi la scarsezza del danaro e il commercio bloccato. 

Perché alcune stalle del comune nostro di Castel S. Pietro erano attaccate dal morbo ed erano morte le bestie, il Consolo ser Francesco Conti le fece chiudere e mise in guardia i villani dal trasmettere il male alle altre. Impose di non andare nemmeno a messa. Ne diede poi notizia all’Assonteria di Sanità che approvò la decisione. Contemporaneamente il Senato, per precetto estorto dall’arcivescovo da quanto si disse comunemente, ordinò ad ogni Massaro di andare alla questua dell’uve per i mendicanti di Bologna imponendo, sotto pena di carcere, di comandare un bifolco a fare il giro e la questua nel rispettivo comune e trasportare l’uva raccolta alla città.

La nostra Comunità, come molte altre, prese male un tale ordine a motivo di esporre i bovini al pericolo di infettarsi accostandosi alle stalle ove erano altri bestiami. Al dubbio sanitario si aggiungeva la scarsità dell’uva e le grandinate che avevano diminuito la raccolta.  La nostra Comunità fece ciò presente con lettera al Confaloniere Carlo Bianchi per averne la dispensa.  Aggiunse anche che per la vigilanza il delegato doveva essere vestito di tela cerata nelle sue visite. Infine espose che ritrovandosi nel precetto l’obbligo ad un officiale della Compagnia del SS.mo di assistere alla questua nasceva un dubbio perché nel nostro Castello c’erano due Compagnie del SS.mo, una cappata anticamente eretta nel secolo passato ed un’altra introdotta dall’attuale arciprete Calistri composta tutta di villani, il cui solo compito è sostenerlo non facendo alcun esercizio di opere spirituali. Per ciò la Comunità non sapeva a qual partito appigliarsi. Ciò si fu fatto nella riunione tenutasi il giorno di domenica 11 settembre. A questa lettera non giunsealcuna risposta. 

Intanto a Bologna si presentano due partiti. Temendosi qualche insurrezione, fu proclamato l’ordine di non andare in gruppi . Fu pure fatto sapere che presto si sarebbe veduto il nuovo piano di Governo, che sarebbe stato approvato dai due generali francesi Saliceti e Augereau.

Le composizioni e poesie stampate in satira dei francesi erano molte e molto tempo occorrerebbe per trascriverle.  Ne accenno solo due che mi sembrano più salaci e sono per Bonaparte

Bonaparte non vol parte

perché vol più di sua parte.

e nel mondo non v’à parte

che non vogli la sua parte

Tal quadernario fu riassunto nel seguente distico:

Non Bonapars partem vult, sed partem occupat ultra

pars nulla in terra est, quia volet esse suam

In da Faenza arrivarono i seguenti anagrammi:

Bonaparte : Pane rubbato

Municipalità : Capi male riuniti

In questo stato di cose vedendo il Papa che le cose andavano alla peggio, fu proposta la pace fra esso e la Francia a mediazione del sovrano di Spagna. A questo scopo fu concertata una Dieta a Firenze, vi intervennero, per la parte pontificia, il Padre Salvati teologo domenicano, mons. Galeggi ed il cavaliere Azara[73] ministro spagnolo. e mons. Della Greca.

Gli incontri non ebbero quell’effetto che si sperava. Troppo gravose furono le richieste della Francia, e la pace non fu conclusa.   

Il 13 settembre il Papa convocò i Cardinali e gli presentò le condizioni della Francia. Tutti i cardinali espressero parere contrario perché, oltre l’annientamento della potestà temporale pontificia, si toccavano molti e diversi punti di religione. A Roma si sparse voce si sarebbe perciò fatta una guerra di Religione. A questo effetto il Papa spedì alle corone cattoliche dei corrieri per sentire il loro sentimento.

Si scoperse intanto che il cavaliere Azara aveva tradito la chiesa, il suo sovrano ed il re di Torino col lasciare introdurre nei loro stati i francesi con cabale onde fu revocato dal suo impiego e relegato in Pamplona, città e fortezza della Spagna.

Il nostro Senato con decreto abolì tutti i titoli di Conte, di Marchese ed altri simili lasciando solo intatta la dignità e i titoli professionali cioè Dottori, Notai e Avvocati, volendo che da ora in poi si chiamassero tutti cittadini e i nobili come le altre persone. In questo fatto si riconosce che l’eguaglianza francese richiama e si riporta al metodo romano quando era Roma era Repubblica. Si può giustamente dire con Ovidio:

Non census, nec nomen avorum

In verità era una enormità che la nobiltà del sangue dovesse trasmettersi nei discendenti anche se reprobi ed ignoranti.  Questa deve essere propria di chi se la produce e guadagna.

Nel medesimo tempo il Senato ordinò che la infamia per qualche delitto non dovesse trasferirsi nei successori, ma riguardare solo il suo autore.

I capi degli insorti imolesi che nel dì 18 e 19 volevano incendiare il palazzo pubblico furono dispersi. Quattro sono stati carcerati, uno dei quali è Antonio Marchi notaio imolese. Gli altri sono fuggiti. L’autore principale fu il Conte Francesco Tozzoni che subito andò all’armata francese dalla parte di Bologna.

Il 23, 24, 25 settembre si fece un solenne triduo al nostro miracoloso Crocefisso della Compagnia del SS. SS.to e l’ultimo giorno, che fu la domenica, si fece il dopo pranzo la processione con la S. Immagine che fu portata fori della porta di sopra nella piazza dei Cappuccini. Qui furono cantate le preci ab epedemica animalium lue, con la risposta te rogogamus per tre volte e per due volte ut inimicos S. Eclesie, quindi dopo cinque Pater ed Ave si diede la benedizione verso la parte del meridio. Poi la processione, tornando verso il Castello, passò dietro le mura presso il Toressotto Locatelli, ove si stentava a passare per quel piccolo vicolo, si fermò dietro il palazzo Malvasia in quella piccola piazzola, ove recitati i cinque Pater ed Ave con la replica delle precedenti preci fu data la S. Benedizione verso l’oriente. Ripresa la processione si procedette dietro il convento di S. Francesco e le mura del castello fino all’angolo inferiore e, rivolgendosi verso la porta maggiore del Castello, ci si fermò nella piazza de bovini. Furono replicati i cinque Pater ed Ave e si diede la benedizione verso il ponente. La processione poi si incamminò entro il Castello e si portò alla piazza maggiore alla chiesa del SS.mo, ove replicate sulla porta le orazioni si diede la benedizione al popolo verso settentrione, così che fu benedetto il paese e il suo territorio nelle quattro parti che lo compongono.

A questa processione intervennero le tre Religioni, le due Compagnie e il Corpo Comunitativo in uniforme nera, tutti con lume. La funzione riuscì non meno bella che devota quantunque la pioggia precedente avesse diminuita la partecipazione e l’arciprete favorisse di mala voglia questa singolare devozione.

Il 19 settembre, giorno di S. Michele, si pubblicò la notificazione del Senato che prevedeva di dovere trasformare gli orologi pubblici all’uso oltremontano e non più all’italiana, cosa che imbarazzò molto.

Fu pure pubblicato il Bando sull’abolizione delle monete papali da soldi sessanta e da venticinque, il che produsse grandi esclamazioni.

Si pubblicò anche un lungo editto sopra il controllo e la vigilanza del male dei bovini.  Era stato per ciò diviso il territorio in tanti quartieri assegnando a ciascun deputato dall’Assonteria di Sanità più comunità. Per Castel S. Pietro fu deputato il consigliere Francesco di Pietro Conti, sottomettendole queste comunità: Castel S. Pietro, Liano, Casalecchio, Poggio e S. Maria della Cappella.

A questa calamità si aggiunse anche la siccità del tempo da molti mesi a questa parte tanto che non si poté macinare per mancanza di acqua. Trasportare grani nella Romagna è impedito dalle guardie militari di quella, che procedendo con sommo rigore, non vogliono concedere il transito delle bestie se non sono accompagnate dai militari locali fino al limite del loro confine.

Non si era potuto concludere la pace fra il Papa e la Francia a motivo delle dure pretese dei francesi tra le quali vi era che i preti, gli ecclesiastici e i monaci potessero congiungersi in matrimonio, che il papa deponesse il Governo laicale, che si approvassero i preti e i vescovi intonsi nella Gallia. Inoltre che a Roma avesse la Francia una stampa libera, un teatro permanente, un Giudice superiore per qualunque causa indipendente dal papa. Che le confessioni e i sacramenti di penitenza fossero aboliti e molto altro.

Fu perciò dal Papa dichiarata la guerra alla nazione francese. Si alleò il Papa con Napoli a difesa dei propri stati e parve questo l’ultimo mezzo per chiudere e decidere coll’armi ogni pretesa. Fu revocata per ciò la contribuzione del Papa e tutti gli argenti e le robe concesse furono da Rimini richiamate a Roma. Si cominciò quindi ad avere paura.   

I francesi erano ritornati i sotto Mantova che nel frattempo era stata rinforzata dagli imperiali. In una battaglia successa sotto un Castello detto Governolo, distante poche miglia restò tagliata fuori una colonna di imperiali, Ussari ed Ulani, gente ferocissima e pronta ad ogni impresa.  Nella ritirata per mettersi in sicuro, vennero nelle parti di Lombardia in numero di quattrocento e più. Presa la strada di Parma e Piacenza, vennero sotto Correggio poi passarono  a Reggio domandando quartiere a quella città. La Guardia Civica rifiutò e successe un piccolo attacco, in esso perirono 23 reggiani e solo sette imperiali furono feriti. Era questa truppa tutta cavalleria, aveva con sé munizioni da bocca e da guerra con sette pezzi di cannone fra quali uno tirato da 14 cavalli.

Temendo il nostro Senato nostro una qualche scorreria mandò fuori un avviso nel quale si ordinava che trovandosi di questi militari si cercasse di fermarli, arrestarli e respingerli anche col suono della campana a martello e con le armi.

I reggiani poi, mal soffrendo di essere tributari di Modena, il 3 ottobre insorsero e, uniti ad un corpo di francesi, vennero di notte tempo alla città, presero all’improvviso una porta e fecero prigionieri i militari che custodivano la città.  Ne furono condotti 70 a Bologna nel convento di S. Giacomo. Gli altri militari che si trovarono in quel conflitto notturno ed improvviso deposero le armi, disertarono e vennero alla volta della Romagna.

Contemporaneamente si ebbe notizia che il Papa aveva concluso e segnata, il primo ottobre, l’alleanza col Re di Napoli che si obbligava a difendere gli Stati pontifici con le sue armi, unite a quelle della chiesa, in numero di 40 mila combattenti. In correspettivo di ciò il Papa cedeva a quel Re i diritti della chiesa e i tributi con le giurisdizioni laicali su Viterbo.

Certo egli è che il Direttorio della Francia aveva mandato al Papa 64 capitoli da accettare in toto o rifiutarli. Il Papa, che con i cardinali riconobbe essere inaccettabili, rifiutò l’approvazione e prese il partito della guerra.  Si racconta che passi alla corte di Napoli centomila scudi al mese fino a guerra finita e con la condizione di non fare pace separata con la Francia.

Nella sessione tenutasi in Firenze, essendosi riconosciuto partigiano della Francia il teologo Soldati, domenicano, fu in seguito, come sospetto di intelligenza, arrestato.

Il Papa poi per giustificare il suo operato, non meno che per porsi in difesa, poiché il popolo romano gridava guerra, guerra, fece una circolare a tutti i capi, sia ecclesiastici che secolari, invitandoli a resistere alle armi nemiche.

Il Senato di Bologna promulgò una notificazione a suoi sudditi col titolo: Notificazione di Disinganno, perché non si fomentasse qualche insurrezione, tanto più che a Imola vi era un non piccolo sussurro e gente armata che minacciava e reclamava contro Bologna. Giunse ciò a notizia del generale francese che suggerì al vescovo card. Chiaromonti d’Imola e ai capi dei rappresentanti che usassero un diverso contegno altrimenti minacciava di saccheggio e guerra. Intanto si sentì che stava venendo alla volta di Romagna un riguardevole corpo di soldati napoletani e romani.

Non essendosi potuto combinare le condizioni di pace fra la Repubblica gallicana e il Papa, questi fece produrre alle stampe la notificazione con l’istruzione ai suoi sudditi di prendere le armi per la difesa dei suoi Stati. Però questo non poteva bastare e perché conosceva la debolezza delle sue forze e le insufficienze del suo del Governo, quindi, contratta una alleanza col Re di Napoli, fece fare l’armamento di 36 mila combattenti cioè 12 mila papalini e 24 mila napoletani, numero da aumentare secondo il bisogno. Le clausole di questa confederazione non sono pienamente prodotte alla luce.

Intanto il Senato di Bologna pensò di formare una confederazione con Ferrara, Modena e Reggio. A questo effetto i capi delle tre città furono chiamati ad una dieta a Modena per concordare gli accordi. Bologna chiamò al Consilio sei municipalisti dei luoghi di maggiore importanza del suo territorio che furono Medicina, S. Giovanni in Persiceto, Castel S. Pietro, Budrio, Crevalcore e Molinella.

Nominò poi il Senato quei soggetti che credette più capaci mediante circolare spedita il 12 ottobre affinché si trovassero immancabilmente in Senato il di seguente venerdì 13 ottobre.  Ma perché vi furono alcuni che per malattia o altri impedimenti non avrebbero potuto intervenire fu loro concesso di potere farsi sostituire. La nota dei cittadini deputati dal Senato di Bologna fu poi pubblicata. Essi si dovranno trovare il 16 ottobre 1796 a Modena a quel congresso ordinato dai commissari francesi per trattare l’alleanza delle quattro città. I delegati furono 36 per Bologna, 24 per Ferrara, 20 per Modena e 20 per Reggio per un totale di 100.

I bolognesi furono: del Senato, Segni Lodovico ed in sua vece Dondini, Carlo Caprara, Vincenzo Marescalchi, Ulisse Aldrovandi, Bentivoglio e Isolani Alemanno.

Della città,  Giuseppe Cacciari avvocato, Zechelli avvocato Antonio Aldini avvocato, Giacomo Pastorini avv. consultore, Ignazio Magnani avv., D. Gnudi abbate di S. Giuliano, dott. D. Luigi Morandi parroco di S. Sebastiano, Fava conte Nicolò, Guastavillani Giovan Battista, dott. Riviera medico (sostituto Aldrovandi), dott. Fabbri medico (sostituto Mondini), Gnudi Rafaele, Gandolfi Angiolo, Chiesa Carlo (in sua vece Pietro Arselli), dott. Filippo Tacconi sindaco del Senato, dott. Palcani, dott. Vincenzo Brunetti, Brusa Giacomo, De Luca Pietro, Bersani Giacomo, Bettini Domenico, Pizzardi Francesco, Bragaldi Giovanni (nativo di C. Bolognese), Gandolfi Mauro pittore.

Del Contado Agostino Grandi di Medicina, Pamiresi di S. Giovanni in Persiceto, Francesco Conti di Castel S. Pietro, ed in sua vece Ercole Cavazza, Cochi di Budrio, dott. Pigozzi di Crevalcore, Francesco Ungarelli della Molinella.

La mattina del 14 si radunarono i sopracitati nella sala ove si tengono le sessioni senatorie. Qui si parlò di questa unione prendendone da tutti i convenuti il loro consenso. La discussione non fu molto approfondita per non essere stato ancora pubblicato il nuovo sistema.  Così fu decretato che si promulgasse questo quanto prima in stampa affinché ognuno votasse gli oggetti liberamente e con piena conoscenza.

 La mattina seguente sabato 15 ottobre, ci si riunì per fissare l’ora della partenza in nove carrozze a 4 cavalli. Non si distribuì la posta per fermare tutti i cavalli degli stallatici in numero di 36.  La sera alle 20 italiane si andò a Modena, città ducale molto bella per essere stata ammodernata dall’attuale duca Ercole d’Este III, fuggito per sua sicurezza a Venezia.

La sera all’ora di notte si radunarono tutti i bolognesi nel palazzo Manzoli di quella città, già Fontanelli ora Caprara di Bologna. Si ebbe il nuovo trattato sopra la unione delle 4 città e si notificò di volere assolutamente realizzare il nuovo sistema di repubblica. Finito il congresso fu intimato a tutti i delegati di ritrovarsi la mattina seguente, domenica 16 ottobre, nella gran sala Rangoni alle ore 9 francesi (17 italiane).

 Intervennero tutti nella sala riccamente apparata a capo della quale vi era un gran tavolone coperto di damasco cremisino, ornato di oro, con cinque sedie e 4 calamai per i rispettivi segretari che furono, per Bologna l’avv. Magnani, per Reggio il dott. Parisi, per Modena Loschi e per Ferrara Isechi. Nel mezzo andò a sedere come presidente l’avvocato Cacciari bolognese.

Le altre delegazioni si opposero, quindi si ricorse alla sorte. Furono imbustati per parte dei bolognesi l’Aldini e per le altre parti i loro rispettivi avvocati. Cadde la sorte su l’Aldini, che per tutto il tempo che durarono le Diete farà il presidente.

Terminata la sessione verso le 22 ½ italiane, le quattro delegazioni si portarono nel gran cortile del palazzo ducale ove era imbandita una lunghissima tavolata che occupava da un portico all’altro.  C’erano più di 200 coperti preparati per una lautissima cena con ogni sorta di cibi.

Sedutisi i convitati con i capi della Municipalità modenese, si cominciarono a sentire strumenti da fiato, da corde e di ogni altro tipo, con sinfonie da una parte a cui replicavano replicavano canti e suoni della banda militare, che al principio sembrò un paradiso terrestre. Appena però si cominciò a mangiare a cibarsi fu tale l’affollamento del popolo modenese attorno ai convitati che le sentinelle francesi non riuscirono a trattenere la folla.  I commensali furono obbligati ad abbandonare la tavola alla discrezione di quelle genti che diedero il sacco alla mensa.

Ciò posso sicuramente lasciarlo notato ai posteri perché poco potei godere e non gustai che poca zuppa, poco cotechino e bere. Cominciarono a volare da ogni parte i bicchieri e le bottiglie onde se volli bere mi convenne inzuppare il pane nel mio gotto in modo che nessuno potesse bere i miei avanzi e così fui sicuro almeno un po’ di quel vino.

Fatta una mezzora di passeggiata ritornammo alla sessione che durò fino alle 4 di notte, terminata la quale ognuno dei delegati si portò al suo alloggio preparato in diverse abitazioni proprie e pulite, fra le quali il Collegio dei Nobili detto di S. Carlo, ove io con altri sette colleghi pernottammo tutta la notte della Dieta trattati nobilmente a spese però del nostro Senato.  Il suddetto pranzo invece fu fatto a spese della municipalità modenese.

La mattina del lunedì 17 si riprese il Congresso e così la notte e il martedì mattina in cui terminò la Dieta. Il lunedì mattina il Senato di Bologna diede un lautissimo pranzo a tutta la delegazione bolognese ed ai capi della municipalità modenese fra lieti evviva sopra la libertà e con canti al suono di ogni sorta di strumenti.

Gli evviva poi che ogni sera si sentivano per Modena non si riescono a raccontare. Perfino gli ebrei di questa città avevano apparato il porticato del loro ghetto e lo illuminavano a giorno, tenendovi una solenne musica con orchestra in faccia al loro tempio giudìo, addobbato di veli con lo stemma della libertà. Per ogni dovesi cantava un inno tratto dal francese e posto in canto figurato del quale ogni di tre strofette il popolo festante replicava: Evviva, evviva la Libertà. Chi volesse raccontare tutte le altre minutezze sarebbe infinito. l’impegno.

Ma veniamo alla sostanza del Congresso. Nella prima sessione si parlò e decise la Confederazione delle 4 Nazioni contro i sovrani passati e i nuovi che volessero opprimere la libertà rivendicata e donata dalle armi francesi. Per sostenerla fu convenuto, nelle successive sessioni, di sostenerla con la vita e col sangue, dovendosi le nazioni confederate dar mano all’armi e soccorrersi scambievolmente nei casi di aggressioni da parte del Papa o da qualunque altra potenza o insurrezione. Per consolidare l’unione fu deciso di armare una valida coorte di seicento nazionali per ciascuna nazione e città, oltre la guardia civica, da pagarsi con l’erario pubblico. A questo scopo si decise anche di erigere una cassa comune. Oltre queste quattro coorti di 600 uomini per ciascuna nazione, fu deciso che se ne assoldasse un’altra simile di 600 militari che fosse composta però di militari estranei da pagarsi in proporzione dalle dette municipalità.

In un altro decreto fu nominato un comitato di cinque soggetti incaricato della organizzazione delle cinque coorti.  Questi soggetti, nominati da ciascuna nazione e pubblicati al popolo, dovranno presiedere e fare tutto ciò che crederanno, mentre per quanto riguarda la condotta dell’affare la responsabilità sarebbe stata dell’intero Comitato.

Fatto il piano di tutto, fu decretato che si dovesse prima della esecuzione produrre i provvedimenti per l’approvazione nella seconda Dieta, che fu determinata per il 27 dicembre e in cui esaminare anche altre cose Riguardanti la Confederazione.

Nacque tra i delegati il quesito dove si dovesse tenere questa seconda Dieta, optando e desiderando ognuno la sua città, così per ovviare a problemi di parzialità, furono imbustati i nomi delle 4 città componenti la alleanza fu estratto Reggio per città capitale e questo fu fatto.

In seguito fu nominato per Commissario generale il senatore Carlo Caprara, per segretario, fu nominato il conte Nicolò Fava. Molte altre cose di poco momento si potrebbero qui raccontare, ma lo vieta la prolissità e eventualmente saranno di mano in mano proclamate.

La sera di martedì 18 ottobre, su le 22 del giorno, a Bologna fu inalberato l’albero della libertà in mezzo della piazza in faccia a S. Petronio con due bandiere spiegate al vento, la beretta rossa su la cima, coronato a mezzo del corpo con tre cartelli di diverse inscrizioni, la principale delle quali è: Egualità, Libertà, Morte ai Tiranni, o Sangue o Vita. Autore e capo di questo innalzamento fu un figlio di Ignazio Babina lardarolo di S. Bartolomeo in Porta.

 Innalzato l’albero, siccome non era in perfettamente dritto, il Bargello della piazza volle suggerire qualche cosa, fu cacciato dalla plebaglia entro la sua guardiola. Crescendo il rumore e la festa dal popolazzo attorno all’albero, il Bargello mandò a dire che si fermasse il gridio. I Presenti si adirarono, i corsero alla guardiola e cacciarono tutti gli sbirri col Bargello, che appena poté salvarsi.  Poi diedero fuoco alla guardiola e alquanti andarono ad alcune case nobili e segnatamente dal senatore Girolamo Legnani, minacciarono il sacco e vollero vino, pane, contanti ed altro per titolo di eguaglianza.

 Fu tentata la liberazione dei carcerati, ma il capo fu arrestato e, con gli altri capipopolo, furono spediti nelle fortezze di Lombardia dal generale Bonaparte che venne in Bologna la sera stessa che si alzò l’albero ed alloggia presentemente in casa Pepoli.  Se non c’era la truppa francese a Bologna quella notte purtroppo la città andava sotto sopra.

La notte del venerdì venendo al sabato 22 ottobre su le 7, 9 e prima delle 11 si sentirono varie scosse di terremoto, l’ultima durò alquanti minuti e fu molto forte. Le piccole campane suonarono e da ciò onde si vede la mano adirata di Dio. Dal 21 sono tre giorni che cade una gran pioggia dopo un lungo periodo di siccità. Nella bassa Romagna bassa il terremoto ha danneggiato molti edifici, così a Imola, Medicina, Castel Bolognese ed altri luoghi.

Domenica 23 ottobre si pubblicarono alquanti bandi e notificazioni sopra la Dieta passata che ometto per avere già scritto quanto basta.

Il 26 ottobre, detto fruttidoro[74] dai francesi, fu pubblicato il proclama sulla guardia ed armamento stabilito nella dieta di Modena. Il 29 poi fu pubblicato il Bando che ordinava che dovessero partire dallo Stato tutti i forestieri, dovendo solo rimanere i nazionali, in oltre si ordinò a tutti i parroci il rendimento dei conti delle loro rendite.

Domenica 30 secondo l’avviso venne un battaglione di soldati bolognesi tutto vestito di nuovo, dalla città passò a Castel Bolognese a dare il cambio.

Si sono avute nuove che sia stata fatta la pace fra Napoli e la Francia. Molti altri provvedimenti sono stati pubblicati in ordine al commercio. La Romagna viene presidiata da un grosso armamento papalino. Mediante una circolare del Senato di Bologna sono chiamati tutti i Consoli in città per lunedì 7 novembre chiamato da francesi  nebbiadoro, fu altresì pubblicato un altro proclama  ossia Norma della Legione Italiana con la tariffa degli stipendi militari.

In seguito di vari Bandi e Proclami fu eletto per capitano dei cannonieri per la fortezza di Alessandria Floriano Fabbri fu Flaminio nostro paesano con lo stipendio di 30 zecchini al mese. Nello stesso modo fu eletto per medico della truppa, con ottimo stipendio, il dott. Valerio figlio del dott. Annibale Bartolucci di questo nostro Castello.

Il 31 ottobre arrivò una severissima lettera al nostro macellaio Michele Corticelli, d’ordine della Giunta del magistrato, di dovere portare tutte le pelli grosse e minute al Massaro dell’Arte dei Pellacani e non più darle ad alcuno sotto rigorose pene. Questo non ostante qualunque sorta di privilegio, di immunità, esenzioni da chiunque, sentenze, statuti, patti e consuetudini e non rispettando punto nemmeno il contratto. In seguito di ciò il macellaio andò a Bologna e le obbligazioni per esso fatte al pellacano locale. Fu nel frattempo sospesa ogni questione.

Il primo novembre, giorno di Ogni Santi, il Consilio si era riunito nel solito luogo. Alcuni paesani pretesero di intromettersi Fu fatto per ciò un memoriale al Senato che andò a voto.  In seguito fu perciò in sparso il seguente ironico esametro contro chi voleva introdursi:

Regni sacra fames quid non pote diva Cupido?

Infatti alcuni paesani si erano vantati della introduzione avvenuta in seguito della notificazione del 30 ottobre che imponeva di dovere spedire due del ceto comunitativo, con libertà di sceglierne uno fuori del consiglio, per fare la nomina dei 42 da aggiungere al Senato. Furono perciò eletti col mandato elettorale Floriano Fabbri, come uno del Consilio presente, che accettò la carica. Per l’altro tutti i comunisti rifiutarono la carica e perciò fu eletto uno fuori del Consilio e fu Giacomo Lugatti.  A questi il Consilio fece le credenziali per il prossimo lunedì 7 novembre.

La nomina dei 42 soggetti, fu puntualmente fatta il 7 novembre e furono i seguenti:

dott. Vincenzo Brunetti bolognese, che per essere segretario di Gabella non fu ammesso, dott. Bachetti dal Vergato, conte Pietro Bianchetti, Domenico Bettini, dott. Sebastiano Canterzani, avv. Giuseppe Caciari, avv. Luigi Cechetti, Pavolo Dazzani di Crevalcore, dott. Giacomo Fangaruzzi di S. Gio. in Persiceto, Antonio Giusti che per essere notaio presidente dell’archivio pubblico non fu ammesso, Pompeo Fontana, Giuseppe Ghedini, Francesco Nassina notaio, Giacomo Monti, avv. Eligio Nicoli, che ancor esso non potè per essere funzionario della signatura, avv. Vincenzo Paluzzi, Vincenzo Pascale Rusconi, dott. Luigi Palcani, Luigi Tassinari di Castel Bolognese, Giuseppe Scarani, Lodovico Goti, avv. Antonio Aldini, dott. Giuseppe Fabbri anatomico, Giovanni Salaroli, avv. Vincenzo Landi, avv. Filippo Gaudenzi, Sebastiano Bologna, Filippo Marsigli, Pellegrino Zanetti, Gio. Battista Guastavillani, Vincenzo Taruffi, Giuseppe Pozzi, Antonio Colliva, Giacomo Brusa, Marco Guzzini da Gaggio di Montagna, Giacomo Gandolfi, Giuseppe Piemontese dalla Porretta, Pietro Arfelli,  Giovanni Montignani, dott. Agostino Fantini, Antonio Rizzardi e Giacomo Longhi. Quelli non ammessi furono sostituiti Giovanni Brapaldi di Castel Bolognese e Enrico Magnoni notaio.

Dopo ciò fu pubblicato un Bando che imponeva tanto ai cittadini bolognesi quanto a quelli del territorio, sotto rigorose pene ai ribelli, di portare la coccarda francese di tre colori bianca, turchina e rossa, oppure portare la coccarda nazionale a tre colori, cioè verde, bianca e rossa, che tale è la nuova uniforme militare. Contemporaneamente fu pubblicato altro bando di dovere dare nota giurata di tutti gli argenti, fibbie e posate.

 Si pubblicò altresì il libretto del nuovo piano il quale, per essere munito di un antecedente articolo imponeva pronunciarsi solo con un sì o un no, fece non poca impressione onde si sentirà in seguito la decisione nelle assemblee che si faranno nel contado, nelle parrocchie, e nella città.

Sono usciti altri bandi e proclami che riguardano azioni militari e battaglie che, per essere di lieve momento o non attendibili, si omette di riferire.

Continua il male nelle bestie e nel nostro territorio di Castel S. Pietro ne sono perite fino ad oggi 148.

Il Papa da questa altra parte ingrossa la truppa a Faenza. La pace decantata fra la Francia e Napoli non sussiste poi che quel Re voleva che vi prendesse parte anche il Papa e fosse reintegrato nei suoi stati occupati dai francesi cioè Ferrara e Bologna. Tutto finora è in grande scompiglio. I frati e i forestieri sloggiano e solo i priori sono trattenuti fino a che non hanno reso conto di tutto.

Il 12 novembre sono stati battuti i francesi dagli imperiali nel veneziano a Legnago ove perdettero 8 mila combattenti, il campo e fu perfino distrutto quel paese, ne venne che fu perciò liberata Mantova dal blocco e poté ricevere aiuti[75].

Dalla parte della Romagna stava crescendo l’armamento pontificio a Faenza. I bolognesi temendo di una aggressione presidiarono Castel Bolognese per quel poco che potevano. Questa mattina venne a Castel S. Pietro il sotto tenente Manzi da quel presidio con 24 militari scortati da contrabbandieri a cercare armi con lettera diretta alla vedova cittadina Maria Coppi Graffi. Portarono via nove fucili con la sciabola, 12 alabarde, una mazza ferrata, due grosse spingarde e due pezzi di cannone sui loro carretti, tutti avanzi, ma nulla altro trovarono.

Domenica 13, erano venuti portati in questo Castello tre ufficiali bolognesi nella nuova uniforme nazionale. Erano il cittadino conte Gabriello Riari, capitano della Guardia Civica di Bologna, Luigi Bonetti tenente della settima compagnia della Legione cispadana e Vincenzo Gotti sotto ufficiale, intendevano questi fare una festa da ballo e bagordare per poi sollecitare il basso popolo ad inalberare l’albero della libertà, detestato all’eccesso da questa nostra popolazione.

Ma non avendo trovato pascolo alle loro intenzioni, la notte alle ore 5 ½ italiane cominciarono i due officiali a girare per il Castello e Borgo cantando l’inno patriottico francese intercalato da Viva la Libertà, muoia il Borbone di Roma, viva la Libertà.

Come è uso di ogni paese cominciarono a tenergli dietro ragazzini poi adulti.  Gli ufficiali gli ordinarono di andarsene a casa. Tanto i piccoli che i grandi non ne vollero sapere. Gli officiali passarono alle minacce.  Alcuni dei ragazzi risposero che essendo tempo di Libertà volevano godersela come loro. I grandi cominciarono a questionare e far pernacchie. Crebbero le minacce e si diede mano alle armi.

Si sdegnarono i paesani e tre di questi, sebbene ragazzi di mezza età, corsero alle proprie case a prendere armi. Furono Antonio di Vincenzo Tragondani che prese due pistole, Antonio di Crispino Tomba un archibugio e Gaetano Magnani, detto Graneluccia o Majno, una sciabola.  Tornarono ove erano gli ufficiali che fecero nuove minacce vedendo i tre seguiti da altri ragazzi. Il Bonetti alzando la voce disse Olà a casa e diede mano ad una pistola, il Riari alzando sciabola, gridò: Olà a casa a casa.  Ma il Tragondani più ardito avanzò davanti al Bonetti gli sparò col la pistola, che però fece cilecca.  Deluso il Tragondani diede mano all’altra dicendo ora prendi quest’altra. Il Bonetti si sentì perduto, si pose in ginocchio e chiese la vita. Intanto dall’altro parte il Tomba vedendo avvicinarsi il Riario gli lasciò andare un’archibugiata che gli rovinò tutto il tabarro, gli stivali e lo ferì alla gamba sinistra. Per fortuna l’archibugio era carico solo con la polvere che se c’era anche la palla restava morto. Quindi gli officiali chiesero misericordia e la grazia della vita. I due aggressori gli levarono le armi cioè spada, sciabola, pistola e per fino le spallette d’oro simbolo dell’ufficialità. Appena fuggiti incontrarono altri venuti per partecipare alla baruffa. Il Riario fuggì verso le mura. Uscì dalla porta montanara e, temendo lo inseguissero, scese verso il fiume, varcò il canale pieno d’acqua con pericolo di annegarsi e venne al ponte per andarsene al suo alloggio nella locanda del Portone. Il Bonetti disarmato fuggì per la via più breve alla volta della casa Vachi ed indi andò al Portone.

Il fatto avvenne fuori dalla porta maggiore del Castello. I volenterosi ragazzi, portando come trofeo le armi e le spoglie dei due ufficiali, si fecero vedere la mattina del lunedì, giorno di mercato, mostrando i segni della loro bravura. Le contumelie che si presero durante lo scontro i due ufficiali dagli aggressori, furono inconcepibili. Tenendo anche conto del grande rischio dovuto alla differenza di corporatura tra gli uni e gli altri. Erano tanto arrabbiati ed accaniti che furono incredibili le loro ingiurie e provocazioni: 

Anime nere, bestie senza fede e lealtà, pensate di essere venuti nel paese dei minchioni? Castel S. Pietro è papalino, vi divoreremo quanti siete, foste più di mille, verranno perfino le femmine e le donne imbelli contro i pari vostri più forti e distruggeremo tutte le vostre coorti. Il Magnani guardava le spalle ai combattenti ed aspettava il Gotti per fare con lui un’altra baruffa, ma questi avvisato non uscì e si nascose con le donne che aveva con sé nella locanda. Partirono quindi per la Romagna.

I due combattenti vittoriosi portando con sé le spoglie dei nemici. Queste furono poi restituite che con la mediazione del chirurgo Domenico Giordani, che fece una discreta relazione della medicazione del ferito Riario.

Si ebbe intanto la notizia che fino all’11 novembre Ferrara tenne chiuse le porte per timore di un attacco tedesco tanto più che i francesi si erano ritirati ed accampati entro Verona e che a Rovigo si aspettavano truppe austriache.

Il nostro generale Carlo Caprara accorse a quella città. Il nostro Floriano Fabbri fu decorato del titolo di Ciambellano e spedito a Forte Urbano. Si fanno intanto reclute a Bologna per spedirle in aiuto dei francesi. A questo effetto fu spedita una circolare a tutti i Massari e Consoli del contado perché dessero nota dei vagabondi, oziosi e malviventi.

Il 16 novembre si pubblicò una notificazione di doversi il giorno 20 novembre riunire in assemblea nella arcipretale tutti gli uomini della parrocchia che avevano passati i 21 anni per eleggere i decurioni[76].  Questi in seguito si dovevano riunire nella stessa chiesa ed eleggere sei di loro che dovevano andare il 4 dicembre a Bologna, nella basilica di S. Petronio, e nominare i legislatori per la nuova legge.  Siccome nella notificazione veniva ordinato che il parroco e il priore della compagnia del SS.mo facessero il registro di chi doveva intervenire, nacque il dubbio quale dei due priori dovesse servire stante che fino dal 1780 codesto arciprete aveva ottenuto da questo buon arcivescovo la facoltà di formare una altra Compagnia del SS. detta Compagnia Larga, capo della quale ora è Lorenzo Trochi.  Cioè se il priore in oggetto sia Francesco Farnè della compagnia canonicamente eretta nello scorso secolo, oppure il detto Trochi.

Perciò il Farnè con i suoi compagni fece una supplica diretta alla Comunità esponendo in essa il bon jus che le competeva. La Comunità spedì la supplica al Senato per lo scioglimento del dubbio. La risposta fu favorevole alla Compagnia capata. Ma che? L’arciprete che era a Bologna fece revocare il rescritto e rifarlo a suo favore. Si può dare di peggio?

Durante la domenica alle ore 14 pomeridiane cominciò l’adunanza e furono 900 gli adunati. Si fecero le nomine con molte irregolarità, furono fatti due segretari, cioè il tenente Gio. Francesco Andrini e il notaio Antonio Giorgi. I due coadiutori furono Francesco Conti fu Pietro e Giacomo Lugatti. L’arciprete col suo priore Lorenzo Trochi della Compagnia Larga sedeva sopra un palco, di rimpetto sedevano i segretari con un tavolino davanti per ciascuno. Qui si procedeva alla votazione scrivendo il nome dettato dai votanti su una scheda. Ciò fatto si venne alla lettura delle schede. Non fu trovato il numero completo delle nomine prescritte nell’editto del 30 ottobre e quindi si procedette alla estrazione di alquanti nominati e fu fatto l’elenco di 93 decurioni.  Nella nomina però si era incorso in illegittimità ed irregolarità, così si prese l’espediente di scrivere tutto al Senato e spedirvi Alessandro Alvisi che era quello che aveva sollevato il problema.  Dal Senato di Bologna giunse la risposta al Consolo che essendo la faccenda incombenza comunitativa si poteva benissimo procedere come già si era fatto e che il Senato avrebbe sanato tutto.

La lista dei decurioni sopra indicati con la quantità dei voti ottenuti nel Comizio generale è la seguente:

Nome Voti
1) Andrini Giulio 56
2) Andrini Gio. Francesco 31
3) Andrini Roco Antonio 65
4) Andrini Andrea 2
5) Alvisi Lorenzo 3
6) Albertazzi Domenico 2
7) Baroncini Domenico 5
8) Bergami Ercole 10
9) Bertucci Antonio 55
10) Bertucci Camillo 7
11) Bergami Francesco 2
12) Bettazzoni Carlo 5
13) Borelli Luigi 4
14) Canetti Lorenzo 5
15) Campi Antonio 7
16) Campagnoli Antonio 5
17) Cavazza Ercole 83
18) Cavazza dott. Francesco 16
19) Calistri d. Sante arciprete 27
20) Castellari Pietro 13
21) Canè Giacomo 2
23) Canè Sante 10
24) Canè Domenico 3
25) Conti Francesco fu Pietro 88
26) Conti Francesco fu Lorenzo notaio 16
27) Conti Filippo 16
28) Cardinali Luigi 9
29) Cardinali Pietro 3
30) Chiari Francesco 3
31) Cuppini D. Filippo 8
32) Cuppini Pietro 3
33) Cella Remigio 5
34) Corticelli Michele 2
35) Dall’Ossa D. Sebastiano 6
36) Farnè Antonio 4
37) Farnè Paolo 30
38) Farnè Francesco 5
39) Fiegna Giovan Battista 21
40) Farnè Nicola 20
41) Gardi Giuseppe 3
42) Galetti Amadeo 10
43) Galetti Andrea 3
44) Giorgi Nicolò 49
45) Giorgi Carlo 2
46) Giorgi Luigi 2
47) Giorgi Pier Andrea capitano 7
48) Giorgi Antonio notaio 59
49) Giordani Francesco 23
50) Grandi Stefano 29
51) Grandi Domenico 57
52) Inviti Antonio 4
53) Grandi D. Baldassare 2
54) Landi D. Franco Cappellano 5
55) Lasi Giacomo 2
56) Lelli Giuseppe 3
57) Lugatti Giacomo 58
58) Magnani Giuseppe 9
59) Magnani Luigi 5
60) Magnani Antonio 18
61) Martelli Paolo 8
62) Martelli Antonio 3
63) Marabini Lorenzo 2
64) Macagna Marco 5
65) Muratori dott. Giuseppe 2
66) Musi Luigi 2
67) Mellini Giovanni 3
68) Nanni Pietro 2
69) Nepoti Giuseppe 7
70) Oppi Barnaba 2
71) Oppi Pietro 16
72) Petrucci Francesco 2
73) Poggipollini Benedetto 12
74) Ronchi Giuseppe 2
75) Ronchi Pietro 9
76) Ronchi Camillo 4
77) Ravasini Giacomo 2
78) Rossi Giovanni 2
77) Rossi Benedetto 3
80) Rivani Domenico 4
81) Sarti D. Luigi 4
82) Sarti Antonio 9
83) Sarti Bartolomeo 10
84) Sarti Gaspare 55
85) Salvatori Filippo 6
86) Tomba Filippo 49
87) Tomba Giuseppe di Sebastiano 10
88) Trochi Antonio 2
89) Trochi dott. D. Luigi 3
90) Trochi Lorenzo 49
91) Tragondari Vincenzo 4
92) Vergoni Natale 2
93) Viscardi Giulio 5

Si ebbe notizia in questo tempo che i tedeschi avevano ricevuto una batosta, ma non è certa.

Il Padre Giovanni Coniberti agostiniano di nazione piemontese che fu l’ultimo priore di questo convento se ne partì per la Toscana lasciando me nuovo priore sostituito poi da P. Antonio Bazani bolognese.

Molte comunità del contado non si vollero prestare alle nomine ed in alcune vi furono persone che impedirono a mano armata la convocazione così che non vi fu l’intero numero che era stato previsto. Perciò il Senato promulgò una notificazione di proroga fino al giorno 27 per la formazione del Comizio elettorale. La podesteria di Casalfiumanese si oppose e fece constatare al Senato che il numero degli elettori cittadini non eguagliava gli elettori del contado e così la città aveva la maggioranza e non si rispetta il contenuto dell’editto. Il Senato, ciò non ostante, decise di andare avanti nella formazione della nuova legge secondo gli eletti che saranno stati abilitati il d. 4 dicembre. Lo stesso proclama invitava i parroci ad animare il gregge ad ubbidire la nuova legge e indica le sanzioni fatte e da farsi.

Contemporaneamente si ebbe notizia che gli imperiali erano stati attaccati per dieci giorni continui fra

Verona, Vicenza e Cremona con perdita di molte migliaia di uomini, ciò non ostante guadagnarono per assalto Verona.

Fu pubblicato pure un nuovo editto sul dovere denunciare gli argenti dei servizi da tavola con la previsione di rigorose pene a chi mancasse. Si può da qui capire quanto sia esaurito il territorio e la città.

Narrasi che si sia fatto un debito di 18 milioni di lire per la formazione della nuova coorte. Essa è ben vestita di uniforme verde, con filetto scarlatto e mostra bianca, beretta e calzoni fino ai piedi, sciabola e tracolle di cuoio, per cui sono state spogliate tutte le pellacanerie.

Giunto finalmente il giorno 27 novembre, prima domenica dell’Avvento, fu convocato ed adunato il Comizio nella chiesa di S. Caterina della soppressa compagnia. Vi intervennero anche i decurioni di Liano di Sotto e della Villa di Poggio, secondo la distribuzione della provincia in cantoni. La mattina si fece la nomina per schede della campagna e uscirono per Poggio Don Alessandro Dal Bello curato e Giuseppe Ballarini, per

furono i seguenti: dott. Bartolomeo Calistri con 33 voti, Don Luigi Sarti con 45, Rocco Andrini con 43, Francesco Conti fu Pietro con 46, Antonio Giorgi notaio con 39 e Domenico Grandi con 26, che fu favorito dalla sorte nella parità di voti con altro soggetto. Questa nomina dei cittadini fu fatta il dopo pranzo a motivo di non essersi potuto fare la mattina a causa della brevità della giornata.

L’arciprete sedeva al centro, Don Luigi Sarti fece da presidente, Don Giovanni Ballarini di Poggio fece da segretario e per l’altro segretario operò Rocco Andrini, che venne a bella posta da Imola. Tutti i nominati concordarono di portarsi il giorno 4 prossimo a Bologna.

È da notare che in questa adunanza tutti quanti i nominati di questo Castello si consideravano essere del partito francese ed aristocratico molto coltivato dall’arciprete. Si deduce ciò perché la mattina stessa della nomina ci furono caporioni e sussurroni che ebbero il coraggio di proporre di dovere nominare solo i partitanti francesi ed aristocratici ed escludere tutti quelli che credevano e supponevano fossero democratici e favorevoli agli ecclesiastici.

L’arciprete, che doveva avere premeditato o, per dir meglio, macchinato e preparato, tale proposta, annunciò che già aveva nelle sue mani le nomine ancora prima della elezione.

Nelle presenti circostanze, in cui tutta l’Europa arde di partiti libertini e francesi, vi sono però dei buoni che, conoscendo il veleno che si diffonde e sparge, amano essere fedeli ai loro leali sovrani. Non manca per ciò la produzione di opuscoli, di discorsi, di lettere ed ammonizioni ai buoni di stare forti e di fare rilevare la vertigine che copre gli occhi ai turbolenti. 

Domenica 4 dicembre alle ore 18 si incominciò nella basilica di S. Petronio la sessione che durò fino alle 6 della notte. Intervennero i nostri decurioni che, uniti agli altri della città e contado formarono il corpo di 485 delegati. Mancarono molte parrocchie e decurioni del contado a motivo che non c’era stata la proporzione giusta tra i territoriali con i cittadini di Bologna ed anche perché non si vollero ammettere proteste.

Fu messa ai voti l’approvazione del piano già fatto e stampato. Fu approvato con 456 voti positivi e 29 negativi[77]. Tutto ciò ebbe questo esito a motivo di una procedura che fu inventato dai capi della Municipalità e fu di dare il voto scoperto e mostrato al presidente avv. Antonio Aldini ed assistenti. Quelli che diedero il voto segreto furono reputati nemici della nuova Costituzione.

Il nostro arciprete Calistri si segnalò col farne sfoggio mostrando il suo voto a tutti per cui riscosse un applauso. In questo Comizio si deputarono anche i 36 soggetti che dovranno andare il 27 dicembre alla Dieta di Reggio.

Terminata la sessione si alzò un doppio dalle principali chiese di Bologna. Tutta la piazza fu guardata per timore di una insurrezione dalla Guardia Civica a cavallo e la truppa assoldata pattugliava la città.

Lunedì 5 dicembre i contrabbandieri di Castel Bolognese, non potendo né esportare dalla provincia, né transitare per la montagna romagnola per andare con le granelle nel fiorentino perché i passi erano chiusi dalle truppe papaline, tennero le strade del bolognese e passarono per il nostro Borgo. Conducevano cento somari carichi ed erano accompagnati da 40 archibugieri. Era loro capo un certo Sebastiano Cindroni detto Bastanazzo di Castel Bolognese, uomo fazioso e di grandissimo ardimento nelle baruffe. Presero la via della Toscana su per il fiume Idice e sembravano un’armata.

La sera dello stesso giorno accadde, in questo Ospitale dei Poveri, la morte di Francesca Dalfiume vedova Sarti in età di anni 96. Questa prima di morire, essendo terziaria dei Minori Osservanti di S. Francesco aveva ordinato la sua sepoltura nella chiesa di quei Padri ove c’era l’avello rifatto da Gio. Antonio Bolis.

Quindi, dovendo essere portata alla sepoltura dalla compagnia cappata del SS.mo SS.to, il cappellano della parrocchia D. Francesco Landi pretese che si dovesse invece portare nella parrocchia e lì seppellirla. Questo perché l’arciprete Calistri, attuale padre dell’avarizia e della simonia, di sua autorità aveva introdotto l’abuso che chi voleva essere sepolto in altra chiesa fuori della sua, quantunque sia miserabile, dovesse fare suonare la campana maggiore della parrocchia, pagare 17 paoli e in più fare l’officio nella sua chiesa.

 Ciò dispiacque ai quattro portantini della bara, di tre erano guerci.  Non replicarono alla minaccia del cappellano e, levato il cadavere dall’Ospitale, si incamminò il funerale verso la parrocchia. Il cappellano entrò in chiesa e i tre monocoli col quarto compagno cheti, cheti ed astutamente, non entrarono in chiesa ma proseguirono col cadavere sulla spalla nella via maestra poi, svoltando alla destra dietro il cimitero, andarono di lungo alla chiesa di S. Francesco. Qui i frati l’attendevano sulla porta che poi spalancarono per l’ingresso. Il cappellano balordamente entrato nella parrocchiale, credendosi avere di dietro la morta, proseguì a cantare le preci dei defunti. Quando si fu inoltrato, si voltò indietro e non vide più né i portantini né la morta restò stupefatto. Tanto gli spiacque la burla che entrato poi in canonica gli venne per l’ira un deliquio.

Chi vide un tal fatto non poté fare a meno di ridere della astuzia dei portantini, i quali sono dipendenti ancora dal convento di S. Francesco. Furono i monocoli i seguenti: Onofrio di Domenico Fiegna, Battista di Paolo Mazzanti ed Alessandro di Francesco Sassatelli, il quarto poi che non è leso agli occhi fu Nicola di Cornelia Costa.

L’arciprete che si trovava a Bologna protestò nel vescovato, ma con poco frutto. Si presentò alla Giunta Criminale del Torrone e qui presentò le sue querele. Intanto l’arcivescovo chiamò a Bologna il padre Benvenuto, guardiano di questo convento. Gli fu richiesto con quale fondamento ed autorità aveva, egli e i suoi frati, ricevuto questo cadavere e da quale disposizione risultava questa volontà. Il frate prontamente, messasi la mano al petto, tirò fuori la disposizione testamentaria della defunta. Così rimase stupito l’arcivescovo, al quale il frate replicò con queste parole: Eminentissimo da ciò impari una volta a conoscere l’arciprete Calistri, che marcia sempre mascherato ma è un fino impostore, non merita la di lei protezione. In avvenire la prego a darle la minor fede che puote. Rispose l’arcivescovo: così mi è stato fatto credere povero frate, andate che Dio vi benedica ed avrete le giuste soddisfazioni. Ciò non è però credibile perché la sua corte era corrotta e lui, per la sua età, rimbambito.

L’Arte de’ Pellacani non cessava di inquietare questo nostro macellaio Michele Corticelli ed il pellacane Antonio Melini per avere comunque le pelli. Questi due per godere della Immunità del paese, ricorsero al Tribunale dei Collegi a Bologna.  Si unì la Comunità ed impose al loro legale di fare le dovute istanze giudiziali non solo per il mantenimento del Privilegio, ma anche con facoltà di ricorrere all’attuale Confaloniere Girolamo sen. Legnani ed al Senato stesso. Ferma rimanendo la facoltà di conciare pelli locali secondo il Privilegio, la Comunità si sarebbe fatta fare una obbligazione, tanto dal macellaio che dal conciatore Mellini, di consegnare tutte le pelli da esso conciate di biancheria alla città per servizio della nuova truppa militare nel modo che ha fatto, ed ottenuto Medicina, S. Giovanni in Persiceto, Castelfranco ed altre comunità. L’esito pertanto di queste istanze è stato che, qualora si giustificasse essere le pelli nella concia, proseguisse il pellacane a conciare le pelli fino alla prossima Quaresima secondo l’ordine e le determinazioni della Assonteria d’Arti.

Essendo poi stato affisso un altro editto del Governo Provvisorio di doversi fare un nuovo comizio per eleggere nove decurioni per la formazione del nuovo sistema, furono invitati tutti i capifamiglia e possidenti con almeno un redito di duecento lire compreso anche i pubblici stipendi. Si radunarono per ciò alquanti nella chiesa di S. Caterina per la nomina di tre delegati. Ma perché la riunione riuscì troppo poco numerosa essendo venute solo 40 persone sulle 900 che dovevano venire, nacque un cero tumulto nella chiesa da parte partitanti repubblicani. La risoluzione si fu di rinnovare il Comizio l’ultima festa delle prossime natalizie feste che sarà il 28 dicembre.

Avendo i francesi subito un’altra sconfitta a Cremona con la perdita, fra morti, feriti e prigionieri, di 5.000 soldati si pensò di fare una leva forzata a Bologna ed altrove. Quindi furono liberati alquanti carcerati e condotti alla guerra verso il mantovano unitamente alla coorte assoldata, ma appena furono in viaggio tanti disertarono.

Il Bando emanato il 19 dicembre disponeva la sua esecuzione entro il prossimo gennaio. Per tanto fu ordinato che ogni possidente di terreni nella pianura sotto la via Emilia pagasse otto paoli per corba di sementazione. Sopra la via romana, cominciando dai confini di Romagna fino al Savena, pagassero di tre paoli per corba per tutta la collina e montagna. Tale riparto dovrà pagarsi metà nel prossimo gennaio e metà nel prossimo giugno, senza riguardo ai fondi enfiteutici, livellari ed altri obblighi anche di immunità ecclesiastica.

Nella città poi fu sancito il pagamento della quarta parte delle pigioni da pagarsi immediatamente tutta in gennaio. Il Bando essendo lunghissimo e ancora in vigore il Governo di Roma, merita di grandi osservazioni per tanti altri capitoli.

Il giorno 22 dicembre alle ore 16 sotto questo mio portico fu ucciso con una archibugiata premeditata Antonio di Cristiano Tomba da due burlandotti. Il povero ragazzo di circa 18 anni fu assassinato pur essendo inerme e sprovvisto di tutto. Gli uccisori subito fuggirono nella vicina Romagna.

Il Senato proibì altresì la Prenditoria dei Lotti per Napoli e Roma.

Nel giorno 27, secondo il consueto, si procedette alla estrazione del Consolo e fu estratto il sig. Paolo Farnè fu Giuseppe che confermò per suo cancelliere Ercole Cavazza scrittore delle presenti memorie. La nomina fu approvata dal consiglio provvisoriamente stante le nuove leggi che si vanno predicando. Ciò fatto si è terminato l’anno 1796 a lode di Dio.

Sin qui abbiamo scritto le cose della patria sotto il felice Governo Pontificio. Gli anni venturi saranno repubblicani, giacché si sente imminente la invasione di questi Stati da francesi furibondi, scismatici, eretici ed irreligiosi. I loro seguaci promettono anni felici in avvenire, ma non è credibile poiché le rivoluzioni sono sempre perniciose ai popoli sia nello spirituale che nel temporale e molto di più è da temere la presente poiché è incominciata contro la chiesa, il culto e la religione cattolica.

Gli iconoclasti trionfano nelle vicine provincie, né c’è immagine di Dio e dei suoi santi che sia intatta. Promettono gli aggressori felicità ma i loro principi sono funesti e Dio sembra ci voglia voltare le spalle e guai a quella città che Dio non difenderà.

Lo disse per bocca di Davide Nisi dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam. Abbandonata la città, accadrà lo stesso alle famiglie che si lusingheranno di piantare qui salde fondamenta se non saranno fortificate da Dio. Lo disse lo stesso Davide Nisi Dominus edificaverit domum in vanum laboraverunt qui edificant eam

Voglia Iddio che noi col nostro pronostico non incontriamo tal sorte come pur troppo si sente accadere nella Francia tutta sconvolta contro Iddio.

Appendice al 1796

Non essendosi potuto effettuare il Comizio per la nomina dei decurioni che dovevano essere elettori del nuovo giudice di pace stante la abolizione dei vice podestà per il contado, fu decretato nella assemblea tenutasi nella chiesa di S. Caterina di fare un nuovo Comizio il giorno 29 dicembre, giorno dei SS. Innocenti, perché prima si attendeva un passaggio di truppe.

Difatti il giorno di Natale la sera arrivò un distaccamento di 200 francesi provenienti da Bologna i quali, dopo avere pernottato in questo Borgo, la mattina del giorno di S. Stefano partirono per la Romagna. Avevano con sé molti contrabbandieri di Castel Bolognese e di altri paesi, che li accompagnavano armati. Il capo di questi era Sebastiano Cendroni di Castel bolognese detto Bastanazzo, uomo di cattiva condotta e religione.

Questi prima di andare in Romagna andarono in questa nostra piazza maggiore a misurarla e designare il posto ove innalzare l’albero della libertà, ciò fatto partirono.  Prima però della partenza svaligiarono di armi e fucili, tamburi ed altri attrezzi militari la casa del fu capitano Lorenzo Graffi.

Perché poi si procedesse alla nomina dei decurioni, codesto arciprete impose al predicatore dell’Avvento, Padre Antonio Bazani bolognese, ultimo priore di questi agostiniani di S. Bartolomeo, a predicare nella chiesa di S. Caterina in occasione della elezione dei 21 decurioni che dovevano nominare il nuovo Giudice di pace.  Così infatti convenne operare al povero frate predicatore.

Il 27 d. fu soppressa la Guardia degli Sbirri per la città e il contado e fu istituita la guardia civica. Nella stessa giornata si pubblicò un altro Bando sopra la soppressione dei Conventi dei frati e delle monache, non che soppressi i diritti di Stola. Fu anco decretato di lasciare una congrua ai parroci e che si vendessero le loro possidenze per pagare i debiti fatti dal Senato per i francesi.

Dispiaceva una tale soppressione a tutta questa popolazione. Fu fatta una supplica al Senato per la conservazione di questi conventi. Fu chiesto all’arciprete Calistri di sottoscriverla, rifiutò assolutamente dicendo che non volevasi inimicare Bonaparte. Che bella riflessione per un parroco che crede essere una divinità senza la quale non si possa mai effettuare cosa alcuna. Bonaparte non lo ha nemmeno per il capo.

È da notare a questo punto come questo arciprete, per guadagnarsi merito presso i giacobini omise non solo lui nelle preci comuni la preghiera ut inimicis eclesia humiliate, e così pure l’altra ut pacem et concordia viva principibus X.tianis, ma ordinò  tale omissione anche al suo cappellano e a Don Sebastiano Dall’Ossa, preti che di solito fanno le funzioni parrocchiali ed esercitano l’officio del parroco.

Da quello fin qui narrato rilevi il leggitore dei nostri scritti il carattere di questo pastore che mena il suo greggio fra balze e dirupi in bocca ai lupi.

Solamente oggi ci è pervenuta la notizia di quali fossero i senatori di Bologna furono traditori della patria e parteciparono a tutto il complotto senatorio.  Furono i seguenti uniti ad altri manigoldi che servono il Governo bolognese cioè in primis Caprara Carlo e Marescalchi Vincenzo, ambedue passati in Francia presso Bonaparte, Bentivoglio, Malvasia Giuseppe, che poi simulò essere demente, Savioli Lodovico, lo storico che diede tutti i lumi per la rivoluzione, Ercolani Filippo, Aldrovandi Ulisse, Segni Lodovico, Isolani Alamanno, Angelelli che saputo della rivolta rinunciò all’ambasceria presso il Papa.

Aderenti furono i seguenti: Aldini avv. Antonio, che oggi è a Parigi segretario di Bonaparte l’Imperatore, Cacciari Giuseppe, avvocato, che formò il piano della nuova legislazione, Pistorini Giacomo, ultimo Uditore di Camera del Legato che informava i senatori ribelli sul governo pontificio, Gavazzi, consultore del Senato, che unitamente al dott. Filippo Tacconi estendevano le necessarie scritture. Si aggiunse in più l’avvocato Ignazio Magnani.Tutto ciò si espone per essere voce comune della città di Bologna.

A tutti questi soggetti se ne aggiunsero poi altri nobili e buoni cittadini di ogni sesso ed infine anche alcuni popolani.

Arrivati infine i francesi ed impossessati della città e poi del territorio, si cominciò a sentire del titubamento nel popolo di mente sana. In proposito uscirono composizioni poetiche e in prosa scritte con giudizio e buoni fondamenti. Fra questi gira un opuscolo di carmi latini, tersi ed eleganti di un ex gesuita spagnolo stampati in Cesena.. Da questi carmi fu estratto il seguente distico universalmente applaudito, che  si propagò in cantilena

Gallia vicisti profuso turpiter auro

armis pauca, dolo plurima, jura nihil

Difatti a forza di corruttele nei ministri dei Gabinetti i francesi si introdussero ovunque. Venne Bonaparte in qualità di Generale con soli 25 mila combattenti, tutta gente disperata e fecce della più fine canaglia francese, che essi chiamano Sanculotti vale a dire senza braghe, come di fatti erano. Con numerosi inganni e senza alcuna ragione si impossessarono degli stati d’Italia, la occuparono e spogliarono delle più belle cose che avesse.

 Si vedono ancora girare per mano degli uomini eruditi questi tre seguenti sonetti

Bologna dà un fedele consiglio a Mantova assediata dall’armi francesi. Sonetto di un faentino incognito.

Odo il fragore de concavi metalli

che il Longobardo cielo assorda e fonde

vedo ondeggiar le sottoposte valli

d’elmi, di scudi e di guerriere tende.

Per ardui al uom fin qui attesi calli

ardimentosa la Vittoria ascende

Mantova che pensi far? se in man de Galli

sta già scritto il destin di tue vicende

Cader da vile? Ah non è vil chi cade

quando ecelso valor di palme onusto

splender su gli occhi e trionfar si vede.

Cadè al gran Duce, all’immortal guerriero

che fa l’Austria scotendo e il solio augusto

tremar co’ suoi trionfi il mondo intero.

Mantova così risponde al sonetto  per bocca di un altro poeta faentino:

S’oda il fragor de bellici metalli

che l’aria intorno orribilmente fende.

Ondeggino i miei campi e le mie valli

d’elmi, di spade e di guerere tende

Il Duce carchi inusutati calli

che l’oro, il tradimento apre ed ascende

Narrino in tuono ardimentosi i Galli

li facili trionfi, le lor vicende.

Che per ciò ah non si scuote e cade

il patrio Mincio, già di palme onusto

 e l’antico valor rammenta e vede

e in fronte vede all’immortal gueriero

umiliata la Gallia al solio augusto

l’Italia vendicata e il mondo intero.

Segue un altro sonetto contro l’orda francese che significa disordine, di un poeta faentino.

Orda fatal che fu la negra antenna

dal cupo Averno al sacro suol rivarchi

guarda e poi di sé alla crudel tua penna

dovea la Francia i simulacri e gli archi.

All’orror che la misera ti accenna

t’arresti e taci e il torvo ciglio inarchi?

Ah cerchi invan su la regal tua Senna

le Leggi, il Trono, i sudditi, i Monarchi

Combattesti la fè. La causa hai vinta?

felicità sognasti, il lutto innonda

volesti Libertà? di ferro è cinta.

Or va, la barca carontea e all’altra sponda

ti accompagni di Averno il pianto e l’onta.

Il 28 dicembre si era radunata l’assemblea dei decurioni eletti nel Comizio generale tenutosi nella chiesa di S. Caterina per di scegliere nel giorno 6 del prossimo gennaio un giudice di pace ed un vice giudice e gli elettori che dovranno eleggere i legislatori. I decurioni erano i seguenti.

Andrini Giulio, Alvisi Lorenzo, Bertuzzi Antonio, Bergami Ercole, Calistri Bartolomeo arciprete, Cavazza Ercole, Conti Francesco tenente, Giorgi Antonio, Grandi Stefano, Grandi Domenico, Gardi Giuseppe, Inviti Antonio, Landi D. Franco maestro di Cappella, Lugatti Giacomo, Magnani Giuseppe, Roncovassalia Antonio, Sarti D. Luigi, Sarti Gaspare, Sarti Antonio, Trocantani Lorenzo, Tomba Giuseppe, Tomba Filippo.

Avendo l’arciprete Calistri malamente amministrato i redditi del fondo destinato da Ginevra Fabbri nel suo testamento ad un Ritiro per le oneste zitelle, fu accusato al Governo. Egli pertanto, secondo il suo costume, pretese di esentarsi e con raggiri e cabale riuscì nell’intento perché troppo patrocinato da chi doveva reprimerlo. In proposito fu chiamato in giudizio il cittadino Lorenzo Trochi affittuario degli stabili del così detto Ritiro. Furono tanti i cavilli usati che la faccenda passò sotto silenzio.

Cessato il Governo pontificio ed intromessosi il repubblicano, non si rispettarono più le regole comunitative ossia i Capitoli della Comunità di Castel S. Pietro quindi, perché non restino totalmente sepolti nelle tenebre dell’oblio essendo stati stampati nel 1773 in Bologna per il Benacci, ne annettiamo la stampa e così diamo termine all’anno presente 1796 a gloria ed onore di Dio.

Ercole Cavazza


[1] Giuseppe Varotti (Bologna1715 – 1780) pittore del tardo barocco e rococò.

[2] Cosimo Morelli (Imola 1732 –  1812) Importante architetto.

[3] Ufficio a cui era affidato il dazio sull’introduzione dei generi alimentari in città con l’incarico anche di vigilare sui mercati, sui prezzi al minuto, sui pesi e misure, ecc. 

[4] Attuale via Pietro Inviti.

[5] 1 grano (per oro e argento) = g. 0,235580

[6] Attuale via Dei Mille.

[7] Il primo giugno il sole tramonta alle ore 20. 38 , quindi questa prima scossa ha luogo circa all’una di notte.

[8] E’ una locuzione latina, che tradotta letteralmente, significa gli errori dei Re sono scontati dai reci, cioè dal popolo.

[9] Alessandro Algardi (Bologna27 novembre 1598 – Roma10 giugno 1654) famoso scultore .

[10] Giovanni Maria Viani (1636–1700)  pittore  del periodo barocco , attivo a Bologna .

[11] Jacopo Alessandro Calvi, (Bologna 1740 –  1815), pittore e letterato .

[12]Paolo I Petrovič Romanov (San Pietroburgo,  1754 – 1801), imperatore di Russia dal 1796 al 1801.

[13]Caterina II di Russia ( 1729 –  1796), conosciuta come Caterina la Grande, fu imperatrice di Russia dal 1762 alla morte. 

[14] Sofia Dorotea di Württemberg (1759 –1828) fu la seconda moglie dell’imperatore Paolo I di Russia.

[15] Il viaggio durò 14 mesi. I paesi visitati furono: Polonia, Austria, Italia, Portogallo, Francia Belgio e Germania

[16] Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (Vienna 1741 –  1790) imperatore del Sacro Romano Impero dal 1765 alla morte. 

[17] Federico II di Hohenzollern, detto Federico il Grande ( 1712 – 1786), terzo re di Prussia e il principe elettore di Brandeburgo dal 1740 al 1786.

[18] Era il dramma gioioso “L’italiana in Londra” di Domenico Cimarosa. La locandana dello spettacolo è allegata al manoscritto.

[19] San Benedetto Giuseppe Labre, detto il “vagabondo di Dio” ( 1748 – 1783).

[20] Il Collegio fu aperto il 25 novembre 1665 e ben presto, già nello stesso secolo di fondazione, acquistò prestigio e rinomanza e il poter collocare in esso un figliolo era dalle famiglie cittadine reputato onore e fortuna. Durò fino al 1833, poi ha continuato fino ai giorni nostri erogando borse di studio e premi di laurea

[21] Celio Sedulio ( prima metà del V secolo) è stato un poeta romano cristiano, autore del noto Carmen paschale.

[22] Il 20 dicembre il sole sorge alle 07.34 e tramonta alle 16.42. Il giorno dura circa 9 ore, la notte 15 ore. Quindi, in questo mese, le 9 1/2 corrispondono alle nostre 02.00.

[23] La fonte del Tettuccio fa parte del complesso delle Terme di Montecatini

[24] Enrico Benedetto Maria Clemente Stuart (Roma, 1725 – 1807) arcivescovo cattolico e cardinale britannico.

[25] Giacomo Francesco Edoardo Stuart (Londra1688 – Roma1766)  figlio del Re d’InghilterraScozia e Irlanda, Fu Re di Scozia dal 1745 al 1746 con il nome di Giacomo VIII.

[26] 1 miglio = m. 1900,49

[27] Comprendeva chi conciava le pelli animali (i pelacani) e chi le lavorava per i più svariati usi per esempio le calzature (i calegari) o le pergamene (i cartolari).

[28] Avignone era una enclave pontificia nel Regno di Francia. Stanno arrivando gli effetti della rivoluzione, gli avignonesi volevano tornare cittadini francesi.

[29] Si tratta della Massoneria un’associazione su base iniziatica e di fratellanza, nata a Londra nel 1717. Il nome deriva dal francese maçon, ovvero “muratore“, legato alle Corporazioni medievali di liberi muratori.

[30] Giuseppe Balsamo alias Alessandro conte di Cagliostro (Palermo1743 – San Leo,  1795),  Dopo una vita errabonda nelle varie corti europee, fu condannato dalla Chiesa  per eresia e rinchiuso nella fortezza di San Leo.

[31] Maximilien de Robespierre, (Arras,  1758 – Parigi1794) famoso rivoluzionario francese. Morì sulla ghigliottina.

[32] Cardinale de Rohan-Guéménée ( 1734 – 1803) vittima della famoso truffa della Collana del 1784.

[33] Enrico Benedetto Stuart (Roma, 1725 – 1807), prelato cattolico nominato Cardinale Duca di York 

[34] Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (Vienna,  1747 –  1792) granduca di Toscana  dal 1765 al 1790 e imperatore del Sacro Romano Impero e re d’Ungheria e Boemia dal 1790 al 1792.

[35] Scipione de’ Ricci (1741 – 1810) Vescovo di Pistoia e Prato dal 1780 al 1791. Aderì al giansenismo e cercò di riformare la propria diocesi secondo i dettami di tale dottrina.

[36] Maria Carolina d’Austria (Vienna,  1752 –  1814), regina di Napoli e Sicilia come moglie di Ferdinando di Borbone, sorelle della regina di Francia Maria Antonietta

[37] Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, (Firenze,  1769 –  1824), Granduca di Toscana dal 1790 al 1801 e dal 1814 al 1824, .

[38] Preparazione farmaceutica, non più usata, dotata di energica azione revulsiva sulla cute, sulla quale può provocare la comparsa di bolle sierose.

[39] Il memoriale della causa di fronte alla Congregazione, stampato in Roma, Lazzarini 1792, è nell’Archivio Storico Comunale.

[40] Forse si tratta della battaglia di Valmy (20 settembre 1792) che fu però la prima importante vittoria della Francia rivoluzionaria nella guerra contro la Prima coalizione formata da Austria e  Prussia.

[41] Nicolas Jean Hugo de Basseville  ( 1753 – Roma13 gennaio 1793), Ambasciatore a Roma della Repubblica Francese fu assassinato dalla folla mentre transitava in carrozza per via del Corso coi suoi servitori che esibivano le coccarde tricolori della Repubblica.

[42] Forse si tratta di Charles François Dumouriez  1739 –  1823), noto  generale francese.

[43] Luigi Filippo d’Orléans, noto durante la Rivoluzione col nome di Philippe Égalité ( 1747 – 6 novembre 1793), appoggiò attivamente la Rivoluzione  ma finì anch’egli ghigliottinato durante il Terrore.

[44] Il protomedico era il funzionario pubblico preposto l’attività sanitaria .I principali compiti erano di valutare le capacità di coloro che chiedevano di intraprendere la professione di medico o farmacista.

[45] Circa le 20.30

[46] In realtà la morte della Regina Maria Antonietta accadde il 16 ottobre.

[47] Alessandro Tiarini (Bologna 1577 – 1668) è stato un pittore italiano.

[48] Cioè era da vari anni che non si comunicava il giorno di Pasqua. Frequenza minima per un buon cattolico

[49] Sembra trattarsi della cacciata dall’assemblea dei girondini da parte dei montagnardi di Robespierre che però era avvenuta due anni prima.

[50] Luigi Carlo di Borbone (Versailles1785 – Parigi8 giugno 1795), la morte avvenne ufficialmente per tubercolosi.  La causa fu dovuta alle dure condizioni di prigionia cui era stato sottoposto per oltre due anni.

[51] Maria Teresa Carlotta di Borbone (Versailles1778 – Frohsdorf1851), alla fine del 1795 fu scambiata con sei importanti prigionieri francesi catturati dalle truppe austriache. 

[52]Filippo Scandellari (Bologna1717 – 1801) scultore.

[53] Luigi Enrico di Borbone, principe di Condé ( 1756 –  1830), non era fratello del re.

[54] Non si capisce a cosa si riferisca il Cavazza. Forse è una delle tante chiacchere che circoleranno in questi anni.

[55] Collegio Ferrero fondato dal cardinale Bonifacio Ferrero, Legato pontificio a Bologna l’anno 1543 per giovani nobili piemontesi poveri.

[56] Vittorie francesi in aprile: 11/12 Montenotte, 13/14 Millesimo, 14/15 Dego, 21 Mondovì.

[57] Wilhelm Graf Mercy d’Argenteau (1743 – 1819

[58] Michelangelo Alessandro Colli-Marchini, più noto come Michele Colli (1738 – 1808).

[59] Johann Peter Beaulieu de Marconnay (1725 – 1819), 

[60] Armistizio di Cherasco con il Piemonte (21 aprile).

[61] Dovrebbe essere il trattato stipulato tra la Francia e la Spagna il 22 luglio 1795.

[62] Ercole Rinaldo III d’Este (1727 – 1803) fu duca di Modena e Reggio dal 1780 al 1796.

[63] Antoine Christophe Saliceti, (1757 –  1809) di origine corsa, collaboratore di Napoleone. Era a conoscenza e forse implicato nel tentativo rivoluzionario di Luigi Zamboni.  

[64] Una oncia = gr. 30,154 quindi 900 once = 27 Kg.

[65] La sommossa e di Lugo fu un episodio di insorgenza contro le truppe francesi avvenuto tra il 30 giugno e l’8 luglio 1796.

[66] Charles Pierre François Augereau, (1757 –  1816), generale francesemaresciallo di Francia con Napoleone Bonaparte.  Di umili origini divenne generale durante la Rivoluzione francese.

[67] L’assedio di Mantova era iniziato il 3 giugno. Continuò, con alterne vicende, fino al 2 febbraio.

[68] Possideo quia possideo, esprime il principio per il quale la prova del possesso si fonda sulla dimostrazione di avere la effettiva disponibilità della cosa.

[69]  Dagobert Sigmund von Wurmser ( 1724 – 1797) feldmaresciallo austriaco. È ricordato soprattutto per il suo ruolo nella campagna d’Italia del 1796 contro Napoleone Bonaparte.

[70] Charles Édouard Jennings de Kilmaine (1751 – 1799) generale irlandese naturalizzato francese.

[71] Quello di cui scrive dovrebbe essere la prima fase dell’assedio di Mantova durata dal 3 giugno al 31 luglio, data del ritiro tattico dei francesi preoccupati per l’arrivo del generale Wurmser. L’assedio riprese il 7 agosto.

[72] Forese luoghi ove si distribuiva grano a prezzo controllato.

[73] José Nicolás de Azara, ( 1730 –  1804) diplomatico spagnolo.

[74] Nel calendario rivoluzionario francese il mese che va dal 22 ottobre al 20 novembre è chiamato brumaio.

[75] Al solito le notizie del Cavazza sulla guerra sono un po’ confuse. Il 12 novembre c’è lo scontro di Caldiero, località a est di Verona, una delle poche vittorie riportate dagli austriaci. Legnago si trova una ventina di Km. Mantova continua ad essere assediata. Il 10 settembre il gen. Wurmser era riuscito ad entrare a Mantova ma il suo arrivo si rivelò più dannoso che utile perché le scarse risorse di viveri diminuirono più rapidamente. 

[76] Rappresentante di 10 componenti il corpo elettorale

[77] Si tratta della Costituzione della Repubblica di Bologna. Non entrerà mai in vigore, soppiantata dalla creazione della repubblica Cispadana