Ercole Valerio Cavazza

Trascrizione in italiano corrente di Eolo Zuppiroli

RACCOLTO

di MEMORIE ISTORICHE

di CASTEL SAN PIETRO

nella giurisdizione di Bologna

compilate da

Ercole Valerio Cavazza

VOLUME 5°

dal 1797 al 1801

Anni repubblicani di Castel S. Pietro Dipartimento del Reno

dall’Anno 1797 sino al 1801 brevemente descritti.


Al leggitore

Abbiamo fin qui scritto sotto il pacifico e piacevole governo della apostolica sede le memorie storiche di Castel S. Pietro nel bolognese, da quando fu fondato, né si è potuto di più desiderare. Oggi siamo percossi da un lagrimevole scompiglio di cose per la rivolta dei popoli su la traccia della Francia, che ha declinato da quel bello che l’adornava. Quei popoli traviati sono usciti mascherati dalle loro contrade con la bandiera di Libertà ed Eguaglianza, abbandonando il retto sentiero di vita. Hanno sopraffatto tutte le nazioni ed infettato gravemente soprattutto le Nazioni italiane. Queste pensando di calpestare il governo monarchico sono degenerate in anarchia e si vede giornalmente il tentativo di una fiera persecuzione alla chiesa sotto il manto di Libertà.

Questo mostro, il più spaventoso del mondo, opprimendo la probità delle genti, opprime occultamente ed implicitamente le belle arti e la religione. Lo studio è posto in oblio, la menzogna trionfa, la ignoranza signoreggia, la carità manca, le stragi, le vendette, i ladrocini ed ogni altra sorte di malefici ormai coprono tutto il mondo.

 Gli scrittori sono ammutoliti o per lo meno raffreddati per il timore di essere gravemente puniti se annunziano il vero e presagiscono il male. Quindi conviene piuttosto darsi ad un profondo letargo, che comparire e produrre scritti.

Condotti da queste osservazioni, avevamo deciso di abbandonare la storia, per non compromettere la persona, la famiglia e le sostanze. Siamo stati per alquanto tempo senza trascrivere gli avvenimenti giornalieri. Ma poi siamo stati animati da onesti cittadini e probi amici a non desistere, essendo molti i fatti, e raccogliere i mannelli dispersi dall’impeto dei furiosi venti dei tempi difficili.

Ci siamo quindi arresi alle loro premure e quindi, ripigliata la penna e raccolte quelle poche cose che abbiamo potuto sapere, proveremo ad abbozzare il racconto degli avvenimenti passati. Non si meravigli però il lettore se questi nostri scritti saranno esposti male e talora mancanti di quelle leggi e proclami che avvalorerebbero il racconto poiché siamo stati scacciati dal cessato governo pontificio.  

Ci dobbiamo perciò limitare ha quanto abbiamo osservato e visto direttamente. Un uomo saggio deve accontentarsi se nella tempesta porta a salvamento la vita e compiacersi di sentire ciò che giornalmente accade. Intitoleremo queste carte diversamente dai primi nostri fogli.

Sappiamo che per dare un’opera completa avremmo dovuto osservare ed avere in mano tutti gli atti comunitativi non che le leggi municipali e quelle repubblicane, ma come potremmo ciò fare se siamo stati scacciati vituperosamente e senza colpa dall’ufficio?  Tuttora ci è, e ci sarà, negato di osservare e molto più di annotare essendo sospettosi i nuovi governatari.

Lettori amici giudicate e decidete se manchiamo.

Gennaio – Maggio 1797

Popolo castellano contro la chiusura dei conventi. Passaggio truppe francesi verso la Romagna, incidenti. Problemi per il vettovagliamento. Passaggio truppe napoletane per Napoli. Napoleone alla locanda del Portone. Votazione per nuova Costituzione, ripetuta. Chiusura convento di S. Bartolomeo. Elezioni per assemblea legislativa e componenti nuova Municipalità. Eliminazione degli stemmi gentilizi e comunitativi. Trasformazione orologio pubblico all’uso francese. Vecchi municipalisti rinunciano a palchi in teatro.

Al nome del figlio di Iddio

Il giorno primo gennaio 1797, anno primo della Repubblica Cispadana, alle ore 23 ½ italiane si era radunato il Consilio nella sua solita residenza per soliti affari di governo.  Attorno alla casa consolare si ammutinò il popolo.  Uomini, donne, vecchi, giovani, ragazzi di ogni sorta e classe alzarono la voce e cominciarono a schiamazzare perché volevano entrare. Gli assistenti alla porta, cioè il Donzello, il Massaro, lo Scrivano ed il Ministrale ossia Esecutore fecero in modo che riuscirono a chiudere le porte. Furono fatti entrare, per ordine del Consiglio quattro di quelli che protestavano e cioè Pascale Bertuzzi e Luigi Musi per i castellani e per i borghesani Luigi Turtora e Giuseppe Rossi.

Questi esposero le lagnanze e le preghiere del popolo per la decisione del Governo di Bologna di volere l’oppressione dei conventi regolari. Questo popolo reclamava fortemente contro tanta prepotenza. A queste lagnanze si aggiunsero anche minacce se la Comunità non si contrapponeva per ottenere la permanenza dei frati e la esistenza di questi tre conventi. Lo scopo del popolo, oltre mille altre ragioni, era anche di mantenere il conforto spirituale. Infatti per le tante e diverse angustie fatte dall’arciprete Calistri agli ecclesiastici, il paese era sfornito di sacerdoti paesani e di confessori.

Il Consilio, ascoltata la petizione, pacificò i capi popolo e li indusse a calmare i rumori popolari e li esortò a stare in quiete mentre la Comunità avrebbe fatto quanto avesse potuto col Senato e coll’arcivescovo. Così fu calmata la insurrezione. Il Consilio poi in seguito ordinò ai suddetti capi popolo che preparassero una ragionata supplica, che fosse sottoscritta da molti per far constare al Senato la volontà pubblica ed intanto la Comunità così scrisse:

Cittadino Senato, si sono presentati in Consilio, in nome del Populo ammutinato nella strada, Luigi Tortora, Giuseppe Rossi a nome de nostri borghesani e Pascale Bertuzzi e Luigi Musi a nome de castellani ed hanno a nome del loro popolo di ogni sesso adunato alle porte di questa ressidenza la instanza e brama che si ricorra onde si conservino nel paese le relligioni a beneficio spirituale delle anime, tanto più che il N. di preti confessori si riduce a soli tre preti, cioè arciprete Calistri, D. Francesco Landi capellano stipendiato e D. Luigi Sarti, che non ha obbligo alcuno, onde si ha penuria a confessori. Che se si levano li regolari, che assiduamente attendono al confesso, alla S. Eucarestia ed alli infermi, non potrà essere che un pregiudizio grande spirituale, essendo li med. troppo necessari alla populazione numerosa.

Si aggiunse anche che il popolo faceva istanza per la permanenza dei frati come soccorso alla propria povertà e che comunque non intendeva entrare nel merito delle disposizioni repubblicane sopra i beni temporali, protestandosi ubbidiente alle leggi del Governo. Poi continuava così:

Questa instanza presenta il nostro Consilio a Voi cittadini senatori per implorare, come vivamente si implora, la permanenza delli Regolari in questo loco per la conservazione della fede cattolica, che voi avete sempre sostenuta. Abbiate in considerazione che tre soli preti non bastano ad una popolazione che monta presso a quattromila anime senza le Comunità vicine della montagna e pianura che discendono e si affolano quivi nei giorni festivi a ricevere il Pascolo spirituale e tante indulgenze che si ricevono mercè questi regolari a cui sono affidate, le quali mancando si intiepidirà vieppiù il Culto. Questo è l’oggetto del popolo e la relazione del Consilio.

Erano state chiuse le botteghe di macellai di carni minute e si sentivano proteste per il paese. La Comunità essendo stata avvisata, ordinò che le tre botteghe, come pure i lardaroli macellassero carni porcine al fine di sedare ogni tumulto e poi avvisò il Senato. Perché poi non avesse a patir danno il daziere, ordinò al capitano Pier Andrea Giorgi di segnare tutte bestie macellate sia porcine che di qualunque altra specie per applicare poi il dazio consueto.

Non bastò questo perché il macellaio di carni grosse si intestardì a non volere più macellare. La Comunità rifece il ricorso ed in seguito fu ordinato dai tribuni della Plebe, ai quali fu rimessa la istanza, che la comunità facesse per proprio conto macellare delle bestie.

Non piacque questo provvedimento al Consiglio perché pretendeva che si macellasse apposta. Quindi si replicò che il paese, come tutti gli altri del contado, avevano come consuetudine, ed anche per leggi e giudicati, di macellare a tassa e non a peso. Inoltre poi la Comunità, non avendo contante, non poteva a ciò prestarsi e non aveva soggetti per questo impiego. In seguito fu portata questa nuova istanza al magistrato che ordinò, mediante suo precetto, di macellare a tutti i macellai e lardaroli.

L’Arte de Pellacani di Bologna pretendeva avere le pelli che si ricavavano in queste macellerie. I macellai impugnarono questa pretesa, come risulta al Tribunale dei Tribuni, così la Comunità presentò istanza per salvare le sue ragioni per l’esercizio dell’Arte Callegaria.

Il 22 gennaio fu presentata al Consilio la supplica del popolo nella quale si domandava il mantenimento delle tre Religioni locali. Fu questa sottoscritta da un’infinità di persone in numero di 219 famiglie, le quali si vedono tutte annoverate negli atti della Comunità. Nella supplica si metteva in rilievo le origini di tali Religioni in questo luogo.  La supplica fu spedita a Bologna in tre copie distinte, una al Senato, l’altra al cardinale Arcivescovo, accompagnata con preghiere della Comunità, e finalmente la terza fu spedita alla Giunta sugli ecclesiastici.  Fu poi creduto cosa convenevole che le Compagnie della Cintura e del Suffragio del Purgatorio, erette nella chiesa di S. Bartolomeo e governate da quei regolari agostiniani, avanzassero anch’esse le loro preghiere alle autorità per mantenere i regolari agostiniani in questo Castello a beneficio della popolazione e delle compagnie stesse.

I popoli della Romagna prevedendo funesti avvenimenti, non potevano passare sotto silenzio ed in poca cura il fanatico sogno di libertà dei nostri bolognesi e ferraresi.  Quindi non mancarono di produrre i loro sinceri sentimenti con la stampa. Quindi diffusero i loro presagi di disgrazie e di tristezza e invitarono i popoli del ferrarese e bolognese a riparare il loro errore e evitare la trappola in cui stavano cadendo. Ne furono spediti di queste stampe per la posta a diversi paesi. Ma che servirono? Accecate le genti dal fulgore di una aerea libertà sempre più restavano convinte nella loro falsa opinione. Gli esempi di Castel Bolognese, di Cotignola, di Brisighella e altri nell’opporsi ai sentimenti contrari al Governo Aristocratico non bastano, anzi invece di ammorbidire il duro cuore di tanti faraoni, sempre più l’induriscono.

Accadde per tanto che facendosi la festa di S. Antonio Abate nella vicina terra di Dozza, alcuni nostri paesani, manifestando un comportamento libertino, vollero burlare alcune giovani villane di Monte Catone qui arrivate. I loro amorosi che erano a seguito di quelle, non gradirono la facilità di trattare con esse dei nostri castellani. Passarono presto dalle proteste ad attaccare baruffa.  

Nicola Graldi, con Antonio Babina ed altri di Castel S. Pietro si difesero a pugni.  Levatosi un rumore di popolo, accorsero gli sbirri di quel feudo per arrestarli. Il Graldi ed il Babina presero coraggio e data mano ai coltelli si fecero largo tantoché riuscirono a fuggire. Si unirono a questi altri paesani che furono Giovanni Muzzi, Luigi Oppi detto Bavone. Luigi Majno, e Luigi Ferri detto il Rigidorino, tutti piccoli malfattori.  

Giunti alla porta, che i dozzesi avrebbero voluto chiudere per imprigionarli, fecero forza ed aperto il portello, dopo avere ferito il custode, se ne partirono. Gli sbirri che volevano inseguire anche loro i nostri paesani, correndo con l’armi da fuoco, non poterono fare altro che imprigionare il l’Oppi perché, pingue di corpo, non aveva potuto tenere dietro ai suoi colleghi.

 Gli amorosi delle ragazze, non fidandosi di ritornare alle loro case al di là della Sellustra per timore di una imboscata dei nostri, si armarono con armi da fuoco, prese in prestito da loro amici, e si unirono in una squadra. Giovanni Soriani, Governatore in quel paese, temendo scorrimento di sangue perché gli sbirri volevano fermare anche questi per poi processare tutti, convocò la sua Curia ed invitò i Montecatonesi , concedendo salvacondotto, a presentare verbalmente la loro versione del fatto. Si prestarono all’invito. Così, trattenendoli entro Dozza fino al giorno dopo, fu sopito tutto il rumore. L’inizio di tutto fu causato dal portare in quel paese la coccarda tricolore francese.

Il 22 gennaio si ritrovò nella corrente del nostro Sillaro una giovinetta con un giovinetto legati assieme

uno sopra l’altro, entrambi morti per le ferite e le percosse. Non poterono essere riconosciuti perché forestieri.  Erano di bell’aspetto, biondi di capelli, di corporatura snella e travestiti alla patriota. Ecco i principi della entusiasmata repubblica cispadana.

Il giorno 23 si venne in dovere di informare il magistrato sulla la via pubblica che porta a Medicina, cominciando dall’oratorio della Madonna e proseguendo direttamente fino alla Cartara. Questa strada è guasta ed impraticabile secondo un ricorso fatto dai viandanti e dai commercianti. La Comunità per ciò informò che le cattive condizioni di questa strada, che è nella Villa di Poggio non nel comune di Castel S. Pietro, derivavano dall’interramento della fossa che la fiancheggia non scavata da circa otto anni. Per questo, quando cresceva l’acqua per le piogge, la strada veniva allagata. Inoltre, dato che la inghiaiatura dei poggesi era stata assegnata al marchese de’ Buoi, questa si era sempre fatta in mezzo alla possidenza di quel cavaliere e mai nelle altre strade e tanto meno in questa. Non ostante però tale informazione questa strada non si accomodò mai perché si trattava di avere a fare con un Senatore.

Anche la strada che porta a Castel Guelfo, fronteggiante la possessione, detta la Capella, delle Monache della SS. Trinità, è stata per un lungo tratto corrosa dalla corrente del Sillaro. Questo per avere le monache stesse trascurato i loro terreni, per cui le acque ne avevano portati via per una seminagione di tre corbe e minacciava e minaccia la stessa strada. Il marchese e senatore Filippo Ercolani fece premurosa istanza alla Comunità ed anche giudizialmente all’Assonteria delle Acque perché si riparasse al male. La Comunità replicò che facessero i lavori le Monache e l’Ercolani, che se la Comunità doveva fare i lavori voleva essa divenir padrona del terreno che aveva portato il Sillaro. Perciò non si fece alcun lavoro.

Il giorno 25 venne un avviso particolare al Consolo Paolo Farnè ed a me Ercole Cavazza dai senatori Filippo Bentivoglio e Vincenzo Sangiorgi, deputati alla Giunta degli Alloggi, di doversi trattenere in paese per affari di Stato.

Contemporaneamente passavano truppe francesi che andavano da Bologna alla Romagna con cariaggi e munizioni. Le truppe francesi che andavano ora a picchetti ora a distaccamenti, si fermavano in questo Borgo e volevano le sussistenze. E qui si trovavano i Comunisti in gravosi impegni perché non avevano le facoltà necessarie per fare ordinazioni ciò mentre intanto i villani alla campagna non potevano salvare non solo i polli ma nemmeno i maiali.

 A questo passaggio si aggiunse un altro passaggio di truppe traspadane, gente collerica e cattiva specialmente per i furti e le prepotenze. Alle case che erano sulla strada romana domandavano l’apertura e il comodo dell’acqua poi taluni entravano in casa e portavano via cibo, rami e ciò che a loro pareva. Il Borgo della vicina Toscanella non andò esente, in alcune case dopo avere mangiato, bevuto e portato via la biancheria, aprivano le botti e derubavano farine, rami e ori alle povere donne.

La Podesteria di Castel S. Pietro che fino ad ora era stata senza Sindaco ed era chiuso l’ufficio quantunque il cittadino Bernardo Pezzi, notaio collegiato, fosse stato l’estratto. Finalmente si aprì lunedì 30 gennaio ed io Ercole Cavazza feci la mia prima seduta al consueto posto.

Il 31 gennaio venne una grossa gelata alla quale poi seguì un’alta neve, che produsse mali di petto e raffreddori ostinati ed il vaiolo, che serpeggiava nei fanciulli, ne portò molti al sepolcro soprattutto tra i poveretti per il freddo.

Il giorno, dopo quantunque fosse nevicato forte, non si arrestarono i passaggi delle truppe francesi e traspadane. Le genti tutte del paese chiusero le porte e le botteghe per evitare le insolenze dei militari.

Il 31 gennaio si ebbe avviso da Bologna che dovevano passare seimila soldati per la volta di Romagna, parte francesi e parte traspadani.  Il Consolo fu incaricato a fare tenere pronto il forno del pane e pure gli osti dei paraggi perché tra questa truppa doveva esserci anche della cavalleria. Fu altresì ordinato che stessero preparati 30 carri con i buoi per il trasporto del bagaglio. La stessa sera vennero qui i furieri, le avanguardie e i commissari. Pernottarono alla locanda del Portone e gli ufficiali furono incontrati dal Consolo Farnè e i due Conti consiglieri. Questo ossequio in nome della Municipalità fu molto gradito.

In questa notte prese fuoco la casa del fu Don Giovan Battista Vanti. Non si poté dare il solito segnale con la campana perché gli ufficiali e i soldati non entrassero in sospetto di una rivolta. Ciò non ostante vi accorse molto popolo spintovi da uno dei detti ufficiali e fu smorzato senza pericolo su le ore 10 italiane.  Su le 13 gli ufficiali con i furieri si incamminarono alla volta d’Imola prima che giungesse l’altra truppa.

Il primo febbraio 1797, stanti gli avvisi giornalieri che si avevano da Bologna dei progressi che facevano dalla Lombardia le truppe francesi alla nostra volta, ogni famiglia di campagna fu avvisata di guardarsi dallo albergare soldati e nello stesso tempo a non molestarli, stante le rigorose pene previste.

Ma c’erano dei soldati temerari che non temevano di adoperare le mani.  Alla possessione i Calanchi ove c’era la famiglia Castellari, numerosa di uomini e giovani gagliardi, erano andati due cispadani e volevano, dopo avere ben bene mangiato e bevuto, prendere a forza dei polli usando i loro cani. Gli furono aizzati contro i cani della famiglia, cani da presa. I cispadani, dato mano al fucile, spararono ai cani dei contadini ma invano e restarono vittime quelli dei militari.

Si accese qui un alterco tale fra quella famiglia e i soldati che, circondati, furono disarmati e condotti al loro capitano che si trovava al Piratello. I soldati furono poi puniti severamente.

Non passò molto che, ritornando la loro truppa dalla Romagna i due soldati andarono a quella possessione per ingiuriare quei poveri villani.   Per evitare la baruffa, gli si fecero incontro le donne della famiglia e fecero un argine contro i soldati e schiamazzando fecero accorrere le famiglie villane vicine.  Scontrandosi coraggiosamente contro i militari diedero un premio di bastonate alla loro ribalderia. Poi vennero al Castello ove era il loro Comandante detto Monsù Novì e gli fecero il giusto resoconto del fatto. I soldati responsabili furono subito arrestati e, nella pubblica piazza del castello, ricambiati con 50 spianate di sciabola per ciascuno.

Non ostante che le truppe che andavano in Romagna si presentassero in qualità di amici, i romagnoli si mantenevano fedeli al papa né ancora si erano voluti sottomettere al governo francese. Gli austriaci si tenevano forti nel mantovano e Mantova era difesa valorosamente dal comandante il generale tedesco Wumser. Aveva questi sotto il suo comando un certo Frate Valentino dell’ordine francescano, artigliere che era così valente che con il suo cannone colpiva i cannoni dei nemici, per cui i francesi avevano poco profitto. Solo la fame travagliava i mantovani, se questa si potesse superare con l’aiuto di nuove truppe tedesche non si potrà che aspettare una cacciata dei francesi.

Da questa altre parte i romagnoli erano allarmati e i soldati pontifici mostravano gran coraggio. A Faenza si è fatto il campo e ci sono fonderie di metalli. A Castel Bolognese, di là dal Senio, dove ancora non avevano potuto penetrare i francesi, si fanno argini per le batterie. Insomma da questa parte tutta la Romagna è disposta alla battaglia.

Sempre il primo febbraio vennero da Bologna seimila soldati, parte francesi e parte cispadani. Questi avevano due bandiere con l’albero della libertà da una parte e dall’altra una squadra, insegna dei liberi muratori. Avevano con sé 14 cannoni, tre bombarde e fucine per le palle da sparare, erano metà cavalleria e metà fanteria. Erano loro condottieri due generali francesi, uno detto Lasnè e l’altro Deviodor. Passarono, dalle ore 16 fino alle 20, diversi battaglioni, seguirono trenta carri di attrezzi militari, cioè sciabole, fucili, munizioni, bare per i morti, badili, zappe, selle. Giunti a Imola occuparono tutta la città che gli fu consegnata da quella municipalità essendo suo governatore il dott. Luigi Fracassi figlio del dott. Antonio, già medico condotto di questo Castello.

Il giorno seguente, giorno della Candelora, andarono a Castel Bolognese, poi si diressero alla volta di Faenza e, giunti al fiume Senio, ingaggiarono battaglia con i papalini diretti dal colonello Ancajani. Questi furono battuti e fu messa in fuga la cavalleria che fuggì a Faenza. I prigionieri furono condotti il giorno 4 a questo Castello.  Tra loro un certo Dondini di Cento che finì i suoi giorni in questo ospitale della parrocchia. I papalini perdettero alquanti cannoni che furono trasportati qui. Nella battaglia che durò tre ore, morirono molti francesi, dei papalini solo 400 di 2.000 che erano. I villani faentini sentendo di un grosso numero di francesi non corsero al suono della campana a martello.  Furono sbigottiti dal rimbombo delle cannonate, della fucileria e dalla voce sparsa che erano in migliaia.  Per ciò nessuno di essi andò in aiuto coll’armi in mano, anche perché il comandante Ancajani aveva avuta intelligenza con i francesi e durante la battaglia molti papalini passarono ai francesi e rivoltarono le armi contro i loro.

Il 3 febbraio fu fatta una requisizione di tutti i cavalli e muli per ordine dei francesi, così che restò spogliato non solo il paese ma la provincia tutta.

In questo frattempo non avendo potuto resistere Mantova all’assedio francese, dovette arrendersi[1].

Ma perché le truppe francesi volevano per forza avere il vettovagliamento, la Comunità fu costretta a spedire dei consiglieri al Senato e furono io, il Consolo Farnè e Francesco Conti fu Pietro. Questi operarono in modo che il giorno 7 febbraio il comandante della piazza ordinò e proibì ad ogni militare di esigere qualunque minima cosa in quei luoghi ove non erano destinate le marce. In questo modo fu messo un qualche freno alla prepotenza dei militari e furono tranquillizzati i paesani. Alle taverne e alle botteghe si distribuì copia di questo ordine e fu affisso ovunque.

In questo stesso giorno vennero a Castel S. Pietro il sen.  Filippo Bentivoglio e Vincenzo Sangiorgi deputati della Giunta degli Alloggi. Chiamarono il Consolo Farnè ed Ercole Cavazza e gli spiegarono i seguenti dispacci:

N. 1 Adi 7 febraro 1797. Libertà. Eguaglianza.

La Giunta delli Aloggi e forestieri e per essa li due deputati cittadini Sen. Bentivoglio e Sangiorgi alli cittadino Farnè Console ed Ercole Cavazza.

Essendo noi specialmente incaricati e deputati alla generale provisione per il passaggio delle truppe di cavallaria napolitana, invitiamo voi cittadini Consolo e cancelliere di  Castel S. Pietro ad assistere al passaggio di esse truppe e farle servire dell’occorente tanto per allogio di ufficialità, che per l’opportuna pagliata alle truppe e stalle per li cavalli, prevedendo localmente tutto l’occorente sì di fieno che di paglia e brugiaglia e letti respettivamente forniti di tutto il necessario coerentemente alle altre invitazioni a voi instradate per le bisognevoli requisizioni all’uopo necessarie e altresì per i locali delle stalle e tutto altro che  riconoscerete opportuno al bisogno. In oltre in adempimento della vostra comissione riceverete in consegna nei diversi magazeni convenuti li generi già ordinati, le respetive proviste e requisizioni, ricevendo tutto l’occorente da li contraenti. facendo loro circonstanziate ricevute de respettivi generi che saranno da voi distribuiti a norma delli odini che vi veranno estradati, muniti delle sottoscrizioni, che noi vi indicheremo unitamente ai quantitativi delle respettive razioni di fienaglia e brucciaglia. Siete parimenti invitati a provedere l’ufficialità e soldatesca delli occorenti candelieri, brocche, cattini e biancheria grossa, lampioni per le stalle particolari e tutto altro di cui vedete indispensabilmente abbisognare ed insieme delli individui che vedete necessari per la dispensa, assistenza e polizia al necesario servigio delle truppe napoletane a voi tale effetto affidato, dando di tutto quanto a noi deputati incaricati per esserne rimborsati esatto conto.

Salute e fratellanza. Filippo Bentivoglio deputato, Vincenzo Sangiorgi deputato.

Il secondo dispaccio riguardò la fornitura della legna accordata a lire undici e soldi dieci il carro e due carri di fascine di vite, a lire undici e soldi dieci il carro. Inoltre diecimila libbre di paglia a soldi 22 il cento.  Ordinava che tutto doveva essere portato nel luogo che sarebbe stato indicato per comodo della cavalleria napoletana[2], che doveva essere di passaggio. Inoltre sarebbero stati pagati due bajocchi per ogni notte ai padroni delle stalle che avessero ricevuto i cavalli e per ogni cavallo.

Il terzo dispaccio ordinò porre in requisizione il palazzo Malvasia per gli ufficiali ed il palazzo Locatelli per la soldatesca dovendosi in questo porre per loro la paglia. Inoltre si ordinò di requisire la rimessa Malvasia per la paglia e la rimessa Locatelli per la legna e le fascine.

Il quarto dispaccio riguardava la requisizione di 24 letti forniti di tutto il necessario, portati dai paesani e da usare per tutto il tempo di questo passaggio. Perché poi i due deputati non potevano attendere a tutto, fu riunito il Consilio comunitativo nel quale, esposte le suddette incombenze e la facoltà di potere usare anche altri individui, fu decisa la seguente ripartizione dei compiti.

Per le stalle e dispensa di fieni e paglia furono deputati i cittadini Francesco Conti fu Pietro ed Agostino Ronchi. Per la requisizione dei letti e della biancheria furono deputati Francesco Conti fu Francesco e me Ercole Cavazza. Per la legna e paglia furono deputati il cittadino Antonio Bertuzzi e Lorenzo Trochi.

Al console rimase il solo impegno di incontrare assieme a me i comandanti e i generali che di mano in mano dovevano arrivare.

E perché non potessero accadere incontri tra la truppa francese e la cavalleria napoletana, il Consiglio scrisse al comandante francese Manuille e ai deputati Bentivoglio e Sangiorgi che sarebbe stato opportuno avere un ricevitore francese. Fu subito provveduto e fu mandato Giovanni Gottier che fu alloggiato nel Borgo in casa di Nicola Manaresi e provveduto di tutto dalla Comunità. Questa credette poi di pregare il Senato a fare concorrere anche la Comunità di Medicina alla fornitura di letti, biancheria ed altro occorrente. Però non si ottenne alcuna risposta.

Affinché poi le cose andassero con buon ordine il napoletano Commissario di Guerra Ferdinando Ducarne venne a Castello e lasciò la seguente istruzione per il primo battaglione del Reggimento Re, che doveva pernottare a Castel S. Pietro affinché ognuno sapesse il quartiere assegnato. Per gli alloggi dentro il Castello le stalle furono indicate con le bollette che furono consegnate al capo della Partita degli Alloggi. Gli alloggi degli ufficiali furono indicati nelle cartelle che ognuno riceverà dal capo di detta Partita. I foraggi si dovevano prendere nei magazzini Zini, Manaresi, Lugatti, Bertuzzi e Sentimenti ove c’era una persona che consegnava quanto veniva richiesto come dai buoni che si esibivano firmati dal maggiore del battaglione col visto Buono del suo Comandante.

Le lampade assegnate nell’alloggio furono 8, per le stalle 26, per le porte e il corpo di guardia 3 compresa la stanza dei sotto ufficiali che in tutte furono 37 lampade. Dopo queste istruzioni fu lasciata altresì la seguente Tariffa per la truppa:

Vino ai soldati a un quattrino al boccale.

Carne di manzo a soldi 6 ½ la libbra

Pasta a soldi 3 e quattrini 3 la libbra

Maccheroni a soldi 3 e q.ni 3 la libbra

Riso a soldi 4 la libbra

Salame fino a soldi 16 la libbra

Mezzo salame a soldi 14 la libbra

Mortadella a soldi 15 la libbra

Lardo a soldi 9 la libbra

Strutto a soldi 9 la libbra

Forma a soldi 20 la libbra

Formaggio di pecora a soldi 12 la libbra.

Fu sottoscritta questa tariffa dal Sangiorgi e da Ferdinando Ducarne come rilevasi dal suo originale presso di me. Mi fu poi altresì lasciato il seguente foglio istruttivo che conservo con altri dispacci.

Foglio instruttivo per li cittadini Paolo Farnè consolo ed Ercole Cavazza procancelliere della Comunità di Castel S. Pietro dalli cittadini Sen. Filippo Bentivoglio e Vincenzo Sangiorgi, incaricati di assistere e provvedere al passaggio della cavallaria napoletana di Sua Maestà Sicilliana per la Provincia di Bologna, dalla Giunta delli Aloggi a norma della concessione avutane dal Governo e dalli Comissari napoletani, cioè:

Febraro 1797.  Giorni dell’arrivo di ciascun battaglione.

18 il primo battaglione, Reggimento Re

20 il secondo battaglione, Reggimento Re

22 il primo battaglione, Reggimento Regina

24 il secondo battaglione, Reggimento Regina

26 il primo battaglione, Reggimento Napoli

28 il secondo battaglione, Reggimento Napoli

Marzo 2 il primo battaglione, Reggimento Principe

Marzo 4 il secondo battaglione, Reggimento Principe.

Alloggi da passarsi per ciaschedun battaglione. Per un Colonello o tenente Colonello. Per un primo Maggiore o secondo maggiore. Per tre Capitani Comandanti. Per quindici officiali subalterni. Per cinque Cadetti. Per tre Ajtanti e Chirurghi. Per 9 volontari. Per 270 soldati. Stalle per 324 cavalli compresi quelli delli ufficiali. Per due Proveditori e comodo di sei carri del treno per ogni battaglione. L’alloggio di un generale con sette ajutanti di campo, N. 40 loro guardie e genti di servigio.

Questo medesimo alloggio restò fisso per il Colonello Intendente Giuseppe de Bisognè e con lo stesso numero di individui e il corrispondente convoglio che passò dopo l’ultimo battaglione.

Questo l’elenco delle forniture di foraggi e utensili:

Fieno a ragione di libbre 17 ½, di once 12 la porzione, per 324 cavalli comprensivi di quelli degli ufficiali.

 Paglia per dormire a ragione di once 60 il giorno per ogni soldato.

Legna a ragione di once 60 al giorno per ciascuno individuo.

Olio corrispondente a 37 lampade giornaliere, cioè 8 per gli alloggi ad once 4 e 29 per stalle e corpo di guardia ad once 50.

Questi generi, che furono somministrati ad ogni battaglione, non furono consegnati se non con ricevuta del Maggiore munito del visto Buono del Comandante del battaglione. Questi furono poi spediti a Bologna al Bentivoglio e Sangiorgi. Fu lasciata libertà per alcune spese al Farnè e al Cavazza che furono rimesse alla loro conoscenza di bisogno.

Il 10 febbraio arrivò, d’ordine del comandane Manuille, la sesta mezza Brigata con 100 cavalieri francesi, che alloggiarono nel Borgo. La mezza brigata si impadronì del quartiere destinato ai napoletani nel palazzo Locatelli. Se ne diede l’avviso alla Giunta degli Alloggi che non fu contenta.

Ciò fu motivo che furono rinnovate le istanze per collocare qui un commissario francese e, per evitare qualunque altro impegno sopra gli alloggi destinati.  Vennero in paese i deputati Sangiorgi e Bentivoglio che partirono solo il 16 dopo che fu arrivato il commissario napoletano. Questi, visitati i quartieri, partì per Imola ed il giorno seguente 17 arrivarono gli ufficiali dell’avanguardia napoletana che si impadronirono dei loro quartieri.

 Ciò non ostante la mattina stessa arrivarono 600 traspadani che volevano fermarsi qui sebbene fossero destinati a Imola. Vi fu qualche contrasto fra i napoletani e i furieri traspadani per cui si temette qualche fatto. I deputati della Comunità per ovviare ad un disordine fecero passare 600 ruzzoli di pane bianco fresco ai traspadani e 5 carri per il trasporto del loro convoglio fino ad Imola.

La stessa sera del 17 furono preparati tutti gli alloggi nei palazzi suddetti per i napoletani che giunsero la mattina su le ore 17 italiane condotti dal principe D’Assia. Questi, dovendo qui pernottare, volle andare al teatro e fu accompagnato da 4 consiglieri con torce cioè il Consolo Farnè, i due Conti ed Ercole Cavazza.  La mattina seguente, che fu domenica 19, andò con ordinanza militare alla S. Messa nell’Oratorio del SS.mo. Rimase qui tutto il giorno poi partì il lunedì mattina di buon’ora.

Il comandante francese della piazza di Faenza ordinò alla Municipalità di ricevere mille prigionieri papalini, che venivano da Ancona, ma avvisato che qui c’era ancora la cavalleria napoletana e che si attendeva il secondo Battaglione del Reggimento Re, ordinò che quei sfortunati proseguissero il viaggio fino a Bologna. Infatti arrivarono su le 14 italiane della mattina e proseguirono il viaggio. Erano tutti malmessi con una casacca color marrone, erano preceduti da 4 bandiere papaline di taffettà rosso e giallo e la bandiera anconitana su cui stava dipinta la Immagine di Maria SS. che a Ancona proseguiva ad aprire e chiudere gli occhi.  Pochissimi erano i soldati francesi che accompagnavano questi sciagurati, c’erano due sentinelle ogni 40 prigionieri che sfilavano a due a due. Di dietro a questa truppa vi erano solo 12 cavalieri. Quando furono a questo Borgo li fecero andare in fretta per timore o di fuga o di rivolta.

In questo stesso giorno, 20 febbraio, arrivarono sul mezzogiorno i napoletani a cavallo. Era il secondo battaglione del Reggimento Re condotti dal Colonello Giovan Battista Fardella che stette alloggiato al Portone e partì la mattina di martedì 21. Giorno in cui arrivarono solo 40 dragoni francesi provenienti dalla Romagna con altri prigionieri papalini, che furono albergati nell’oratorio soppresso di S. Caterina entro il Castello.

Il 22 sul pomeriggio arrivò il primo battaglione di cavalleria napoletana del Reggimento Regina condotto dal Brigadiere Comandante Barone Enrico di Melsch che, dopo avere qui pernottato, partì la mattina seguente per Imola. Arrivarono molti carri di feriti e malati francesi dalla Romagna, questi furono albergati negli Ospitali del Borgo e del Castello.

Fu contemporaneamente pubblicato un bando di non dovere dare commiato alle bestie a contratto di soccida con i contadini senza licenza da Bologna.

Il comandante francese alloggiato in casa di Nicola Manaresi, cominciò a volere fare lui i pagamenti agli osti, che prima erano fatti dai militari di passaggio. Ciò a motivo che molti ottenevano una sussistenza doppia col dare il nome in due osterie con danno alla cassa pubblica.

Il 23 febbraio, che era giorno di giovedì grasso ma anche vigilia di precetto per la festa di S. Mattia. L’Arcivescovo lasciò la libertà di fare tale vigilia in tal giorno o permutarla in uno dei due giorni seguenti, lasciando ciò ad arbitrio dei fedeli.

Il generale Napoleone Bonaparte giunse improvvisamente questa sera alla locanda del Portone. Fu riconosciuto dai presenti e si alzarono delle grida di Evviva il Generale Bonaparte. Lo schiamazzo fu udito da   taluni che nulla sapevano e fu creduta una insurrezione, perché nel paese prevaleva un partito papalino.  Molti paesani si impaurirono ma, rilevatosi il vero tutto tranquillizzò nelle famiglie impaurite del Borgo.  Il Generale, ristorati i cavalli, su le 4 di notte partì per Imola.

Il giorno seguente 24 febbraio fu pubblicato l’indulto per la vicina quaresima.

Sul mezzodì arrivò il secondo battaglione di cavalleria napoletana del Reggimento Regina condotto dal primo maggiore Giulio Antonetti, che aveva con sé 20 ufficiali. Albergò nel palazzo Malvasia fino alla mattina seguente 25 in cui partì per Imola. Contemporaneamente essendo ripassato per Bologna il generale Bonaparte in incognito, lasciò la gradevole nuova della pace seguita fra la Francia col Papa con 26 capitoli che furono poi pubblicati[3]. Quelli più interessanti sono i seguenti. 

 Il Papa si ritira dalla coalizione dei principi armati contro Francia.

 Entro 15 giorni deve essere licenziata la sua armata. Cessano tutti i diritti che ha il Papa sopra Avignone e le Legazioni di Bologna, Ferrara e della Romagna.

La città e il territorio di Ancona rimangono in potere dei francesi fino alla pace di tutto il continente.

Il Papa dovrà pagare 31 milioni in oro, argento ed oggetti preziosi e fornire ottocento cavalli bardati ed altrettanti buoi o bufali da tiro ed altri prodotti dello Stato a completamento di quanto stabilito nell’armistizio[4].

Le truppe francesi resteranno nello Stato del Papa fino alla esecuzione del trattato. Gli stati del papa saranno evacuati alle rispettive scadenze e pagamento delle rate stabilite.

Dovrà essere data riparazione per l’assassinio di Basville e ristabilite la Posta e le Accademie francesi come prima della guerra. L’articolo dell’armistizio concernente i manoscritti e gli oggetti d’arti deve avere piena e pronta esecuzione.

La mattina di domenica 26 febbraio venne a Castel S. Pietro Don Antonio Pinedo con 270 cavalli, primo battaglione del Reggimento Napoli, tutta bella cavalleria vestita di bianco e con sciabole, fucili bellissimi e con pistole, solo gli ufficiali avevano le uniformi turchino carico. Partirono per la Romagna il giorno seguente.

Il 28 venne il tenente colonello napoletano Don Andrea De Liguoro col secondo battaglione di cavalleria del Reggimento Napoli e partì il primo giorno di quaresima.  La sera arrivò l’avanguardia del Reggimento Principe, al quale il 2 marzo seguì il battaglione sull’ora solita del mezzogiorno condotto dal comandante Don Ottavio Spinelli che partì il seguente 3 marzo.

Finalmente il 4 marzo sull’ora solita giunse l’ultimo battaglione Principe della cavalleria napoletana condotto dal brigadiere comandante colonello Don Francesco Federici e dal primo maggiore Don Cesare Caraffa. Albergarono in casa Calderini ora Ghisilieri. Non poterono questi riposare poiché giunse un espresso da Faenza e Don Cesare Caraffa dovette immediatamente a partire con 16 cavalieri per Faenza dove era accaduta una baruffa fra 2 napoletani e 4 francesi. Furono battuti i francesi ad uno dei quali un moro napoletano tagliò netta la testa con la scimitarra e fece fronte da solo agli altri tre francesi. Il motivo di questa baruffa fu perché i francesi non volevano che i napoletani entrassero in città ma furono costretti a cedere al valore napoletano.

Essendo giunto il principe Carlo d’Austria, fratello dell’imperatore, nel Tirolo con 12 mila combattenti, Bonaparte che era a Bologna partì per Milano e richiamò subito le truppe che aveva nella Romagna che e cominciarono a ripassare di qui il 5 marzo.

Dopo avere tenuto una riunione elettiva ed una importante assemblea a Modena fra le tre legazioni e i popoli della Lombardia si intese che la decisione fu che la città di Bologna dovesse essere la capitale della Repubblica Cispadana e si fecero grandi feste.

Il giorno seguente, lunedì 6 marzo, cominciarono a passare i bufali del Papa.

Fu pubblicata la nuova Costituzione[5], che domenica 12 fu illustrata al popolo.  Dodici dragoni a cavallo che servivano qui il comandante partirono per Bologna. Da questo si capì che il principe Carlo aveva fermati i francesi nel Tirolo.

Per ovviare a ulteriori progressi, i francesi il 17 marzo cominciarono a passare a marce forzate. Essendo poi terminato il passaggio dei napoletani, la Giunta degli Alloggi riguardando i disturbi da noi avuti regalò al Consolo Farnè ed al cancelliere Cavazza tutto il fieno, la paglia e le stoviglie rimaste da farne poi anche parte a chi aveva servito.

La domenica 19 marzo, festa di S. Giuseppe, essendo occupata la parrocchiale, si tenne il Comizio elettorale nell’Oratorio della Compagnia del SS.mo la mattina e dopo pranzo, in cui si lesse prima il testo della nuova Costituzione e dopo pranzo si mise a partito l’accettazione.

Perché poco piacque concorsero solo 110 votanti, parte volontari, parte istigati e parte per reputazione, onde posto il partito furono i voti favorevoli 52 e i negativi 58 e quindi non ebbe alcuna approvazione.

In questa sessione nacque una seria questione fra il notaio Francesco Conti e il dott. Don Pietro Castellari. Il primo chiese all’arciprete se si poteva in Domino (rispettando Dio)dare il voto favorevole alla richiesta approvazione. L’arciprete lasciò indeciso il dubbio a motivo che vi erano alcuni articoli non troppo chiari per la religione cattolica. Non seguirono altre discussioni nel momento e poi fu tutto calmato.

Si procedette quindi alla elezione dei 20 decurioni che dovevano eleggere il Giudice di Pace e furono i seguenti: Andrini Giulio, Andrini Giovan Francesco, Alvisi Lorenzo, Borelli Luigi, Cavazza Ercole, Cavazza dott. Francesco, Cardinali Luigi, Conti Francesco fu Lorenzo, Fiegna Gio. Battista, Grandi Domenico, Grandi Stefano, Giorgi Andrea, Giorgi Carlo, Inviti Antonio, Lugatti Giacomo, Landi Francesco, Parazza Giuseppe, Roncovassaglia Antonio, Sarti Gaspare, Tomba Filippo.

Il lunedì seguente, 20 marzo, vennero a Castel S. Pietro Gian Pellegrino Savini Lojani col notaio Francesco Aldini a nome di suo fratello Luigi, notaio attuario nel vescovato. Andarono alla chiesa di S. Bartolomeo, chiesero del priore del convento degli agostiniani Padre Antonio Bazani bolognese e gli presentarono la dichiarazione della soppressione del suo convento.

Poiché non era passata la deliberazione sopra l’approvazione della Costituzione, gli ufficiali del Comizio cioè il presidente dott. Castellari, l’arciprete Calistri, il segretario Antonio Giorgi e l’ispettore Domenico Grandi, fecero richiesta al Senato per farne la riproposizione.

Il 21 marzo ebbero risposta favorevole ed il giorno 25, festa della SS. Annunziata, radunato il Comizio nell’oratorio con 113 votanti passò per 100 voti positivi e 13 negativi, onde fu fatto un applauso con battimani.

Passò nuovamente dalla Romagna a Bologna una truppa francese di 2 mila persone, il cui capo era Boussar.  La sua truppa fu molto impertinente con le donne e ne condussero alcune via con loro.

Lunedì 22 si chiuse il convento degli agostiniani detto di S. Bartolomeo. Restò solo il priore Bazani interinalmente perché fu predicatore quaresimale e dovendo fare la questua e rendere conto degli effetti del convento. Tutti gli altri frati partirono, in convento rimasero i due preti francesi Don Natale Vernies e Don Giovanni Romezi, con la pensione di due paoli al giorno per ciascuno, finché fosse qui rimasto il priore. Intanto fu fatto l’inventario delle robe del convento.  A ciò furono deputati il cittadino Francesco Conti fu Pietro e suo nipote ser Antonio Giorgi, i quali posero in gravissime angustie tre sacerdoti, lasciandoli senza cucina, legna, cibo e perfino senza piatti e pentole. Non ebbero se non che il puro alloggio e la chiesa.

Molte famiglie paesane, considerando la loro situazione, gli mandarono chi pane, chi vino, chi legna, chi una cosa chi l’altra. In questa chiesa erano state erette le compagnie della Cintura e quella del Suffragio per il Purgatorio. Queste si videro inventariare le loro robe e le suppellettili sacre con quelle del convento. Gli ufficiali delle due compagnie, con l’inventario delle proprie cose si portarono alla Giunta degli Ecclesiastici per la separazione della roba loro. Furono ascoltati e provvisoriamente gli fu lasciato in uso il tutto.

Fu poi pubblicato il proclama sopra l’approvazione della Costituzione. 

Siccome i francesi si volevano inoltrare ad Urbino nella Marca, così gli spolverari [6] ed altra gente manesca, uniti agli urbinati ed altri volontari si opposero. Si fortificarono con trincee nelle montagne vicine, vennero guidati da un comandante pesarese, uomo che aveva servito l’Imperatore in più di una campagna, il cui nome resta a me ancora ignoto. Questi formò un corpo di 12 mila uomini ubbidientissimi ai suoi ordini. Gli spolverari facevano su quelle montagne scorrerie, agguati e battevano terribilmente i francesi. Quanti ne scoprivano ne ammazzavano.

I francesi scrissero a Bonaparte per avere aiuti, anche perché gli spolverari li avevano depredati delle contribuzioni papaline che trasportavano. Crebbe talmente l’ira ai francesi che pensarono di assalire la città di Urbino. Ma quei terrazzani uscirono di getto contro gli assalitori, che furono anche assaliti di fianco da vari corpi di spolverari. Iniziò un forte scontro e restarono soccombenti i francesi. Buon per loro che, avvisati dal Bargello pesarese che li scortava, si diedero ad una precipitosa ritirata, altrimenti restavano tutti morti.

Guadagnò Urbino in questo fatto d’arme la sua liberazione ed anche della artiglieria. Il bottino dei spolverari fu grande, cosi che fatti più coraggiosi tolsero anche la fortezza di S. Leo ai francesi mediante uno stratagemma e uccisero tutti quelli che là si trovarono.  

Lo stratagemma fu il seguente. A S. Leo scarseggiava la bruciaglia (legna da ardere).  Degli spolvevari camuffati ne portarono sopra giumente e carretti. Uno di questi finti villani ne contrattò una fornitura con i 40 francesi di presidio in quella fortezza. Si introdussero a poco alla volta 24 bravi spolverari, l’altra parte, che arrivò con la legna aveva nelle fascine nascosti gli archibugi ed altre armi da fuoco Si unirono ai primi entrati e, data mano all’archibugio, cominciarono a colpire i francesi di presidio, così che pochi poterono fuggire.  Quindi divennero padroni di questa piazza.

 Animati ancora di più da questo fatto gli altri spolverari, ai quali si erano uniti altri malviventi ed assassini per il perdono loro concesso dal Papa, formarono un corpo volante di 2 mila persone, gente disperata. Questa truppa irregolare tendeva insidie ai francesi e gli toglievano quelle robe sottratte al Papa come contribuzione, perfino uccidendo i poveri conducenti, birocciai e vetturali.

Non si fermarono qui ma si inoltrarono anche nella Marca e entro i confini della Romagna e non solo saccheggiavano i francesi, ma passavano anche a taglieggiare quelle terre. Savignano fu costretto, in poche ore, a contribuire con 500 scudi.

Bonaparte informato di queste cose mandò altri militari francesi da quelle parti e da qui mandò 600 polacchi che erano al soldo francese, che passarono il 28 marzo.

Il giorno 2 aprile, In virtù delle notificazioni stampate e proclamate il 27 marzo in Bologna, fu convocato il Comizio elettorale nella chiesa di S. Caterina[7]. L’esito dell’elezione fu il seguente:

Per l’Assemblea legislativa:

Ballarini Giuseppe, voti 39. Ballarini Don Giovanni, voti 30. Bianchi Gio. Battista, voti 17. Cavazza dott. Francesco, voti 20. Grandi Domenico, voti 26. Farnè Arciprete, voti 29. Lugatti Giacomo, voti 12. Montebugnoli Domenico, voti 21. Rabbi Zeffirino, voti 49. Rabbi Gio. Francesco, voti 26.

Per l’elezione dei componenti la Municipalità:

Bianchi Gio. Battista, voti 25. Ballarini Giuseppe, voti 44. Bergami Ercole, voti 23. Grandi Domenico, voti 28. Grandi Stefano, voti 24. Lugatti Giacomo, voti 25. Montebugnoli Domenico, voti 22.

Infine si procedette alla elezione del giudice di pace il risultato fu: Antonio Giorgi, voti 42. Suoi assessori Don Giovanni Ballarini, voti 25, Zeffirino Rubbi, voti 21. Ciò fatto si terminò il Comizio su le 23 italiane in tutta quiete.

Il 7 aprile vennero dalla Romagna verso Bologna 2 mila francesi con 80 carri di robe provenienti da Roma con le contribuzioni fatte dal Papa nel trattato di pace. Avevano con sé quattro cannoni. Dovettero trovare qui, per il trasporto fino a Bologna, 70 paia di buoi e 20 cavalli per i carri necessari.  

La Comunità era stata risarcita dal comandante Gollie fino a questo punto. Questi però ora richiese il soldo in l. 300. La Comunità per ciò scrisse all’Assonteria di Governo per farne il riparto nei libri camerali. L’Assonteria rifiutò e si dovette ricorrere ai redditi ed avanzi comunitativi.

 Il giorno seguente 8 aprile ritornarono dalla Romagna alla volta di Bologna i 500 traspadani, tutta gente brava nei furti e nelle insolenze. Nella Marca ne erano stati uccisi 100 dagli spolverari. Fu quella stessa truppa che si dovette quietare col pane come si disse addietro.

Il 9 la Municipalità d’Imola ordinò alla nostra l’allestimento di 70 carri di buoi per il trasporto di malati e feriti provenienti dalla Marca. Vennero fra questi 400 feriti che raccontarono la strage dei morti a Urbino che ascese al numero di più di 5 mila francesi e alleati cispadani.

Nello stesso tempo a Faenza fu alzato l’Albero della Libertà. Intorno a questo furono intrecciati balli e cori e non mancò chi approfittò della libertà. Vi furono due faentini innamorati che, terminato il ballo, si congiunsero in matrimonio a vista di tutti con questa solenne promessa che fu reciprocamente mantenuta. Disse il giovanotto queste parole prima del contratto:

Questo è l’arbor dalle foglie

e voi siete la mia moglie

Replicò la donna:

Questo è l’arbore fiorito

e voi siete mio marito.

Ciò detto, stringendosi contenti la mano ed abbracciandosi, il giovanotto condusse la donna a casa sua.

L’11 e il 12 aprile si tenne a Bologna il Comizio generale per la elezione delle Autorità nella chiesa di S. Paolo. A questo comizio intervennero i nostri delegati, eletti il 2 aprile come si è sopra scritto.

Il giorno 17, lunedì di Pasqua, la Compagnia del Suffragio e della Cintura si unirono nella sagrestia di S. Bartolomeo e qui elessero fra loro quattro deputati che furono Gio. Francesco Andrini, priore della Cintura, Giovan Battista Fiegna, depositario del Suffragio, dott. Francesco Cavazza e Lorenzo Trochi che, uniti ad altri confratelli, furono incaricati di presentarsi a Bologna alla Giunta degli Ecclesiastici, allo scopo di conservare le suppellettili che sono delle loro compagnie in S. Bartolomeo.

Tanto fecero che ottennero la grazia fino alla determinazione della vendita degli stabili. Il giorno 18, ultima festa di Pasqua, venne un corpo di 220 polacchi a piedi diretto nella Romagna, alloggiarono nel palazzo Locatelli e partirono la mattina seguente 19 aprile.

Mercoledì 25, dopo la domenica in Albis, partì il padre Antonio Bazani bolognese, predicatore quaresimale ed ultimo priore di questo convento degli Agostiniani, compianto da tutti e se ne ritornò a Verucchio al suo convento.

La chiesa di S. Bartolomeo fu affidata col SS.mo ai due preti francesi accennati che avevano in consegna il convento, ove celebravano quotidianamente la messa sia per gli obblighi normali e che per il suffragio.

Il giorno 26 si pubblicò mediante stampa che erano in corso i preliminari di pace fra la Francia e l’Impero[8]. Questo era successo perché erano venuti allo scontro i francesi con gli imperiali alla cui testa c’era il Principe Carlo.  Dopo una sanguinosa battaglia, i francesi che si volevano ritirare rimasero circondati. Il generale Bonaparte che si era rifugiato in un luogo presso Palmanova, fu bloccato. Chiese quindi, perché non fosse tagliata a pezzi la sua armata, un armistizio di più mesi.

 Gli fu accordato a patto che prima fosse evacuata Mantova dalle truppe francesi, restituito tutto quanto inventariato da Wurmser prima della sua resa e che si trattasse del resto con l’Imperatore.

Fra i capitoli preliminari due furono i più interessanti, il primo la indivisibilità dell’Impero ed il secondo la cessione dei diritti sopra la Lombardia e le tre legazioni di Ferrara, Bologna e Romagna all’Impero[9]. Voglia il cielo che non accadano più rotture e battaglie di questo tipo per le grandi perdite di anime dall’una e dall’altra parte.

Dopo tale annunzio fu proclamata in stampa la vendita degli stabili di alquanti conventi del bolognese, fra questi vi furono quelli di Castel S. Pietro, che sono i seguenti fondi rurali posti nel Comune di Castel S. Pietro. 

Un predio denominato la Colombarina di sementazione annua di Corbe 6. Un predio denominato la Scania di sem.  C. 13. Un predio denominato Casetta di sem. C. 7. Un predio detto Alla strada di sem. C. 10. Una pezza di terra boschiva detta la Trucca di tornature 9 e 4 nel comune di Liano di Sopra. Un piccolo podere denominato Canova di sem. C. 5 ½.

 Fondi urbani nel Castello e fuori: Una casa grande con bottega in via Maggiore presso la chiesa di S. Bartolomeo. Tre piccole case nella via detta Piazza Liana, presso l’oratorio del SS.mo SS.to. Due piccole case nella via di Piazza Liana. Una casa in via Maggiore indivisa con Domenico Albertazzi.  Una casa concessa in enfiteusi al parroco di S. Mamolo in Bologna. Oltre questi beni poi vi sono altre casette contigue al convento, che non sono state indicate nel proclama.

Dopo questa pubblicazione i due preti francesi cioè Don Natale Vernies, parroco, e D. Giovanni Remezì, suo vicario, nativi di Lingua d’Oca il 2 maggio partirono dal convento ed andarono a Bologna a stabilirsi nel monastero di S. Giovanni in Monte e così il convento restò del tutto chiuso e privo di questi due sacerdoti veramente cattolici ed esemplari.

Erano già state seminate in questo Castello satire e cartelli denigranti e beffeggianti i nuovi funzionari repubblicani. Il 16 maggio, ne fu fatta la relazione non solo al Governo criminale di Bologna, ma anche ai due Commissari Guido Antonio Barbozzi e Angeletti che erano a Imola per conto della Repubblica di Bologna. Il primo si presentò in Consilio dove, dopo lunga sessione, redarguì molto la Municipalità per essere poco vigilante su gli individui del paese tanto che di notte tempo si sentivano archibugiate e giravano gruppi di persone che disturbavano la quiete e che non era molto lontana una insurrezione. Infatti si era a conoscenza di biglietti e carte sparse all’esterno.

Il Consiglio rispose che tali fatti venivano probabilmente inventati da quei paesani che odiavano i componenti della Comunità. Il commissario Barbozzi aggiunse poi che era già pervenuta una istanza contro tutto il corpo comunitativo per la quale avrebbe dovuto essere arrestato.  Ciò sarebbe accaduto se il comandante della piazza di Bologna ed il generale francese D’Alemagne non cambiavano opinione. Restò stupito il Consiglio. Non passarono due giorni e qui arrivarono 68 militari della Guardia Nazionale detti Rigadini[10], sotto la condotta di tre ufficiali cioè il capitano Gaetano Morelli e due tenenti, entrambi nobili. Fu subito preparato il quartiere nel Convento di S. Francesco, tanto per la ufficialità che per i soldati, ai quali si dovettero procurare sul momento i paglioni.

È da notare che fu spedito e presentato il memoriale al generale principalmente contro il notaio Francesco Conti e me scrivente come capi del partito tedesco e papalino e che loro alleate erano le famiglie di Giuseppe Magnani, Luigi Magnani, Antonio Magnani, del capitano Pier Andrea Giorgi con quattro suoi figli, Francesco Giordani, Nicola Bertuzzi e suoi figli ai quali si univano poi altri loro dipendenti. Questa istanza fu fatta da Antonio Sarti e dai nuovi consiglieri.

Il decreto prevedeva che il Conti e il Cavazza dovessero immediatamente essere arrestati e condotti a Milano nella fortezza, con loro Serafino Ravasini, Luigi Musi, Antonio Mingoni e Bartolomeo Ponti detto Cavedlino. Si interpose il commissario Barbazza che fece sospendere l’arresto ai consiglieri fino a che fosse stata provata l’accusa. Furono solo arrestati il Ravasini, Mingoni suo cognato e Musi che soffrirono il carcere per molti giorni e poi, scoperti innocenti, furono rilasciati. Fu ritirato l’ordine d’arresto a tutti gli altri con l’ordine però che fossero giornalmente guardate a vista le suddette famiglie perché sospettate di essere di parte e sovversive.

La truppa che si era qui stabilita. cominciò a pattugliare di notte tempo ed a vigilare anche il giorno. Le relazioni che queste giornalmente spedivano giustificarono l’innocenza di tutti.

Dopo due giorni ritornò il commissario Barbazza da Bologna per controllare se il paese era in quiete. Il capitano Morelli riferì che non c’erano novità e che il paese, non che le famiglie, erano quiete. Ne fu contento il Barbazza e contemporaneamente presentò un ordine del Decano dell’Assonteria de’ Magistrati che imponeva di levare lo stemma della Comunità nei sigilli e nei marchi con cui si segnavano i documenti e si sigillavano le lettere perché rappresentava le chiavi di S. Chiesa.

Libertà     Eguaglianza

Alla Comunità di Castel S. Pietro, l’Assonteria de Magistrati li 21 maggio 1797.

Anno primo della Repubblica Cispadana

Cittadini.

Lo stema che adoperate a segnare li vostri dispacci, rappresenta il gonfalone e due chiavi, emblemi troppo relativi al passato governo. Noi incarichiamo il colega Barbazza di assistere affinchè essi siamo imediatamente cangiati e potete suplirvi anco colle parole: Comunità o Municipalità di Castel S. Pietro. Questa serva di avviso. Salute e fratellanza. E. de Bianchi decano magistrati.

In seguito di tale ordine furono consegnati i due sigilli al senatore e commissario Barbazza che li portò via. Nei sigilli fu sostituito, al posto delle chiavi di S. Chiesa, l’emblema della libertà cioè l’albero con la berretta di Bruto sopra, i fasci consolari e le picche. Attorno fu posta la scritta: Municipalità di Castel S. Pietro. È qui da ricordare che lo stemma di S. Chiesa fu donato a questa Comunità fino dal 1407 per la fedeltà del paese al Papa, come risulta da lettera di Baldassarre Cossa, governatore di Bologna, di cui ve ne è copia nell’archivio della Comunità.

A questo proposito c’era entro il Castello, sopra la porta maggiore, murata alla torre, l’arma gentilizia della famiglia patrizia Malvasia.  Nel contratto dell’enfiteusi fatto con la Comunità era convenuto, per patto e rogito di me notaio, che tale stemma non dovesse essere mai rimosso ma anzi conservato.

 Per ciò fu scritto al senatore Conte Giuseppe Malvasia per la rimozione di questo stemma. Rispose egli che si levasse e si ubbidisse all’ordine repubblicano e così tosto fu staccata. Contemporaneamente furono levati tutti gli altri stemmi che si trovavano in paese tanto che scolpiti o dipinti.  Furono principalmente quelli delle famiglie Gini, Tanara, Stella, Caldarini, Ercolani, Malvezzi, Malvasia, Locatelli, della Commenda di Malta e delle Religioni, perfino nella chiesa.

Oltre gli stemmi delle suddette famiglie nobili, furono anche levate le armi delle famiglie del paese tanto estinte che presenti cioè Comelli, Bini, Andrini, Conti, Cavazza, Murelli, Fiegna, Giorgi, Vachi, Graffi, Fabbri, Villa, Bertuzzi Rinaldi ed altre che sarebbe lungo annoverarle tutte qui come quelle degli Serpa, Bartoluzzi, Nicoli, Battisti e altre famiglie illustri del paese.

Non bastarono queste che anche nella residenza della Municipalità furono levate le armi dei Podestà e, quel che fu peggio, pure le inscrizioni che vi erano sotto.  Il furore dello spirito repubblicano tutto distruggeva disperatamente. Così si sono perduti tanti bei monumenti di antichità e storia prendendosela perfino contro la stessa bellezza atto il più vile di tutti gli altri.

In questa circostanza si volle levare lo stemma comunitativo, che era sopra la statua di Maria SS.ma nella torre piccola dell’orologio e che formava corona e baldacchino sopra l’immagine. Fu incaricato il muratore Vincenzo Parazza che, sopra una lunga scala, si accinse all’opera. Accadde che si spaccò la scala e il povero uomo cadde miserabilmente e restò morto ai piedi della torre sotto l’immagine, potendo profferire appena il nome di Dio.

Simili altri due casi accaddero a Bologna nel volere levare questi stemmi apostolici murati nei muri degli edifici.

Il 21 maggio, domenica preventiva alle rogazioni di M. V di Poggio, secondo il consueto si radunò la Comunità per la funzione. Questa fu condotta nel modo seguente: Partì la Compagnia dalla Parrocchia, la seguì il corpo comunitativo vestito di nero, parrucca lunga all’uso antico, fu attorniata dalla truppa bolognese detta dei Rigadini che qui erano di guarnigione, seguì il clero e dietro ad esso vennero gli altri militari con i tamburi.

Si andò in Borgo alla SS. Annunziata e qui, levata la S. Immagine, cominciò a sfilare a due a due la truppa con fucile e baionetta in canna, seguì la Compagnia del SS.mo, quindi il corpo comunitativo e finalmente la S. Immagine che da una parte all’altra veniva protetta dai militari.

Si procedette entro il Castello alla chiesa della Compagnia alla cui porta erano dodici soldati che vietavano l’ingresso ai villani e alle persone di bassa condizione. Arrivati sulla piazza si divise la truppa in due ali e tutto ad un tratto presentò le armi alla S. Immagine, passata la quale con i priori e le prioresse, la truppa si rinchiuse e riunì in un solo corpo e poi se ne partì per il suo quartiere.

Nella chiesa si fece la solita funzione di messa cantata in musica alla quale il corpo comunitativo assistette fino alla fine e tutto riuscì gradevole alla popolazione nazionale e forestiera.

I tre giorni seguenti delle Rogazioni cioè lunedì, martedì e mercoledì furono similmente solennizzati con la processione. Il 25, che fu il giorno della Assunzione, il dopo pranzo fu levata la S. Immagine dalla arcipretale e portata direttamente alla piazza del Castello sulla porta della chiesa della compagnia del SS.mo con lo stesso ordine al quale partecipò il corpo comunitativo in forma. Qui, ricevuta la S. Benedizione, fu accompagnata la S. Immagine al Borgo nella chiesa della Annunziata. Infine, ricevuta l’ultima benedizione, fu congedata e ritornò ogni corpo regolare e secolare con le compagnie alle proprie residenze pubbliche.

I dodici rappresentanti della Comunità erano stati posti in mala fede presso il governo di Bologna, accusati di essere del partito aristocratico cioè dalla parte del Papa e dell’Imperatore. Al fine evitare queste accuse e le mortificazioni che gli venivano fatte, tanto più che la pubblica rappresentanza non aveva dato alcuna dimostrazione di contrarietà al partito repubblicano, si pensò di trasformare l’orologio pubblico all’andamento francese come si era già fatto in tanti altri luoghi.

 Quindi perché la Comunità non aveva forza pecuniaria si pensò di fare tale spesa, rimettendola a chi l’aveva anticipata, con l’addossarla ai libri camerali comunitativi di questo paese. Si scrisse perciò al governo di Bologna questa intenzione per avere il permesso di farne il comparto ammontante a l. 150 come da spesa stimata dall’ingegnere pubblico Pietro Toldi.

I tre carcerati Ravasini, Mingoni e Musi, dopo la prigionia di nove giorni a Bologna, furono scarcerati.

Il sabato seguente 29 maggio vedendosi ormai il ceto comunitativo al termine del suo mandato, credette di terminare il suo ministero col portarsi in forma, alla vigilia di S. Bernardino da Siena protettore del paese, nella chiesa dei M. O. a fare l’ultima funzione di commemorazione del Voto per il contagio. Tanto effettuò con il maggior decoro possibile.

 La domenica 30 maggio si pubblicò un proclama che dava licenza di potere fare nuovamente il mercato dei bovini con alcune cautele sanitarie rispetto ai paesi esteri e limitrofi.

Nello stesso tempo si pubblicò un rigoroso bando contro quelli che parlavano sulle circostanze delle presenti guerre e davano novelle al popolo sopra le potenze belligeranti.

Il commissario Barbazza che stava ritornando da Bologna al suo ministero in Imola, riferì che aveva riportato dall’Assonteria de’ Magistrati il parere sulla trasformazione dell’orologio pubblico all’uso francese e fu che non occorreva fare tale spesa di l. 150, né variare la mostra dell’orologio e che poteva funzionare benissimo di sei in sei numeri, bastando solamente che la nostra regolazione fosse all’uso francese con il movimento uniforme.

Riferì anche che in rapporto agli stemmi di pietra incastrate nella residenza pubblica al tempo della passata repubblica bolognese non occorreva per ora levarle, se non a nuovo ordine e così si potevano mantenere le iscrizioni essendo un lustro e del paese e della repubblica antica di Bologna.

Giunse contemporaneamente al Consolo Farnè lettera del Governo di Bologna di dovere mandargli l’elenco dei municipalisti e delle autorità fatte e create dal popolo nei Comizi. Fu altresì richiesta alla Comunità la nota degli affari pendenti che fu data prontamente ed è la seguente:

1797. Elenco delli affari della Comunità di Castel S. Pietro ed in fine il suo ristretto che fu consegnato al Pres. Giacomo Lugatti.

Prima che fosse eretta la repubblica Cispadana la Municipalità di Castel S. Pietro teneva accese due liti in Roma. La prima contro li uomini della Villa di S. Biagio di Poggio, pretendendo la smembrazione dalla Comunità di Castel S. Pietro. Questa fu patrocinata valorosamente dall’Abbate Gio. Celestini avvanti una congregazione speciale deputata dal Papa. Le spese che importò questo litigio furono rillevanti, per soddisfare le quali fu costretta la Comunità ricorre al governo per prendere l. 800 a frutto al 5 per cento (ma la Comunità ne prese soltanto 600), coll’assenso dell’Assonteria di Governo. Si creò tal debito da estinguersi a ragione di l. 200 all’anno per il quale aspetto la med. Assonteria decretò il riparto nei Libri camerali comunitativi alla condizione però di pagare il frutto colle rendite particolari della stessa Comunità.

Di tale riparto esistono l. 400 in depolio nelle mani del cittadino Conti depositario, (tali l. 600 furono spediti a Roma al sig. Abbate Celestini mediante cambiale soministrata dal cittadino Roco Andrini in settembre 1792 all’effetto di sodisfare il d. debito dalla eredità Vergoni) e l’altri l. 200 restano da risquotersi dall’esattore dei med. Libri comunitativi camerali nel corente anno.

Li frutti decorsi sono stati tutti pagati dal d. depositario. Il creditore delli l. 600 è la eredità del fu Pietro Vergoni di Castel S. Pietro.

L’abbate Celestini rimane creditore per ciò parte delle sue funzioni e spese che amontano a l. 30: 64 come da copia della stessa lista appare qui anessa, restando l’originale presso (…) ed è essibibile ad ogni ocorenza.

La seconda lite vertente in Roma contro li Calegari ed altre Arti di Bologna era patrocinata dall’Abbate Francesco Pirelli le cui spese amontavano a l. 92: 55, come da sua lista a conto delle quali sono stati pagati l. 20. per il rimanente il Pirelli si offre ad un ribasso.

Tiene pure la Comunità accesa una lite per il Dazio pesce in Bologna, alli atti Tribuni contro li Dazieri. Cominciò questo sotto la legazione Boncompagni, fu nel progresso di essa ordinato che pagasse il dazio per modo di deposito ed il depositario fosse lo stesso gabelliere di Castel S. Pietro. In appresso fu decretato che li danari esatti per il medesimo fossero depositati, come seguì, nel S. Monte di Bologna, nel quale pure furono altresì depositate dal Depositario della Comunità le scritte l. 3: 5 annue, tassa che pagavasi dalla Comunità, onde il preciso del deposito in credito di chi supererà la lite è ignoto.

Tale causa fu patrocinata dall’avv. Magnani e dal dott. Serafino Betti che sono creditori per anco de loro compensi ed atti giudiciali, della quale se ne trattava una transazione.

Resta ancora creditore il dott. Vincenzo Fontana di Bologna per sue funzioni dell’anno presente 

Giuseppe Avvoni curiere pedestre di Castel S. Pietro resta pure esso creditore per questo semestre primo 1797 di sue fatiche per trasporto di Bandi, lettere e dispacci.

Che è quanto.

Ristretto spedito così cantante:

Affari pendenti della Comunità di Castel S. Pietro. Il primo è la lite superata nella prima proposizione contro la Villa di S. Biagio di Poggio in Roma avvanti una congregazione particolare deputata dal Pontefice.

La seconda è l’altra lite pendente in Roma contro li Calegari ed altre arti di Bologna.

 Il terzo è la lite pendente in Bologna per gli altri triboli sopra il Dazio pesce contro la ferma generale passata dei Dazi

Il quarto le funzioni delle quali lire devonsi pagare al dott. Vincenzo Fontana.

Elenco dei nuovi Municipalisti di Castel S. Pietro e sue autorità:

Cittadino Giacomo Lugatti di Castel S. Pietro

Cittadino Domenico Grandi, fattore dei Barnabiti in Castel S. Pietro

Cittadino Domenico Montebugnoli di Liano di Sopra

Cittadino Stefano Grandi, Speziale, di Castel S. Pietro

Cittadino Giuseppe Ballarini, fattore a Poggio della Casa Bianchetti

Cittadino Ercole Bergami di Castel S. Pietro

Cittadino Giovan Battista Bianchi abitante nel Castello di Varignana

Giudice di Pace: Cittadino Giuseppe Antonio Giorgi, notaio, di Castel S. Pietro

Suoi assessori: Cittadino D. Giovanni Ballarini, prete di Poggio, Cittadino Zeffirino Rabbi di Ozzano, fattore di diversi padroni

Ispettore: Cittadino Gio. Francesco Andrini già ten. militare di Castel S. Pietro

Suo sostituto: Cittadino Giuseppe Parazza detto Squizzzino, servitore dell’arciprete

Non ostante tutte queste vicende nessuno dei consiglieri e del vecchio ceto comunitativo si avvilì né perturbò, anzi tutto fu accettato pacificamente. Fu rimesso a posto, alla meglio che si poté, l’archivio della Comunità e si accomodò il resto della residenza per ogni e qualunque evento che si potesse incontrare con chi aveva desiderio del nuovo governo democratico.

La nota degli ultimi e vecchi comunisti è la seguente secondo il grado, dignità e posto:

Paolo fu Giuseppe Farnè, Consolo

Ercole Cavazza, Decano e Notaio

Francesco fu Lorenzo Conti, Notaio

Agostino fu Domenico Ronchi

Capitano Pier Andrea fu Carl’Antonio Giorgi

Francesco fu Pietro Conti

Francesco fu Antonio Gordini

Gio. Battista fu Giovanni Fiegna

Lorenzo fu Barnaba Trocchi

Giuseppe fu Francesco Mondini

Antonio fu Giovanni Bertuzzi

Floriano fu Flaminio Fabbri

di tutti questi furono consoli i seguenti, Agostino Ronchi, Floriano Fabbri, Francesco fu Lorenzo Conti e Paolo Farnè. Gli altri non furono estratti.

I palchi del Teatro, presentemente concesso ai dilettanti del Paese che facevano rappresentazioni, furono rinunciati, sebbene questi fossero stati fatti a spese dei padri di alcuni cioè: Cavazza, Conti fu Lorenzo, Ronchi, Mondini, Bertuzzi e Fabbri. Questi non chiesero alcun compenso alla nuova Municipalità.

Il 31 maggio 1797 fu mediante editto proclamata l’insediamento dei pubblici funzionari sopra elencati e pubblicato l’ordine che in termine di 48 ore fossero insediate le nuove Municipalità. Furono pure pubblicati gli articoli della Costituzione che riguardavano il potere giudiziario.

Giugno – Dicembre 1797

Passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova municipalità. Cerimonia di innalzamento dell’Albero della Libertà. Abolizione di tutti i titoli nobiliari. Organizzazione guardia civica. Accanimento dei patrioti contro i presunti aristocratici. Elezione ufficiali guardia civica. Introduzione casatico su affitti e immobili. Questioni con don Calistri per festa S. Barbara. Due ussari violentano una ragazza.

Il Commissario dott. Vincenzo Brunetti ordinò l’insediamento delle nuove Autorità il giorno di venerdì 2 giugno, la mattina avanti il meridio.

Deputato per Castel S. Pietro alla esecuzione di tutto fu il dott. Francesco Cavazza che munito di credenziali ordinò alla vecchia municipalità di riunirsi nella consueta residenza, consegnare le chiavi, documenti e dare il possesso ai nuovi municipalisti e al Giudice di Pace.

Ciò seguì colla maggior quiete e furono contentissimi i municipalisti vecchi della dimissione della carica, che seguì immediatamente e quindi fece la prima seduta la nuova autorità.

Dopo ciò si pubblico nuovamente il Bando degli stemmi gentilizi e quindi quegli altri che si trovavano nella residenza comunitativa furono levati, fu altresì ordinata la inalberazione dell’albero della libertà. Alcuni lo volevano eretto nella piazza del mercato dei bovini e altri nella piazza interna del Castello. Prevalse il partito di doversi erigere entro il Castello, quantunque fosse creduto poco opportuno per la vicinanza alla Immagine di Maria SS.ma nella colonna in mezzo alla piazza.

Il 7 giugno il dott. Lorenzo Leoni, sostituto del dott. Brunetti si presentò a Castel S. Pietro e visitò la residenza pubblica e i nuovi consiglieri ai quali diede le dovute istruzioni repubblicane. Gli stemmi gentilizi che erano perfino nella chiesa furono tutti levati. Fu pubblicato un nuovo proclama per la guardia civica e la descrizione dei cittadini abilitati cioè avere anni 18 compiuti. A questa guardia furono anche obbligati gli ecclesiastici eccettuati quelli degli istituti elemosinieri.

La mattina che fu licenziato il Consiglio vecchio di questo luogo fu applaudito il nuovo con sparo di mortaretti ed una sinfonia di strumenti e nulla altro. A Bologna invece vi fu una vistosa dimostrazione.

Il Confaloniere Girolamo Legnani la mattina se ne ritornò alla propria abitazione in S. Mamolo accompagnato da fischi.  La sera poi fu inventata dal cittadino Giacomo Greppi e dal cittadino Giovanetti, nipote dell’arcivescovo, una cerimonia funebre.

Fu preparata una figura grande al vero di stucco assomigliante al Confaloniere Legnani, fu posta su un alto tavolaccio coperto a lutto, aveva la figura, il capello con i fiocchi d’oro, la parrucca e il manto da senatore. Fu vestito in una casa vicino al Salario dietro S. Petronio, poi portato sulla scalinata di S. Petronio ove ad un cenno furono accese 4 torce ed ottanta candele tenute in mano dai plebei. Poi, scesero la scala in forma di processione, preceduta, invece che da croce, da una lunga asta con sopra il cappello confalonieresco, dalle 4 torce e da 4 trombettieri con trombe di cartone, che di quando in quando suonavano a turno. Seguiva la fila delle candele a due a due. Si portò il finto cadavere a fare tre giri attorno all’albero della libertà nel mezzo della piazza. Quindi il popolo cominciò a gridare: fuori li lumi, lumi alle finestre democratici, chi non li pone è aristocratico e sarà segnato.

Cosi che in un batter d’occhio restò illuminata tutta la piazza. Da questo esempio furono spediti, per le contrade dove doveva passare la pompa funebre, avvisi a tutte le case e palazzi di dovere illuminare le finestre sotto pena di saccheggio, così che nessuno mancò di farlo e restò la città illuminata.

Partito il cadavere finto da attorno all’albero fu portato alla porta del Palazzo pubblico chiedendo l’ingresso per il solito rito. La Guardia Civica gli chiuse la porta in faccia dicendo che quella non era più residenza senatoria. Così si andò poi per la via di S. Mamolo alla fiancata del palazzo del Legnani ove, fatta breve passata, si alzò un alto grido popolare: Evviva evviva il Legnani quantunquemente. Così beffato gli convenne illuminare per fino le piccole finestre ove non erano, né si potevano mettere le torce.

Si proseguì quindi il viaggio verso la via della Barca di S. Andrea delli Ansaldi, direttamente alla via detta di S. Stefano. Si cantava una filastrocca in tono basso ed era la seguente:

Il confalonier Legnani è morto

chi lo sepellirà ?

La Compagnia de’ Zoppi per carità

Viva la Libertà

E’ da notare che il Legnani aveva una gamba più corta e perciò fu fatto l’accenno alla Compagnia de’ Zoppi. Ciò si cantava da una parte della processione a guisa di un salmo e si replicava dall’altra parte

Il Senato è morto

né più ritornerà

son morti li tiranni

Viva la Libertà

Arrivato che fu il corteo alla via della Fondazza, qui seguì un incontro di molti e chiassosi popolani. Quando si arrivava ai palazzi dei senatori si facevano grandi rumori e bizzarrie davanti ai loro portoni. Segnatamente poi alla porta del senatore Lodovico Soprani ove si fece un eccessivo e brutto strepito perché questo è quel tale senatore che faceva le carte nel Senato col Legnani ed altri suoi compagni. Venendo dunque la processione dalla Fondazza per strada Maggiore direttamente al mercato di mezzo, tutto illuminato, si ritornò alla piazza a girare attorno all’albero.

Qui, finita la funzione, fu chiesto dove si doveva seppellire. Il popolo gridò: al foco, al foco. Fu incendiato il cataletto e la figura confalonieresca. Fu richiesto cosa si doveva fare delle ceneri. Il popolo gridò: al Mal Cantone dove si seppelliscono li giustiziati. Ciò seguì e qui finì il bagordo che aveva fatto ridere la città.  

 Martedì 6 giugno ultima festa delle Pentecoste la notte venendo al mercoledì su le ore 6 italiane e verso le 7 si fece sentire il terremoto ma però senza danno. Nella stessa notte si erano messi assieme sedici bolognesi della Guardia Civica e erano stati a Imola per erigere l’albero della Libertà. Non ci riuscirono perché gli imolesi vollero farlo da soli. Allora si fermarono in questo Castello per fare qui la stessa cosa. Però i soldati di guarnigione, avvisati di ciò, stettero tutta la notte in armi a girare per il Castello e il Borgo in quattro pattuglie. L’albero, ancora incompiuto, fu portato sotto il primo portico del Borgo davanti l’ingresso del Castello.

Questo sgarbo volevano fare i civici bolognesi ai soldati che presidiavano questa piazza, chiamati i Rigadini perché, invece di avere l’uniforme verde e rossa, andavano vestiti di tela rigata all’uso dei villani.  La maggior parte di essi erano dei dintorni e degli orti vicini alla città.

Volevano fare questo “atto di eroismo” e dispetto all’onore di questi militari perché fra una truppa e l’altra erano accaduti spesso scontri. I civici erano in pochi rispetto a quelli che erano a Castello, perciò non rischiarono le loro forze essendo i Rigadini in settanta con armi da fuoco mentre loro non avevano che la sciabola e così non si fece baruffa.

Il 9 giugno la guarnigione che si trovava qui dovette partire per un ordine improvviso ed andò a Imola. Nello stesso giorno si presentò alla nuova Municipalità il dott. Lorenzo Lami, sostituto del commissario Brunetti. Dopo una lunga riunione lasciò ai nuovi municipalisti le istruzioni governative con l’obbligo di tenerle segrete e non eseguirle se non al bisogno. Intervenne anche il Giudice di pace Antonio Giorgi, che si nominò un notaio di sua autorità e fu Antonio Becari con l’assenso dei suoi assessori Don Giovanni Ballarini e Zeffirino Rabbi.

Domenica 10, giorno della SS. Trinità, il Giudice di pace pubblicò una notificazione ai Popoli del Cantone di Castel S. Pietro nella quale espose il giorno che avrebbe tenuto seduta, cioè il lunedì. Per suo tribunale si elesse la sala della residenza comunitativa. Fu in questi giorni levato il supplizio della berlina nella colonna angolare della residenza municipale e vi furono piantati i ferri per la bandiera repubblicana.

In questo giorno fu pubblicato a Bologna l’editto del generale francese Dallamagne che proibiva a chiunque di indossare l’uniforme francese se non era arruolato nella milizia francese. Altrimenti sarebbe stato considerato come spia e arrestato. L’uniforme era di colore blu, cioè turchino carico, con le mostrine e il bavero color scarlatto,

Fu nella stessa giornata pubblicato il Bando sopra le monete dette carlini. Queste nella loro prima emissione valevano 15 soldi che poi furono ridotti a 14 da Papa Benedetto XIV Lambertini, successivamente sotto Papa Ganganelli e Papa Braschi furono ridotti a soldi 13. Nel giorno d’oggi tanto i carlini interi quanto i doppi di 14 e di 13 furono decrementati e ridotti di tre per ciascuno cioè quelli da 13 furono ridotti a soldi 10 e quelli da 14 a 11.

La povertà e il popolo sentirono ciò molto male e gridavano contro il recente governo. Ma che si può fare? È il Castigo di Dio. I ladri vanno in prigione la sera e la mattina sono in libertà. La ciurmaglia vilipende, provoca e attacca le persone probe. Si assolvono quelli con la scusa della burla e si condannano gli altri come individui austeri e nemici della società fraterna. Se due persone pulite si fermano assieme per parlare, sono prese di mira e si marcano come complottisti e settari.

Il vivere oggi giorno nella propria classe è un delitto per chi è male intenzionato e sedotto dallo spirito di malevolenza e di poca cristianità.

La stagione quantunque avanzata è molto fredda, si cammina col tabarro e si tiene acceso il fuoco. La grandine in alcuni luoghi della pianura bolognese e verso la Lombardia ha fatto dei gravi mali. Le piccole piogge giornaliere non lasciano custodire i foraggi, insomma non vi è cosa che non sia danneggiata.

Intanto raro è quel giorno che non passino francesi dalla Romagna a Bologna e milizie cispadane da Bologna nella Romagna, per guarnire quelle città e paesi.

Il giorno 11 giugno 1797 si tenne la prima seduta del Giudice di pace con gli Assessori nella sala comunitativa, furono pubblicate due notificazioni d’ordine della Municipalità. La prima sulla vendita delle fascine, il cui prezzo fu ridotto a 8 quattrini per fascina. La seconda sopra i pollaroli e i loro compratori. Inoltre fu pubblicata una notificazione della Municipalità di Dozza che avvisava il riparto ai possidenti in quel territorio per la contribuzione pagata ai francesi per l’importo di 18 mila scudi

Non ti meravigliare, lettore delle presenti memorie, se da qui in avanti non troverai documenti e notizie particolari della Comunità e molto meno informazioni di Bandi e decreti.  Lo scrittore, con tutti gli altri suoi colleghi, è stato cancellato ed escluso dalla nuova municipalità quindi non può segnalare ciò che, con somma gelosia di governo, si tiene segreto ed occulto a chiunque.

In questo stesso giorno arrivò il comandante Flaviano Fabbri, già nostro municipalista.  La notte seguente, con 300 uomini, andò alla volta di Rimini a prendere quattro bocche da fuoco. Andò poi a Ravenna dove era nata una insurrezione perché quella cittadinanza non voleva sottomettersi a Bologna.

Il 13 la Municipalità di Castel S. Pietro istituì, provvisoriamente fino alla nuova presidenza, la sua Guardia Civica.  Furono eletti gli ufficiali cioè capitano Francesco Conti fu Pietro, tenente Luigi Giorgi fu Francesco e vice tenente Antonio Sarti, locandiere del Portone, osteria di questo Borgo.

Sabato scorso, che fu il 10 giugno, fu pubblicato un rigoroso bando sopra il corso dei carlini e mezzi carlini che si spendevano a soldi 14 quelli di Benedetto XIV ed a soldi 13 quelli successivi.  La popolazione cominciò ad agitarsi perciò fu subito spedita la notizia a Bologna. L’esito è stato di dovere proseguire a spendere per ora secondo il nuovo provvedimento di diminuzione quindi si verificherà l’eventuale danno che ne patisce la povertà che sarà compensata in altro modo.

Il Fabbri essendo passato Comandante in Ancona, vi fu accolto.

Il 13 giugno, giorno di S. Antonio, la sera dopo l’Ave Maria, arrivò un furiere a piedi da Bologna che precedeva 100 polacchi al soldo dei francesi, che andavano nella Romagna. Quindi venne la truppa, gente bella ma stupida, che nel parlare nulla intendevano né in toscano né in latino, né in altro linguaggio e neppure sapeva farsi intendere. Marciò subito verso Imola.

Il 15 giugno, giorno del Corpus Domini, perché tutta la mattina era stata piovosa e non si era potuto fare la consueta processione, la sera su le 13 italiane dopo la benedizione del SS.mo, fu messa in esecuzione la Guardia Civica del Paese. Il quartiere fu stabilito nella stanza in basso presso la torre dell’orologio piccolo in piazza ove prima era la residenza del vice podestà e vi si teneva udienza. Dopo la Avemaria cominciò la pattuglia a camminare per il paese e certi ladretti fuggirono.

Sono molti giorni che piove e il raccolto è fermo. La gente sospira.

Il 14 fu proclamato dal cap. Francesco Conti fu Pietro, comandante provvisorio della Guardia Civica, che chi voleva arruolarsi si dovesse ad esso presentare. Si iscrissero in 70.

Con l’insediamento delle nuove autorità erano cessate tutte autorità passate e per conseguenza anche il magistrato dei Tribuni della Plebe di Bologna le cui incombenze restarono addossate, a norma della Costituzione alla Municipalità.  Questa il 16 giugno pubblicò un proclama col quale fu reso noto a chiunque bottegaio, lardarolo e macellaio del Cantone di Castel S. Pietro di dovere mettere in vendita le vettovaglie con correttezza tanto per la salubrità e la buona qualità, quanto per l’osservanza delle tariffe. Fu altresì ordinato che tutte le bestie minute dovessero essere marcate col bollo rosso e i castrati e i bovini con bollo nero.

Domenica 18, mediante proclama della Comunità, fu invitato il popolo per il giorno successivo, lunedì 19, ad intervenire all’innalzamento dell’Albero della Libertà. Nel proclama fu anche notificato che si sarebbe fatta la estrazione di 4 citelle povere del paese, maggiori di anni 12 e minori di anni 22, alle quali la Comunità assegnava 10 scudi per ciascuna per il loro maritaggio. La cifra sarebbe stata collocata nel Monte Matrimoniale di Bologna.

Tutto ciò in memoria della ricorrenza del 18 giugno dell’anno scorso in cui fu data ai francesi la conquista della città di Bologna dal senatore Carlo Caprara, che li lasciò entrare pacificamente col pretesto del solo transito per Livorno.

L’albero però fu innalzato la notte precedente per evitare di ricevere la Guardia Civica di Bologna che voleva fare essa questa funzione. Era un bellissimo palo di cipresso alto 54 piedi, verniciato a fascia attorno con tre colori cioè rosso, verde e bianco. Fu fatto su disegno del dott. Don Pietro Castellari bolognese, che qui soggiornava in casa del notaio Giacomo Lugatti, primo presidente della Comunità.

Il lunedì poi che seguì, e fu il 19 giugno, il dopo pranzo la Guardia Civica del paese uscì dal palazzo Locatelli e si radunò per la parata militare in 70 con fucili e baionette in canna. Fu preceduta da due corni da caccia e tamburi. Quando suonavano i corni vi era l’accompagnamento di 4 violini, violoncello e di una tuba detta volgarmente timballo. Suonavano assieme al tamburo la marcia degli inglesi che avevano lasciata scritta in musica quando di qui passarono. Giunta alla piazza girò intorno all’Albero, poi si schierò e presentò le armi.  Quindi si staccò un picchetto con ufficiali e andarono alla Residenza della Municipalità ove uscì il Corpo di questa, che andò ai piedi dell’albero ove era un gran palco con sedie, tavola e calamaio, carta e campanello. Il Palco guardava l’Albero e la strada che passa davanti la piazza.

Il Corpo salì sul palco e il picchetto si pose di lato.  Giunse poi un altro picchetto di soldati col Giudice di Pace, assessori, ispettori ed altri che pure si assisero sul palco. Dalla parte sinistra della piazza, poco distante dall’albero, presso la casa del chirurgo Giordani sotto il suo terrazzo, vi era un altro palco per strumenti musicali. Qui si incominciò una lietissima sinfonia, terminata la quale si procedette alla estrazione delle 4 citelle per le doti. Mano a mano che erano estratte le si fece una nuova festa con sinfonia fino all’ultima. Terminata la funzione partì il Corpo della Municipalità e i ministri suddetti e fu accompagnato alla sua residenza dalla truppa che assistette sempre alla funzione.

Le citelle estratte furono: Ghetti Maria Vittoria fu Giovanni. Santi Domenica fu Antonio. Masi Maddalena fu Carlo. Mazzini Giacoma fu Giuseppe detto Muschino.

Contemporaneamente passò da qui il generale francese Suchet, proveniente da Ravenna, terrorista che fece fucilare in Ravenna molte persone importanti e segnatamente il dott. Domenico Guarini in meno di 21 minuti nella pubblica piazza. Spedì molti altri nobili a Forlì, centro della provincia repubblicana di Ravenna, ove avrebbero atteso il loro destino. Questo generale voleva bruciare i sobborghi della città perché si erano ribellati alla milizia cispadana che aveva derubato e seguitava a rubare quegli intorni.  Si interpose la nuova Municipalità e tutto fu sospeso facendo riflettere che non tutti erano complici della rivoluzione.

La stessa giornata, a Castel S. Pietro, essendo giorno di mercato, furono arrestate alquante persone perché avevano parlato male dell’Albero e ancor più lo biasimavano per averlo messo poco distante dalla colonna con la Immagine di Maria SS.ma del Rosario.

A un terzo dell’Albero vi era un triangolo con tre cartelli sui quali nella facciata davanti c’era questo motto a lettere maiuscole: Solo il Popolo è Sovrano.  Nell’altro fianco: Morte ai Tiranni, e finalmente nel terzo fianco Libertà, Eguaglianza. Difatti non si distingue più grado nei titoli. Invece di dire Signor Fantaguzzi si dice Cittadino Fantaguzzi e così si nominano anche i birichini col titolo di Cittadini.

Si distinguono solamente le professioni. Quindi si dà prima il titolo di cittadino poi si aggiunge, se è dottore, il suo titolo e così quello dei preti e sacerdoti di alto rango e regolari.

Si miete il frumento e si sente freddo. Il vento strepita fortemente e voglia Dio che non si abbiano a sentire e soffrire malori di febbri acute e pleuriti.

Passano continuamente corpi di polacchi e portano nelle loro armi le insegne e gli stemmi dell’Impero. Finora non si comprende questo mistero.

Il Direttorio di Parigi non aveva voluto accettare le proposizioni preliminari di pace con l’Imperatore e quindi fu rotto l’armistizio. Tra le proposizioni preliminari vi era che la Francia rifondesse 20 milioni di scudi all’Imperatore, che gli stati dell’Imperatore e l’Italia, fossero ripristinati come prima e con essi le tre legazioni di Bologna, Ferrara e di Romagna.

Il 20 giugno, stante l’esaurimento delle Casse nazionali, il Comitato Centrale della Repubblica Cispadana ordinò una contribuzione del due per cento delle entrate di ognuno sotto il titolo di prestito forzoso.  Di questo fatto si risentirono tutti i possidenti come pure ogni negoziante.

Fu tollerato che anche per quest’anno la Fiera del Pavaglione mantenesse la privativa a Bologna sui bachi da seta.

Il 22 giugno per la prima volta il Giudice di Pace, si portò con la municipalità e con la Guardia Civica alla visita delle botteghe in Borgo ed in Castello. Si fecero pochi fermi e si sentirono nuove proteste dei montanari e dei paesani sopra il calo del valore dei carlini. Questi erano stati coniati per il valore di 15 soldi l’uno e ora si vogliono diminuire, quando lo stesso governo li dichiarò pochi anni fa del valore impresso nella stessa moneta.

Fu pubblicata il regolamento dell’organizzazione della Milizia civica con le sue leggi, che non riportiamo poiché formerebbe qui un grosso volume. In seguito di ciò Francesco Conti di Pietro, eletto per capitano di questo luogo, cominciò ad emettere ordini scritti diretti ora ad uno ora ad un altro per far la sentinella e girare in pattuglia la notte e il giorno al bisogno.

Si sentono notizie a Bologna di arrivo di Polacchi.

A Bologna era stata scoperta una congiura contro il già confaloniere Legnani e nostri ex nobili fra quali Segni, Caprara, Ercolani, l’avvocato Magnani, Pietro Berti e diversi banchieri per trucidarli.  La notte del lunedì verso martedì 27 furono catturati i capi e spediti a Ferrara. Furono i due fratelli Giovanetti fra quali il canonico nipote dell’arcivescovo.

Per riconoscersi tra loro questi congiurati si erano mozzati i capelli. Sarebbero stati notati in più di 5.000.  Ma poiché non sono interessato a questo fatto lo lascio annotare a chi scrive le storie di Bologna nelle quali noterà moltissimo di storie e di stratagemmi.

Perché poi nella città e contado i libertini cantavano l’inno patriottico francese e si temeva che fosse questo un segnale di unione per l’esecuzione della congiura fu subito sospeso il canto dell’inno per questo dubbio. Anche perché la notte non si poteva avere un’ora di quiete. La congiura era stata denunciata, previa la impunità, da Giacomo Greppi quantunque fosse amicissimo dei Giovanetti che, si asserì, avessero l’animo di farsi signori di Bologna.

Spiacque moltissimo questa proibizione che, per avvalorarla, fu corredata della pena della vita agli scapestrati e malviventi che la cantavano non per semplice piacere ma per provocare i buoni cittadini.

Nel nostro Castello e Borgo ogni sorta di gente si metteva assieme ogni sera e nelle ore notturne, sul più bello per dormire, andava sotto le finestre dei vecchi consiglieri a schiamazzare in modo tale non si poteva più stare quieti. Grazie al Signore non è accaduto nessun scompiglio, perché tutti gli individui della Municipalità passata la presero con indifferenza per non mettere a rischio le proprie famiglie. Così i disturbatori si stancarono e poi, stante il suddetto provvedimento, si gode ora almeno la quiete notturna. Prima il paese veniva disturbato per tutta quanta era lunga la notte.

Domenica 2 luglio allo scopo di cominciare ad organizzare la Guardia Civica a Castel S. Pietro, furono chiamati tutti gli individui delle Comunità assegnate a questo Cantone. Poiché non era possibile riunire tanta gente in uno stesso locale, furono perciò destinate le seguenti chiese: Oratorio della S. Annunziata del Borgo per il comune di Castel de’ Britti. Oratorio di S. Pietro per il Comune di Ozzano e Casola Canina. Oratorio della Compagnia del SS.mo per il Comune di Liano di Sopra, in S. Bartolomeo vi andò il Comune di Ciagnano, nel palazzo Locatelli il Comune di S. Giorgio di Varignana.  Furono eletti i rispettivi capitani, tenenti e sergenti. Il comizio del Comune di Castel S. Pietro, Borgo e Villa di Poggio fu differito fino al giorno 9 luglio.

Era stato pubblicato un proclama sopra il prestito forzoso che prevedeva doversi dare la nota dello stato attivo e passivo di ciascuno per poi contribuire con tassa percentuale. Ma nessuno si volle presentare.  Un nuovo proclama invitava a versare la quarta parte di quanto prescritto nel primo proclama. Vi fu chi si prestò dando il proprio stato alla discrezione di chi pretendeva il pagamento. Nel territorio per altro finora nessuno si è prestato.

 Sono talmente accaniti i nostri patrioti di Castel S. Pietro contro chi è stato propenso al governo ecclesiastico ed aristocratico che non c’è giorno che non si sentano arresti per vendetta, anche per le cose più futili.  Condotte poi alla città le persone arrestate, queste sono subito scarcerate e ripresi chi li ha arrestati. Questi quindi, con loro vergogna, vedono rimpatriare le loro odiate vittime, che si vorrebbero distruggere.

Voglia il cielo che tra poco non abbiano ad accadere divisioni e uccisioni, come purtroppo si pronostica a motivo di questo odio che nasce per cause di lievissimi motivi. E non accada ciò che pochi giorni fa è accaduto a Reggio fra i civici e i villani per cui, a causa della coccarda, si sono battuti e si è dovuto fare intervenire la truppa polacca e francese per mettervi riparo.

Essendo venuto a notizia della nostra Guardia Civica di Castel S. Pietro che nel vicino Castello di Varignana si trovavano stemmi incisi di particolari famiglie, si portò colà uno distaccamento di 10 militari. Furono abbattute le armi e gli stemmi che erano stati denunziati che erano di Agostino Stanzani nell’oratorio in mezzo la via di Varignana.

Sopra questa porta maggiore di Castel S. Pietro, incastrata nella torre, c’era l’arma della casa Malvasia ma coperta fin dal principio di giugno.  L’attuale Municipalità disconosceva ogni cosa fatta dalla Municipalità precedente. Essendo ora da pochi giorni suo presidente Domenico Grandi, agente dei frati barnabiti, il 7 luglio la fece smurare, rompere e ridurre in minutissimi pezzi. Nello stesso modo fece di tutti gli altri stemmi dei podestà esistenti e fissati nella residenza comunitativa, levandovi anche le relative iscrizioni sotto. Barbarie invero che si estende perfino contro gli stessi monumenti di chiare persone e famiglie, per cui si può francamente dire col poeta che si spezzano per fino i monumenti più belli dedicati ai fatti e alle famiglie: Monumenta fatiscunt / mors etiam saxis nominibusque venit.[11]

Neppure nella Francia si è certamente agito così, segno che i francesi stessi considerano più cattivi gli italiani nell’operare di quello che è stato nella Francia stessa. Non hanno neppure lasciata la iscrizione della gloriosa vittoria riportata dalla Comunità di Castel S. Pietro contro la villa di Poggio il 6 agosto 1792 in una particolare Congregazione deputata dal Papa, quantunque tale memoria fosse dipinta in legno nella sala comunitativa, né vi fosse alcun stemma, ma soltanto perché in quella venivano lodato il Papa Pio VI e i prelati che decisero. Tale memoria doveva poi essere incisa su pietra e collocata poi nella facciata della torre piccola dell’orologio nella piazza. Quella iscrizione, che serviva anche di ornato nella sala della pubblica residenza, fu fatta in pezzi e poi bruciata la notte che si inalberò l’Albero della Libertà nei fuochi che illuminarono la piazza.

Domenica 9 luglio, nella chiesa si fece il comizio delle sette compagnie e nel palazzo Locatelli quello per tutti i civici urbani di Castel S. Pietro abili alla milizia, maggiori di anni 18 e minori di 50. Nei comizi furono eletti i rispettivi capitani, tenenti, sottotenenti e sergenti delle compagnie. Questi poi nel giorno seguente di lunedì si radunarono, per ordine della Municipalità, nella sala della residenza pubblica per eleggere il loro capo battaglione per la truppa del paese. Fu eletto Francesco Conti fu Pietro che era già comandante provvisorio.

Il dott. Pietro Castellari, sacerdote bolognese, domiciliato a Castel S. Pietro, uomo di qualche abilità in ogni genere di belle arti, ma però democratico segnalatissimo, compose l’unito l’inno patriottico e lo fece poi stampare a Imola. Inoltre, come dilettante di musica, lo pose in nota figurata per farlo cantare alla gente.

La poesia è del dott. Giuseppe Muratori, medico condotto di Castel S. Pietro. È da notare che il dottore Castellari nel frontespizio dell’inno ha omesso il suo titolo presbiterale. Scrive di essere di Castel S. Pietro quando che è di famiglia civile di Bologna disconoscendo in questo modo il proprio carattere e la patria. Da ciò congetturi il lettore di queste mie memorie quel che più le pare e piace, ma tenga anche conto delle circostanze di questi tempi nelle quali è guasto tutto il mondo nelle idee e nella religione.

INNO PATRIOTICO DI CASTEL S. PIETRO

DA CANTARSI INTORNO AL BELL’ALBERO DI LIBERTÀ

POSTO IN MUSICA

DAL CITTADINO DOTT. CASTELLARI FORESTI

DI CASTEL S. PIETRO

Viva il Segnal benefico

Della propizia Astrea;

La giusta amabil Dea

In dono a noi lo dà.

Or su, qui si difenda,

S’onori, e a Lei si renda

Degno tributo e stabile

Di Nostra Libertà.

Da noi sbanditi vengono

Al ben oprar nemici

I bassi, ed infelici

Pensieri di viltà.

Ma sol regni la face

D’una concorde Pace

E voci all’Etra s’alzino

In lode a Libertà.

Regni fra il lieto giubilo

Amor ed Eguaglianza,

Salute e Fratellanza;

E fede, ed Amistà.

INSIGNE BONAPARTE,

Che con valore ed arte

A noi donasti provido

Si dolce Libertà.

Deh brilli in riva al Silaro

Cura dell’arti industri;

Dei dotti studj illustri

Onor di questa età.

E l’ecco s’oda intorno

In così fausto giorno

Con plauso ognor ripetere

E viva Libertà!

Il 26 luglio la mattina avanti pranzo giunse da Bologna un distaccamento di 46 uomini condotti dal cap. Vincenzo Zucchi modenese, si fermarono nel Borgo e, dopo avere mangiato all’osteria del Portone, non vollero pagare l’oste Bartolomeo Santi e nacque tanto rumore al segno di mettere le mani all’armi.

L’oste si mise a gridare e chiamò aiuto, corse la Guardia Civica del Castello.  Da una parte gridarono alt! alt! dall’altra gridarono abbasso l’armi. I civici presero le bocche delle strade che portano alla Romagna.  In questo modo furono circondati i nemici che furono costretti ad abbassare le armi e lasciarsi arrestare in 23 compreso il capitano. Gli altri fuggirono. Il conflitto durò mezz’ora. Stettero in arresto al quartiere civico per due ore e accettarono di pagare tutto. Quindi furono accompagnati, senza avere le armi, fino al ponte del Sillaro ove gli furono restituite. Restò in sospeso il punto di quelli che erano fuggiti durante lo scompiglio. Il capitano stesso si assunse l’incarico della denuncia se non si fossero ritrovati.  Giunti al ponte si congedarono e si incamminarono per Ancona e così, senza spargimento di sangue, terminò tutto il tumulto.

Il sabato seguente, 29 luglio, tutti gli ufficiali della Civica e i soldati vennero a Castel S. Pietro alle ore 11 italiane per stabilire la guardia. Per questo venne da Bologna il generale Tatini con il commissario Brunetti ed un segretario che furono ricevuti alla posta di S. Nicolò da tutta questa ufficialità. L’incontro avvenne con 16 cavalieri, tutta bella gioventù, che lo scortarono con le sciabole sguainate fino al palazzo Malvasia, dove alloggiò. Qui, chiamata ogni compagnia del Cantone di Castel S. Pietro, furono confermati tutti i capitani e gli ufficiali subalterni. In fine furono eletti due capi battaglione, uno per l’abitato di Castello e Borgo e l’altro per la campagna. La elezione fu fatta dalla ufficialità maggiore tutta adunata davanti al generale e al commissario.

Per l’abitato fu il dott. Francesco Cavazza, mio figlio, per acclamazione non solo di tutta la ufficialità presente ma anche di tutta la milizia esterna al palazzo nella vicina piazza Malvasia e Locatelli.

Per la campagna, secondo capo battaglione, fu eletto Zeffirino Rabbi abitante nel comune di Ozzano e questo fu votato con scheda. Ciò terminato la Municipalità diede un pranzo da pesce al generale e al suo personale su le ore 18 italiane. Il dopo pranzo si fece una visita ai quartieri militari e dopo il generale e il commissario partirono per Medicina accompagnati dalla ufficialità tutta a cavallo con sciabola e bandiera montata, che fu cosa bella da vedere. Andarono fino al confine del nostro comune tenendo la via romana fino al rio detto della Masone ove fu congedata.  Nel ritorno a casa presero in mezzo il capo battaglione e lo condussero fino al quartiere generale nel palazzo Locatelli.

 Il Commissario Brunetti rese noto alla milizia che Milano era stata dichiarata dal generale Bonaparte capitale di tutta la Repubblica transalpina[12], alla quale rimanevano soggette Bologna, Romagna e Ferrara. Questa cosa spiacque ai bolognesi per le enormi spese fatte in fabbricati ammontanti a più di 400 mila scudi, oltre gli altri debiti fatti. Il Brunetti aggiunse che si sarebbero fatti nuovi comizi.

Vero si è che le cose vanno di male in peggio.

Il 14 agosto fu spedita a tutti i notai una nuova notificazione. Il 15 fu soppresso a Bologna il tribunale del vescovato. Furono pubblicati diversi Bandi dal nuovo governo repubblicano e segnatamente sopra i bovini infetti dall’epidemia.

La chiusa sul Sillaro per il mulino di Castel S. Pietro, trasferita sulla sponda di Croce Coccona, come si scrisse, si cominciò a farla di pietra.

Il giorno 23 si sentì il terremoto. Passarono pure truppe che andavano nella Romagna, erano tutti polacchi vestiti di color blu, con abito corto e capello quadrato all’uso della beretta nera dei poeti ma con fiocchi bianchi.

 Si vedeva in questo tempo chiusa e profanata la chiesa di S. Bartolomeo ove c’è la chiesa del Suffragio, ma poi, per le suppliche fatte dai confratelli al governo, fu lasciata intatta. Però in settembre le robe dei frati di quel convento furono tutte vendute.

 Il 16 settembre fu pubblicato un bando sopra la disponibilità dei Benefici ecclesiastici col quale veniva tolta di mano alla Mensa vescovile. Il 21 si pubblicò pure un bando sulla soppressione delle commende.

Tutti i preti francesi emigrati che domiciliavano a Castel S. Pietro nei tre conventi di S. Bartolomeo, S. Francesco e Cappuccini partirono per ordine del governo. Vi furono proteste nel popolo per la mancanza di ministri di culto.

Il 20 fu proclamata la legge di dover tenere chiuse tutte le bettole e osterie alle ore due di notte[13] al segnale della campana pubblica.  Si cominciò la sera della festa di S. Mattia apostolo.

Domenica 2 ottobre, festa del Rosario, si celebrò a Castel S. Pietro la gloria di Maria SS. del Rosario, vi intervenne la milizia del distretto con 36 ufficiali tutti con la nuova divisa verde col bavero scarlatto, bottoniere dorate e pennacchio tricolore nel cappello. Vi fu la messa solenne in parrocchia assistita dalle autorità locali. Alla elevazione del SS.mo ed alla benedizione, dopo la consueta processione per la piazza, vi fu il doppio sparo della fucileria della guardia paesana con 60 fucilieri. La sera ci furono fuochi artificiali preceduti da una sparata di 500 mortaretti.

In mezzo a questa letizia vi intervenne anche la tristezza per il prestito forzoso, al 6%, ordinato da Bonaparte per tutto lo stato bolognese.

La famosa torre dei Moscatelli in confine di questo nostro comune, detta anticamente la torre di Facciolo Cattani, in rovina nell’angolo orientale, fu abbassata al piano dell’abitazione vicina.

L’ 8 settembre fu pubblicato un proclama di doversi pagare dieci paoli per ogni capo di bovini. Il 9 furono messi all’incanto nel pubblico mercato i bovini della soppressa Commenda di Malta di Castel S. Pietro.

La Municipalità di Castel S. Pietro, essendo bisognosa di danaro, proclamò con suo ordine che ogni possidente pagasse 10 soldi per ogni bovino.

Il Lettore Padre Antonio Ravaglia, originario di Sassoleone ma chiamato di Castel S. Pietro, fu arrestato per il carteggio che aveva con l’Arciduca Carlo d’Austria, sebbene si dicesse che era stata fatta la pace.

Il generale Bonaparte con suo proclama chiese a Bologna un corpo di 60 giovani, con propri cavalli bardati, di età maggiore di anni 17 ma non maggiore di 25. L’11 agosto era stato pubblicato anche un altro editto del Correttore dei Notai bolognesi sul dovere cambiare il loro sigillo se portava stemmi gentilizi.

La notte del 18 ottobre, festa di S. Luca, si vide in cielo un fenomeno splendente che illuminava la terra e durò fino all’alba, facendo spavento per avere dalla parte di ponente i raggi color del sangue.

Il 20 ottobre vennero a Castel S. Pietro sei deputati del Governo di Bologna, della Giunta su gli Ecclesiastici, a fare l’inventario di tutti i capitali dei frati Cappuccini e Minori Osservanti e perfino le panche della chiesa.

 Fu contemporaneamente pubblicato un editto del governo per fissare un tributo sopra tutte le pigioni e redditi delle case che sarà chiamato il Casatico, mentre quanto alla tariffa del Terratico si sarebbe stati alla stima fatta sotto il governo del cardinale Boncompagni.

 La esecuzione di questo Casatico avrebbe avuto il suo effetto dopo la descrizione fattasi in un campione dal segretario delle rispettive Municipalità. Il 30 si cominciò tale descrizione e fu fatta dal segretario municipale Stefano Grandi. Il primo novembre la Municipalità avvisò le corporazioni del Castello di rendere conto delle rispettive aziende.

In seguito, con piacere di tutti, fu notificato al pubblico nella gazzetta la pace seguita fra la Francia e l’Austria[14].

Fu pure pubblicato per le stampe il discorso per consegna dei 60 giovani richiesti da Bonaparte e a lui spediti.

Domenica 5 novembre vennero da Bologna 350 francesi e partirono subito per Imola. La mattina di lunedì 6 ne vennero altri 600 tutti fanti e stettero fermi nel Borgo sotto i portici per ben due ore a causa della pioggia poi si incamminarono verso la Romagna per andare ad Ancona, che era tenuta dai papalini.

Il dott. Giuseppe Muratori, licenziato dalla Municipalità dalla condotta di medico, fece ricorso alla centrale di Bologna per avere una adeguata buona uscita e vi furono molti contrasti.

La pace fra la Francia e l’Imperatore riconosceva la nuova Repubblica Cisalpina composta dal milanese, mantovano, modenese, ferrarese, bolognese e dalla Romagna fino a Cattolica. Si fecero festeggiamenti dai patrioti con sparo di fucileria e messa solenne nella chiesa ed oratorio del SS.mo SS.to.

Si doveva ora formare una nuova legge repubblicana e il 15 novembre fu pubblicato il proclama dei prescelti che dovevano andare a formarla a Milano.

Il consiglio fu diviso in due classi una detta dei Seniori nella quale si comprendevano gli ammogliati e un’altra detta degli Juniori che comprendeva quelli che non avevano moglie.

 Fra questi nel Dipartimento del Reno ci fu il dott. Gaetano Conti di Francesco di Castel S. Pietro, medico. Furono tutti nominati dal generale Bonaparte. Fu decretato si dovessero ritrovare a Milano il giorno primo Frimale, vale a dire il 21 novembre.

Furono scelti dalle liste dei comitati riuniti e, per questa sola volta, furono fatte le nomine dal generale. Loro impegno era, giunti a Milano, dovevano prestare giuramento con la seguente formula.

Io giuro inviolabile osservanza alla Costituzione, Odio eterno al governo dei Re, delli aristocratici ed oligarchi e prometto di non soffrire giammai alcun giogo straniero, di cominare ancor con tutte le mie forze al sostegno della libertà, della eguaglianza ed alla conservazione e prosperità della Repubblica.

Martedì 14 novembre erano stati chiamati a Bologna tutti i municipalisti a contestare la ragioni prodotte dal dott. Muratori che si difendeva dalla esclusione della condotta come improvvisa ed ingiusta.  Però non partirono che il giorno di sabato 18.

Il 17 novembre passarono tre battaglioni di polacchi provenienti da Bologna che andavano nella Romagna per incamminarsi ad Ancona.  Fu creduta che tale spedizione avesse lo scopo, come di fatti accadde, di avvicinarsi a Roma. Intanto un corriere francese stava andando, a tappe forzate, dal Papa con dispacci riservati. Gli accennati battaglioni erano composti di 600 uomini di fanteria.

Fu pubblicato contemporaneamente un proclama col quale si abolivano le scuole e le cattedre di jus canonico e teologia inoltrando gradatamente una pestifera persecuzione della chiesa. Non si vogliono i maestri e le buone discipline per potere spingere la gioventù dalla libertà al libertinaggio. E per questo le famiglie piangono amaramente.

Il 28 passarono da Castel S. Pietro per la Romagna altri 800 polacchi per avanzare verso Roma.

 Fu intimato al papa con i dispacci accennati di dichiarare entro otto giorni se voleva riconoscere o no la Repubblica Cisalpina. Ecco un nuovo motivo per attaccare lite e muovere guerra e forse anche per cacciarlo da Roma, giacché così si sussurra tra i patrioti.

Sui primi di dicembre fu pubblicata una legge in cui si dichiaravano estinte ed abolite le municipalità papaline e in ogni dove saranno occupate le castella e le città della Cisalpina.

Lunedì 4 dicembre a Castel S. Pietro fu celebrata dalla Guardia nazionale del paese la festa di S. Barbara, nella chiesa ed oratorio del SS.mo in questa pubblica piazza con messa solenne in musica e fucileria degli ufficiali e dei militari del Castello, comune e distretto. Mattina e sera vi furono evoluzioni militari con spari a tamburo battente. Fu regolato tutto dall’aiutante Angelo Genovesi, bolognese, qui stanziato per ammaestrare i civici.

Cominciò la festa sul far del giorno con diversi spari di fucile. Intanto un corpo di polacchi composto di 50 uomini, avanguardia di un battaglione proveniente da Bologna si stava avvicinando al nostro Castello. Sentì il la fucileria dal Castello e temette una insurrezione. Quando giunse al luogo detto la Crocetta, distante dal Borgo due tiri di moschetto, non arrischiò ad inoltrarsi e tornò indietro fino all’osteria del Gallo.

Venuto ciò a notizia del Capo Legione del nostro Castello, mandò immediatamente il Genovesi con altri due ufficiali al Gallo ad assicurarli che non c’era nulla contro di loro offrendosi essi per ostaggi. Arrivato tutto il corpo a Castel S. Pietro fu accolto con allegrezza e dimostrazioni di fratellanza non solo dai nostri civici, accompagnati dagli ufficiali, ma pure dei paesani

La festa di S. Barbara si compì lietamente, solo nell’addobbo della chiesa vi fu una mancanza perché l’arciprete Calistri negò il prestito di pochi damaschi onde ci fu mormorio nel paese.  I civici per rifarsi fecero porre nel foglio che giornalmente si stampa a Bologna, titolato Il Democratico Imparziale, la relazione di tutto.

 In questo giorno di S. Barbara su le ore 20 italiane passò la cavalleria polacca che seguiva il detto battaglione con il generale Leghi. Aveva con sé 17 cannoni ed un cannone grande detto volgarmente obice.

Mercoledì 6 dicembre venne a Castel S. Pietro il dott. Luigi Piani col segretario Zechini delle Contrade di Bologna a visitare la Comunità e ad informarsi della condotta dei municipalisti, stanti i ricorsi avuti e per il dott. Muratori e per altri affari di governo. Contemporaneamente vennero da Bologna 160 ussari della Cisalpina che partirono subito per Rimini.

Si seppe poi che quei polacchi avevano voluto dare l’assalto al fortilizio di S. Leo.  Quei 50 bravi papalini in si difesero bravamente e perirono più di 1500 cisalpini senza aver potuto conquistare quel forte.

Il 10 dicembre 100 ussari diretti in Romagna si fermarono nel Borgo per alcune ore. Accadde che due di quella truppa, forse ubriachi, vollero soddisfarsi con una fanciulla di nome Antonia Paderna, giovane di buon aspetto ed ottima figura. Andarono alla sua casa situata dietro le mura del Castello a ponente e tentarono di violentarla. Si difese bravamente con la madre ma, poiché contro forza invan ragion contrasta, furono entrambe forzate e maltrattate. Sopraggiunse gridando il fratello della ragazza, giovinastro fiero e robusto e con sassi cominciò a colpire i malfattori, mentre volevano uscire dalla casa. Si radunò gente con i civici del paese e furono quelli e questo arrestati.

Gli ussari furono per ciò puniti davanti alla loro truppa ed il giovine Paderna fu tenuto chiuso nel corpo di guardia civico fino giorno seguente per sua sicurezza.

Contemporaneamente si proclamò una legge sopra i modi di eleggere nuovamente i parroci, allorché le chiese fossero vacanti e fu derogato lo Jus del vescovato e trasferito ai parrocchiani come nei primi tempi della chiesa. Questo provvedimento piacque a tutto il dipartimento

L’arciprete Calistri soffrendo di malavoglia la rappresentazione fattagli nel Democratico Imparziale, fece produrre per le stampe dello stesso Democratico una risposta insultante, che lacerava la probità di alcuni cittadini senza indicarli e si fece ridere dietro piuttosto che applaudire.

Il 20 dicembre passarono 400 polacchi da Bologna ad Imola.

Gran Dio! Per incutere spavento alle nazioni prima di venire alla battaglia, si vanta un numero di armati doppio di quello sono che a contare gli individui non giungono mai ad un terzo del numero decantato. Così si getta polvere negli occhi alle popolazioni. Nelle città poi ove si fermano a pernottare usano questo inganno teatrale. Escono da una porta per poi rientrare nuovamente dalla sua porta maestra.

Prima di terminare l’anno si pubblicò per i ministri del culto e per le genti un nuovo calendario nel quale erano tolte diciotto feste di precetto, cioè quelle degli Apostoli escluso S. Pietro loro principe. Anche sopra il titolo di principe i fanatici irreligiosi intervennero volendo che si dicesse S. Pietro I e non Principe tanto è l’odio che si porta al principato. Furono abolite le ultime delle tre feste pasquali di Resurrezione, di Pentecoste e di Natale che furono ridotte a solo 2.

 Per tale innovazione a Castel S. Pietro si pospose anche la benedizione del SS.mo che si doveva fare i giorni festivi di precetto fra settimana, funzione instituita, come scrissi, dal mio avo Pier Antonio Cavazza nell’anno 1714 nella chiesa di questi Padri Cappuccini. Non si ottenne altro che di sostituirla la sera nelle prime domeniche di ogni mese.

Gennaio – Giugno 1798

Contrasto pubblico tra don Calindri e Sebastiano Lugatti. Passaggio truppe repubblicane dirette a Roma.  Tumulazione solenne resti Zamboni e De Rolandis. Scontro armato tra la civica e saccheggiatori francesi. Problemi per rendiconto Arciprete. Parroco Varignana, Pietro Zanarini, arrestato per atterramento albero della libertà. Proibizione processioni fuori dalle chiese. Rendita annuale Don Bartolomeo Calistri, sua contestazione.

La mattina di martedì 2 gennaio arrivarono dalla Romagna cinquecento cispadani che venivano dalla presa della fortezza di S. Leo, di Urbino e di Pesaro. Si intese anche che a Roma era nata una rivolta dei partitanti francesi contro i papalini, dove rimase superiore il partito dei papalini.

Contemporaneamente fu di nuovo pubblicato il proclama di dovere fare il giuramento di odiare il governo monarchico, perciò il giorno 8, lunedì, tutte indistintamente le autorità del paese giurarono davanti a questa Municipalità.

Solo si opposero e non giurarono Don Giovanni Ballarini, prete e beneficiario di S. Maria di Poggio e uno degli assessori del Giudice locale del paese. Questi si offerse di pronunciarlo a condizione non fosse contro la religione onde, non potendosi accettare, abbandonò il comizio e fu escluso dall’assessorato in cui fu sostituito da Filippo Tomba sarto e fanatico patriota.

L’arciprete Calistri aveva intenzionato di fare esporre al pubblico una risposta insolente all’articolo del Lugatti nel Democratico sull’affare dei damaschi negati per la festa di S. Barbara. Se ne risentì la Guardia nazionale e fu aggiunta una degna risposta da un civico di Castel S. Pietro sotto il nome di Tamburo civico di Castel S. Pietro, in cui fu pettinato egregiamente l’arciprete.

Ne venne in seguito che fu fatta una mozione e petizione alla municipalità contro il Calistri perché dovesse rendere conto della amministrazione dei beni della soppressa Compagnia di S. Caterina destinati all’Ospitale degli Infermi di Castel S. Pietro. Il complesso municipale che era nella maggior parte favorevole all’arciprete si scansò con dire che non ne aveva l’autorità ma però scrisse alla Centrale di Bologna. A questa si presentò il cittadino Sebastiano Lugatti che aveva fatta la mozione e promossa la petizione. La centrale prescrisse alla Municipalità dieci giorni per ottenere la risposta dall’arciprete, tempo che spirava il 2 febbraio.

Intanto esso marciò a Bologna per spiegare che non si era occupato di amministrare roba pur essendo capo della stessa amministrazione. Fu promosso anche sulla amministrazione dell’Opera del Ritiro per le Oneste Citelle del paese, ma senza essere neppure ascoltato.

Si scoperse in questa circostanza che Gio. Battista Castellari detto il Pritino aveva fatto il suo testamento l’anno 1783 e lo aveva consegnato in forma segreta al fratello dell’arciprete notaio Modesto Calistri.  Copia di questo testamento è nell’archivio dei Cappuccini del paese, anch’essi beneficati in questo testamento.

Il 4 febbraio ripassò verso la Romagna una cavalleria di 2 mila combattenti condotta dal Capo Brigata Monsù Buslar francese. Dopo aver preso un beveraggio nel Borgo ove stette ferma per due ore, passò ad Imola. I giorni seguenti, uno sì e altro no, per una settimana intera arrivarono truppe a piedi dirette ad Ancona. Là formarono una forza di 30 mila combattenti per passare poi a Roma a vendicare l’assassinio del console Baseville e sottoporre quella metropoli al libertinaggio francese.

In questo tempo a Bologna fu fatta la tumulazione delle ossa dei due rivoluzionari giustiziati Luigi Zamboni e Giovanni de Rolandis, che erano stati seppelliti nel cimitero dei giustiziati presso la Montagnola a S. Giovannino. Il primo, quantunque morto in carcere per suicidio, era stato impiccato in effige ed il secondo fu giustiziato nella Montagnola.

Le ossa di costoro furono riposte in una urna cineraria di terracotta e, con solenne pompa e rito della Guardia Civica della città, furono collocate sopra la bellissima colonna alla Montagnola con queste parole scritte intorno all’urna in lettere romane maiuscole: Ossa di Luigi Zamboni e Giovanni Rolandi primi martiri della repubblica Cisalpina. In seguito si sentirono composizioni poetiche, delle quali alcune furono poste in musica figurata e fra queste, la unica stampata dell’avvocato Giuseppe Vincenzi, si cantò mentre si faceva la traslocazione.

Lunedì 12 un picchetto di sei francesi e due donne aveva rubato della tela di lana al mercato e se la volevano portare a casa per la via di Imola. Era stata avvisata la Civica di Castel S. Pietro che li fermarono per arrestarli ma quelli fecero resistenza sparando. Ne seguì una baruffa di archibugiate ma, avendo i paesani preso le bocche delle strade e tutti i passi, convenne ai ladri arrendersi ai nostri. Furono subito incarcerati ed il giorno seguente furono condotti a Bologna, sebbene passassero truppe in ogni momento.

Capo di questa squadra fu Antonio Sarti figlio di Giovanni, già oste alla locanda vicina al Gallo. Alla fine fu restituita la tela e premiati i nostri civici.

Per animare il popolo ad applaudire la nascente repubblica fu dal Governo ordinato un pranzo patriottico nella città. Fu inoltre decretata una sovvenzione dotale ad alquante fanciulle del territorio. In seguito di ciò il 22 febbraio, detto dai nuovi ammodernatori di tutto il mondo 2 piovoso, fu fissata la giornata del festeggiamento. Di quello fu direttore Mauro Gandolfi figlio del rinomato Ubaldo Gandolfi, pittore figurista.

Nella estrazione delle doti furono beneficate Margarita Bernardi e Pascala Opi di Castel S. Pietro che sposò subito Giuseppe Andrini macellaio, furono anche beneficati diciotto poveri con  l. 7 di Milano per ciascuno.

Il 23 febbraio sette militari francesi andarono alla casa di Pietro Martelli nel comune di Castel S. Pietro, abitante in un luogo già degli Agostiniani di S. Bartolomeo, denominato Possessione Strada, lungo la via Emilia e fiancheggiante la via del Corriere[15].  Entrati in casa questi sette briganti la cominciarono a svaligiare, portando perfino le casse delle donne nel prato della casa, e assassinando tutta la famiglia. Fu avvisata la Civica del paese in cui essendo di guardia il capitano Antonio Sarti radunò tutta una pattuglia di bravi paesani.  Su le ore 10 italiane andarono velocemente a trovare i briganti assassini.  Quelli, veduta la nostra guardia, cominciarono a far fuoco. I nostri, che ciò avevano previsto, tennero la strada del Corriere che era alberata e si salvarono e giunsero alla casa dei villani. Presa posizione risposero bravamente alle fucilate dei francesi tanto che riuscì ai nostri di entrare in casa e salire le scale dove, essendo altri francesi, cominciarono questi a lanciare contro i civici tutto ciò che avevano nelle mani.

 Crescendo il rumore, fu avvisato al soccorso il quartiere, che prontamente rinforzò la baruffa con un’altra pattuglia. Si radunarono anche i villani vicini e proseguì con maggior calore lo scontro.  Furono in ess ammazzati due francesi ed uno ferito mortalmente.  Questo, dopo un’ora di battaglia, fu caricato in un biroccio e condotto a Imola per la strada al di sotto alla via romana per scansare la truppa francese che viaggiava a quella volta.

 Ma giunti al Piratello l’infelice morì e i nostri, che avevano sentito avvicinarsi una truppa, abbandonarono il tutto con il villano birocciaio, che prese la bestia a mano ritornandosi alla volta di Castel S. Pietro per la via corriera.

I compagni degli assassini si diedero vinti coll’alzare le mani sul cappello, furono condotti da una parte dei nostri giù al quartiere del Castello scortati dal Sarti che invece di passare per la via romana avendo visto da lontano arrivare della truppa piegò il suo viaggio verso Castel Guelfo e giunto nel nostro comune, passò a guado il Sillaro presso il luogo detto Montironi ove c’era una fossa profonda. Uno dei francesi si gettò sopra il Sarti e riuscì ad afferrarlo perché era scivolato. Ma il valoroso Sarti abbracciò il francese e tanto lo tenne avviticchiato che poi aiutato dai compagni recuperò la sciabola colla quale poi colpì mortalmente l’aggressore francese.

 Ma perché non era ancora giorno, andò il Sarti colla sua gente e i prigionieri alla casa della possessione detta il Gaggio, ed intanto passò per la via romana tutta la truppa francese cosi che poi furono condotti gli arrestati al quartiere e poi alle carceri del paese e i feriti nell’ospitale.

Fu il fatto riferito alla Centrale di Bologna e furono lodati i nostri civici per tanta bravura.

 Questo fatto passò per fama alla nostra popolazione e a quella vicina non che alla truppa francese. Perciò successe che i soldati francesi, staccati dai loro reparti non si misero più a simili imprese.

Questo atto fu anche provocato dal ritardo delle paghe giornaliere ai poveri soldati che, essendo tre mesi senza paga, dovevano arrangiarsi con i furti.

Il 29 passò da Bologna a Imola tutto un convoglio militare di sessantotto cariaggi di munizioni e cannoni. Nel seguente marzo era venuto alla Municipalità un ordine della Centrale che tutte le compagnie che non erano Corpi fossero abolite e si facesse ciò manifesto ai capi. Fu riferita questa sanzione all’arciprete Calistri che la sentì con amarezza perché si vedeva privato di una compagnia da lui inventata per il suo interesse detta la Compagnia Larga del SS.mo. L’altra Compagnia del SS.mo SS.to invece era stata canonicamente eretta e cappata. Il suo compito era ed è di accompagnare il SS. Viatico, le processioni mensili del SS.mo, fare la funzione solenne del Corpus Domini e le Rogazioni della B. V. di Poggio. Inoltre somministrava un censo pecuniario all’arciprete per la manutenzione della lampada sempre accesa davanti al SS.mo oltre ad altre incombenze.

Tutto il paese per ciò esultò per questa soppressione, tanto più piacque perché l’arciprete, che odiava a morte la Compagnia vera del SS.mo, aveva ordinato che questa non elemosinasse più in chiesa per il SS.mo, ma elemosinasse l’altra compagnia da lui inventata.  Così infatti stava facendo quando la Guardia civica del paese vedendo questa ingiusta ed esosa decisione dell’arciprete, immediatamente proibì i questuanti ed impose al priore Busi di non esercitare più questa funzione. Questa decisione fu attuata con grande piacere del popolo.

Soleva il Busi, senza cappa ma col solo lume, stare in mezzo a due villani e altre persone di infima classe di dietro al baldacchino quando si portava in processione il SS.mo, a questo seguiva popolo di sesso maschile con lumi. Dietro seguiva dappoi una donna: la rettora, con un lume e dietro a questa confusamente tutto il sesso femminile, e non si osservava più il buon ordine cattolico.

Accadde, in questa occasione, che il cittadino Sebastiano Lugatti, che indossava la cappa della vera Compagnia del SS.mo, aveva visto i questuanti della Compagnia Larga raccogliere in una borsa le elemosine. Terminata la funzione della processione del SS.mo, in mezzo alla quale avevano questuato gli uomini dell’arciprete, ordinò loro di portare tutta la questua fatta all’oratorio del SS.mo, come se tale questua fosse stata fatta per mezzo del corpo cappato.  Così seguì e fu deluso l’arcipretale prepotenza ed avarizia, che si portava in casa propria il danaro e non lo metteva nella cassa ordinaria delle elemosine e non si vedevano mai i conti come invece si vedevano quelli della compagnia cappata.

L’indulto della Quaresima fu pubblicato per carni e uova, esclusa la vigilia di tutti i venerdì, mercoledì, sabati e quattro tempora per l’uso di olio e fu concesso servirsi di tutti gli altri cibi consueti.

 È da notare che essendo state abolite, con altre, le feste di tutti gli Apostoli, i nostri villani non rispettando per niente a questa proibizione vollero santificare le loro feste come il solito e la prima festa fu quella di S. Mattia apostolo.

 L’arciprete andato finalmente a Bologna al rendiconto che gli era stato intimato, ritornò a casa scontento per il contradittorio subito con Sebastiano Lugatti. Per ora fu nascosto l’esito, essendo venuta in campo l’amministrazione sui redditi del Ritiro di Citelle e della soppressa compagnia di S. Caterina.

 Essendo entrati in Roma i francesi[16], questi presero in ostaggio quattro Cardinali e quattro Principi e tennero il Papa chiuso nel Vaticano. Fra i principi vi erano due nipoti del Papa e i buoni romani si sentirono male. In seguito il Papa fu condotto a Firenze in una lettiga, scortato da 500 dragoni francesi Si pensò che egli stesso domandasse questo viaggio per non vedere a Roma la rigorosa giustizia contro i suoi nipoti.

 Era stato fatto predicatore quaresimale di questo luogo un certo Don Stanislao Bragaglia medicinese, uomo di povero talento. Accadde che predicando seminava proposizioni ereticali perciò fu deposto dalla predicazione.

Tornato in campo il rendiconto dell’arciprete, la Centrale ordinò che questo si effettuasse avanti la Municipalità con il cittadino Lugatti.

Fu per la prima volta messo in esecuzione la Cedola per la riscossione delle tasse del terratico. In passato il Senato maneggiò moltissimo contro il card. Boncompagni per che non fosse applicata questa tassa, a cui fu dato il titolo di Scutato poiché era rapportato al valore dei terreni stimati a scudi e non a lire. Né si fermò qui la imposizione poiché si pose anche sopra gli edifici urbani e cioè sopra le pigioni delle case.  Si doveva pagare un cinque per cento sulle pigioni che si riscuotono e fu detta questa imposizione Casatico.  Succede che i possidenti vanno tutti in spesa.

Contemporaneamente fu intimato lo sfratto a tutti quei poveri preti francesi che non avevano voluto prestarsi al giuramento contro i sovrani ed il Papa.

I francesi che erano entrati in Roma venivano in quella, di quando in quando, attaccati, ma ciò non ostante passarono nel napoletano ove sebbene vi fossero molti patrioti ebbero forti resistenze con spargimento di sangue.

Il 25 marzo giorno della SS. Annunziata e domenica di passione si fece più del solito pomposa la festa del Crocefisso non velato alla cui processione intervenne tutta la truppa civica del Castello e Borgo, tutta in montura ed uniforme verde e divisa rossa scarlatta, con fucili. Questa truppa fu divisa in tre classi cioè i Fucilieri che portavano il capello con penna repubblicana, i Granatieri col berrettone alla francese e i Cacciatori che portavano l’elmo in capo nel cui fronte vi era una lamina di ottone risplendente su cui era impresso un corno da caccia e sotto le parole Libertà o Morte.

Questa truppa accompagnò l’Immagine del Cristo per il Borgo e il Castello con la banda militare di Imola, in uniforme turchina e bianca, che suonava, dopo i versetti del Vexilla posto in musica, con il sistro, il plettro, l’oboe, fagotto, clarinetto e corni.

Terminata la funzione nella pubblica piazza del Castello con la benedizione della miracolosa immagine, seguirono dodici scariche di fucileria con evoluzioni militari ora quadrate, ora di punta, ora di faccia, ora di fianco ed ora con ritirata e tamburo battente.  Il tutto diretto dall’aiutante Angiolo Genovesi qui stabilito. A tale funzione vi fu un gran concorso di forestieri.

In questo frattempo il giudice di pace Antonio Giorgi, vero egoista, fece un memoriale al Direttorio contro le famiglie del tenente Gianfrancesco Andrini, di Sebastiano Lugatti e Ercole Cavazza, facendo sottoscrivere a molti la petizione senza far leggere il contenuto ma solo spiegandolo a parole per estorcere la firma. La copia passò anche alla Centrale a Bologna.

Il contenuto di questo ricorso era che queste tre famiglie erano disturbatrici della quiete del paese e pure si preparavano a non avere in considerazione le nuove autorità. La petizione fu firmata anche da alquanti individui della Municipalità. Il motivo di questo ricorso fu perché l’Andrini come ispettore non volle sottoscrivere la relazione dell’arciprete Calistri sulle entrate della chiesa perché questa era mendace facendo comparire solo l. 727 di Bologna, quando che superava le mille lire.

Il Lugatti veniva attaccato per essere contro la tranquillità dell’arciprete a causa del rendiconto su la Amministrazione dei beni della soppressa Compagnia di S. Caterina passati all’Ospitale degli Infermi e dei Viandanti. Così Ercole Cavazza per avere fornito lumi e documenti delle estorsioni ed appropriazioni dell’arciprete e delle sue note incongruità.

Il primo aprile, domenica delle Palme, due ore prima del mezzogiorno, cominciò a nevicare e venne un gran freddo. Durò a nevicare fino alle ore 21 italiane, venne molto alta ma durò poco in terra.

Si pubblicò un ordine del Re di Spagna che richiamava a casa gli ex gesuiti. Dovevano partire gli abbienti entro la fine di aprile ma gli altri potevano restare ove erano stanziati.

Il 9 aprile, seconda festa di Pasqua di resurrezione, il cap. Sebastiano Lugatti aveva fatto stampare e pubblicare un foglio, che dispiacque oltremodo all’arciprete.  Questi fece raccogliere tutti quelli che poté e la sera del 15 gli uscieri della Municipalità Carlo Giorgi, Lorenzo Alvisi con Filippo Tomba, fecero un fuoco nelle vicinanze dell’Albero nella piazza del Castello e, fra gli schiamazzi, bruciarono tutti i fogli raccolti.

Durante il rogo non mancarono Giuseppe Oppi detto Gussolo con Lorenzo Alvisi di chiamare gente e ragazzi che gridarono con loro: Mojano li romani, mojano li tiranni.  La piazza divenne tutta un gran baccano. Gioiva l’arciprete e da una finestrella del suo fienile sopra il portico vicino alla parrocchia, concorreva anch’esso con battimano.  

Questo tumulto sembrava poter dar adito ad una insurrezione. Per ovviare a ciò il dott. Francesco Cavazza, capo battaglione, uscì con una pattuglia alla testa della quale si pose con gli ufficiali e così fu terminato tutto il rumore. Per smorzare del tutto questa nascente insorgenza l’Oppi con Giovanni Inviti, sonatori di violino, e Marco Martelli, suonatore di corno, andarono con gli instrumenti a suonare attorno all’albero ove sfaccendati ed impertinenti donne sfacciate ballarono indecentemente. Ma presto terminò il bagordo all’arrivare della Civica.

La mattina seguente fu data la relazione di tutto alla Municipalità che, essendo partigiana dell’arciprete, la rifiutò. Fu poi spedita alla Centrale di Bologna e fu anche scritto al Direttorio di Milano.

Si replicò la diffusione di detta stampa e furono disseminate per il Castello e Borgo. Inoltre si videro cartelli affissi ai soliti luoghi.

In questa giornata ritornarono da Imola a Bologna 4 mila francesi dietro i quali il giorno seguente vi vennero mille polacchi per incamminarsi al mantovano temendosi là una rivolta.

La nostra Guardia Civica non voleva stare di quartiere nella Casa Municipale e fece istanza alla Municipalità di traslocare nel Borgo entro l’Ospitale dei Pellegrini sulla via corriera. Rifiutò per un pezzo la Municipalità, ma dopo lungo diverbio cedette alle ragioni della Civica a condizione che la concessione fosse provvisoria.

Considerando la questione ancora sospesa, la Municipalità ricorse alla Centrale per eludere la Civica. Questa fu chiamata al confronto con il Capo battaglione Cavazza, l’aiutante Gaetano Andrini e il cap. Antonio Sarti e la decisione fu che il quartiere restasse nel Borgo.

Pendente ancora la questione del rendiconto dell’arciprete intorno ai redditi del Ritiro, il giorno 23 agosto furono date forti petizioni alla Municipalità in seguito anche dei cartelli affissi.  Altri intanto gridavano contro l’arciprete e contro la Municipalità. Lorenzo Alvisi, ma interrotto da Nicola Bertuzzi, con voce alta gridava No! poi No Calistri! un cancro piuttosto! Riscaldati alcuni dal vino cominciarono ad altercare, ma la guardia pose tutto in calma girando con due pattuglie.

L’arciprete si lusingava di eludere l’aspettativa comune e addormentare la Municipalità.  Non gli riuscì perché fu nominato, come nuovo Presidente, il cittadino Giacomo Lugatti fratello di Sebastiano. Fu quindi posta in votazione la questione e fu intimato all’arciprete di presentare immediatamente il rendiconto.

Il 9 maggio erano imminenti le rogazioni di M. V. che cadevano il 14. La Municipalità, in seguito alle nuove disposizioni repubblicane su come procedere nelle solenni processioni, intimò alla arciconfraternita del Rosario di deporre i suoi soliti distintivi cioè il gonfalone, il padiglione, lo stendardo e la paliola ma dovesse portare solo la croce e deporre anche la bandiera. Fu ancora ordinato di deporre l’uso dei quattro Assunti e del Mastro de’ Novizi.  I primi portavano ciascuno il loro bastone con sopra una reliquia e l’immagine di Maria dipinta e contornata di lamina argentata ed il Mastro de’ Novizi, come regolatore della processione, portava il bastone di comando avente sopra scolpita in bronzo dorato la B. V. Fu quindi intimato al loro priore dott. Luigi Trochi di deporre tali distintivi.

Fu anche proibito all’arciprete di ricevere la solita coletta con l’aggiunta che tali proventi li dovesse versare nell’erario repubblicano. Lo stesso fu intimato all’altra compagnia del SS.mo SS.to, a cui competeva la funzione delle Rogazioni. Una tale novità fu un annunzio di persecuzione del culto e dell’onore di Dio. Universalmente fu dispiaciuto questo provvedimento e vi fu molto clamore.

Accadde in questo tempo che il salumiere Remigio Cella aveva venduto della carne di maiale conservata. Questa fece a male molte persone che si credette perdessero la vita. La Municipalità, attenta alla salute, fece subito fermare le carni salate ed investite. Al taglio erano rubiconde e belle e, per quanta analisi si potesse fare, nulla si poté capire.

Un carnajolo del Cella, invecchiato nel mestiere, disse che ciò era causato dal sale tenuto in vasi di rame in modo che era divenuto verde tinto dal verderame che è velenoso. Fu pronta la Municipalità al riparo e, sequestrate tutte le carni investite, le fece portare nel campo della Baruffa fuori di porta Montanara e qui, acceso un gran fuoco, bruciò tutta la carne investita in presenza del popolo e della guardia Civica. Fu considerato un danno di settanta scudi romani.

Il primo giugno arrivò una circolare della Centrale di Bologna diretta a tutta le Municipalità del dipartimento di dovere sigillare tutti gli archivi dei Corpi ecclesiastici, libri, carte e inventariare anche i vasi sacri e le cose preziose. 

Il Presidente Municipale Giacomo Lugatti si portò nei rispettivi locali del paese e sigillò tutto quanto ritrovò delle corporazioni del culto. Furono queste i Cappuccini, l’Ospitale degli Infermi, la chiesa degli Agostiniani detta di S. Bartolomeo, la Compagnia del Suffragio delle Anime del Purgatorio in quella chiesa. Nella parrocchia la Compagnia di S. Antonio Abbate, del Rosario, di S. Giuseppe, della Compagnia del SS.mo. Nella chiesa di S Francesco quella dei M. O. e di S. Antonio da Padova.

Poi venne un’altra circolare dal Direttorio ai capi dei conventi di dare l’elenco dei loro sacerdoti, dei laici, dei terziari e oblati permanenti nei rispettivi conventi il che fu tosto eseguito.

L’arciprete era restìo a dare i conti. Questo fu il motivo per cui il cittadino Sebastiano Lugatti scrisse risentitamente all’avvocato Giacomo Pistorini, Ministro del Potere Giudiziario in Bologna, affinché desse sfogo alle replicate istanze contro l’arciprete che finora erano state inutili. Si scosse il Pistorini dal sonno e fu chiamato a Bologna il Lugatti e qui si fece una lite. Queste vicende nascono poiché l’arciprete aveva corrotto il Ministero. Divulgatosi il fatto per la città uscirono stampati intorno alla corruttela che viene originata dal fatto che si creano autorità sul culto che non osservano le leggi.

In una di queste carte si riportava che la elezione dei vescovi nei primi tempi della chiesa spettava al popolo e così quella dei parroci. Oggi tali elezioni, rispetto ai primi, sono state devolute al Papa, quanto ai secondi sono state consegnate le nomine ai vescovi, che hanno spogliato del Jus le popolazioni e le comunità. Quindi i parroci si fanno per lo più per impegni e simonie. Da ciò sono nati tanti abusi, tanto che, anche se non esercitano il loro ufficio, si deve sopportarli, né mai sono amovibili, perché i vescovi non hanno ragione per rinnovarli essendo loro creature. Le tasse li impinguano, le primizie li impoltroniscono. Sia fissato loro un congruo assegno e levati tutti gli interessi, sarà provveduto meglio il culto, onorata la casa di Dio e venerato maggiormente.

Il 7 giugno, vigilia del Corpus Domini, venne ordinato a questi padri guardiani di chiudere la chiesa se fra tre giorni non avessero fatto gli inventari della loro roba e dato l’elenco dei presenti in convento.

Giunse notizia che il parroco di S. M. di Varignana aveva fatto atterrare l’Albero della Libertà che, per fargli dispetto, era stato piantato nella piazzola davanti alla sua chiesa. Erano stati i democratici di quel piccolo castello dei quali era capo Battista Bianchi.  Il 9 giugno la Guardia Civica di Castel S. Pietro, al senso delle presenti leggi, andò ad arrestare il parroco Don Pietro Zanarini senza lasciargli fare neppure le sue funzioni di culto divino sebbene fosse festa di precetto.

 Era un buon sacerdote, vero cattolico e nemico perciò della idolatria e dei nemici della chiesa. Perciò, vedendo certe contumelie ed affronti alla sua residenza e casa di Dio, dopo avere visto piantare per ben tre volte l’infame arboscello dellalibertà, lo fece sempre tagliare. L’ultima volta fu il giorno 6 in cui, mosso da ardore cattolico e dicendo che un legno insensato non doveva prevalere sul legno della croce, lo atterrò con le proprie mani tanto più che era piantato nella piazza della sua chiesa. Invitò poi il popolo ad onorare in chiesa il legno della S. Croce, albero a cui fu appesa la umana rigenerazione.

Stefano Grandi, speziale e segretario della Municipalità di Castel S. Pietro si portò a Varignana e, fatto qui un processo verbale, arrestò il parroco e lo portò a Castel S. Pietro in mezzo alle guardie.  Qui giunto, perché il povero prete patisse vergogna e fosse esposto alle contumelie repubblicane, lo condusse per la via maggiore alla piazza del Castello ove era molta gente e lo fece girare, tirato dalla caretta, tre volte attorno all’albero repubblicano.

Si sentirono sommesse lagnanze dal popolo che vide questa vergognosa funzione. Fatta questa giostra, fu condotto nella sala della Municipalità e affidato alle guardie. Qui pernottò fino al giorno seguente 10 giugno ed il giorno 11 venne da Bologna il commissario Lai, ufficiale di polizia, che lo condusse a Bologna di dove poi passò a Ferrara.

Domenica 10 giugno, dopo pranzo, la Guardia Nazionale di Castel S. Pietro con otto ufficiali si portò a Varignana con il Presidente Domenico Grandi, fattore dei Padri Barnabiti, con Stefano Grandi, segretario municipale, e, spiegata la tricolorata bandiera, a tamburo battente entrarono in quel castelletto ove piantarono l’Albero nuovamente nel luogo dell’altro.

Il 14 fu proclamato, per ordine del Direttorio, che le corporazioni laiche non dovessero più portare la divisa con cappa e sacco. Subito la municipalità intimò questo decreto ed ordine a tutte le compagnie del Castello.

Lunedì 19 giugno venne qui l’Abate Valeriani di nazionalità veneziana, moderatore del Circolo Costituzionale di Bologna, con lo scopo di istituire in questo luogo un Circolo ed andò, dopo un invito pubblico, nel nostro teatro e qui ordinò che si facesse il Circolo ogni domenica sera.

Precedette questa sua ordinazione con un lungo discorso sopra la eguaglianza e la libertà, terminato il quale nominò poi per Moderatore del Circolo il cittadino Sebastiano Lugatti, che fece poi una dotta introduzione.

In seguito, con un altro decreto del Direttorio, fu proibito fare processioni di penitenza, di giubilo e simili fuori dal Sacro Recinto e quindi solo all’interno delle rispettive chiese, cosi che restò imprigionato Cristo.

Il 22 passarono da Bologna ad Imola delle truppe francesi. In questa contingenza fu imposta una contribuzione di letti in proporzione della forza dei possidenti, ed a me ne toccò uno che dovetti spedire a Bologna in S. Ignazio. Contemporaneamente si pubblicò un editto che tutti i parroci e i possessori di beni ecclesiastici dovessero dare nota dei loro proventi, non che dei loro aggravi e pesi.

Seguì pure un altro ordine da Milano, che fossero chiusi tutti i conventi di monache del bolognese e che le monache tornassero alle rispettive case, senza neppure portar via la propria dote.

Il 22 fu intimato a tutti i Capi Cantone di fare nel giorno 24 giugno una festa popolare e militare in memoria dell’arrivo dei francesi il 19 giugno 1796 e della alleanza fra la repubblica Cisalpina e la Francia. Fu ciò eseguito puntualmente a Castel S. Pietro con evoluzioni militari nella piazza e con bagordi intorno all’Albero, dove intervennero tutte le autorità locali.

Il 25, dopo questa congratulazione, si pubblicò l’ordine di una nuova contribuzione, col titolo di prestito forzoso, in proporzione delle proprie possidenze.

Domenica primo luglio si fece la processione del SS.mo solo entro la chiesa, quantunque fosse bel tempo e ciò a causa del decreto di Milano di non uscire all’esterno con le funzioni. La sera di questo giorno si fece il primo Circolo nell’oratorio della Compagnia di S. Caterina e non nel teatro.

Fu posto in stato di accusa il Giudice del Dazio Pesce notaio Antonio Giorgi avanti la Centrale per le sue arbitrarie condanne e per corrotta giustizia. L’ufficio della Gabella a Castel S. Pietro fu chiuso.

Fin dal mese di aprile era sempre continuata la pioggia e raro era il giorno che non cadesse acqua e i villani non potevano fare le loro operazioni né mietere. Perciò si facevano orazioni da per tutto e fu esposto alla pubblica venerazione il crocefisso nell’oratorio del SS.mo SS.to per tre giorni. Finalmente il terzo giorno cessò la pioggia e si rasserenò il tempo. Ottenuta la serenità, si fece il solenne ringraziamento.

Le contribuzioni crescono continuamente e di danaro e di roba, di letti, per prestiti forzosi e bestiame. Arrivò ordine del commissario Carlo Caprara che si mandassero fuori dai conventi tutti i terziari. Furono perciò espulsi tre poveri terziari di questo convento di S. Francesco e si sentirono proteste delle persone probe per la loro mancanza nel servire la chiesa.

12 luglio fu nuovamente messo in stato di accusa il Giudice di Pace Giorgi con tre imputazioni presso la polizia di Bologna, cioè per prevaricazione ossia corruttela di giustizia, per lesa Costituzione e per estorsioni. L’accusatore fu il cittadino Sebastiano Lugatti ma, essendo il Giorgi un patriota, la faccenda passò con solo un’aspra ammonizione.

L’accusa fu di avere decretato a favore di Francesco Tombarelli del Comune di Castel S. Pietro contro Luigi Tozzi di Dozza, per dei danari depositati in ufficio e vincolati. Le estorsioni furono per essersi fatto pagare gli emolumenti da notaio più della tassa da Giuliano Fiacca e Domenico Albertazzi. L’accusa per lesa Costituzione per avere arrestato molti senza il dovuta mandato e per non avere voluto esaminare Luigi Farnè, detto Bevilacqua, entro il prescritto termine di legge. Molti altri arresti erano stati eseguiti per suo ordine senza seguissero processi. Aveva fatto molte altre prepotenze ed arresti anticostituzionali, ma fu molto spalleggiato dal suo assessore Filippo Tomba.

Essendo stato pubblicato un bando che tutti i parroci dovessero dare l’elenco dei loro redditi, il cittadino Sebastiano Lugatti approfittò di questo per chiamare nuovamente l’arciprete ad un rendiconto. Infatti l’arciprete subito diede la lista, ma era infedele poiché era inesatta e falsa. Così il Lugatti invitò con sua stampa i parrocchiani a reclamare.

 La lista presentata dell’arciprete fu copiata ed è la seguente. La cosa comunque non ebbe alcun effetto poiché l’arciprete Calistri col detto Giorgi e la municipalità erano tutti quanti patrioti e perciò nella loro iniquità erano protetti, né coretti o puniti.

Nota della rendita annuale di D. Bartolomeo Calistri a norma del proclama 20 giugno 1797:

Una possessione detta la Querzola ed un predio detto la Bassa posto nel comune di Castel S. Pietro d’una semina corb. 27, rendono un anno, per l’altro netti da spesa,  l. 900

Primizie crivellate detratte le spese  l. 238

Pezza di terra detta la Scania di Sotto, Crocetta affitata a Sebastiano Ciuchini  l. 155

Pezze di terra dette Rivolta prima, Rivolta seconda, Chiusura, Larghetti nel comune di Castel S. Pietro affittata a Giovanni Rossi  l. 220.

Pezza di terra nel comune di Liano affittata A Gio. Battista Ghini detta il Bosco l. 20 con più tre libre formaggio ed un agnello.

Censo contro il cittad. Nicolò Giorgi l. 200

Censo contro la cittad. Ginevra Conti Castelli l. 162: 10

Censo contro l’Abate del Pogetto l. 68

 Censi contro li eredi Dalla Valle ed Alberici l. 20

Canoni contro li eredi Landi, Garbani, Confraternite di Castel S. Pietro e Municipalità  l. 103

Somma l. 2088: 10

Agravil . 1330

Rimane  l. 758: 10

B. Calistri

Segue l’elenco degli aggravi e pesi per detta rendita.

Per libre due pepe al capitolo di S. Pietro di Bologna l. 3: 10

Per spolio e galero alla tassa nazionale l. 14:10

Per la tassa di tornatura l. 30

Al rettore di S. Biagio l. 85

Per candele di cera nel giorno della purificazione  l. 16

Messe pro populo  l. 85

 Per l’esposizione del SS.mo l. 15

Messa festiva al capellano  l.85

Regaglia al med. per la descrizione dello stato dell’anime  l. 15

Per il mantenimento dello stesso l. 420

Per il via delle messe in parochia l. 24

Per i biglietti della Pasqua  l. 10

 Per la pigione del beccamorto  l. 10

Per il vino all’ospitale delli infermi  l. 20

 Per il mantenimento di un cavallo  l. 250

 Per il mantenimento di un uomo a governarlo  l. 100

Per il mantenimento delle fabbriche della chiesa, canonica, campanaro e supeletili di chiesa  l. 60

Per rimessa di arbori nella pezza di terra, ripari alla fossa  l. 10

Per incenso e cera nella settimana santa  l. 5

Per la visita pastorale, cresima conputata ripartitamente alle chiese del vicariato l. 30

Per la congregazione de casi  l. 30

Tassa per la Guardia Civica  l. 12

Soprascritte spese che non sussistono come dalla seguente analisi

Le candele di cera nel giorno della Purificazione non si dispensano, quindi le Messe per il Popolo, ora che le feste sono soppresse non ce ne sono che per 40 giorni.

 L’esposizione del SS.mo sta tutta in carico alla Compagnia del Rosario pertanto le messe festive al cappellano sono pagate dalla compagnia di S. Antonio abate.

Al vino delle messe in parrocchia, ci pensa il campanaro. 

I biglietti di Pasqua per la comunione si fanno solo ogni 6 anni perché l’avarizia dell’arciprete fa usare gli stessi biglietti con la rinnovazione del solo numero del millesimo.

Al becchino ossia beccamorto non si dà paga, né pigione perché questi vive con le tasse sinodali.

Il vino per gli infermi è una falsa sovvenzione poiché gli ospitalieri vanno in questua dell’uva e ne raccolgono castellate, inoltre i malati non bevono vino e fanno solo tre giorni di convalescenza sul posto.

Per quanto riguarda il cavallo, l’uomo non è pagato, mentre è addossata la briga al campanaro.

La manutenzione dei fabbricati e della chiesa non regge, mentre tutto va a male.

L’incenso e la cera nella settimana Santa è pagata dalla Municipalità.

La visita pastorale è rarissima, si fa ogni sei anni e più.

Per la Congregazione dei Casi concorrono alla spesa i parroci del vicariato.

Inoltre si aggiunge che la semina della possessione è di 30 corbe di grano e si raccolgono un anno per l’altro 200 corbe di grano e 18 castellate di uva. La grugiaglia non è stata computata. I marzadelli di fava, foglia di moro, carne porcina, patti contanti sono stati omessi assieme alle regalie.

Il livello dei beni a Ganzanigo, Landi e Garbagni é 27 scudi. Il luogo detto Bassa semina 4 corbe e si raccolgono ogni anno 50 corbe di grano, per lo meno 3 castellate di uva e si omette la carne e le regalie.

È stato omesso un luogo nel comune di Casalecchio dei Conti di semina 6 corbe di grano ed altro che si raccoglie.

Sono stati omessi i redditi della Casa del Ritiro, cioè l. 100 della cittadina Ginevra Fabri e l. 100 per la madonna di Guadalupe. Il profitto di Stola, Campane e Battesimi. per cera ed offerte. I ricavi per le sepolture che ogni anno ammontano a l. 300.

I livelli della Compagnia del SS.mo di l. 100, della soppressa Compagnia di S. Caterina di l. 20 annue, tutto il mantenimento degli apparati, olio e cera per la messa che si caricano alla Compagnia del Rosario ed esso ne va esente. Le ostie sono fornite dal campanaro.

Riceve poi la coletta delle uova in campagna e Castello, la coletta del filo per l’Ospitale, le sovvenzioni della Compagnia di S. Antonio abate, S. Giuseppe, della Compagnia larga del SS.mo, da esso inventata, ed altrettanti aggravi da lui imposti che molto ci vorrebbe a descriverli, perfino la sepoltuaria in chiesa ha la tassa, che manca nel computo presentato.

Quindi si vede la enormità del fatto.

I frati terziari che erano in questo convento di S. Francesco furono spogliati dell’abito, le monache furono trasferite da un monastero all’altro entro carrozze e molte altre si ritirarono a casa. Così hanno fatto anche i frati.

Luglio – Dicembre 1798

Divieto di portare il viatico pubblicamente e fare funerali esterni alle chiese. Tumulti per queste proibizioni. Aperta nuova spezieria dl cittadino Giuseppe Sarti. Scontro con civici bolognesi. Chiusura osterie un’ora dopo il tramonto. Rivolta per timore chiusura chiesa Crocefisso. Proibizione suono di campane la notte di Natale. Paesani assaltano il campabile e suonano le campane.

Il 16 luglio arrivò una circolare dalla Polizia di Bologna in data del 28 messidoro diretta alla municipalità ed al parroco di non dovere da ora in avanti portare agli infermi il SS. viatico con lumi e pompa, ma incognitamente e coperto, così pure di dovere portare i cadaveri senza salmi e non visibilmente alla popolazione.

I primi cadaveri ci furono la stessa sera e furono di Pietro Minghetti e di un fanciullo di nome Sigismondo. Furono ricevuti alla porta della chiesa parrocchiale da Don Filippo Cupini, archivista e sagrestano se e come fossero stati cani, senza suono di campane e lumi per modo che fu gran sussurro massime nelle donne.

Così pure accadde la stessa sera per un fanciullo figlio di Antonio Mingoni detto Pighino, senza alzare croce e portare lumi.

Sabato 22 a Bologna nel prato di S. Francesco fu giustiziata alle ore otto italiane Annunziata di Domenico Morara di Castel S. Pietro per numerosi e importanti furti. Dall’anno 1712 non si erano punite donne con la morte. Questa fu la prima che andò alla ghigliottina.

In questo giorno io fui estratto per Moderatore del Circolo Costituzionale di Castel S. Pietro e quantunque ricusassi l’impegno, fui però costretto a servire mio malgrado perché minacciato di arresto dalla polizia del paese.

Il 23 in virtù di un ordine del Direttorio Centrale di Bologna questa Municipalità prese possesso della Casa del Ritiro locale e dei suoi effetti. Fu quindi escluso l’arciprete dal suo governo ed amministrazione.

Il 26 luglio, giorno di S. Anna su le ore 10 italiane, fu fatto per la prima volta la somministrazione del viatico nel Borgo senza lumi e con il SS.mo nascosto. Il popolo che tenne dietro al cappellano Don Francesco Landi che portava il viatico in tasca entro un piccolo scatolino d’argento, fu numeroso con gran sussurro e pianto per la strada. Andò il sacramento alla cittadina Domenica Dall’Oppio, vedova del fu Matteo Farnè, ostessa alla locanda della Corona.

Non ostante la proibizione del culto i figli della inferma Nicola, Antonio e Felice col loro stalliere e i garzoni ricevettero alla porta dell’osteria il cappellano con il SS.mo tenuto nascosto in tasca e lo accompagnarono con lumi alla stanza dell’inferma.

 Il popolo si era accorto di questo viatico perché il sacerdote andava a capo scoperto ma accompagnato da un chierico, anch’esso a capo scoperto per venerazione di Dio.

Venerdì 27 la municipalità prese possesso dei beni dell’Ospitale degli Infermi del paese. L’arciprete si vide perduto e tacque. Fu pubblicato contemporaneamente un rigoroso bando sopra le voci che spargevano allarmi e contro i preti che parlavano di insurrezioni. Nello stesso bando si imponeva di prendere le armi contro gli insurgenti e fermarli sotto pena di morte, ingiungendo anche di arrestare i preti fuggitivi.

Fu proclamata anche una legge sulle Compagnie imponendo loro di esercitare i loro Offici solo nelle rispettive chiese parrocchiali.

 Vennero fuori nuove contribuzioni come prestito forzoso senza frutto. La municipalità proclamò con un suo editto che si dovessero tenere chiuse le osterie dopo l’ora di notte.

Il 30 luglio si presentarono alla Municipalità diversi Ispettori del Circondario e fecero istanza perché si osservassero i soliti riti per le S. Comunioni e le feste. Questa mozione seguì sull’esempio di alquante parrocchie di Bologna che non vollero accettare la legge contro il culto. In alcuni luoghi, volendosi accompagnare il viatico con lumi, nacquero tumulti.

Così accadde mercoledì primo agosto a Castel S. Pietro. Doveva essere portato il S. Viatico a Stefano delli Antoni abitante nella piazza. Il sacerdote portante la SS. Eucarestia con sopra l’ombrello, fu portato a forza fuori dalla parrocchiale cantando le solite preci e accompagnato da alcune persone.  Però non furono suonate le campane né si portò la croce davanti.

Domenico Grandi, fanatico patriota, cominciò a biasimare la violazione alla legge. La gente cessò il canto a voce alta, ma recitarono le solite orazioni e preci a voce bassa temendo l’autorità di questo irreligioso presente nel governo democratico.

Il 15 agosto si ebbe notizia dalla parte di Venezia che nella fine dello scorso luglio fu distrutta la flotta francese dagli inglesi condotti dal valorosissimo ammiraglio inglese Yot Christian Nelson[17],  giovane di anni 35, che con flotta di 13 bastimenti di linea che erano sotto Malta, raggiunse la flotta francese e le diede una  fierissima battaglia che affondò 13 bastimenti francesi.[18] Morirono più di 4 mila francesi, furono fatti molti prigionieri, fra quali Bonaparte, Bertier[19] ed altri due dei più illustri guerrieri  francesi che traportavano con tutto i tesori di Loreto e Roma in Francia. Bonaparte e Bertier però con uno stratagemma riuscirono a fuggire.

 Fu sentita la notizia con grande giubilo dagli aristocratici. Le gesta del valorosissimo Nelson saranno registrate nei commentari delle presenti guerre e noi toccheremo solo di volo quel tanto che in proposito a noi appartiene.

Il raccolto del grano è stato abbondante. I riti delle S. Comunioni del Viatico che erano state ripristinate furono di nuovo sospese. Domenica 26 agosto si fece in Castel S. Pietro la fiera alla quale concorsero mercanti di ogni tipo e luogo.

In questo giorno non si fece il Circolo a motivo che anche Stefano Grandi lo osteggiava perché si trasformava in un gran putiferio per i tanti interventi e discorsi diversi che si facevano dopo la spiegazione della Costituzione fatta dal Moderatore, né si potevano negare quando erano chiesti dicendo. Parola, Parola.

In questo stesso giorno si aprì la seconda spezieria entro il Castello dal cittadino Giuseppe Sarti nella casa del cittadino Carlo Conti, nella via Maggiore. Questa apertura era stata fortemente osteggiata da Stefano Grandi ed altri anche con regalie e corruzioni.

Per questa apertura furono vennero due medici e furono il dott. Tarsizio Riviera e il dott. Antonio Gentili, era con loro il cittadino Francesco Lelli, Speziale della Vita di Bologna con un altro chimico. Poiché non c’era il notaio che si richiede in questi casi per annotare gli atti e la garanzia tanto per la persona che per i medicinali, servì in questo fatto il dott. Francesco Cavazza come notaio e cancelliere.

Il 28 agosto, lunedì notte venendo al martedì su le ore quattro italiane, si sentì due volte il terremoto ma non fece rumore.

Dalla Centrale di Bologna uscì un decreto perché si abolissero le quattro croci che sono in mezzo alle strade dei quattro quartieri della città e furono messe in S. Petronio, come pure si levassero le chiese che erano di ingombro nel mezzo delle strade.  

Fu demolita la croce della porta presso S. Bartolomeo dove era un piccolo pulpito ove S. Petronio teneva le sue predicazioni e la piccola cappella in cui si celebrava. Nel distruggere questa cappelletta si trovò incisa su marmo bianco la iscrizione indicante essere onorato questo luogo S. Petronio, che convertì qui molti eretici e fece venire alla religione cristiana molti ebrei che avevano poco distante il loro ghetto nella via vicina detta l’Inferno. La inscrizione è la seguente, consacrata 1365 anni fa. 

Qui gregem suum

ab hereticis emundavit

hanc crucem

Insignibus reliquiis exornavit

anno partu virginis

CCCCXXXIII

Le dette croci furono trasportate in S. Petronio, con le stesse indulgenze.

Il 12 settembre si sparse voce che dal Governo si voleva immediatamente l’arresto delle persone sospette di avere intelligenza con la corte di Vienna, stante i movimenti delle truppe austriache che si dicevano dirette verso l’Italia. Ognuno per timore si guardava dall’esprimersi in pubblico per evitare le accuse, ma poi non si verificò nulla.

Sabato 22, dopo la festa di S. Martino apostolo, erano state arrestate, per le loro vistose malefatte, dalla Guardia Nazionale di Castel S. Pietro due romagnoli che erano da consegnare poi alla guardia di Bologna. Perciò lunedì 24 vennero dieci civici da Bologna per prenderli. Accadde però che, mancando i dovuti documenti, la nostra guardia rifiutò la consegna degli arrestati fino a che non fossero giunte le opportune lettere di Governo. Rimasero qui per ciò i 10 bolognesi col loro capo squadra sergente Fornasini.

La sera il cappellano parrocchiale Francesco Landi doveva fare la comunione per il viatico a Rosa Spisni moglie di Domenico Oppi detto Gambazza. Per evitare la solennità del rito proibita dal Governo, sull’Avemaria mandò fuori di chiesa tutte le donne che si erano adunate per la recita, già finita, del Rosario.

Le donne che di ciò si avvidero corsero anch’esse dietro al cappellano, così che videro che portava il sacramento a quella inferma abitante nella casa di Antonio Magnani in faccia alla chiesa di S. Caterina. Arrivato il prete alla porta della casa fu dal Magnani ed altri ricevuto il SS.mo con lumi e con quella devozione che si poté nelle presenti circostanze e fu chiusa la porta della casa. Ma che? Passando di qui Civici bolognesi col loro sergente cominciarono a cantare ad alta voce l’inno patriottico, in modo che disturbava le orazioni dei presenti nella casa.

Il Magnani uscì e pregò i civici a desistere dal rumore per rispetto dell’inferma e per la comunione che si stava facendo. Ubbidirono questi e passarono dalla parte opposta alla casa proseguendo il loro canto. Le donne che si erano qui adunate aspettarono l’uscita del cappellano per accompagnare il SS.mo alla chiesa parrocchiale, onde poi ricevere secondo il consueto la S. Benedizione. Ma si sbagliarono poiché il Magnani disse loro: Andate alle vostre case e dite con me Viva Gesù! Viva Maria!

Si alzò tosto uno strepito grande al quale accorsero anche gli uomini.  Credendo a una qualche insolenza fatta dai civici, li inseguirono fino fuori della porta di sopra ove, venuti a parole, seguì fra alcuni nostri paesani e quelli una baruffa di pugni. Il loro sergente Fornasini che era armato di sciabola, la sguainò ma fu assalito con tale impeto da Luigi Musi detto Sbargnocola e da Lorenzo Alvisi, usciere della Comunità, che lo disarmarono. Le donne in tale tumulto fecero peggio degli uomini, cosi che restò finita qui la rissa ma non del tutto. Mentre il Sbargnocola con l’Alvisi ritornava in Castello incontrarono un altro civico bolognese che veniva in soccorso del sergente e fu anche questo sonoramente picchiato tanto che gridava: Misericordia! Battuto a sufficienza fu rilasciato.

Giunsero intanto da Bologna gli ordini opportuni per la consegna degli arrestati ma, non arrischiando i bolognesi per timore di una altra rissa, ricorsero alla Municipalità la quale, per non impegnare alcuno, fece partire i civici con gli arrestati la notte del martedì accompagnati dalla Civica paesana fino all’osteria del Gallo.

Domenica 23 settembre furono pubblicate le nuove leggi e furono proclamati Centralisti di Bologna, per il dipartimento del Reno, l’avvocato Antonio Aldini di Bologna, il dott. Giuseppe Mazzolani d’Imola e dott. Luigi Piani di Bologna. Commissario del potere esecutivo fu nominato Sebastiano Bologna.

Nell’osteria del Portone fu ammazzato Nicola Ponti, detto Cavallino, figlio di Cesare Ponti, da Pietro Oppi e Antonio Sarti, cognati, i quali subito fuggirono in Toscana.  La medesima notte volendo la guardia arrestare i due cognati fece nella piazza del Castello fuoco con archibugiate ma nessuno restò ferito.

Il 26 passarono da Bologna per la Romagna 500 cisalpini che, dopo avere la notte scorsa fatta in città baruffa con i civici in cui restarono da una parte e dall’altra ferite 20 persone, si fermarono appena a bere, temendo di avere alla schiena un’orda di bolognesi, poi da Imola andarono alla volta di Ancona.

Si pubblicò nello stesso tempo la notizia che l’Imperatore aveva dichiarato la guerra alla Francia e alla Repubblica Cisalpina. L’Impero ottomano e la Russia fecero lo stesso. In seguito l’Inghilterra mandò una flotta contro la Francia nel Mediterraneo e così fece l’Austria. La prima bloccò i mari del genovesato e la seconda i mari del veneziano.

Il Circolo, che finora era rimasto sospeso, riprese l’attività ma durò poi poco.

Il 28 settembre morì il sacerdote Don Luigi Poggipollini di Castel S. Pietro. Fu prete dotto e dabbene, esercitò lodevolmente nel seminario di Bologna per dieci anni la Magistrale di Grammatica superiore nel seminario e fu comunemente rimpianto.

In questo giorno vennero da Bologna 220 cavalieri francesi e altrettanti fanti, si fermarono nel Borgo ove, trovate le osterie chiuse a motivo del gran tumulto, nacquero rumori temendosi un saccheggio.

Il dott. Gaetano Conti figlio di Francesco Conti di questo Castello essendo stato destinato per segretario della Centrale di Bologna presso il Direttorio di Parigi ed ambasciatore dei bolognesi partì questa notte a quella volta per la via di Lombardia.

Gli osti non chiudevano le osterie, non ostante l’ordine municipale, accusando che non sentivano le campane. La Municipalità ordinò che all’ora di notte si battesse il tamburo e così fu obbedito il Governo.

Domenica 29 ottobre fu proclamata la legge sui dipartimenti e distretti, nonché l’ordine di un comizio generale per la approvazione della Costituzione della Repubblica Cisalpina.

 Furono assegnati a Castel S. Pietro 30 comuni, ossia parrocchie o sezioni, e fu dichiarato capo cantone. Per il comizio generale di Castel S. Pietro fu deputato Moderatore l’avvocato Luigi Ugolini che il giorno 31 ottobre venne a Castel S. Pietro. Arrivarono contemporaneamente 114 cavalieri francesi e furono collocati in diverse stalle del paese.

Il 31 ottobre si aprì il Comizio del distretto di Castel S. Pietro, che viene segnato come la giornata 10 brumale anno 7 repubblicano, con 143 cittadini aventi le condizioni prescritte dalla legge. Presidente fu nominato il cittadino Angiolo Scappi del comune di Liano come il più anziano degli intervenuti. Era assistito da due segretari cioè Vincenzo Andrini e Giuseppe Vergoni, per scrutatori furono deputati l’arciprete Bartolomeo Calistri ed Antonio Giorgi.

In seguito si fece la lettura delle leggi del 1 e 2 brumaio che ottennero il parere favorevole con 151 voti affermativi e 94 negativi. Durò questa seduta più di sei ore.

Contemporaneamente fu pubblicata la legge sopra la carta bollata da usare nei contratti e nei tribunali.

Essendo stato di nuovo chiuso e sospeso il Circolo, dopo fatta la seduta suddetta, fu riaperto e dovetti ritornare alle precedenti fatiche con mio incomodo e dispiacere. Ma che si ha a fare in tempi di insorgenze e rivoluzioni? Ubbidire anco a costo dello svantaggio.

Essendosi resa vacante la scuola, il 5 novembre furono affissi a stampa gli avvisi del concorso.

Contemporaneamente sul mezzo giorno arrivò una visita a questa municipalità dalla Centrale di Bologna. I centralisti furono l’avvocato Giuseppe Mazzolani d’Imola e Natale Cibò bolognese i quali fatte le loro incombenze e trovato tutto a posto partirono sull’ora dei vespri per Bologna.

L’11 novembre passarono da Bologna ad Imola molti fanti francesi e furono pubblicate altre leggi gravose e disgustose, fra queste, si pubblico la levata dei fondi stabili ai vescovi, lasciando loro solamente diecimila lire milanesi annue, provento miserabilissimo per la loro dignità, carattere ed autorità.

Il 19 d. vennero da Bologna 22 cannoni accompagnati da due battaglioni di francesi che dopo un breve riposo andarono ad Imola.

Mercoledì 28 novembre venne a Castel S. Pietro il generale della Civica di Bologna Sebastiano Tattini per organizzare la Civica di Castel S. Pietro a cui erano sottoposti i comuni del suo cantone e distretto.

Levò quattro sezioni cioè Castel de’ Britti, San Cristoforo, S. Lorenzo di Castel de Britti ed Idice. Il quartiere della nostra Civica, trasferito nell’Ospitale del Borgo, era stato giorni fa chiuso e trasferito nella casa municipale per dare quello alle truppe francesi transitanti. Il generale Tattini convocò il Consilio amministrativo municipale al quale, radunato nella stanza delle sedute, lesse alcune petizioni in proposito e parlò molto contro il presidente Domenico Grandi.  Fu poi persuaso del motivo del trasferimento e se ne ritornò a Bologna accompagnato dai nostri civici fino al Gallo.

Il 29 passò da Bologna ad Imola una grossa squadra di cavalleria con bandiere spiegate e strumenti musicali detta volgarmente Banda.

Si scoprì a Napoli una congiura contro il Re macchinata dal principe Pignatelli che, scoperto, fu arrestato e severamente punito[20].

Malcontente le potenze di tante insurrezioni di popoli armarono eserciti per abbassare l’orgoglio francese e punirlo per l’invasione di stati non suoi. Furono queste l’Austria, la Russia, la Porta ottomana ed altre. In questi sconvolgimenti si scoprì a Bologna che nottetempo girava una maschera vestita da scheletro umano fornita d’arma da fuoco sempre spianata, per cui le persone che la incontravano morivano di paura, né mai si poté sapere l’autore.

Il comandante della piazza di Bologna, temendo qualche agguato perché i francesi erano malvisti, ordinò che la Civica della città non dovesse più portare le armi cariche.

Il sale crebbe di prezzo e la gente protestò e si temeva una insorgenza.

Il 12 novembre Mariana Giorgi figlia di Nicolò, bella giovane, sposò Modesto Calistri fratello del nostro arciprete, uomo ricco ma di poca salute. Per tale matrimonio inaspettato si fecero grandi ciarle contro l’arciprete, perché la figlia era troppo familiare ed attaccata all’arciprete che con lei amoreggiava.

Martedì 4 dicembre la popolazione di Castel S. Pietro aveva saputo che la domenica scorsa a Castel Bolognese era nata una sollevazione contro quella municipalità perché aveva fatto chiudere alcune chiese. La rivolta durò fino alle 8 ed era anche a motivo che era cresciuto il dazio del sale e in più si era posto il dazio della macinatura, mai pagato da quella popolazione. Era successo quindi che, a furor di popolo, furono riaperte le chiese.

Nella popolazione di Castel S. Pietro si era diffusa l’idea che nello stesso modo si volessero pure qui chiudere alcune chiese e specialmente quella della compagnia del SS.mo ove è il crocefisso miracoloso.  La gente insorse nella pubblica piazza e violentemente corse al quartiere della Civica posto nella casa municipale, si impadronì delle armi e cacciò la guardia, gridando: Vogliamo le nostre chiese aperte ed officiate!

 Non ebbero ardire i municipalisti di radunarsi per non arrischiare la vita e così restò la casa e il quartiere a discrezione del popolo. Quindi poiché avanzava il buio della notte si accese un fuoco nella piazza, prendendo la legna destinata al Quartiere. La Guardia sfrattata per evitare disordini si impossessò dell’oratorio che stette tutta la notte aperto a guardato fino a giorno.

La Municipalità avvisò immediatamente il Governo di Bologna per avere provvedimenti. Intanto che si facevano queste cose, i popolani, capo dei quali si era fatto Gaspare Sarti fratello del suddetto Antonio, fecero esporre il crocefisso e lo portarono alla pubblica venerazione nell’altare maggiore di questa chiesa. Calmato così il popolo si celebrarono messe e dissero orazioni mentre la piazza ondeggiava di gente. Il Sarti così si comportò anche perché era confratello di quella compagnia del SS.mo e pure per calmare il furore del popolo.

In questo frattempo abbisognava del viatico Teresa Tomba vedova Amadesi. Venuto ciò a notizia della gente adunata in piazza, questa corse alla parrocchiale allo scopo di fare eseguire pubblicamente al cappellano il rito di culto secondo il consueto, senza tener conto della sua soppressione.

Passò il popolo alla sacrestia per forzare il cappellano a rispettare la solennità del Viatico.  Questi rifiutò di prestarsi in quella forma.  Gli ammutinati corsero al campanile e, forzate le porte, ascesero le scale e, spropositamente, suonarono le campane.  Sollecitati dal quel suono irregolare i contadini corsero al Castello chi con arma chi con bastoni e entrarono in chiesa tutti furenti facendo temere un gran scandalo.

L’arciprete Calistri temendo un irreparabile disordine, vestito di cotta e stola, corse all’altare ed espose il SS.mo per ammansire gli animi accesi d’ira. Esposto il SS.mo e cantate le lodi a M. V. fece un breve discorso ed acquietò in qualche modo la gente sollevata, diede la benedizione col SS.mo ed esortò alla pazienza ed alla obbedienza alle presenti leggi che anche così si onorava Dio. Aggiunse che opponendosi una forza imponente, che era un castigo di Dio, avrebbero sacrificato le loro sostanze e le famiglie.

 Le persone però non si persuasero e, ritornato l’arciprete nella sacrestia, vi si affacciarono dicendogli di non essere paghi, ma di volere assolutamente la processione del Viatico conforme lo stile e il rito cattolico. Non poté esentarsi da ciò l’arciprete e gli convenne portare il Viatico alla inferma secondo il solito.

Il cappellano che se la vedeva brutta, tanto più che puzzava di fanatico patriota, mentre si facevano questi discorsi fuggì per la casa del campanaro nella vicina chiesa di S. Francesco. Qui avrebbe voluto prendere una particola per intanto comunicare l’inferma. Le fu negata da quei frati e buon per lui che, se si scopriva e fosse andato col viatico occulto, poteva correre il pericolo di vita, poiché i ragazzi armati di sassi lo attendevano fuori di S. Francesco da dove non partì mai. È da constatare che l’arciprete si dispose a fare la comunione come sopra perché gli fu suggerito dal vice presidente della Municipalità Andrea Grandi di accontentare il popolo poiché anche lui era in pericolo perché stavano ancora gridando anche contro di lui: Ammazza, ammazza!

Così fu eseguito quanto si volle dal popolo. I capi, radunato che fu il Consiglio, fecero sapere che se accadevano novità contro essi i rivoltosi ne avrebbero risposto, presto o tardi, con la loro vita.  Per ciò con l’assicurazione del Consiglio che nessuno avrebbe patito e che le chiese, che ora erano aperte, si sarebbero così conservate, tutto passò come se non fosse mai successo nulla.

Domenica 9 dicembre si incominciò un solenne triduo nella chiesa di questi Padri M.O. ad onore del venerabile Bernardo di Porto Maurizio, genovese beatificato e del loro ordine, che nell’anno 1747 fece in questo luogo le sue missioni con gran frutto.

L’11 vennero qui due Commissari da Bologna e furono certi Gabussi e Vasuri col notaio Tesini allo scopo di fare chiudere le chiese. Ma accortosi il popolo di questo nuovo attentato nacque una nuova insorgenza. La protesta sussurrando si riscaldava a poco a poco, cominciando dai ragazzi. Manifestatasi la cosa e vedendo la mala parata, fuggirono i tre inviati Gabussi, Vasuri e Tesini. Il Gabussi nel fuggire per la porta di sopra fu accompagnato con baja e fischi.

Mercoledì 12 dicembre era arrivato dalla Romagna alla locanda del Portone Giovanetti, già sacerdote professo camaldolese e nipote dell’odierno Arcivescovo Giovanetti, che aveva abiurato e preso moglie. Questa partorì un fanciullo maschio, vegeto e robusto. Il Giovanetti soddisfatto proclamò forte: ecco rinato Napoleone Bonaparte e non lo volle battezzare qui e dopo pochi giorni partì per Bologna con la moglie e il figlio.

Venerdì 14 su le ore 23 arrivarono al nostro Borgo 16 carri di feriti cisalpini, che venivano dalle parti di Roma, maltrattati nella battaglia avuta con i napoletani. Alloggiarono nell’Ospitale del Borgo e nella chiesa di S. Pietro. Stettero qui alquanti giorni fino al 20 finché arrivarono altri da Imola, convogliati fino qui da quella Civica. Quindi tutti, accompagnati dai nostri, partirono per Bologna.

Il 16 dicembre giunse alla Municipalità una lettera da Bologna di requisire quattro buoi, 40 castrati ed alquanti majali per servizio dei francesi che dovevano passare a Imola. Questi bestiami furono dalla nostra Civica presi ai montanari nel momento che si faceva il mercato e fu uno scompiglio grande.

A Budrio giorni fa avvenne una insurrezione a causa della chiusura delle chiese, che furono a furore di popolo riaperte, onde per le consuete funzioni si sentono nuovi sussurri a Castel S. Pietro.

Alessandro Alvisi, con Luigi Musi detto Sbergnocola, vennero nel Borgo a parole con Ladislao Ronchi detto Lujno, figlio di Agostino Ronchi, sopra i correnti avvenimenti di modo che, riscaldati gli animi, seguì non poco litigio che fu poi calmata. I primi tenevano per gli austriaci ed il secondo per i francesi, al cui soldo era stato.  Il peggio però fu che i due colleghi si avventurarono con previsioni allarmanti, dicendo che quanto prima sarebbero giunti tedeschi e napoletani e che allora ci si sarebbero lavate le mani col sangue dei municipalisti, gente vile e dedita solo ad impinguarsi con le ruberie ai poveri aristocratici, e che il loro orgoglio sarebbe stato presto abbassato.

 Furono subito arrestati ma, prima di essere esaminati, furono ammaestrati dal cittadino Sebastiano Lugatti e le loro parole furono riportate attenuate.  I municipalisti stettero in consiglio fino alle quattro di notte e, considerando che il popolo era malcontento del governo e temendo qualche disordine e insorgenza, la mattina i due arrestati furono rilasciati senza pena.

Mercoledì 19 si seppe della battuta subita da francesi, polacchi e cisalpini. Vennero da Bologna dirette a Imola 17 carri di palle per i cannoni, il cui peso era, per le maggiori, di libbre 18 e  le minori  la metà, avevano con sé anche le fucine fornite di tutto.

Il 24 dicembre, vigilia di Natale, era stato proibito dal Commissario del Potere Esecutivo di Bologna, dott. Angelo Maria Garimberti, di tenere aperte le porte principali di ogni chiesa, ma aprire solo le minori per la notte seguente e così era anche proibito il suono delle campane per la S. Messa.

Quando si giunse a mezzanotte e non suonarono le campane i villani e i paesani si ammutinarono e andarono alla parrocchia. Si fece loro capo Lorenzo Coroluppi, abitante nel Castello. Giunti alla porta del campanile, che era chiusa, la ruppero, salirono e suonarono le campane quanto loro parve per adunare il popolo. Parte degli ammutinati teneva sotto controllo il campanile e parte andò alla casa di Domenico Grandi, vice presidente municipale, per averlo nelle mani e trattarlo come meritava. Questi però riuscì a nascondersi e quindi non successe altro.  

Lorenzo Alvisi, usciere della Municipalità, volendo resistere nella sacrestia della parrocchiale con la sciabola sguainata al furore del popolo, si guadagnò una bastonata sul capo e gli convenne fuggire in chiesa. Tutta questa notte girarono per l’abitato i contadini con armi da fuoco, da taglio e con bastoni, sì che convenne alla Civica locale fingere di non accorgersi di tutto quanto vedeva.

I poveri frati di S. Francesco per evitare simili disordini, levarono le corde alle campane. La mattina del Santo Natale non si sentì né si vide altro di disdicevole.

Il figlio di Paolo Beltrandi era un giovinetto robusto ma soggetto alla epilessia ed in conseguenza era anche un poco scimunito e tonto quando il male lo assaliva, era però cattolico e devotissimo. Questi, appena confessato nel coro dell’altare maggiore dall’arciprete Calistri, lo abbracciò strettamente e ad alta voce cominciò a gridare: Avvanti, avvanti meco all’Oratorio a scoprire il mio Cristo miracoloso, avvanti, avvanti!

Le persone che erano in chiesa sentito un tal rumore accorsero e fecero in modo di liberare l’avvilito arciprete. Il Beltrandi andò al crocefisso dell’Oratorio a cui era devotissimo. Infatti non passava giorno che non lo visitasse e, genuflesso davanti all’altare, restava più di un’ora a pregare. Qui fu assalito violentemente dal suo malore e fu, con sforzi grandissimi e terrore della gente, portato fuori di chiesa.

 La conclusione dei suoi malori e pazzie finiva sempre nell’onore ed amore di Dio e quando era in chiesa conveniva guardarsi di fare la S. Comunione poiché cercava di strappare di mano ai sacerdoti le S. Particole e di comunicarsi da sé.

Essendo sospesa la scuola pubblica di aritmetica e latino fu eletto provvisoriamente per maestro il Lettore Gian Tomaso, cappuccino di Castel S. Pietro, della famiglia Dalfoco che al secolo portava il nome di Luigi. Suoi genitori furono Ottaviano Dalfoco ed Umiltà Lucarelli, fiorentina. È da notare che nessuno volle concorrere alla scuola per evitare l’obbligo di giurare contro la Monarchia e così si terminò l’anno.

Gennaio – Aprile 1799

Estrazione reclute per esercito cisalpino. Arresto partecipanti al tumulto delle campane. Festa da ballo nel convento di S. Bartolomeo. Nominate nuove autorità locali. Proposta di abitazioni nella chiesa del Crocefisso e spostamento cimitero. Arresto persone sospette. Castellani tra gli insorgenti di Cento. Russi e imperiali a Milano.

Mercoledì 2 gennaio 1799, a seguito della legge del reclutamento di giovani, arrivò un dispaccio della Centrale di Bologna che imponeva di procedere, per il distretto di Castel S. Pietro, alla estrazione di 31 giovanotti dai 18 fino ai 26 anni per completare il numero di nove mila militari per tutta la repubblica Cisalpina.  Il fatto fece rumoreggiare il popolo.

Nel seguente giovedì 3 gennaio venne a Castel S. Pietro l’avvocato Giuseppe Vincenzi, torinese, come commissario alla estrazione dei giovani.  Gli fu dato per compagno il comandante di questa piazza, mio figlio dott. Francesco. Fu convocata la Municipalità per questo, ma si presentarono solo il vice presidente Domenico Grandi e il segretario Stefano Grandi.  Perché nessuno dei pubblici rappresentanti era intervenuto, furono chiamati tutti gli ispettori delle sezioni soggette al Cantone di Castel S. Pietro per formare un elenco di tutta la gioventù soggetta all’estrazione.

A ciascuna sezione fu intimato l’invito per la estrazione nel giorno di domenica 6 gennaio. Cominciò questa alle ore 20 italiane e uscirono i 31 nomi richiesti di cui 5 di Castel S. Pietro.

Su le ore 22 arrivarono 200 cisalpini, circa 100 cavalieri e 100 fanti diretti alla Romagna. Il loro comandante a piedi era certo Gibert che alloggiò in casa mia col tenente Manfredi ambedue francesi. I soldati e gli ufficiali furono distribuiti nelle case dei sostenitori a spese pubbliche e si sentirono forti critiche, perché colavano in tasca loro dei soldi facili. C’era con loro anche il generale cisalpino Calori, modenese, ex nobile.  Seguirono il commissario del potere Esecutivo dott. Angelo Maria Garimberti, bolognese, già segretario del Senato e con lui il canonico Landi come suo segretario. Con loro venne pure un criminalista e tutti alloggiarono in casa di Francesco Conti fu Pietro nel Borgo. Questa casa è posta alla destra nella via maggiore di ingresso al castello.

Tutto questo convoglio venne qui per imporre timore alla popolazione che mal sentiva il reclutamento, per cui si erano sparse voci d’insorgenza, e per fare nello stesso tempo il processo agli insorgenti della notte di Natale per il suono delle campane.

Il comandante della cavalleria, i cui militari erano detti Dragoni, abitò in casa dei fratelli Lugatti nel Borgo. Prima della estrazione l’avvocato Vincenzi fece un eloquente discorso ai civici non che all’adunanza tutta, facendo constatare che la forza della Repubblica consisteva nel valore e nella difesa militare e che la gioventù agguerrita era la difesa migliore di tutte le fortezze.

Tutta la notte il comandante francese fece girare le sue pattuglie dopo che fino alla mezza notte ebbe pattugliato la nostra Civica. Il lunedì 7 si fece la rivista a tutta la Civica nella piazza pubblica e cui intervenne la suddetta fanteria e le autorità. Quindi tutti i nostri civici, in uniforme, passarono a fare evoluzioni con la bandiera spiegata e a tamburo battente.  Presenziò molto popolo che applaudì.  

Ciò fatto si procedette all’arresto dei partecipanti al tumulto per il suono delle campane e ne furono fermati cinque, gli altri fuggirono dal paese.

Durò il processo a tutto il martedì 8 gennaio quando arrivò un ordine da Imola che fece marciare il commissario a Castel Bolognese con la cavalleria e con una parte dei fanti a motivo che quel popolo non voleva fosse fatto il reclutamento dei loro figlioli.

Giunse un avviso che i figli unici dovessero andare esenti dal reclutamento mentre prima non si era avuto alcun riguardo.

Dozza poi malcontenta di questo reclutamento non si volle prestare a dare alcun elenco, così che restò inoperosa provvisoriamente la estrazione di Castel S. Pietro.

 La notte del martedì, venendo al mercoledì 9 gennaio, prese fuoco la casa della nostra Municipalità e bruciò fino al giorno chiaro la metà di tutto il tetto. Se non accorrevano i cisalpini bruciava interamente.

I castelli e le terre di Bazzano, S. Giovanni in Persiceto, Piumazzo ed Anzola che non volevano il reclutamento insorsero non avendo voluto fare i ruoli. Lo stesso fecero Sassoleone, Scaricalasino e Lojano da dove furono cacciati i commissari con una baruffa contro la Municipalità. Si seppe poi che arruolavano anche volontari per il tempo di diciotto mesi. Si arruolarono sette di Castel S. Pietro delle famiglie di Barnaba Oppi, falegname, un figlio dei Ferri detto il Rigidorino, dei Chiari detto Buccilaio, della famiglia Paderna detto Sgambillo, Battalino della famiglia Nannini, Ruggi Antonio ed Andrini detto dei Rinieri.  Questi non sono più ritornati e dietro loro vi sono andati altri belli giovanotti, robusti e valorosi.

L’11 gennaio dalla parte di Romagna arrivarono qui 314 prigionieri napoletani della battaglia seguita tra i francesi e quelli di là da Roma[21]. Furono scortati da 90 civici imolesi che alloggiarono nel palazzo Locatelli. Questi sventurati erano quasi tutti nudi in una stagione rigida, nella quale c’era neve e ghiaccio. Erano

malmessi ed affamati, si lamentavano e muovevano a compassione. Perciò una donnicciola di nome Camilla, figlia di Giuseppe Fabbri, andò alla questua per quelli e raccolse farine e contanti tanto che fu alleviata loro un poco la fame. I cisalpini che erano qui partirono per Bologna la mattina di sabato 12. Partirono per Bologna anche i prigionieri scortati dalla Civica imolese e dai nostri di Castel S. Pietro.

I reclutati estratti di Castel S. Pietro si ridussero a 20 stante i volontari che erano cresciuti al numero di 11. Andarono tutti lieti a suono di tamburo a Bologna per essere vestiti in uniforme e dotati di fucili.

Il 22 arrivarono da Bologna 60 cisalpini con otto dragoni e qui si fermarono, poi la mattina seguente si incamminarono verso Sassoleone a fare arresti perché la notte di Natale era stata fatta una insurrezione e, contro il divieto del governo, si erano suonate le campane e si era fatta la funzione solenne. I cisalpini arrivarono lassù, malmessi per le nevi che erano in terra dal 13 dicembre, e trovarono il paese vuoto di uomini, ma con solo donne, vecchi e ragazzi. Quindi non fu fatto altro.

Il 31 gennaio continuò a nevicare e i villani non potendo lavorare si lamentavano. Tuttavia il grano si vendette a 25 paoli la corba ed il formentone a 13 paoli. La carne di manzo alle macellerie era a sette baiocchi la libbra, avendola fin qui venduta a otto. La carne porcina grossa si vendeva a trenta lire il cento.

L’erario pubblico era divenuto esausto per le tasse e le ruberie dei funzionari cresciuti per essere patrioti e riscuotere buone paghe.  Quindi si crebbero le contribuzioni di mezzo baiocco per scudo di estimo a tutti i proprietari di beni immobili. L’inventore di questa imposizione fu l’ex senatore Lodovico Savioli, che si guadagnò un odio implacabile da parte di tutti.

Il 6 febbraio primo giorno di Quaresima fu pubblicato l’indulto per la carne, aggiungendovi che i primi quattro giorni con gli altri venerdì e le quattro tempora si possa mangiare uova, latte e burro.

Crescono le persecuzioni alla chiesa cattolica. Il 9 febbraio furono espulse tutte le monache dai loro conventi a Bologna e nel territorio. Si salvarono solamente i conventi delle Cappuccine di S. Maria Egiziaca, della Santa e tutte le altre andarono alle loro case. A Castel S. Pietro rimpatriò suor Gioseffa, sorella di Domenico Albertazzi, che era monaca in S. Vitale di Bologna, suor Illuminata Landi, sorella del cappellano Don Francesco, monaca di S. Giovanni Battista, e suor Maria Marabini monaca conversa di S. Cristina ed altre che erano di stirpe contadina.

L’11, prima domenica di Quaresima, il dott. medico Angiolo Lolli, abitante nel convento di S. Bartolomeo, diede una festa da ballo ai suoi compagni avvocato Vicini, dott. Gaetano Conti ed altri bolognesi qui intervenuti con donne.  Pochi paesani vi intervennero per essere in quaresima, fatta in un convento e vicino alla chiesa dove era ancora il SS.mo.

A questa festa intervennero anche mascherate disdicevoli fra le quali Antonio Roncovassaglia, vestito da cappuccino con barba finta, che veniva tirato come una bestia per il cordone da Giuseppe Oppi vestito da frate agostiniano. Una parte li esortava a ballare con le donne, beffando così l’abito sacro e la religione. Questo spiacque ai buoni cattolici e fu condannato da ogni altra persona.

Uscì da Milano una legge per ricavare alquanti milioni sopra il consumo di grano di ogni famiglia. Si cominciò a dare esecuzione a questa legge il giorno 18 col raccogliere dalla viva voce dei capi di famiglia il quantitativo di grano che era consumato in farina dalla famiglia. Per questa legge furono fatte due classi di popolazione. La prima era quella della città, l’altra dei luoghi che comprendevano almeno 2 mila persone. La Municipalità per evitare la tassa maggiore formò tre popolazioni di questo luogo cioè il Borgo, il Castello e infine la campagna e così fu attenuata la nuova imposta.

Il 28 febbraio, su le ore 13 italiane, morì il sacerdote Don Antonio Scerna, spagnolo ex gesuita, in casa dei fratelli Lugatti nel Borgo. Questi fu l’ultimo ex gesuita spagnolo residente nel nostro Castello mentre tutti gli altri, revocati dall’esilio dal Re, erano partiti l’anno scorso.

 Perché l’Ospitale degli Infermi del nostro Castello era stata impoverito di tutto per avere tenuto tanti francesi feriti, la Municipalità, che ne aveva la amministrazione, pensò di intraprendere qualche intervento di soccorso. Quindi deputò tre donne del paese, le più energiche e capaci a procacciare sovvenzioni.

Furono queste la cittadina Brigida, moglie di Carlo Bettazzoni, Lucia di Antonio Inviti ed Ottilia di Ercole Cavazza ambedue nubili. In seguito queste donne fecero una questua per il Borgo e il Castello e raccolsero molto filo e settanta lire di Bologna, che mai tanta somma e roba si era raccolta al tempo che l’Ospitale era governato dai preti del paese.

Il 22 marzo furono elette e pubblicate le nuove autorità locali dalla Centrale di Bologna, approvate dal direttorio di Milano, cioè il dott. medico Angiolo Lolli, Francesco Farnè fu Giuseppe come agente municipale e come suo aiutante Luigi Cardinali detto Scagliola.

Il 25 seconda festa di Pasqua morì repentinamente Filippo Tomba, sarto e patriota fanatico e cattivo, che sosteneva anche le veci di assessore al giudice di pace avv. Giorgi. Questa morte fece spavento non solo ai buoni cattolici, ma anche ai suoi seguaci perché egli stato grande avversario della chiesa, prevaricatore nei comizi, grande rapinatore e sfacciato in qualunque disegno repubblicano. Gli restarono i capelli ritti ed irti come nel momento che fu assalito dalla morte, partì dal mondo senza sacramenti e l’aiuto di alcun ministro di Dio dei quali era nemico mortale.

Fu dichiarato per commissario di Castel S. Pietro e suo cantone nelle presenti emergenze il dott. Francesco Pellegretti bolognese. Quantunque sia stata abolita la terza festa di Pasqua, questa è stata qui santificata dal popolo sia civico che rurale.

 Era stata fatta una mozione dal Direttorio di Milano per opprimere la religione dei Minori Osservanti e dei Cappuccini ma fu respinta.

Cominciarono in questo tempo le ostilità fra l’Imperatore austriaco da una parte e i francesi e cisalpini dall’altra per cui in appresso seguì una sanguinosa battaglia fra Verona e Legnago che durò due giornate e furono soccombenti i francesi[22]. Un corpo di 600 tedeschi disperso si ritirò nel ferrarese, dove, trovata la città di Ferrara non difesa, entrarono facilmente e se ne impadronirono. Credettero i ferraresi che fosse un attacco e il 30 quella Centrale fuggì a Bologna. La nuova estrazione del reclutamento fu sospesa.

Il 29 marzo arrivò a Bologna il Duca di Toscana accompagnato da alquanti francesi ed alloggiò nel palazzo Caprara con la famiglia[23]. Molti malandrini patrioti di Bologna, a capo dei quali si pose il dott. Pietro Gavasetti, andarono attorno al palazzo e gridarono ad alta voce Morte ai tiranni! morte alli austriaci! Ebbero molto spavento quei poveri e sventurati signori ma furono poi tranquillizzati dai francesi a non temere della loro vita. Ciò dispiacque al Governo. La mattina di buon’ora partirono per Ferrara.

In Toscana partito il loro principe si innalzò l’albero della libertà già preparato dai ribelli.

Il Papa che si trovava nella Certosa di Firenze partì anch’esso, venne la sera stessa a Bologna ed alloggiò nel Collegio di Spagna. Appariva un povero vecchio rassegnato alla volontà del Signore. La mattina del 31 marzo, giorno di domenica, celebrata la messa partì per la Lombardia alla volta di Modena e Reggio per stabilirsi a Parma o a Piacenza.

Il 4 Aprile venne a Castel S. Pietro il nuovo Commissario del Potere Esecutivo dott. Francesco Pellegrelli bolognese, giovane cattolico, quieto e più aristocratico che democratico, per vigilare sopra la Municipalità.

La sera di domenica 7 venne il dott. Antonio Bechetti per insediare la nuova Municipalità i cui componenti furono Lolli, Farnè e Cardinali. Ciò fatto partì per Bologna.

Contemporaneamente fu visitata dal perito fabbriciere ed architetto Bassani di Bologna la bella Chiesa ed Oratorio del SS.mo per costruirvi delle abitazioni ed altri ambienti per il nuovo governo repubblicano secondo le proposte fatte dal dott. Angiolo Lolli e dal cittadino Francesco Conti fu Pietro padre del dott. Gaetano. Ma il sito non fu ritenuto adatto oltre che troppo dispendiosa la costruzione. Fu proposto allora il convento di S. Francesco dei Minori Osservanti da trasferire poi nel convento dei già soppressi agostiniani di S. Bartolomeo. Si propose anche di levare una parte del cimitero parrocchiale fino alla piazza di S. Francesco per ripristinarla nel modo che era anticamente e si chiamava piazza di Saragozza.

Quanto poi alla parte del cimitero che si riduceva a strada, fu proposto che fosse compensata con terreno presso la celletta della madonna della Scania e formare là un campo santo.  Ma poi nulla però fu più fatto dall’architetto.

La stessa sera giunse in paese il dott. Bartiroli, procuratore criminale di Bologna, con l’avv. Gaetano Savini ad aprire il processo contro i carcerati per i fatti del suono delle campane nella notte di Natale e dell’accompagnamento solenne fatto col SS.mo Viatico quando fu portato a Teresa Andrini vedova Amadesi. Ciò accadde in seguito di una petizione fatta a Milano a pro degli arrestati dal cittadino Sebastiano Lugatti.

Il 15 aprile, si seppe che nelle montagne c’era una banda di 2 mila uomini in parte francesi, cisalpini, piemontesi cacciati dal fiorentino, ed in parte disertori, a cui si erano unito degli insurgenti.

Tutti questi infestavano quelle parti e si accostavano alla pianura per la parte di Lojano, Scaricalasino e Monte delle Formiche.  Il governo si pose in agitazione, tanto più che dalla parte di Finale di Modena si era saputo di una insorgenza di 800 finalesi spalleggiati dai tedeschi che veniva in loro soccorso ed erano al ponte di Lagoscuro. Perciò Bologna fece chiudere otto porte della città, lasciando solo aperte le quattro principali di S. Felice, Galliera, Strada Maggiore e strada di S. Stefano.

Furono in seguito chiamati in città i capi battaglione del territorio. Mio figlio dott. Francesco, che ricopriva la carica di comandante di questa piazza, dovette sul momento partire per Bologna a concordare col Governo i provvedimenti necessari nella presente crisi.

Si pubblicò contemporaneamente un avviso su la patria che era in pericolo e con l’esortazione alle persone a prenderne la difesa. Furono poi arrestate persone sospette. A Castel S. Pietro furono presi in sette e condotti immediatamente in città per completare le truppe di linea e furono Natale Galavotti, Alessandro Alvisi detto Sandrone, Antonio Giordani detto Frabbino, Beltramelli detto Magalotto, Antonio e Nicola Graldi detto Cita, Marianno Cenni detto Saltino.

Per tale improvviso arresto si amareggiarono le famiglie del paese, per cui si temeva una insorgenza tanto più che i cisalpini erano stati battuti nella Lombardia da una banda di insurgenti, capo dei quali si era fatto Filippo Zogoli di Castel S. Pietro con suo figlio ed avevano con sé seicento uomini tutti del partito austriaco. Questi Zogoli, detti Barboni, sono sempre state persone facinorose e di parentado esteso.  Tutti avevano un soprannome, il su detto Filippo veniva chiamato Patano. Questi avanzavano nel ferrarese e predavano, facendo come gli antichi saccomanni, onde tutti li temevano e si arrendevano. Questo succedeva soprattutto nelle parti di Argenta e Comacchio dove lo Zogoli aveva grande pratica di quei paesi per avervi lungamente abitato ed esercitata l’arte di macellaio.

Nelle loro scorrerie, che facevano parte a cavallo e parte a piedi, quando giungevano ove erano alberi della libertà li atterravano e li sostituivano con croci di legno, minacciando di morte chi l’avesse levata o dileggiata. Bologna in questo frangente mandò a Lugo 800 fanti e 100 cavalieri.

 Il 18, terminato il processo per la questione del viatico, i giudici partirono. Erano in cinque persone, la loro permanenza costò centoundici scudi. Il loro grande apparato e processo consistette in pochissimi esami ma in moltissime ricreazioni e giochi proibiti di carte.

 In questo tempo si sentirono nelle donne parti e fatti mostruosi che facevano terrore. Nella vicina possessione, detta il Casino dei Graffi o la Fossa, presso al nostro Borgo, Orsola Tombarelli moglie di Antonio Martelli partorì una creatura femmina col capo di pecora e le cornette spuntate. Si attribuì questo fatto ad una voglia di testa di pecora cucinata a lesso di cui ne era avida. Nella Villa di Poggio presso la Fabbreria, Maria Canè moglie di Luigi Tortora, dopo aver portato il corpo gravido per 18 mesi, diede alla luce un corpo umano con testa di mulo.  Fu creduto essere stata la paura avuta nell’aver visto un mulo che voleva coprire una giumenta. Questi parti, privi di battesimo, furono soffocati e sepolti di nascosto.

Il 19 dello stesso mese di aprile si sentirono baruffe contro i francesi dalle parti del ferrarese, ove c’era molto malcontento.

Nella impresa Bevilacqua si eccitarono tumulti di villani, che furono istigati da Giuseppe Bertuzzi di Castel S. Pietro. Questi era ministro della casa Bevilacqua e gridava nelle adunanze: Morte alli assassini, Morte alli francesi, a cui, corrispondendo l’approvazione di altri, si apriva l’avvio a un brutto scompiglio. L’ex marchese Bevilacqua, cavalcando per la citta di Cento esortava ad insorgere. Alcuni cittadini, acclamando il governo imperiale, si posero la sua coccarda nel capello in modo che spaventarono la città. Per il momento null’altro seguì, mentre il governo di Bologna spedì subito a quella volta un distaccamento di 1.600 armati che posero tutto in calma.

Furono affissi nei capiluoghi proclami contro quelli che facevano discorsi allarmanti e ostili contro i club o istigavano complotti, minacciando la morte in 24 ore a chi si trovasse in fallo.

Morì a Bologna Giuseppe Mondini figlio di Francesco originario di Castel S. Pietro, fu bravissimo giocatore di pallone e guadagnò molti danari per la sua bravura, lasciò dopo di sé un figlio maschio di nome Francesco, giovine di buona condizione ma con cattive opinioni sul culto, che si stabilì in Ancona con la moglie di

nazionalità tedesca. Il Mondini Giuseppe fu l’ultimo dei consiglieri della Comunità di Castel S. Pietro.

In questo giorno 19 aprile, dopo la pubblicazione della legge sopra i discorsi allarmanti e i complotti, il sacerdote D. Baldassarre Landi junior, preso di malocchio da Antonio Giorgi, giudice civile, e dalla Polizia di questo paese, fu arrestato e chiuso ben guardato nel quartiere della Municipalità. Interrogato si difese bravamente e fece constatare l’impostura dell’accusatore Giorgi, il quale non si poté esimere da una condanna e il sacerdote fa rilasciato.

Crescendo nelle parti del ferrarese il partito degli austriaci, il 22 aprile giunsero al nostro Borgo ottanta reclute faentine con un cannone diretti alla volta di Medicina per andare poi alla Molinella e verso Malalbergo ove sono molti insurgenti uniti ai centesi.

Prima che i faentini entrassero nel nostro Borgo la civica locale si armò e pose la guardia nei posti avanzati del ponte del fiume, al Portone e presso il quartiere, collocato nell’Ospitale dei viandanti.

Giunti i faentini presso il ponte quella sentinella avvisò l’altra sentinella del Portone che all’arrivo dei faentini fece il suo: Chi vi è! per due volte.  I faentini non risposero. La nostra sentinella chiamò l’altra sentinella che stava al quartiere col caporale e i soldati e intanto spianò il fucile contro il capo dei faentini, che non ardì più inoltrarsi.

Giunse immediatamente il nostro caporale con una pattuglia e interrogò il capo dei faentini. Questi rispose di essere un distaccamento repubblicano proveniente da Faenza e confermò ciò con i documenti. Fu introdotta nel Borgo quella truppa alla quale i nostri soldati divisi in due ali presentarono le armi, poi li accompagnarono al quartiere, destinatogli sul momento, nel palazzo Locatelli. Aveva questo distaccamento un carrettone di munizioni da fuoco, un altro col suo bagaglio dietro al cannone e due birocce di pagnotte.

Cresceva il rumore verso il centese e Malalbergo. Qui nacque una baruffa fra gli insorgenti partitanti degli austriaci con i repubblicani. Nei primi c’era Giuseppe, figlio di Paolo Bertuzzi di Castel S. Pietro, che fermò e riuscì a respingere il nemico. Mentre si facevano queste cose accadde un’altra insorgenza a Cento alla quale accorse il Bertuzzi. Ma poi essendo inferiore alle forze del nemico, si ritirò dopo avere combattuto e si riunì ad un altro corpo di insorti. Il fatto di Cento fu poi in appresso relazionato e stampato[24].

I faentini, dopo aver qui pernottato la notte del 22, il 23 aprile andarono a Medicina.  Qui saputo dell’ingrossamento degli insurgenti austriaci e prevedendo il loro totale sacrificio se ne ritornarono a Faenza dalla parte di sotto. I civici bolognesi, che anch’essi erano andati alla volta di Cento, fecero lo stesso ritornando a Bologna.

Gli insurgenti si erano divisi in tre corpi, uno si era diretto a S. Alberto nel ferrarese. Di questi si era fatto capo Filippo Zogoli con suo figlio Andrea. Il secondo corpo era a Malalbergo ed il terzo era verso le parti di Brescello poco distante da Ferrara, poi si congiunse con 500 tedeschi. Questi in tale occasione avevano arrestato come sospetti Giulio e Gaetano Andrini, padre e figlio di Castel S. Pietro che erano là andati a provvedere per il loro commercio di formentoni e grani.

Furono condotti al campo austriaco e degli insorgenti composto per la maggior parte di villani, di cittadini ferraresi disperati, di burlandotti, sgherri e malviventi. In questo corpo vi erano anche altre persone di Castel S. Pietro che procurarono poi, due giorni, dopo la liberazione degli Andrini. Fra questi c’era Luigi Dondi del fu Francesco di Castel S. Pietro detto per soprannome Magallo che da qualche tempo soggiornava nel ferrarese per essere contumace della Giustizia di Bologna. Con lui era Ignazio del fu Gioachino Poggi, bravo archibugiere, e Francesco Conti fu Giovanni detto della Fornace Mondini, che si erano fatti ufficiali dell’insorgenza.

Domenica 23 aprile si pubblicarono due leggi per nuove contribuzioni, una fu detta del registro per tutti i contratti e l’altra fu un testatico sopra le persone. Il ricavato serviva per fare la guerra all’Imperatore latino Giuseppe II d’Austria e alle potenze sue alleate[25]. Questo testatico fu addossato ai possidenti maschi dai 16 anni in su. La tassa fu regolata sulla rendita dei fondi e sullo stato dato in occasione dal prestito forzoso. Il pagamento del testatico era da fare entro 48 ore dopo la pubblicazione della legge.

Ci fu perciò un grande sussurro che pareva si spingesse fino alla sollevazione, cosa che può accadere se si interviene sui portafogli. Ma poi le persone erano timorose e per non subire le condanne proclamate nella legge, pagarono la rispettiva tassa in mano di Domenico Grandi, fattore dei Padri Barnabiti e ex municipalista.

Erano poi prossime le feste delle consuete Rogazioni della Vergine SS.ma di Poggio e non si sapeva se le processioni si sarebbero potute fare.

Il cittadino Luigi Facenda, cappellano della compagnia del SS.mo, a cui incombeva la funzione delle Rogazioni, già soppresse da Milano, assieme al cittadino Giovanni Battista Fiegna confratello di detta compagnia, presentò richiesta alla Municipalità, a cui era in potere accordare o negare le funzioni, per ottenerne il permesso.   

L’arciprete Calistri, in quanto nemico della compagnia ma ben considerato dai componenti la Municipalità, era a conoscenza delle condanne e del mormorio che si faceva contro di lui, come fautore e nemico delle cose belle e buone che si facevano fuori della sua chiesa. Temendo un peggioramento nella considerazione della sua persona fece, in accordo con i municipalisti, fare il trasporto della Immagine di Poggio, di nottetempo e per mano di alcuni villani, nella sua chiesa parrocchiale. Così 26 aprile si vide improvvisamente la S. Immagine esposta al pubblico culto all’altare maggiore di questa chiesa.

Si quietò in parte il mormorio contro la Municipalità ma non contro l’arciprete che poteva operare con maggior decenza verso la S. Immagine e i malcontenti confratelli della compagnia. Ciò non ostante tutto finì bene.

L’ultimo giorno delle Rogazioni, fatte con le solite processioni dai fedeli senza cappazione, si ebbe notizia come i russi coalizzati con gli imperiali avevano preso Milano, Parma, Piacenza, Modena, Reggio e avevano

conquistato la terra della Lombardia[26].

Per tali conquiste il Direttorio di Milano si disperse e i suoi componenti parte fuggirono a Torino e parte a Bologna. Intanto giunse nel bolognese la truppa austriaca che dopo una breve scorsa si ritirò nel modenese. I civici di Bologna vedendosi nella situazione di essere attaccati intimarono ai francesi ed ai cisalpini che erano in città di partire.

Difatti uscirono ed il giorno seguente venne a Castel S. Pietro un battaglione di cisalpini fuggitivi che, dopo due ore di riposo andò a marcia forzata ad Imola perché avevano ancora alle costole gli insorgenti ferraresi.

Maggio 1799

Ritorno degli arrestati. Vicenda della Gesualda e del povero Don Landi. Disordini per arresto Serafino Ravasini. Gioacchino Badiali distribuisce rametti di bosso, simbolo antifrancese. Autorizzate processioni a Castello. Dozza occupata da montecatonesi. Timori di carestia. Ripristino cerimonie funerali. Lite per le frasche di bosso. Arrivo di armati da Bologna. Passaggio di truppe e cariaggi in fuga dalla Romagna. Fuga del presidente Lolli e altri. Scoperta macchinazione per arresti di 40 avversari.

Il 3 maggio rimpatriarono gli arrestati e carcerati per il suono delle campane fatto la notte di Natale. Tornarono a casa con i loro capi che erano stati Marco Tesei e Lorenzo Corolupi per le grandi petizioni fatte al governo in pro loro, dal cittadino Sebastiano Lugatti.  Furono accolti con grandi applausi dai buoni paesani.

Con i russi e gli austriaci che si erano impadroniti di Milano, il generale francese Monteichard si vedeva a malpartito a Bologna con i suoi francesi.  Chiese però prima dell’abbandono della città due milioni di scudi romani in meno di tre giorni al Governo, altrimenti avrebbe dato un permesso di tre ore di saccheggio alla città. Per evitare un massacro si convenne di dare un milione.

Furono perciò spedite anche richieste di contribuzioni per il contado, a Castel S. Pietro ne fu diretta a Paolo e Francesco Farnè una di 420 scudi, alla cittadina Maria Mazzanti moglie di Paolo una di sc. 20. A Giulio e fratelli Andrini una di sc. 60, a me di sc. 60 e così ad altri in proporzione. Il paese si mise in allarme, si ricorse alla Municipalità per la diminuzione della pretesa e tutti gli intimati al pagamento si posero uniti in stato di emigrazione come fecero tante altre famiglie del distretto. Furono ascoltati i ricorrenti e diminuita tutta la domanda che fu ridotta per l’intero a sc. 420 che furono proporzionalmente ripartiti a tutti i possidenti.

Sparsa la voce che venivano a Bologna 8 mila tedeschi dalla parte di Modena molti bolognesi andarono ad incontrarli a porta S. Felice ma il tentativo fu inutile poiché i tedeschi girarono da Modena verso il ferrarese.

Per tale voce molti di Castel S. Pietro partirono e fuggirono dal paese, fra gli altri fuggì il famoso dott. Gaetano Conti e andò a travestito S. Agata dal suo zio paterno. I patrioti del nostro Castello e Borgo mal soffrendo la temuta invasione degli austriaci si raccolsero fra di loro e minacciarono di un saccheggio i paesani del partito aristocratico, onde le persone probe, temendo la disperazione dei briganti, stavano chiuse in casa.

 Per tale disordine la Municipalità scrisse al generale Tatini capo dei civici in Bologna perché mandasse gente a tenere in soggezione i turbolenti. Rifiutò egli per timore e non mandò truppe. I turbolenti si agitavano sempre più. Per quietarli la polizia locale pubblicò un rigoroso avviso contro chi avesse usato parole e discorsi allarmanti e così tutto il fermento fu calmato e i galantuomini assicurati.

Per questi provvedimenti alcuni, più modesti, si acquietarono, ma altri però afflitti da forti sentimenti di insubordinazione fingevano di essersi calmati. Accadde che dovendosi fare un triduo al SS. Crocefisso dell’oratorio per ottenere tempo sereno, furono messi fuori gli avvisi di quella compagnia invitando i fedeli devoti ad intervenire con “atti di pietà”. I giacobini misero in discussione la proposizione “atti di pietà” dicendo che gli atti di pietà verso una compagnia povera non significava fare delle devozioni, ma voleva dire “atto di avidità di danaro” e una bottega aperta dai preti. In seguito si videro fuori cartelli affissi alle colonne che dicevano.

La pietà della compagnia cattolica

consiste tutta in bucolica.

Furono staccati i cartelli e portati al tribunale di polizia amministrato dal giudice Antonio Giorgi e dal dott. Lolli i quali, quantunque avessero indizi dell’autore, considerarono la faccenda una fantasia puerile e si infischiarono della istanza fatta dagli ufficiali della compagnia. L’arciprete Calistri applaudì a questa soluzione per due ragioni, una perché l’autore era un suo dipendente e l’altra perché la compagnia era da esso tanto contrastata al punto di volerla soppressa per potere ingoiarla, come provano i decreti da esso estorti al buon arcivescovo Giovanetti accecato dai suoi cortigiani.

Quantunque i progressi dei francesi fossero acclamati dalla maggior parte delle persone queste non di meno vedevano e leggevano giornalmente scritti contro la Francia.

 Sebbene da parte dei buoni cittadini fossero rispettate le leggi repubblicane, Antonio Giorgi non cessava di mettere alla prova e maltrattare l’onore dei suoi cittadini. Avvenne che certa Gesualda figlia di Pascale Vignali rimase incinta per opera di alcuni patrioti. Il fatto fu denunciato all’ufficio. La ragazza si vergognava del suo errore ma non poteva avere alcuna possibilità di maritarsi ma solo di andare incontro ad uno smacco pubblico perché i malfattori erano persone miserabili e figli di famiglia. Si consultò col Giorgi su come uscirne col minor danno possibile. Questi aveva avuto col sacerdote Don Baldassare Landi parole spiacevoli sulle ingiustizie che faceva alla povera gente. Pretendeva da loro denaro altrimenti li faceva arrestare e poi li teneva in carcere senza processarli. Pensò allora di risolvere il problema della Gesualda e nello stesso tempo vendicarsi del sacerdote Landi. Questi tra l’altro abitava in confine con la ragazza per cui talvolta si parlavano.

Il Giorgi suggerì alla giovinetta di incolpare il povero prete e tanto seguì. Quindi lo fece obbrobriosamente arrestare e lo fece detenere alcuni giorni, finché il prete stremato depositò otto scudi per la spesa del parto. Ebbe anche il coraggio dirgli in faccia che le elemosine dei preti si erano trasformate nella carnalità e nel coito. Provò tale vergogna il povero prete che, non potendosi sfogare per la infame imposizione, pianse a calde lagrime. In seguito fu poi riconosciuto innocente.

Le vicende della presente guerra stavano andando di male in peggio per i francesi. Si seppe che questi avevano avuta una sconfitta nella Lombardia in modo che avevano dovuto ritirarsi[27]. Furono in tale contingenza posti in vendita disegni stampati indicanti la fatale fine della sedicente Repubblica Cisalpina. Dietro a questi uscì una stampa intitolata: Relazione ex Officio della morte della Repubblica.  Questa si vende con precauzione per il mal animo dei patrioti, infatti poi ne sono nate disgrazie.

Il Giorgi che era vedovo con cinque figlioli maschi e uomo di una certa età, abbagliato dallo spirito anticattolico, si era messo in testa di ammogliarsi la seconda volta. Prese di mira una sorella della defunta moglie Vittoria. Fece quei passi che si usano in questi casi. Il padre rifiutò il consenso e, perché questi era anch’esso vedovo e non poteva attendere alla custodia della figlia per la molteplicità dei suoi interessi, pose la figlia nubile di nome Gertrude Giorgi nella casa della nonna materna Anna Fantaguzzi, donna in età avanzata. Poi interpose l’arciprete Calistri onde, come amico stretto e patriota, dissuadesse il Giorgi da questa sua intenzione.

Operò l’arciprete ma con poco frutto, perché l’ostinato Giorgi fece intendere all’arciprete che l’avrebbe fatto arrestare come quello che perturbava la libera volontà della giovane. L’arciprete o fosse timore o fosse patriottismo abdicò dall’impegno. Divulgatosi un tale fatto, i paesani cominciarono a mostrarsi perplessi su come una autorità potesse immergersi in un affare contrario a tutte le buone leggi.  Per essere esempio di buon governo dovrebbe invece vietare ed intervenire onde simili inconvenienti non solo avvenissero, ma nemmeno fossero promossi. Si videro fuori cartelli che prendevano impegno di presentare ricorsi.  La giovane sentendosi diffamata ributtò il Giorgi e la nonna minacciò di farlo picchiare se fosse entrato nella sua casa.  Alla fine tutto andò a monte.

Proseguirono poi i tedeschi a battagliare contro i francesi nella Lombardia ed in altri stati, così che arrivavano di quanto in quanto notizie che animavano gli uomini probi e le Nazioni. Avutasi poi notizia che la città di Alessandria era stata presa dagli imperiali, furono stampate le relazioni del fatto d’arme. I patrioti sequestrarono tali stampe che poi furono bruciate ma non cambiò il fatto della sconfitta subita dai francesi. Non per questo però si impaurirono i partigiani degli austriaci che fecero ristampare la relazione.

Intanto erano in corso le Rogazioni e le processioni della Immagine SS. di Poggio fatte fare dall’arciprete Calistri dentro la sua chiesa con l’esclusione dei confratelli della Compagnia del SS.mo.  L’arciprete però si accorse di dovere far fronte alle tante spese con i suoi danari e che non ricavava quello che ricavava la compagnia. Ciò accadeva perché tutto il paese era amareggiato per la sua condotta, mormorava contro di lui e non andava neppure alla visita della S. Immagine della quale se ne era voluto impadronire. Poi perché nelle funzioni ci aveva già messo 75 lire del proprio, pensò di liberarsi da ulteriori spese, liberandosi dell’impegno. Perciò all’improvviso la notte del 5 maggio prese la S. Immagine, la mise in un paniere di vimini e la spedì per un villano alla chiesa di Poggio, ove fu consegnata al custode Don Giacinto Protti che, vedendo tanta irriverenza, non poté contenere le lacrime.

 Pochi giorni però passarono che l’arciprete fu assalito da una flussione di capo che gli si gonfiò come una testa di bue.  Per tre giorni stette senza cibarsi, ma beveva soltanto e anche bevendo si lagnava e muggiva come un bue. Questo accidente fu tenuto a lungo celato ma poi si riseppe dai suoi.

Giovanna Bergami, che teneva per gli aristocratici e come parente e cugina degli Zogoli insolentiva non solo i patrioti ma con bestemmie ed imprecazioni inveiva contro l’albero posto sulla pubblica piazza e gli lanciava anche dei sassi.  Fu accusata alla Guardia del paese ed alla polizia che accorse ad arrestarla. Fu anche fermato un ammutinamento di ragazzi che volevano abbattere l’albero e certamente ci sarebbero riusciti.  Si intese ancora che la Bergami avrebbe voluto unirsi con altre donne ed entrare con un trucco nella seduta del Consilio e, prese le armi delle sentinelle, avrebbero gettato dalla finestra il giudice di polizia.

Giovedì 9 maggio, la Municipalità cominciò a processare i sospetti partitanti degli austriaci e del papa. Fu in seguito disposto l’arresto di Serafino Ravasini, abitante nel Borgo, giovine alto, robusto, forte e capace di resistere a qualsiasi sopraffazioni. Volle fare questo arresto, il giorno 10 maggio, l’aiutante Angelo Genovesi con altri bravi della sua Civica. Ma il Ravasini nel momento che gli doveva essere notificato l’arresto, chiese al Genovesi l’ordine scritto, come prescrive la presente legge repubblicana.

Il Genovesi rifiutò, così che nacque mormorio e Serafino non si volle adattare all’arresto. Si radunarono parenti e parecchia gente in Borgo con rischio che si creasse una insurrezione. Giacomo Ravasini, fratello maggiore di Serafino, intervenne e indusse il fratello alla obbedienza. Mentre lo si stava conducendo via incontrarono il suo garzone Ottaviano Galavotti, detto il Bellino, e Natale Galavotti.  Il Bellino, giovine facinoroso, saltò in mezzo alle guardie, abbrancò il Genovesi e cacciatolo in terra gli tolse il fucile. In tale mischia Serafino, volendo fuggire, colpì un civico di nome Filippo Muzzi detto Tarmone, anch’esso uomo facinoroso, e si diede alla fuga. Mentre fuggiva il Tarmone gli scaricò alla schiena una fucilata.

 Dal rumore della Civica, rinforzata da altri civici, e dalle grida dei congiunti del Ravasini, era stato messo in agitazione tutto il Borgo. Avvenne che, per evitare spargimento di sangue, furono consigliati gli aderenti del Ravasini alla calma poiché rischiavano di rovinare loro stessi e tutta il paese. Ottenuto ciò il Ravasini non voleva altra soddisfazione che andare da sé al carcere senza accompagnamento come puntualmente eseguì.

Il cittadino Sebastiano Lugatti che aveva voluto criticare sopra tal fatto, si ebbe il giorno seguente una archibugiata da Giuseppe Oppi detto Passilo, che per fortuna fallì. Gli individui municipali, specialmente il giudice Antonio Giorgi, temevano di essere massacrati e quindi taluni di essi camminavano con sentinella al fianco.

Lunedì 13 maggio 1799, seconda festa di Pentecoste, su le ore 14 italiane della mattina Gioacchino Badiali mise il paese a rumore offrendo ramoscelli di bussolo verde[28]. Costui a quanti uomini e giovinastri incontrava per strada ne dava un piccolo ramoscello. Ad alcuni glielo faceva mettere sul capello, levando la coccarda tricolore, ad altri lo faceva porre sul petto come fosse decorazione all’uso delle donne.  Poi cominciò a gridare Viva Gesù, Viva l’imperatore e mojano li assassini!   E si portò così con una ciurma di ragazzi, donne e uomini alla piazza maggiore del Castello. Gli tennero dietro altri suoi seguaci che avendo anch’essi rami di bussolo lo distribuivano come il Badiali.

Mentre che si facevano queste cose scoppiò per accidente nel quartiere interno del Castello una archibugiata. Fu creduta una baruffa. Il Genovesi, che era nella sede della Guardia, fu di lassù portato via e, assicurato della vita dal cittadino Antonio Bertuzzi, fu accompagnato alla sua abitazione nel Borgo. Pure Giacomo Ravasini venne accompagnato alla sua abitazione nel Borgo e così fu calmato il rumore.

Nei vicini Castelli di Sassoleone, Casalfiumanese e Casola Valsenio fu levato l’albero della libertà. La mattina seguente Gioacchino Badiali con i suoi seguaci si impadronì del quartiere della Municipalità, disarmò i civici e rimase il quartiere municipale in mano della provvisoria guardia austriaca che si distingueva dal ramoscello di bossolo nel cappello. Le coccarde repubblicane furono sul momento soppresse.

Le pattuglie giravano con le coccarde imperiali. Ciò fatto i sollevati andarono a tutte le chiese del paese e fecero suonare le campane a doppio dai rispettivi campanari. Filippo Monti, viste queste novità chiese al Commissario del Potere Esecutivo di Bologna di fare pubblicamente, come una volta, le processioni del SS.mo per le strade del Castello e del Borgo e così i viatici ed altre simili funzioni. Il Commissario diede l’autorizzazione.

La prima processione che si fece fu quella della B.V. Addolorata. L’arciprete poi ordinò una processione di penitenza e invitò quindi le due Religioni francescane a partecipare a condizione che intervenissero senza la loro croce ma come clero sotto la sua. Ecco un nuovo impegno di un torbido parroco per sottoporre alla sua tirannide anche i regolari, non contento delle angustie fatte alle altre corporazioni ed a diverse famiglie del paese. Vi fu perciò un serio bisbiglio di preoccupazione nel paese. Fu detto essere questa una specie di colpo patriottico per cacciare le due Religioni, poiché l’arciprete era di sentimenti repubblicani.

Ma i frati rifiutarono e l’arciprete fece fare la processione al suo clero e ai suoi aderenti e la visita alle sole chiese ove si conserva il SS.mo.

Il presidente municipale dott. Angiolo Lolli aveva visto il paese in pericolo quindi corse a Bologna ad informare la Centrale dell’accaduto. Pendenti questi fatti, la Municipalità fece un comitato e chiamò in aiuto il tenente Gian Francesco Andrini, Antonio Bertuzzi e Giacomo Ravasini per comporre le divisioni fra li animi amareggiati ed anche per operare al bisogno. Avendo per ciò i paesani deposte tutte le coccarde francesi, la Municipalità mise fuori una notificazione con la quale ricordava l’osservanza delle leggi relative alle coccarde, che ritornarono in uso come prima.

Per evitare poi nuovi tumulti, la Municipalità ordinò altri due corpi di Guardia oltre i due che esistevano cioè uno alla porta di sopra del Castello e l’altro all’ingresso del Borgo dalla parte di Bologna.

Essendo poi venuti a parole alcuni di Monte Catone con quelli di Dozza nell’occasione delle presenti feste di Pentecoste, uno della famiglia Calacca, capo popolo patriota, litigò con uno di Monte Catone. La faccenda si aggravò e i montecatonesi riuniti riuscirono a prendere la salita del Castello dietro la Rocca. Dal vicino Monte Catone discesero molti di quei villani che, spalleggiati dal fattore dei Cavalca, vennero a Dozza in rinforzo dei suoi. Crebbe quindi il rumore, i patrioti dozzesi dovettero ritirarsi nella rocca.  Allora i montecatonesi corsero alla piazza e, preso il quartiere di quella guardia, disarmarono i civici, portarono i pagliericci in piazza presso l’albero repubblicano e l’incendiarono.

Ma poiché Dozza nelle presenti circostanze era subordinata a Castel S. Pietro, i dozzesi ricorsero alla Municipalità di Castel S. Pietro e le esposero non solo l’accaduto ma che cresceva l’insorgenza dei montecatonesi che bruciavano gli usci, le finestre, le tavole della residenza comunale e quanto credevano di spettanza municipale.

Sentito un tanto disordine la Municipalità di Castel S. Pietro, come capoluogo, intimò mediante lettera diretta al capo dei montecatonesi la partenza ed abbandono di quella terra, che non gli apparteneva, altrimenti sarebbe stato spedito un corpo di mille uomini scortato dai francesi, per abbassare l’orgoglio di quelli di Montecatone

Risposero questi negativamente e che volevano tenere la Dozza in loro potere e saccheggiarla ancora e che intanto volevano che quella popolazione li mantenesse fino a che la forza non li avesse cacciati.

A questo scopo andarono subito alla casa del cittadino presidente Nerozzi, ricevitore della cassa pubblica, e vollero l. 150 di Bologna che pretesero gli fossero pagate contro ricevuta. Quindi andarono da Don Geminiano Cassani, arciprete di S. Lorenzo, per altre l. 100. Dal prevosto di Dozza Ottavio Nerozzi vollero pane, vino, carne e tutto quello che gli venne in testa. Stettero questi aggressori tre giorni nella terra, onde i suoi agenti municipali, con gli aggiunti della Toscanella, ricorsero di nuovo a Castel S. Pietro. Castello mandò un nuovo messaggio con nuove intimidazioni e minacce.

La risposta fu che si sarebbero prestati all’abbandono della terra, qualora il comune di Dozza gli desse sei della sua guardia per accompagnamento e sei ostaggi.  Se ne sarebbero andati, per unirsi agli altri insorgenti nella Toscana, solamente la prossima domenica 20 maggio. Infine volevano che tutti i giorni fino alla partenza la Municipalità di Dozza pagasse loro due paoli a testa con la pagnotta giornaliera.

Intese queste condizioni la Municipalità di Castel S. Pietro col comune di Dozzale le approvarono e così il giorno stabilito se ne andarono.

Mentre si facevano queste cose da questa parte, la Municipalità di Lojano, carica da un po’ di tempo di truppe francesi che avevano devastato quel paese, scrisse alla Municipalità di Castel S. Pietro che le mandasse alquanti buoi per servizio di quelle truppe, stante che la Centrale di Bologna aveva così concordato.  Castel S. Pietro, che non aveva avuto alcun avviso né ordine, rispose di non potersi prestare alla richiesta.

La stagione intanto proseguiva ad essere tanto fredda che, giunti al 18 maggio, al grano spuntava appena la spiga. Si prevedeva carestia, onde il grano crebbe di prezzo e così gli altri generi, il primo da l. 10 la corba salì a l. 15, il formentone da l. 5 a l. 7, le carni bovine poi, per la libertà dei prezzi, fu accresciuta da soldi 4 la libbra a 9. Gli altri commestibili divennero tutti cari e le uova di gallina si vendettero a soldi 4 la coppia. Il danaro stava diventando scarsissimo.

Il suono delle campane per i morti, che fino ad oggi era stato soppresso, si cominciò di nuovo a farsi sentire e così pure si ricominciarono i riti di S. Chiesa nelle città.

La notte del 18, avvisati che gli insorgenti andavano in bande qua e là per fare aggressioni e bottino, mentre il sotto aiutante Gaetano Andrini con il caporale Giacomo Ravasini pattugliavano nell’intorno del Borgo incontrarono sotto il ponte del Sillaro un gruppo di 14 armati che, lì nascosti, meditavano di entrare nell’abitato. Furono costoro interpellati col solito: Chi vi è!  Non risposero. Invitati per la 3° volta invece di rispondere cominciarono a far fuoco contro la pattuglia che, bravamente rispondendo, li cacciò in fuga e ne ferì tre. Tra una parte e l’altra andarono 36 fucilate e nessuno dei nostri restò colpito quantunque li inseguissero per un lungo tratto di strada verso Castel Guelfo.

 Il comandante Capo battaglione dott. Francesco Cavazza rinunciò all’incarico per le altre occupazioni che gli erano state date.

Filippo Zogoli, di cui si scrisse sopra come uno dei capi insorgenti nel ferrarese, venendo coraggiosamente da solo da queste parti fece prigionieri due ufficiali francesi e li condusse al campo tedesco nel modenese. Crebbe tanto il suo credito che col figlio fu promosso a un maggior posto fra gli insorgenti.

Il 19 maggio finalmente, dopo una lunga sospensione dei riti ecclesiastici circa la sepoltura dei morti che si portavano alla chiesa come cani senza croce e senza lumi, si cominciò a ripristinare tutto. Questo perché si prevedevano gli avanzamenti degli austriaci, alleati coi russi, che da Milano avanzavano avendo cacciati i francesi e distrutto il Direttorio.

I primi che furono portati al sepolcro con croce e lumi furono due gemelli di sesso diverso figli di Matteo Martelli ed Orsola Tombarelli, contadini, di giorni 13. Il primo di nome Antonio Abramo e la seconda di nome Margarita. Il popolo cattolico esultò molto ed il rito fu più solenne del consueto.

Lunedì 20 un corpo di cisalpini assieme a dei civici di Imola, accompagnati da alquanti dragoni francesi, andò a Tossignano dove un capo di insorgenti si era lassù fortificato con molti suoi seguaci. Questo capo era il bargello degli sgherri di quel paese licenziato perché fedele al governo pontificio. Si faceva chiamare, per il gran seguito che aveva, il generale Santa Croce perché ovunque andava abbatteva l’albero della libertà e lo sostituiva con la Santa Croce di legno.  La squadra di cisalpini e civici intendeva ripristinare l’albero.

 Appena che furono giunti a quel confine, al suono delle campane a martello, cominciò lo scontro. Fu la battaglia così fiera che dei 112 andati lassù ne tornarono a Imola solo 14 fra quali alcuni feriti. Agli insorgenti, bene appostati, non mancò che un solo uomo. Presero poi questi un tale coraggio che vennero a poca distanza da Imola portando con sé molti seguaci. La città si prese paura e chiuse le porte anche alla rocca. Tra i morti vi restò uno di casa Zappi.

Intanto arrivò a Imola un generale francese fuggitivo da Ancona. Appena giunto fece sequestrare in palazzo il vescovo cardinale Chiaramonti, arrestò tutto il capitolo e lo mise nella rocca con alquanti nobili tenuti come ostaggi. Questo per assicurarsi da una possibile insurrezione essendo la città malcontenta dei francesi, quindi fece chiudere due porte della città e fece arrestare chiunque non avesse la coccarda francese.

Mercoledì mattina 22 maggio la Civica di Castel S. Pietro con l’ajutante Andrini Gaetano, il Presidente Angiolo Lolli e il segretario Stefano Grandi e 26 uomini, andarono alla volta di Dozza, da dove erano già partiti gli insorgenti di Monte Catone, per levare quell’archivio e trasportarlo a Castel S. Pietro, come difatti si fece. Si procedette con questa precauzione temendo che gli stessi insorgenti imboscati facessero una nuova aggressione. Ritornarono i civici col presidente con due carri di roba che fu collocata sotto chiave in questo convento di S. Francesco.

Fino ad ora erano state sospese e proibite le processioni del SS.mo fuori della chiesa. Ora però, per le rivolte avvenute nei vicini paesi della bassa Romagna e di Tossignano e Sassoleone, per evitare simili fatti a Castel S. Pietro, il 23, giorno del Corpus Domini, fu concessa la funzione pubblica con solo dodici cappati della Compagnia del SS.mo ma pure con l’intervento delle due fraterie locali. A questa funzione intervenne la Civica in uniforme, e vi fu un gran popolo con gran quantità di lumi, si videro perfino i fanciulli e le fanciulle con le candele di cera accese.

La processione andò per tutte le strade del Castello e Borgo, passò per tutti i Palazzi e, ritornata in chiesa, fu benedetto il popolo dopo il solenne Tantum Ergo. La Compagnia del SS.mo SS.to, riconoscente di tanta grazia e per non essere stata abolita la sua chiesa, cominciò la sera stessa un solenne triduo al suo Crocefisso esponendolo alla pubblica venerazione. Stette esposto all’altar maggiore tutto il venerdì, sabato e domenica 24, 25 e 26 maggio con una quantità di messe.

La sera del 26 maggio cominciò un piccolo trambusto che poi andò a terminare per l’arrivo della notte. Il presidente Lolli, mentre passeggiava in compagnia di Giovanni Inviti, Giulio Grandi e Stefano Grandi sulla strada che porta a Bologna, incontrò di là del ponte della Crocetta Gioachino Veroli figlio di Andrea, detto Romagna, con Luigi Canè che venivano alla volta del Borgo portando entrambi una piccola frasca sul capello. Il Lolli, con l’Inviti, veduta tale frasca, intimò loro di metterla via. Questi coraggiosamente risposero che, non essendovi leggi in contrario, credevano poterla portare, tanto più che anche i francesi la portavano come i cisalpini ed altri civici del Castello. Il presidente, adirato per tale risposta, sfoderò la sciabola e Giovanni Inviti strappò la frasca a Luigi Canè. Nacque uno scompiglio onde subito si allarmarono tutti gli aderenti al partito austriaco e Gioacchino Badiali, inventore della frasca, accorse e convenne al presidente ed all’Inviti nascondersi. Il Badiali e altri sediziosi cominciarono a girare per l’abitato con le armi spianate cercando liti e occasioni di battersi. Durò questa storia fino all’ora di notte italiana onde le persone amanti di tranquillità si chiusero nelle case. Tutta la notte girò il Badiali con altri aderenti in modo che la pattuglia civica non ardì pattugliare.  La mattina seguente 27 maggio, giorno di lunedì, si videro i capelli e i berretti più carichi di frasche di quanto si vedeva prima.

Il presidente Lolli e i suoi colleghi Stefano Grandi, Francesco Farnè e Luigi Cardinali fecero perciò richiesta alla Amministrazione centrale perché si riparasse a questo disordine. Fu ascoltata la istanza e perciò al nascere del sole del 28 maggio venne a Castel S. Pietro in presidio uno distaccamento di 50 militari dalla parte d’Imola. Per la metà erano civici d’Imola e l’altra metà cisalpini, che andarono alla piazza maggiore del castello e presero possesso del quartiere. Così fecero gli altri nel Borgo che si impossessarono del quartiere esistente nel locale dell’Ospitale dei Viandanti. Furono poi poste quattro sentinelle, due al quartiere della Municipalità e due al quartiere del Borgo, ciascuna di un cisalpino ed un civico.

Queste cose accadono perché le autorità locali sono guaste e di semente cattiva, per cui si può dire col Poeta mantovano Infelix lolium et steriles dominantur avenae[29]

Però mio figlio è stato fortunato in questa crisi poiché rinunciò in tempo all’incarico di capo battaglione. Se non l’avesse fatto allora, adesso non sarebbe stato possibile essendo stata proclamata una legge per cui nessuno può più rinunciare alle cariche militari, stante i movimenti degli austriaci ed il numero degli insorgenti che cresceva ogni momento.

Il 29 maggio su le ore 14 italiane giunse dalla parte di Roma un altro corpo di 80 francesi, fra i quali vi erano alcuni dragoni, e 100 cisalpini che si stabilirono a presidio della nostra piazza per le giornaliere battaglie e scontri con gli insorgenti nella Romagna da dove si sentivano cannonate e notizie dei loro progressi. Da Budrio si approssimavano insorgenti, nella Romagna avanzavano i napoletani, Ravenna era già occupata da anglo-russi e maomettani e Castel bolognese, sebbene presidiato, viveva in sospetto.

A Castel S. Pietro furono arrestati molti paesani che avevano portato la frasca nel capello il giorno del tumulto eccitato da Gioachino Badiali.  Furono portati nel corpo di guardia, dove stettero dalle ore 10 italiane fino alla sera e poi furono rilasciati. Rimase solo in arresto Giuseppe Ghetti fu Giuseppe, giovine di alta statura, ben messo e valoroso che, avendo tentata la fuga, fu maltrattato con la sciabola e su le 22 italiane del giorno seguente fu condotto da 50 polacchi a Imola. In questo momento giunsero dalla Romagna 100 francesi che albergarono nel palazzo Locatelli.

Il paese si trovava per ciò guarnito di 800 armati tra civici, piemontesi, polacchi e francesi. Misero la guardia alla porta di sopra con un corpo di soldati, un’altra con una squadra nella via romana alla Crocetta, un altro picchetto di soldati al ponte sopra il canale presso la tintoria, un altro nell’ingresso del Borgo al Portone poco distante dal quartiere dell’Ospitale, in modo che tutti gli inizi delle strade erano guardate.

Tutta la notte altro non si sentiva che Chi vive! ed Altò! parola francese che equivaleva al nostro Chi va là! poiché che dalla Romagna per Bologna passavano cariaggi, birocci e carrozze. Passò anche un generale con altri ufficiali dello stato maggiore. In seguito sloggiò anche la truppa che era qui e restarono solo i civici.  Per questa impensata fuga il dottor Lolli fuggì senza sapere dove andare. Fuggirono di notte tempo anche altri patrioti temendo della vita. Rimpatriarono poi la mattina seguente ma per poco.  La notte del 30 andando al 31 maggio fuggirono i patrioti più fanatici e furono Antonio Sarti, Giuseppe Oppi detto Pussolo, Lorenzo Alvisi,

e andarono a Bologna.

Dopo la loro partenza si seppe che avevano macchinato un tradimento contro i buoni e probi cittadini. L’intenzione era di fare fucilare otto paesani come ribelli cioè Giuseppe Ghetti, Giulio e Gaetano Andrini, padre e figlio, Gioacchino Badiali, Luigi Lasi detto Majolino, Luigi Bertuzzi detto Pistolino, Ottavio Galavotti detto il Bellino, Giacomo Ravasini ed altri.  Ma la cosa progettata non riuscì, perché questi, che avevano presagito la trama, erano fuggiti. Avevano anche intenzione di saccheggiare le case di sei famiglie cioè gli Andrini, Nicola Manaresi, i fratelli Lugatti e la mia famiglia, quella di Carlo Conti e del notaio Francesco Conti.

Avevano pure fatto un elenco 40 persone da mandare ai ferri per alquanti mesi per essere del partito aristocratico e ciò a piacimento del generale Usurò.

Le persone segnate erano i fratelli Don Luigi e Giuseppe Sarti, Francesco Giordani, Francesco di Lorenzo Conti, Ercole Cavazza, Carlo Conti, Gio. Francesco Andrini, Sebastiano Lugatti, Nicola Manaresi, Luigi Farnè detto Bevilacqua, Ignazio Farnè, Luigi Musi detto Sbargnocola, Antonio Mingoni detto Pighino, Filippo Monti, Luigi Mazanti, Benedetto Rossi, Nicola Bertuzzi, Giovanni di Pietro Conti, Carlo Bettazzoni, Antonio Bertuzzi, il Padre Benvenuto da Bologna guardiano dei M. O. di S. Francesco, Nicola Dalla Noce ed altri. Ma la congiura fallì poiché, dopo che il presidente Lolli aveva spedito questa lista di persone nascostamente al generale, la truppa francese se ne andò non poté così avere il suo effetto.

Giugno 1799

Ritorno di Badiali con truppe tedesche. Paese sprovvisto di autorità locali. Incertezza su arrivo insorgenti o ritorno francesi. Presidente Lolli ritorna ma non rimane. Arrivano 12 dragoni tedeschi, abbattono l’albero. Tornano i francesi e arrestano Cavazza e altri tre e li portano a Imola. Molti castellani se ne vanno dal paese. I nostri civici fanno prigionieri 13 dragoni tedeschi e li portano a Bologna. Tedeschi minacciano di spianare Castello a cannonate. Chiesto intervento cardinale di Imola Chiaramonti. Grave scontro con uccisione di 5 militari tedeschi. Ritorsione tedeschi e insorgenti. Saccheggio del paese con minaccia di incendiarlo. Bruciato l’archivio. Austro-russi a Bologna.

Gioacchino Badiali che era fuggito e si era arruolato nella insorgenza sotto la protezione degli imperiali, tornò alla sua casa su le ore 17 italiane avendo con sé della truppa tedesca. Al suo arrivo si commosse tutta la popolazione del paese al grido di Viva il Papa! Viva l’Imperatore! I sostenitori dei francesi si nascosero e in parte fuggirono. Poco dopo arrivarono dal campo tedesco Ottaviano Gallavotti detto il Bellino, Luigi Bertuzzi detto Pistolino, Nicola Bertuzzi e Giacomo Ravasini. Avevano in capo la coccarda tedesca inquartata con la papale e nuovamente la frasca.

Più non si sentirono cantare gli inni patriottici, né Viva la Libertà!Morte ai tiranni! ma bensì altre cantilene fra le quali le seguenti

Bella coccarda cambia colore

morte ai francesi, viva l’imperatore

A questa se ne aggiunse un’altra cantata dalla ciurma bassa e dalla plebaglia in dialetto bolognese cioè

Viva’l Papa e l’imperator

Viva ‘l fornar e l’brictador

Viva l’ortlan con ‘l radis

per piantarli da dri ai francis

Perché erano fuggiti anche l’agente municipale Francesco Farnè e Luigi Cardinali, aggiunto della Municipalità, il paese rimase sprovvisto di ogni autorità locale.

Per questo il vicecomandante Antonio Barbazzi, che era rimpatriato, surrogò provvisoriamente in quella i cittadini Giovan Francesco Andrini e Sebastiano Lugatti, detto il Romano. Si procedette così perché si attendevano a momenti i tedeschi da Imola, accompagnati da un buon numero di insorgenti. 

La notte seguente che fu il giorno primo di giugno furono dai nostri civici sequestrati tutti i capitali e i commestibili del fuggito presidente Lolli, il quale aveva già precedentemente mandato la moglie a Bologna e la famiglia a Medicina.

Acclamando l’Imperatore ed il Papa i ragazzi del paese corsero alla piazza a insultare con parole e sporcizie l’albero e a tirar sassi ai trofei repubblicani ad esso appesi.

La mattina del 3 giugno si videro affissi ad alcune case dei principali patrioti e cioè di Francesco Farnè, di Antonio Giorgi, del Lolli ed altri i seguenti versi in cartelli scritti a mano

Libertà fra le catene,

eguaglianza nelle pene

Relligion de Giacobini

Fratellanza d’assassini

or godete, o malandrini

L’arciprete Calistri partecipante e simpatizzante patriota, vedendosi a mal partito per tanta novità, si raccomandava a chiunque del buon partito aristocratico per non essere danneggiato per i suoi traffici praticati contro il diritto e la ragione. Gli Andrini poi mandarono alcuni subito ad Imola a chiamare i tedeschi ma non vennero perché erano andati a prendere Faenza. Il presidente Lolli, Francesco Farnè e Luigi Cardinali, erano fuggiti a Bologna, a loro tennero dietro Domenico Grandi, Ercole Bergami, Giuseppe Oppi, detto Guffolo, Filippo Muzzi, detto Tarmone, Antonio Sarti, i tre fratelli Camillo, Gaetano e Ladislao Amadesi detto Laino, Agostino Piacenti, Lorenzo Alvisi e con essi altri patrioti per paura di essere arrestati dagli insorgenti e dai partitanti volontari dell’imperatore. Giunti a Bologna fecero tutte le istanze possibili per non essere molestati nella roba e nella persona.

Sabato primo giugno, ribolliva sempre più la voglia di vendetta del paese contro i patrioti e, poiché si trovavano a Bologna tutti i componenti della Municipalità, il paese si avviava verso una estrema anarchia. Si radunarono per ciò nella casa municipale i cittadini Sebastiano Lugatti, il tenente Giovan Francesco Andrini, Antonio Bertuzzi, Giacomo Ravasini col segretario Stefano Grandi. Prevedendo la rivalsa degli insurgenti di Romagna che stavano per entrare nel nostro abitato, fu proposto una contribuzione per quietarli, da addossarsi ai paesani. Fu invitato alla suddetta riunione Antonio Giorgi, giudice di pace, perché anch’esso si impegnasse. Rifiutò di presentarsi e tutto rimase sospeso anche perché sembrava che si stessero avvicinando i francesi dopo avere saccheggiato S. Giovanni in Persiceto e aver massacrato 800 persone col cannone a mitraglia.

Il presidente Lolli di ciò informato, ritornò in patria e minacciò di processare 43 famiglie. Però non rimase poiché avvisato insolentemente che stavano arrivando gli insorgenti, al volo se ne tornò via e buon per lui che se restava era sicuramente arrestato. Infatti la sera dello stesso giorno, che fu la domenica 2 giugno, su le ore 22 italiane, giunse da Imola un picchetto di dodici dragoni tedeschi, vestiti di color verde chiaro e busta nera in capo, accompagnati da alquanti mascalzoni a piedi. Entrarono in Castello dopo aver preso il Borgo e poste le sentinelle a tutti i capi di strada. Corsero alla piazza poi alla casa municipale ed al quartiere dei civici, ove non ebbero alcuna ostilità. I paesani non si mossero e i pusillanimi si ritirarono nelle chiese e nelle proprie case. Cercarono i componenti la municipalità ma perché il presidente Lolli con il Farnè e il Cardinali erano a Bologna non trovarono che il segretario Stefano Grandi.

Chiamato nella residenza municipale, non potendo da solo far fronte all’urgenza, chiamò in aiuto i cittadini Antonio Bertuzzi, Gianfrancesco Andrini e Antonio Giorgi, giudice attuale, per quietare gli insorgenti. Si interpose anche il cittadino Sebastiano Lugatti, che calmò gli insorgenti che chiesero un beveraggio e l’ebbero. Ciò ottenuto corsero all’albero e lo oltraggiarono, poi andarono alla casa del cittadino Giulio Andrini nel Borgo, non si sa il perché, e trovate solo donne punirono questa casa per trenta scudi. 

Ercole Bergami, detto Scalfarotto gran patriota, si era nascosto, così fu multata sua moglie che pagò 40 scudi. I figli del fattore Domenico Grandi pagarono a testa l. 6 e quanti avevano la coccarda francese furono spogliati della stessa con contumelie. Quando andarono all’albero per abbatterlo non trovarono alcun castellano disposto ad aiutarli. Dopo averlo abbattuto, ritornarono alla casa municipale e da lì portarono via due bandiere repubblicane, alcuni fucili e un tamburo, poi partirono per la Romagna ad unirsi agli altri.

Lunedì 3 giugno, avanti giorno, arrivò dalla parte di Bologna il generale francese Holin, senza strepito di tamburi, piantò un cannone sul ponte del Sillaro rivolto al Borgo e Castello ed un altro cannone nella piazza dei bovini. Quindi chiamò il segretario municipale Stefano Grandi gli ordinò che in meno di un’ora fosse inalberato un nuovo albero repubblicano, poi rinfrescò la truppa e la cavalleria che aveva con sé. Ciò fatto mandò a circondare con le sue guardie e i nostri civici nostri le case di Francesco Giordani, di Carlo Conti, la mia, quella di Gio. Francesco Andrini e del Sarti che però era fuggito. Quindi furono presi in ostaggio solo i suddetti quattro. Fummo caricati su un legno condotti a Imola alla piazza pubblica dove era tutto l’armamento francese.

Quivi si fucilarono sette poveri sventurati imolesi che erano fuggiti per timore e furono creduti insorgenti. Aspettavamo noi altri quattro l’avviso di essersi sottoposti alla fucilazione, ma un affare di maggiore rilevanza calmò l’ira e il furore del terrorista Holin. Rimanemmo così nella piazza ad aspettare il nostro destino fino al mezzogiorno, ben guardati e senza sapere il nostro reato e la nostra sorte.

Finalmente fummo condotti nel quartiere civico ed introdotti nel palazzo municipale senza cibo e guardati da sentinelle fino all’Avemaria. Per nostra fortuna da Castel bolognese giunse l’avviso che quel paese era in insorgenza e si combatteva onde Holin corse subito a marcia forzata verso quel paese e noi restammo affidati al capo battaglione d’Imola che fortunatamente era il cittadino Domenico Antonio, figlio di Rocco Andrini, cugino del Gian Francesco ostaggio assieme a noi. In mezzo in quel scompiglio che c’era nella città fummo portati nel convento di S. Domenico, ben guardati da sentinelle. La mattina seguente fummo trasportati a Bologna, dove dopo averci fatto girare la città in un legno fummo posti nella Casa di S. Ignazio già dei gesuiti nel Borgo della Paglia.

La sera dello stesso giorno fummo condotti nel convento dei Padri de’ Servi in strada Maggiore e dati in consegna alla guardia civica di Bologna dove erano molti nobili bolognesi, senatori, canonici e perfino mons. Lauri, vicario generale del vescovato.

Nel tempo che seguì il nostro arresto, fu sconvolto tutto il paese. Espatriarono in molti e fra questi Giulio Andrini, Gaetano e Vincenzo suoi figli, Luigi Farnè detto Bevilacqua, Felice Farnè ed Antonio suo fratello, Sante e Gaetano Giorgi, tre fratelli andarono per loro sicurezza a Castel del Rio, Sebastiano Lugatti. Altri si unirono agli insorgenti e furono Angiolo Visibelli, Pietro Alvisi, Giuseppe Noni, Gioacchino Badiali e Ottaviano Galavotti, detto Il Bellino e loro capo fu Luigi Musi, detto Sbargnocola. I seguenti poi si sparsero per la campagna: Antonio Mingotti, detto Pighino, Luigi Bertuzzi, detto Tistillino andò nel ferrarese. Furono invece arrestati e condotti a Bologna Don Luigi Sarti col fratello Giuseppe, speziale, Andrea (?) detto Il Toretto con Pietro (?) detto Maranga, Nicola Bertuzzi e Giuseppe Farolfi, detto Bocchino per il labbro leporino e Luigi Bergami detto Boldrina. Il cittadino Ravasini e il fratello Serafino, Pietro Alvisi, detto Naso di ottone, e Giovanni Cella andarono nel veneziano.

Non ostante queste fughe, Antonio Sarti ed Agostino Piacenti, famosi patrioti, benché sapessero che i probi cittadini Sebastiano Lugatti e Antonio Bertuzzi erano fuggiti, andarono nelle loro case a scompigliarle fingendo di non sapere la loro fuga.  Andarono anche con questo pretesto al convento dei Cappuccini, dove erano quattro buoni religiosi, perlustrarono tutto il convento e suoi ripostigli suggerendo che qui vi fossero dei fuggitivi e minacciarono di incendiare il loro convento se non gli consegnavano qualunque aristocratico avessero.

Non avendo trovato alcuno, questi due accaniti manigoldi si portarono immediatamente al convento di S. Francesco ove, non trovando alcun ricercato, intimarono d’ordine della Municipalità al guardiano Padre Benvenuto di Bologna di dovere sloggiare nel termine di 12 ore sotto pena di arresto e fucilazione. Egli tosto partì né si poté intendere quale fosse stato il suo reato.

Il generale Holin che era in Imola partì e il giorno 7 andò a Bologna e lasciò un distaccamento di 100 cisalpini in guardia del nostro Castello dove restarono fino a mercoledì 12 giugno e da dove condussero Nicolone Bertuzzi, Bocchino ed Angiolo Visibelli alle carceri.

Nel mentre che questa truppa stava in Castello, i civici, che avevano il quartiere nella casa municipale, fecero alquante bombardiere nella parete dell’orto che guarda la piazza del Castello. In casa mia in questo tempo alloggiarono quattro ufficiali cisalpini.

Gli insorgenti della Romagna, venuti ad Imola accompagnati dai tedeschi, fecero una scorreria al nostro Borgo ed entrati in Castello giunsero al quartiere della Municipalità dove portarono via 26 fucili. In questo tempo mi fu incendiata in campagna una casa detta l’Olmo, nel territorio di Dozza, dove fu distrutta la stalla, il fienile, una porzione di casa e il portico.

Il governo del nostro Castello al presente era affidato al cittadino dott. Angiolo Lolli, Francesco Farnè e Luigi Cardinali detto Scagliola. I governanti della Civica erano Antonio Sarti capo battaglione, Agostino Piacenti suo aiutante, ufficiali i fratelli Camillo, Gaetano e Ladislao Ronchi, Luca Giorgi e Giuseppe Oppi detto Gussolo.

Il 12 giugno erano venuti 13 dragoni tedeschi nel nostro Borgo ad esplorare. I civici fecero alt!  e tanto fecero che li presero in mezzo e, fatti prigionieri, li disarmarono e li condussero arrestati al quartiere. La mattina seguente furono condotti ambiziosamente prigionieri a Bologna al campo francese e furono accompagnati dal generale francese Holin e dal comandante della piazza Manuir. Furono ricevuti dai bolognesi e francesi con letizia e fra gli evviva.

Tosto furono venduti all’incanto i cavalli e il ricavato, di 300 scudi, fu ripartito tra i nostri civici che erano in numero di 18. Restarono al generale solo le carabine, le sciabole e le giberne. Tra i nostri civici c’era Ciriaco Bertuzzi figlio di Nicola Bertuzzi, detto Nicolone, che era in mano dei francesi come insorgente. Questi chiese la grazia della vita per il padre e fu accontentato. La sera stessa furono condotti a Bologna altri due cavalieri tedeschi prigionieri e furono premiati i civici che li avevano arrestati e furono Antonio Curti detto Brasula e un certo detto Capannino ambedue cognati del Marchi.

Questi fatti produssero una amarezza tale nei tedeschi che fu minacciato il paese di saccheggio ed anche di uno spianamento del Castello e del Borgo. Molte famiglie del paese espatriarono, portando con sé ciò che potevano mentre si diceva che a momenti sarebbero arrivati gli imperiali, oppure gli insorgenti. Chi emigrava nella vicina Romagna, chi al monte, chi a Bologna. Le principali famiglie che emigrarono furono i Lugatti, Pietro Ronchi detto Marmino, Celso Manaresi, Andrini, Bertuzzi Giacomo ed Antonio, Giorgi, Conti, Bertazzoni, Grandi Stefano e Grandi Domenico, fattore dei Barnabiti e gran patriota, la vedova Maria Graffi, la mia famiglia, Conti di Lorenzo, Trochi Lorenzo, il chirurgo Giordani, Sarti, Lolli ed altri per modo che il paese era praticamente evacuato avendovi tenuto dietro anche l’arciprete, che aveva chiuso la chiesa.

Siamo alla metà di giugno e la stagione fredda ancora domina la campagna, la pioggia continua e i frumenti e gli altri seminati sono colpiti da una tale umidità che abbattuti, non possono risollevarsi e si teme carestia. Il grano si vende a 36 paoli la corba.

Il comandante tedesco che era nella bassa Romagna, avuta notizia dell’arresto fatto dai nostri civici, subito tolse il campo e con 300 uomini si diresse al nostro Castello per vendicare l’ingiuria fatta a suoi militari. Giunto alla Toscanella si mise in ordine per battere il nostro paese con il cannone.  Lo raggiunse una staffetta con l’ordine di dirigersi a Ferrara dove stavano arrivando i francesi da ogni parte, per ciò rivolse la truppa da quella parte, rimanendo però egli a Imola.

Visto il pericolo i nostri paesani mandarono messi al vescovo d’Imola cardinale Chiaramonti, affinché si interponesse presso quel comandante per il perdono. Furono questi Rocco Andrini, Antonio Magnani e Camillo Bertuzzi che operarono destramente facendo constatare che l’arresto era stato effettuato dal capo battaglione Antonio Sarti, dal suo aiutante Piacenti assiema a Ciriaco Bertuzzi, Luca Giorgi, Filippo Dalla Noce, Giuseppe Capelletti, Antonio Amaduzzi ed altri scapestrati non già dai buoni cittadini, i quali anzi abborrivano e deprecavano gli aggressori. Ascoltò il comandante i messi col cardinale, ma non assolvette i malandrini rimandando la decisione. Arrivata un’altra staffetta con l’ordine di doversi portare con tutta la sua forza a Ferrara dove i francesi stavano intervenendo, si diresse là con tutti gli insorgenti.

I patrioti s’animarono e si misero ancora di più contro le persone probe del paese e massime contro il partito aristocratico, onde alcuni fuggirono, fra i quali il cittadino Antonio Bertuzzi.

Questi si diresse verso il veneziano e quando fu a Cento fu creduto una spia francese per cui fu arrestato e condotto in quella città ad occhi bendati.  Il popolo centese vedutolo gridava Alla morte! alla morte! Ma portato in cella fu interrogato e giustificò la sua fuga, non che la qualità del suo grado. Fu rilasciato dopo tre giorni da Cento ma fu condotto prigioniero a Ferrara per sentire il parere del generale tedesco.

In questo mentre fu arrestato dai nostri civici l’ospitaliere Lorenzo di Mattia Andrini per il sospetto di essere l’organizzatore di un saccheggio. Si diceva che aveva la lista delle famiglie del partito francese e patriottico da saccheggiare.  Il sospetto era fondato sul fatto di avere servito per molti anni nella Marca e Romagna da militare al soldo pontificio e perché conosceva molti degli insorgenti di Romagna.

A Bologna il segretario municipale Stefano Grandi fu arrestato dai francesi per avere capitolato con gli insorgenti la seconda volta che vennero a Castel S. Pietro la sera del 2 giugno.

Il 17 di questo mese a Imola gli insorgenti arrestarono tutta la Municipalità creata dai patrioti e la condussero a Ravenna. Lo stesso avvenne a Faenza dove furono arrestati 17 ex nobili e portati via.

La mattina del 20 giugno gli insorgenti andarono fin sotto le mura di Bologna in buon numero, parte a cavallo e parte a piedi ed alla porta S. Vitale ve ne andarono in 250. La Civica della città ed il generale Holin,

che là risiedeva, andò subito con 30 cavalli, i civici e 60 piemontesi, fuori strada Maggiore per battersi ma quelli si erano già ritirati al ponte di Savena col comandante tedesco e alcuni dragoni.  Quindi, vedendo crescere la truppa francese, si ritirarono e vennero a S Lazzaro sulla via romana dividendosi poi parte per la via di Medicina e parte alla volta di Castel S. Pietro ove arrivarono al Borgo alle ore 20 italiane.

Ciò fu previsto dai civici che corsero subito all’armi.  Il capo battaglione Antonio Sarti, alla testa della guardia, gli si fece incontro prima che entrassero nell’abitato chiedendo a quel comandante tedesco chi fosse e cosa volesse. Rispose il tedesco, di nome Lituarez, essere un ufficiale imperiale e che voleva sul momento mille scudi di contribuzione dalla Municipalità. Rispose il capo battaglione non essere ciò possibile. Il tedesco minacciò di fare fuoco e di saccheggiare il paese. Il Sarti coraggiosamente rispose che prima che ciò avvenisse lui aveva tremila uomini da sacrificare al suo comando e che quindi provasse a metterlo alla prova.  

 Infatti i civici castellani e borghesani presero posizione e cominciò una baruffa. Al battere del tamburo si radunarono i civici con le armi e, animati dal giudice Antonio Giorgi, fecero fuoco e andarono molte fucilate. I villani che erano al quartiere dell’Ospitale nel Borgo abbandonarono il loro posto e fuggirono in modo che restarono nella battaglia solo i civici.  A questo punto il Lituarez riuscì ad entrare col cavallo nell’abitato ove però restò in mezzo al fuoco con i suoi tedeschi a piedi ed a cavallo. Ricevettero fucilate da Antonio Inviti che sparava da una finestra della porta del Castello. il Lituarez, vedendo la mala parte e trovandosi esso stesso in pericolo, prese la strada di S. Pietro con la velocità del suo cavallo ed andò alla volta della via romana. Perdette i nemici.

 Durò quattro ore il fuoco e la mischia maggiore fu per avere la porta del Castello. Cosa che non riuscì e rimasero sul terreno morti 5 militari tedeschi.  Gli altri avendo veduta la fuga del Lituarez e sentendo crescere il rumore fuggirono saccheggiando. Maltrattarono le famiglie e le case di Giulio Andrini e del capitano Pier Andrea Giorgi. Dei civici nessuno restò ferito perché erano al coperto e facevano fuoco dalle case.

 Terminata la baruffa furono caricati in due carri ed un biroccio i feriti e portati a Medicina in quell’Ospitale per essere curati. Le spoglie degli uccisi toccarono ai civici. Il bagaglio militare fu portato a Medicina in un carro. Le sentinelle che erano sulle mura dalla parte dei cappuccini, abbandonarono il loro posto e vennero alla porta del Castello per assalire gli insorgenti che tentavano ancora di entrare. Questi che erano respinti e che vedevano essere ben difeso il paese spedirono messi ad Imola per avere soccorso. Furono però subito spediti avvisi anche a Bologna affinché il generale Holin mandasse aiuto.  Immediatamente spedì 300 francesi e piemontesi a Castel S. Pietro, già liberato da quell’attacco.

Il rinforzo arrivò la mattina seguente e fu presidiato il Castello e il Borgo da 200 di quelli e cento ne furono spediti a Medicina. Qui si fecero consegnare quegli insorgenti feriti che non avevano potuto andarsene dall’Ospitale e li fucilarono. Fatta l’operazione ritornarono a Castel S. Pietro ove erano rimasti due feriti, un faentino bel giovane ed un forlivese. Per ordine del presidente Lolli furono trasportati fuori dall’Ospitale e fucilati.

I francesi stettero alla guardia di Castel S. Pietro fino a domenica 23 poi tolsero il campo e andarono a Bologna, lasciando così indifeso il paese. Il presidente Lolli, vedendo il pericolo per la vicinanza degli insorgenti di Romagna, andò di volo dal generale Holin chiedendogli di difendere il paese. Il generale ordinò che si fortificasse il Castello con palancati e barriere e che si rimettessero le porte. Fu contemporaneamente spedito a Bologna in ostaggio Nicola Farné, locandiere alla Corona ed io dopo tre giorni, il 26 giugno, fui liberato per grazia ottenutami dal presidente, perché mio figlio era stato per il passato capo battaglione. Tennero ancora a Bologna molte donne del paese arrestate e non si seppe la ragione.

Seguì un’altra scorreria di insorgenti da Imola al nostro Castello con lo scopo di prendere Antonio Giorgi, giudice interinale del paese, per avere ingannato il Lituarez e sollecitato i paesani a sparargli contro. Il Giorgi avvisato se ne fuggì dal paese attraverso la montagna verso Bologna dove stette fino al 30 giugno.

Antonio Sarti e Agostino Piacenti, suo aiutante, per il buon comportamento avuto nella baruffa furono chiamati dal generale Holin e furono premiati con l’assoldarli nella truppa francese, in una nuova guardia di dragoni a cavallo e furono entrambi fatti caporali.

Floriano di Flaminio Fabbri, che era capitano degli artiglieri in Milano, era stato fatto prigioniero dai tedeschi nella presa di quella città. Era stato condotto a Modena e, prevedendo di essere trasportato in Germania, fuggì da Modena e venne a Castel S. Pietro.  

Da qui di giorno in giorno se ne andavano famiglie, perché i tedeschi minacciavano il bombardamento del paese a motivo della passata baruffa. Tutti noi non si aspettava altro che succedesse lo spianamento.

La vigilia di S. Pietro che era il venerdì 26 giugno vennero dalla parte di Romagna diversi dragoni tedeschi con un grosso numero di insorgenti. Occuparono la parte del Borgo e Castello che era stata quasi evacuata, furono presi in mezzo quei pochi abitanti rimasti, tutta povera gente, indi cominciarono a saccheggiare.  Furono danneggiati fra gli altri e più volte Paolo Farnè per l. 500. Ercole Cavazza per più di mille, mentre trovandosi tutta la famiglia a Bologna rimase la casa a discrezione e piena libertà dei malfattori. L’arciprete Calistri per l. 300, Francesco di Pietro Conti per l. 200, Stefano Grandi per l. 200, Camillo Bertuzzi per l. 300 e tanti altri di cui ne ha fatto l’elenco Il cittadino Gianfranco Andrini anch’esso maltrattato. Dal venerdì fino al lunedì mattina durò l’orrida scena per cui fuggivano le persone dai manigoldi insorgenti. Furono caricate 83 carri di suppellettili, robe e capitali senza contare i commestibili e i danari. Tutto fu portato nella vicina Romagna e venduto a Imola, Faenza, Forlì, Lugo ed altri luoghi.

Era stata pure presa la decisione di incendiare il paese. Venne di ciò a conoscenza Don Vianello Bragaglia che faceva le veci dell’arciprete Calistri che, essendo un buon giacobino, col suo cappellano D. Francesco Landi, era fuggito per garantirsi la vita. Il Bragaglia chiamò il clero regolare e secolare, fece innalzare sul momento la croce e con la S. Immagine del Rosario andò ad incontrare il comandante tedesco e tanto pregò ed implorò che ottenne la grazia che fosse evitato il fuoco. L’orrore del tragico cambiamento, la rovina delle robe, la distruzione dei beni a probi cittadini formava lo sfondo della scena.  Non si perdonava ad alcuno, nemmeno ai poveri frati francescani, da cui queste pestifere genti volle cento lire di Bologna altrimenti avrebbero portato via le sacre suppellettili e gli argenti essendosi impossessati del convento e della sagrestia.

I paesani più perfidi si unirono alla furente orda che distruggeva ciò che non poteva trasportare. Le vetriate, i serramenti, i metalli ed altre cose non furono risparmiati. Il mal peggiore lo facevano i locali che insegnavano ai saccheggiatori le cose e le famiglie ove sfogare la loro avidità e la loro rabbia.

Furono bruciate tutte le carte della Municipalità, le leggi repubblicane ed anche i libri di contabilità, per cui si sono perduti molti importanti e storici documenti. Ciò che successe nell’archivio municipale accadde ancora ad altri ed a me pure, che avevo il proseguimento della storia del Vizani da me raccolto, con molti autentici documenti attinenti al capitolo di S. M. Maggiore di Bologna. I loro frammenti con altri manoscritti sono testimoni e reliquie della furibonda rabbia dell’insorgenza. Ho avuto distrutte stampe di libri rari, altri mutilati e scompagnati per cui posso affermare di avere avuto un danno per 40 zecchini. Mi hanno lasciato una lacrimevole memoria, ma poi raccontare il nostro tumulto non è possibile.

Il bollettino titolato: Avvenimenti politici, eclesiastici, militari e civili di Bologna e suo territorio dall’ingresso della vittoriosa truppa austro russa accaduto li 30 giugno 1799.[30] indica ma laconicamente questa vicenda nel modo seguente:

 Castel S. Pietro non era tranquillo, collà per opera di pochi fu fatta in addietro ressistenza ai soldati imperiali, ne derivò la fatale conseguenza di un saccheggio. Caduta Bologna e stabilito il governo austriaco li abitanti di Castel S. Pietro fremevano apertamente contro li autori della loro sciagura. Due sogetti principalmente presi di mira dall’astio universale come li sig. Lolli e Giorgi, l’uno pressidente della Deputazione e l’altro Giudice locale, che la Regenza stimò opportuno di sostituire loro altri sogetti più felici nella politica stima comune. Il sud. Lolli aveva già spontaneamente richiesta la propria dimissione. La nomina cadde a favore del sig. Antonio Bertuzzi per la carica di Presidente e di Ercole Cavazza per quella di giudice. Il Paese applause la scelta ed il fremito pericoloso cessò.

Gli insorgenti furono poi tosto mandati via.

Luglio – Dicembre 1799

Cavazza liberato torna con famiglia a Castello. Reggenza austriaca nomina nuove autorità locali. Arresti di filofrancesi. Ordine di continuare a pagare le tasse imposte dai francesi. L’arciprete Calistri che si era nascosto a Bologna, ritorna. Rivolta contro l’ex giudice di pace Antonio Giorgi tornato in paese. Reintegrazione municipalisti in carica nel 1796.

 Presa Bologna dagli imperiali, io restai libero per grazia ottenuta dal Comandante della piazza da cui ne ebbi l’ordine.

Furono gettate le coccarde repubblicane e sostituite con le imperiali di color giallo e nero. Gli ostaggi che erano ancora detenuti nel convento dei Servi fuggirono nel tempo che i tedeschi entravano. Fu subito atterrato l’albero nella città. Lo stesso avvenne a Castel S. Pietro ed in altri luoghi ove si fecero grandi festeggiamenti. Perché per l’ingresso degli austriaci non accadessero nella città dei disordini fu emesso un proclama e altri provvedimenti.

Quando il 4 luglio rimpatriai con la mia famiglia, non riconobbi più essere Castel S. Pietro la mia patria. Era spogliato di persone, di robe e spirava lutto ed orrore. Furono subito mandati qui dei tedeschi, i quali nominarono nuove autorità col nome di Reggenza. Furono nominati Luigi Fantuzzi, Giacomo Ravasini, Lorenzo Trochi, Luigi Masi ed Antonio Magnani. Questi fecero chiudere le bombardiere fatte dai patrioti nella parete della Casa municipale, nell’Ospitale in Borgo ed in altri luoghi dei civici. Fu ordinato dalla nuova Reggenza che si portassero tutte le armi nella Casa municipale.

Il rimanente delle carte repubblicane che erano nell’archivio municipale furono bruciate, onde nessuno potesse ristampare alcuna cosa. La stessa giornata del giovedì 4 luglio, giunsero in paese alquanti dragoni tedeschi condotti dal capitano Schifer.

Questi andarono alle case dei civici da cui era stato sparato contro di loro per incendiarle.

 Le case furono quella di Nicolò Giorgi nel Borgo ove erano state sparate archibugiate durante la baruffa. Egli non ne aveva colpa, essendo fuori dal paese con la famiglia. Ciò non ostante suo figlio Giuseppe fu arrestato e messo nei Camerini[31] del Borgo. Alla casa di Antonio Inviti furono messe fascine per darle fuoco, ma fu risparmiata dalle nuove autorità perché l’incendio si sarebbe propagato negli edifici vicini, i cui padroni erano innocenti.

Furono arrestati Camillo Ronchi, Zeffirino Sassatelli, Luca Giorgi, Luigi Castellari detto Bandella ed altri e condotti a Bologna. La sera stessa furono prese in nota, visitate e sequestrate con tutti i beni le abitazioni dei fratelli Gaspare ed Antonio Sarti, quelle di Antonio Giorgi, giudice, che aveva sollecitato i civici a fare fuoco e quella di Domenico Grandi, tutte nel Castello. Nel Borgo furono quella di Francesco Conti fu Pietro e quella di Filippo Conti. L’arciprete Calistri, presentendo tutte queste cose, si nascose a Bologna. Accaddero molte altre cose che lungo sarebbe stare a commentarle.

In questa contingenza si videro fuori molte stampe allusive alla cacciata dei francesi ed alla soppressione della repubblica. Fu ancora replicato per stampa il bello epitaffio in versi già composto nello scorso aprile che ci piace qui riscriverlo per la sua venustà e lepidezza:

Qui giace una Repubblica

già detta Cisalpina

di cui non fu la simile

dal Messico alla China

I ladri la fondarono

i pazzi la esaltarono

i saggi la esecrarono

i forti l’ammazzarono.

In questo sol mirabile

carogna non più udita

che non puzzò cadavero

ed appestava in vita

Nell’occasione del saccheggio dei paesani malandrini avevano profittato della circostanza per rubare anche loro.  Si fece sapere a costoro che dovevano restituire le robe ai proprietari, ma pochi lo fecero.

Il generale tedesco Gril, residente a Bologna, ordinò che le autorità passate tornassero provvisoriamente alle funzioni del loro istituto. Fu in tale frattempo fu arrestato Antonio Giorgi, giudice di pace, a motivo della animosità avuta contro i tedeschi. Fu messo nel quartiere civico del Borgo, ben guardato, siccome non parve cosa ben fatta lasciarlo entro la casa agli arresti domiciliari.  Il sabato sera, 6 luglio, fu posto agli arresti nei camerini dove stette fino al lunedì mattina.

Intanto furono fatte diverse istanze dal popolo perché fossero esiliate le autorità passate. Tali istanze furono spedite alla Reggenza. Fu pure richiesto che si facesse una aggiunta ai presenti individui municipali con la nomina di persone chiamate Sindaci, il tutto spedito al comandante la piazza di Bologna. Questi ordinò poi, con un proclama, che gli insorgenti, che intanto proseguivano a commettere iniquità e scelleraggini, tornassero ai luoghi a cui erano stati destinati.

Mercoledì 10 luglio dalla parte di Medicina arrivò la compagnia di insorgenti condotta dal conte faentino Milcetti ed andò alla Romagna, erano tutti vestiti di bella bocassina bianca con i paramani gialli a rovescio, l’abito era corto e succinto, sembravano lacchè ossia valletti.

In questo tempo uscirono stampe e composizioni poetiche in lode dell’Imperatore e biasimo della Repubblica Cisalpina e dei francesi.

Erano stati arrestati 14 individui del paese che si erano mischiati nella baruffa avvenuta contro i dragoni tedeschi e gli insorgenti nel Borgo e nel Castello.  Giovedì 11 furono esaminati in via processuale nella Municipalità.  Tutti concordemente deposero che l’attacco avvenne per gli insulti dell’ex giudice Antonio Giorgi e di Antonio Sarti comandante della Civica.  Quindi il Giorgi fu dichiarato decaduto dal suo ministero e io fui messo provvisoriamente al suo posto. Lo stesso accadde al presidente Lolli a cui fu sostituito il sig. Antonio Bertuzzi che prese il possesso il seguente venerdì 12 luglio. Terminato il processo contro quelli che avevano fatto fuoco verso i tedeschi, fu ordinato che fossero spediti a Bologna accompagnati da Giacomo Ravasini e da Luigi Musi, detto Sbergnocola, che presero con sé Luigi Bergami detto Boldrina, Gioacchino Tomba, Gioacchino Badiali con l’ordine di ben guardarli e accompagnarli al tribunale competente.

Fino a questo giorno era vigente l’ordine che vietava di levare i cadaveri dalle loro case portandoli alla chiesa con l’accompagnamento della Compagnia. Era morto Francesco di Pietro Zucheri, detto Piscione, confratello della compagnia del SS.mo e fu trasportato da quella in cappa, secondo l’uso vecchio, alla chiesa premessa la recita dei sette salmi penitenziali da otto fratelli cappati. Fu questo il primo morto che ottenne ripristinate le funzioni della chiesa.

Ritornata da Bologna la guardia di cui sopra, arrestarono sul momento il dott. Lolli e lo condussero alle carceri del Torrone di Bologna ove era già il Giorgi con altri. Fuggirono per ciò da Castello Lorenzo Alvisi, Ciriaco Bertuzzi, Giuseppe Oppi e suo cognato e si nascosero a Bologna e così fecero i figlioli di Antonio Inviti, Giovanni e Pietro. Il Giorgi e il Lolli furono condotti a Ferrara dal capitano tedesco Ocra. Furono graziati sulla parola di non mettere più piede a Castel S. Pietro.

Lunedì 22, io tenni, qual Giudice surrogato e provvisorio, la prima udienza in casa mia con un solo assessore che fu Zeffirino Rabbi avendo rinunciato l’altro cioè Giuseppe Ballarini essendo un repubblicano. Si pubblicò contemporaneamente un proclama solo per Castel S. Pietro e sua giurisdizione sul dare e prendersi commiato dalle case prorogando la legge sui commiati per tutto il corrente luglio. Questo poiché il giorno di S. Pietro, a motivo dello scompiglio per il sacco sofferto, nessun proprietario e nessun inquilino si era potuto accomiatare.

Il 24 con un altro proclama della Reggenza fu ripristinato ai notai l’uso del sigillo con ambedue gli emblemi proibiti all’ingresso de francesi, quando fu proibito anche l’uso degli stemmi delle famiglie.

Domenica 28, stante la cacciata dei francesi e la vittoria avuta dall’Imperatore, si fece un solenne ringraziamento a Dio nella arcipretale con scelta musica ed apparato. 

La domenica mattina si fece la processione solenne del SS.mo SS.to per il Castello con le compagnie cappate del SS.mo e quella del Suffragio eretta in S. Bartolomeo di che non si trova esempio nel passato. Vi intervenne pure la Compagnia del Rosario con i suoi distintivi e precedeva quella del Rosario ma con due scalchi del SS.mo indicanti che la funzione del sacramento spettava ad essa per suo istituto. Seguiva quella del Suffragio e per ultima quella del Sacramento, poi i cleri regolari e secolari. Terminata la funzione seguì una sparata di fucili. La funzione fu eseguita dall’arciprete di S. Martino in Petriolo Don Giacomo Mazzoni stante che l’arciprete giacobino Calistri era fuggiasco onde non ebbe il coraggio di venire in paese.

La sera stessa poi fu illuminato tutto il Castello e il Borgo, con le quattro torri del Castello con lo stemma della casa d’Austria. Fu universale la letizia. Accrebbe poi il giubilo la notizia di essere stata presa dagli austro-russi, Lucca e tutta la riviera di Genova con molti prigionieri fra quali i principali terroristi francesi.

 Abolito il governo francese furono messi al suo posto i simpatizzanti imperiali. Soppresse le deputazioni del territorio, rimase a me tutto l’incarico del governo sia della parte giudiziaria che di quella economica. A questo scopo fu decretato che tutte le leggi future si dovessero essere affissate alla porta di questo ufficio. Quindi io che coprivo la carica avevo tutto l’impegno ed alla mia porta si leggevano tutte le sanzioni ed era guardata da sentinelle tedesche.

Poiché poi l’erario pubblico era divenuto esausto, fu ordinato che si pagassero subito tutti i prestiti forzosi non pagati. Fu anche ordinato che si mandassero via tutti i francesi che si erano stabiliti in questa provincia.

Per quietare poi la popolazione, che dubitava di una congiura a Bologna, fu eseguito l’arresto delle persone più in vista della città, che furono l’avvocato Giacomo Pistorini fu condannato ai ferri a Palmanova. L’ex senatore Carlo Caprara alla pena di morte. Il dott. medico Azzoguidi, Bernardino Lolli, Bernardino Monti ebbero la stessa condanna con due preti, cioè il Canonico Landi e un altro.

Di giorno in giorno giungevano notizie di vittorie che rallegravano le genti, onde si sentivano sempre ringraziamenti a Dio. Le città di Novi, Lodi e Tortona furono spettatrici di un sanguinoso fatto d’arme tra gli austro-russi contro 50 mila francesi che furono completamente battuti con la perdita di 26 cannoni e la cassa militare. Morì il generale in capo Espert[32] e altri cinque generali furono feriti mortalmente ed imprigionati.

Nel seguente agosto furono proclamati altri provvedimenti governativi.

Se avremo vita e intento scriveremo ciò che in paese accade ogni giorno e talvolta menzioneremo le leggi che si pubblicano.

Il 2 agosto, giorno del perdono, i cappuccini, contenti anch’essi del bene che ne veniva alla religione cattolica per le vittorie imperiali, cantarono la sera il Tedeum dopo un breve sermone fatto da un religioso del loro ordine, che declamò acremente contro i giacobini.

Il 4 fu proclamata una nuova Reggenza a Bologna, che non molto approvata per avervi introdotti due patrioti che furono l’ex senatore Cospi, come presidente e l’altro fu Alemanno Isolani. Questi avevano già sufficientemente dato saggio del loro attaccamento alla repubblica. In seguito fu pubblicato un ordine col quale si comandava ai sindaci territoriali di Bologna di eseguire puntualmente gli ordini della Reggenza sopra gli approvvigionamenti per le vettovaglie e per gli alloggi della truppa tedesca.

C’erano molti che, perché non potevano o perché non volevano, rifiutavano di pagare le tasse imposte dai francesi e non pagavano le cifre addebitate. Il 14 agosto fu pubblicata una notificazione perché ognuno, addebitato ai prestiti forzosi, adempisse la legge.

Si dubitava ancora che i forestieri, che in buon numero erano domiciliati a Bologna e nel territorio, potessero, unitamente ai patrioti, suscitare una qualche rivolta contro gli imperiali, fu perciò con proclama intimato a tutti la partenza nel termine di quindici giorni sotto gravi pene.

Mediante notificazione del 16 agosto fu intimato il rendiconto della amministrazione dei beni di pubblica spettanza, essendo stata malmenata da chi ne aveva l’impegno. Fu in questo stesso tempo replicata la intimazione della partenza ai forestieri sotto rigorose pene.

Essendo stati battuti i francesi dagli imperiali negli intorni di Novi, fu pubblicata la vittoria ottenuta sotto la condotta del generale Melas[33].

Il presente governo esigeva che le decisioni pubbliche fossero assunte da un capo, perciò il governo nel giorno 17 agosto emanò un decreto che tutti i sindaci di campagna dovessero assumere tutte le funzioni che facevano prima i massari.

La tassa dello scutato veniva ritardata da chi doveva pagarla, il Governo con suo invito stampato il 19 agosto replicò le sue premure affinché ciascuno pagasse gli arretrati che erano tassati a ragione di danari cinque di Milano.

Il nuovo governo essendo che sembrava più umano di quello dei francesi aveva fatto sperare ai trafficanti di grani di potere fare estrazioni dal contado. Il governo su questo il 20 agosto pubblicò un Bando rigoroso che proibiva tali estrazioni sotto gravose penali. Contemporaneamente fu pubblicata la gloriosa vittoria degli austro-russi contro i francesi nella Lombardia alla quale corrispose l’ingresso dei napoletani a Roma con 4 mila russi, che avevano liberato quella città dai patrioti e dai francesi[34].

Il 23, 24, 25 si fece a Castel S. Pietro la fiera pubblica di ogni genere di merci. Fu deputato sovrintendente il tenente Giovan Francesco Andrini con l’accordo del giudice locale.

Furono poi soppresse tutte le Municipalità e deputazioni e restarono solamente in attività i Sindaci detti volgarmente Massari. Furono ancora pubblicate altre stampe di luminose vittorie tedesche.

Il 7 settembre l’arciprete Calistri, che fino ad ora era stato nascosto a Bologna e non arrischiava tornare a casa, finalmente, assicurato dai suoi sostenitori che erano nel governo a Bologna e a Castello, si restituì alla sua chiesa.

L’8 settembre, giorno della natività della Madonna, si fece nella chiesa dei francescani un bellissimo apparato. Posero alla pubblica venerazione la loro Immagine dell’Immacolata all’altare maggiore. Fu fatto un elegante panegirico e poi fu cantata la messa solenne in musica, il vespro e la benedizione del SS.mo in ringraziamento a Dio della mutazione del Governo.

Il Papa, che era stato tradotto in Francia e trasportato a Valenza, era morto il 29 agosto in età di anni 81, compianto da tutti e da quei buoni cattolici. Il 14 settembre fu pubblicata la sua morte e si seppe che c’era rivolta in alcuni dipartimenti francesi.

Il 14 settembre non trovandosi nella vicina ex podesteria di Casal Fiumanese alcuno che coprisse la carica di giusdicente, fui io acclamato per tale da quei popoli, quantunque ricoprissi la carica giudiziaria di Castel S. Pietro e suo distretto.

Fu nello stesso tempo fatta la scelta di due amministratori per Castel S. Pietro e furono Lorenzo Trochi e Paolo Farnè i quali, non potendo da due soli compiere le incombenze amministrative, chiesero un comitato di tre concittadini, furono per ciò ad essi aggiunti il dott. Francesco Cavazza, mio figlio, il cittadino Gio. Battista Fiegna e il notaio Francesco di Lorenzo Conti. In seguito questi furono ricercati dal Governo di Bologna come fossero giacobini perché facevano parte del vecchio governo della Comunità come risultava dagli atti comunitativi.

Antonio Giorgi, ex giudice di pace eletto sotto il governo repubblicano, era ritornato in paese e i buoni paesani cominciarono a mormorare contro di lui.  Appoggiavano i loro reclami sopra le birbate, angustie, tirannie ed ingiustizie fatte e infine per i disordini accaduti per colpa sua all’ingresso che fecero gli imperiali nel paese. Questi, ingannandoli col suo spacciarsi governatore del paese, li aveva fatti entrare assicurandoli, con la parola di autorità costituita, che non sarebbero stati molestati. Poi, entrati quelli in Castello e nel Borgo, fece arrestare tutti quelli che poté e li fece condurre a Bologna. Infine, dopo avere fatto entrare altri austriaci, aveva istigato i paesani giacobini a fare fuoco contro quegli sventurati tedeschi dei quali ne restarono alcuni morti e molti feriti.

Al mormorio si aggiunse una rivolta di paesani contro di lui, che lo volevano nelle mani per vendicarsi delle 52 ore di saccheggio che aveva desolato molte famiglie per colpa sua.

Avendo presente questo rumore mi convenne invitare a voce, come capo giudiziario, tutti gli amareggiati in casa mia. Con molta fatica indussi quelli a calmare la loro ira con la promessa che avrei procurato dal Governo di Bologna l’allontanamento del Giorgi dal paese.

Non vollero attendere le mie promesse ma vollero che, sul momento e in loro presenza, si scrivessero tutte le loro accuse e a loro si consegnasse il dispaccio. Dovetti fino a mezza notte, pur soffrendo di una forte febbre e tremore, servire la popolazione insorta contro quest’uomo e consegnare la istanza a uno dei principali ammutinati, che subito si portò a Bologna. In nessun modo giovarono le parole, né le perorazioni. Si pretendeva che nel Criminale di Bologna si facesse un rigoroso processo sulla condotta del Giorgi.

La mia lettera di ufficiale fu diretta al Marchese Francesco Ghiselieri, presidente della Reggenza imperiale a Bologna. Sul momento la risposta fu di esiliare dal paese il Giorgi. Non furono contenti di ciò i paesani, ma vollero che fosse anche espulso il figlio di Antonio Inviti di nome Giovanni per essere stato tra quelli che aveva ammazzati tedeschi con le archibugiate. Quindi anche per questo oggetto fu scritto al Governo, da dove ne venne altro ordine per esiliarli e così l’8 ottobre fu da me loro intimato l’esilio.

Nel momento della sua partenza alcuni suoi nemici travestiti gli fecero un agguato per colpirlo ma non riuscirono.  Infatti aveva avuto da Domenico Grandi, amante di sua sorella, un veloce cavallo col quale, valicando le vicine colline, se ne andò alla volta della città, da dove, non vedendosi sicuro, prese la strada del ferrarese. Neppure qui però fu al sicuro perché Gioacchino Badiali, avuta di ciò notizia, lo raggiunse, lo fece prigioniero e lo condusse al campo tedesco a Cento. Fu poi liberato con la perdita del cavallo e di ciò che aveva con sé, ma non si vide più per anni in patria.

Venerdì 11 ottobre si siede il segno, con i sacri bronzi di tutte le chiese del paese alzati a doppio, della morte del Pontefice avvenuta a Valenza.

 I cardinali chiamati a Venezia per la elezione del nuovo pontefice si radunarono nella chiesa di S. Giorgio di quella città.

Quantunque i francesi avessero danneggiato questi stati pontifici nel temporale e massimamente nello spirituale, non si era estinto il loro partito.  Ci fu una cittadina faentina che ebbe il coraggio di esporre i suoi sentimenti di apprezzamento del loro operato e di rimpianto per la loro caduta. Si risentì un degno sacerdote di quella città che fu il prete Don Alessio Camaggi, precettore di umane lettere in questo paese, che espose la risposta in una canzone stampata per l’Archi in Faenza, dove ora soggiorna in qualità di precettore pubblico. Sono in questa tutte le scelleratezze francesi fatte agli ecclesiastici ed anche ai secolari. La composizione fu apprezzata da chiunque.

Il 15 ottobre cessarono tutti i Giudici di Pace nei castelli e distretti della provincia e subentrarono nuovamente i giudici per le cause locali col titolo di Podestà, come prima della invasione dei francesi. Fu fatta, nel giorno di S. Floriano, la estrazione da una borsa in cui erano messi tutti i notai collegiati della città e non più i nobili come avveniva prima.

Fu estratto per Castel S. Pietro, il probo ed onesto cittadino Antonio Giusti. Questi sostituì il dott. Francesco Cavazza, mio figlio. Per Casal Fiumanese fu estratto l’onesto cittadino Angelo Michele Baciali, segretario dell’ex Senato di Bologna, il quale nominò, per suo supplente, me notaio Ercole Cavazza.

Beatificato il venerabile Bernardo da Ossida, cappuccino, questi religiosi cappuccini di Castel S. Pietro presero l’occasione di fare un solenne triduo in sua gloria nella loro chiesa e contemporaneamente il ringraziamento a Dio per la liberazione dai francesi, nemici dello stato pontificio.

Fu questo triduo il giorno 22, 23 e24 ottobre con gran concorso di persone, squisita musica mattina e sera della stessa giornata, con fochi artificiali di gioia mostranti lo stemma francescano. Nello stesso giorno vennero dalla Romagna alla volta di Bologna 200 tedeschi, passò pure una cavalleria tedesca di 250 cavalieri senza fermarsi. Aveva con sé le bandiere spiegate e strumenti da fiato. Era tutta bella gente ma più belli ancora erano i cavalli, ben bardati e pasciuti.

Nel giorno 25 ritornarono da Bologna 250 fanti tedeschi ben disciplinati e non diedero fastidio ad alcuno nella roba e persone. Pernottarono qui e la mattina seguente si incamminarono ad Imola. Metà stette nel convento di S. Bartolomeo e metà nell’ospitale del Borgo.

Il 25 a Bologna fu carcerato il dott. Angiolo Lolli ultimo presidente del partito patriottico della Comunità di Castel S. Pietro, terrorista famoso e ben conosciuto giacobino.

Presa finalmente la città di Ancona dagli austro-russi e napoletani, il giorno venerdì 21 novembre vennero dalla Romagna 3.000 prigionieri francesi assieme con patrioti e furono condotti a Bologna. Erano guardati da 800 austriaci ed ungheresi, i primi erano a cavallo e i secondi a piedi. Avevano un grandissimo convoglio e bagaglio, cominciarono a passare sul far del giorno e durarono fino alle ore sedici italiane.

Fu poi pubblicata una notificazione della Reggenza di Bologna nella quale erano i nomi degli individui rappresentanti ogni Comunità della provincia. Furono reintegrati nel loro ufficio di municipalisti tutti quelli individui che lo erano durante il Governo pontificio l’anno 1796 dell’invasione francese.  A Castel S. Pietro non erano rimasti che Lorenzo Trochi, Paolo Farnè e Francesco di Pietro Conti, gli furono aggiunti il dott. Francesco Cavazza mio figlio, Benedetto Poggipollini, Nicolò Giorgi, Giovanni Landi e Antonio Magnani.

Il numero dei pubblici rappresentanti che era di 12 fu ridotto a nove. Ciò accadde per maneggio dell’arciprete Calistri, amico strettissimo della moglie del Marchese Ghisilieri presidente della Reggenza. All’arciprete spiaceva molto se tutti i vecchi municipalisti fossero stati ristabiliti a motivo del triduo passato e perché temeva molto da essi. Infatti si era sempre mostrato favorevole al partito repubblicano e aveva favorito i repubblicani anche nelle funzioni pubbliche. Mio figlio rinunciò subito all’impegno sia perché era malato, sia perché vide nella scelta un raggiro assai fino come poi risultò in seguito.   

Il 3 dicembre passò una numerosa truppa tedesca che andò nella Romagna a purgarla dai giacobini. Benedetto Poggipollini, compreso lo stratagemma dell’arciprete nella nomina, rinunciò anch’esso al posto municipale. Furono perciò insediati i rimanenti e si cavò a sorte per Consolo il cittadino Nicolò Giorgi.

La notte seguente del 6 dicembre vennero a Castel S. Pietro per la prima volta gli sbirri designati in numero di 17 ma per breve tempo. Albergarono nella locanda della Corona e dopo tre giorni partirono per la Romagna.

La notte del 13 dicembre, su le ore otto italiane, si fece sentire il terremoto e si ebbe in seguito notizia che aveva fatto gran male a Camerino.

Genova, che era in questo tempo tenuta dai francesi, fu liberata dagli austriaci che furono accolti con plauso da quei popoli tenuti in catene dai francesi. Si ebbe pure notizia che anche Cuneo fu preso e che a Parigi si sentivano disposizioni per una rivolta, mentre i componenti di quel direttorio erano fuggiti.

Gennaio – Giugno 1800

Dimissioni municipalità contro testatico, minacciata di arresto. Feste per elezione card. Chiaramonti a Papa. Mercanti paese incettano granaglie. Diverbi tra compagnia S.S.mo. e del Rosario. Voci di ritorno dei francesi. Congiura di patrioti per arrestare uccidere avversari. Francesi non arrivano, congiurati fuggono a Bologna. Arresto di vari patrioti. Supplica all’Imperatore per ristoro saccheggio, negato. Francesi di nuovo a Bologna, ritorno dei fuorusciti.

Lode sia al supremo Motore di tutto poiché incominciamo l’anno con una quiete universale. Siamo comunque ancora incerti del nostro destino. Tuttavia proseguiremo il racconto di ciò che alla giornata accadrà per la memoria dei nostri lettori.

La pioggia era cominciata e continuata dal giorno festivo di S. Tomaso apostolo fino al giorno d’oggi primo gennaio 1800. Il tempo cambiò e si trasformò in gelo e neve per dieci giorni continui.

Il 2 gennaio fu confermato Nicolò Giorgi Consolo della Municipalità di Castel S. Pietro.

Il giorno 3 la Compagnia cappata del SS.mo SS.to ritornò alle sue primitive funzioni di istituto. L’arciprete Calistri, sempre attento agli imbrogli ed a compromettere il paese, rimise in attività la sua Compagnia larga del SS.to e nominò per priore Domenico Albertazzi. Volle poi che in questo giorno, prima domenica del mese e dell’anno, si facesse la solenne processione.

La pubblica rappresentanza di questo luogo, ancora poco pratica delle prerogative comunali, si era lasciata addossare il peso del testatico per i paesani senza reclamare. Quindi, sentendo proteste nel paese, ricorse, ma tardi, alla Reggenza di Bologna per essere esentata.  Non fu ascoltata e allora i consiglieri presero l’espediente di rinunciare alle loro incombenze e mandarono la rinuncia alla Reggenza.  La risposta fu non solo la non accettazione delle dimissioni ma la minaccia della carcerazione e pure della multa.

Sembrava che il tempo, dopo essersi sfogato con le nevi e il gelo, si volesse mutare in meglio quand’ecco vennero infiniti mali con lo straripamento dei corsi d’acqua.

In seguito alle intimazioni della Reggenza al comune di Castel S. Pietro sopra il testatico fu pubblicato un editto particolare il giorno 7 gennaio che ne imponeva il pagamento.

Il figlio di Onofrio Fiegna, fatto religioso professo dell’ordine dei M.O. di S. Francesco di questo luogo, il giorno 8 febbraio si produsse pubblicamente in Bologna e ne uscì egregiamente facendo le sue filosofiche conclusioni pubbliche e dando luogo a chiunque di argomentare. Riuscito nell’impresa, fu spedito a Parma ad assumere altre cariche nell’ordine dei predicatori. Il suo nome nella religione è di Padre Lodovico di Castel S. Pietro.

Il 16 febbraio giunsero da Bologna 800 fanti tedeschi e 100 cavalieri, pernottarono qui e la mattina del 17 partirono per la Romagna dirigendosi ad Ancona.

L’arciprete Calistri, sempre intento ad opprimere il culto, dovendosi fare nella chiesa di S. Bartolomeo la esposizione del SS.  negli ultimi tre giorni di carnevale, 18, 19, e 20 corrente, si oppose, intendendo che bastasse la sola benedizione al popolo. Il tenente Gian Francesco Andrini, priore della compagnia del Suffragio, andò di volo a Bologna dal vicario Patrizio Fava ed espose tutta la ostilità del Calistri.

 Il vicario bene informato del carattere di questo arciprete, ordinò che tutto si eseguisse secondo il solito. Per la benedizione al popolo, trovandosi neghittoso il parroco o suo delegato, ordinò che, premesso l’avviso di un quarto d’ora, questa la facesse il cappellano della compagnia e così fu eseguito con rabbia dell’avversario.

La pioggia continuava e si era talmente inzuppata la terra che si sentiva spesso di grandi slavine che ingoiavano le case, portando e trasportando terreni e campi interi sui beni dei fronteggianti. Alcune avvennero a Loiano. Nel comune di Bello, sopra il torrente Sellustra, successe lo stesso ed è incredibile il fatto per chi non l’ha veduto. Fu trasportato un campo da levante a ponente sopra i beni denominati il Casone della eredità Graffi. Fu chiuso anche tutto il corso del Sellustra e si fece superiormente un lago d’acqua.  Vi furono poi liti civili e fu deciso che quanto all’alberatura fossero del primo proprietario solo i raccolti di quell’anno, così che il danneggiato fu l’erede Graffi.

Per tali piogge che continuavano fu promesso un triduo avanti la B. V. del Rosario in questa parrocchiale e fu effettuato nei giorni 1, 2 e 3 marzo dandosi su la sera la benedizione col SS.mo per la serenità necessaria ai lavori di campagna ed alla salute umana.

Cresceva di giorno in giorno il prezzo del grano ed altre granaglie onde i fornai facevano il pane piccolo e cattivo. Era cresciuto il prezzo del grano fino a scudi 5 la corba ed il formentone a scudi tre e soldi cinquanta, onde la sua farina era divenuta cara per la povertà. Il popolo si lagnava non vedendo dal Governo alcun provvedimento sopra il peso e il prezzo dei generi alimentari.

Accadde perciò che il giorno 11 marzo, facendo qui il mercato, i principali mercanti del paese, portatisi nel Borgo, fecero con i contrabbandieri di Castel Bolognese il contratto di tutti i formentoni e grani. Si fecero fare la esclusiva di questi generi, chiusero in un momento ogni magazzeno e bottega e si portarono a casa le chiavi. Furono questi Camillo Bertuzzi, Luigi Farnè, detto Bevilacqua, Ercole Bergami, detto Scalfarotto, Domenico Grandi e Giulio Viscardi con Francesco di Pietro Conti.  La povertà arrabbiata sollevò grande clamore.

Crescendo le vittorie degli austriaci contro i francesi, i cisalpini non potevano salvarsi dalle contumelie. Si vedevano carte e stampe che beffeggiavano la repubblica che andava a terminare.

Il 14 di marzo si ebbe la fausta notizia della elezione del sommo pontefice nel conclave tenutosi in Venezia. La scelta cadde sopra la persona del Cardinale Gregorio Chiaramonti, cesenate e vescovo d’Imola. Questo degno prelato per le sue prerogative fu plaudito da tutte le corone e perfino dai francesi stessi, essendo la famiglia Chiaramonti oriunda di Francia ed anche in qualche modo congiunta di parentela con la moglie di Bonaparte, anch’essa di progenie dei Chiaramonti.

Il nuovo Pontefice Pio VII era confratello di questa nostra compagnia del SS.mo a cui aveva fatto regali per la devozione al suo Crocefisso. La compagnia fece un solenne triduo con la sua S. Immagine in ringraziamento nei giorni 23, 24 e 25 marzo dando ogni sera la benedizione col SS.mo SS.to.

Dopo la festa, adunato il corporale della compagnia, il priore Carlo Bettazzoni fece una deputazione di due confratelli da presentarsi al fratello del Papa, residente privatamente a Bologna per congratularsi di tanta bella elezione a nome della compagnia. Furono il legale Sebastiano Lugatti e mio figlio Francesco Cavazza che, avute le opportune credenziali, si presentarono e furono benignamente accolti. Seguì un suo ringraziamento per lettera alla compagnia.

Il card. Giovanetti arcivescovo di Bologna, rimpatriato dopo il concilio, finì la sua vita il giorno 8 aprile.

Per l’incettamento delle granaglie andò fuori una Grida di doverne dare la nota esatta, come pure della farina.

Non essendo ancora bene organizzata la guardia forense di questo luogo, furono qui spediti dal Governo i cittadini ex nobili di Bologna marchese Ercolani, conte Dondini e conte Agocchia ed abitarono nel palazzo Malvasia dove rimasero dal 17 al 21 aprile.

Avutasi Ancona dagli imperiali vennero qui 250 tedeschi con i loro cannoni, si fermarono nella piazza dei bovini e stettero alloggiati nel Borgo da dove partirono il giorno 21 per Bologna con molto bagaglio e munizioni. Successivamente vennero altri mille fanti e furono i loro bagagli condotti dai villani di Castel Guelfo e Medicina.

Con il nuovo Governo, l’arciprete tornò ad impossessarsi dell’Ospitale degli Infermi. Furono fatti amministratori dell’Ospitale e suoi redditi i fautori dell’arciprete e furono Domenico Grandi, Luigi Cardinali, Gaspare Sarti ed Ercole Bergami detto Scalfarotto o Pidino, tutti patrioti.

Sino dall’anno 1792 la Compagnia cappata del SS.mo aveva ottenuto dal Papa il permesso di potere portare nelle pubbliche funzioni il gonfalone come la Compagnia del Rosario, ma, per impegno dell’arciprete Calistri, il card. Giovanetti si era sempre opposto ora con un cavillo ora con l’altro. Ora essendo morto il Cardinale, la Compagnia del SS.mo si presentò al Vicario canonico Patrizio Fava per l’attuazione della grazia papale. Questi, come autorità superiore, poté senza alcun parere ed avviso all’arciprete dare evasione alla graziosa determinazione pontificia. Comunque chiese all’arciprete che chiamasse la Compagnia del Rosario e le manifestasse gli ordini superiori, affinché stesse quieta per le funzioni avvenire.

La Compagnia del Rosario male intenzionata e persuasa dall’arciprete non volle riconoscere per nessuna ragione come collega l’altra compagnia. Quindi preso di sospetto il cittadino Lorenzo Trochi, convocata una congregazione straordinaria, cancellò dalla Matricola l’attuale priore che fu così anche deposto dal suo ufficio, accusandolo di essere ribelle alla propria compagnia. Ricorse questi al tribunale del vescovato per la reintegrazione. Fu scritto all’arciprete Calistri affinché lo reintegrasse nel posto. Ricusò l’arciprete e perciò altro non si fece per le solenni funzioni.

Arrivate le rogazioni il 19, 20 e 21 maggio la Compagnia del SS.mo invitò quella del Rosario per le solenni processioni e quella ricusò l’invito. Non ostante ciò la compagnia del SS.mo SS.to inalberò il suo gonfalone uniforme alla cappa con liste turchine e si fecero le consuete processioni con la B. V. di Poggio.

La Compagnia del Rosario piena di livore ed odio non solo non intervenne alle funzioni, ma neppure volle nella sua cappella la S. Immagine onde fu scandaloso il fatto, molto più per essere di mano viva dell’arciprete Calistri. Non si fermò qui la loro avversione ma continuò fino alla solennità del Corpo di Cristo.

 La Compagnia del Suffragio del Purgatorio eretta in S. Bartolomeo, avendo veduto la ostinazione e perversità degli individui del Rosario nel rifiutare la S. Immagine di Poggio si offerse ella di riceverla nella chiesa a confusione dei malevoli.

La compagnia del SS.mo pregò di fare il trasporto della S. Immagine il mercoledì per fare là le consuete funzioni che facevano i frati agostiniani, come di fatti fu eseguito con la maggior pompa possibile. Fu ricevuta ed incontrata quella miracolosa Immagine al principio della piazza di quella chiesa con 24 confratelli cappati in uniforme, cioè sacco bianco e mazzetta nera, ed introdotta nella chiesa si fecero i solenni riti ed in fine gli fu fatto il dono di 6 libbre di cera. Terminata la funzione, fu accompagnata fino alla residenza della Compagnia del SS.mo SS.to. Per tutto ciò si sentirono vari commenti contro il parroco Calistri.

Il 10 giugno si sparse la notizia che i francesi ritornavano negli Stati pontifici[35] e che già erano fuggiti da Bologna il Marchese Francesco Ghisilieri, presidente regio, ed in seguito era stato eletto un Comitato dei seguenti patrioti: avvocato Aldini, avvocato Magnani, ex senatore Isolani e dott. Gaetano Conti di Castel S. Pietro. Si seppe poi che i primi due avevano ricusato la carica.

Nacque a Castello un non piccolo rumore tra i patrioti. Antonio Giorgi, notaio e ex giudice di pace, si portò sfacciatamente alla osteria del Portone condotta da Giosafatte Benati, e gli intimò la restituzione, entro tre ore, di un crocefisso in stampa di rame con altre carte a suo zio Francesco Conti sotto pena del carcere. Si spacciava quel fanatico per la prima autorità del paese. Stefano Grandi, segretario interinale della Municipalità, diede segni di piacere essendo esso pure del partito patriottico. Il paese per ciò divenne tutto timoroso e non mancarono alcuni suoi aderenti di manifestarsi provocando i probi cittadini.

La notte seguente in casa di Antonio Inviti si fece una congiura di cinquanta patrioti dove si decise il da farsi. La prima cosa da fare sarebbe stato ammazzare Don Luigi Sarti maestro di scuola, Gioacchino Badiali, Simone Ravasini, Gioacchino di Matteo Tomba, Ottaviano Galavotti, detto il Bellino, Antonio Fabbri, detto Stricca, Luigi Musi detto Sberniocola e Giuseppe Nannini detto Muzzone. Quest’ultimo, era un bel giovane, alto, robusto che da solo con un legno in mano era bastevole per fermare quattro bravi patrioti. Da solo fece fuggire giorni fa, a forza di sassate, nella Gaiana cinque suoi pari buttandoli tutti in un fosso.  

Oltre a questi volevano arrestare altri 24 individui del Borgo fra quali vi erano 5 della famiglia del capitano Pier Andrea Giorgi, Vincenzo Violetti, Giulio Viscardi ed altri dentro il Castello. Poi altri 20 individui fra quali Don Luigi Facendi e Giuseppe Sarti. Questi sarebbero stati rinchiusi nel convento di S. Bartolomeo e poi saccheggiate le loro famiglie a discrezione.

Stettero tutte le persone in gran timore, perché la faccenda era condotta dai figli di Antonio Inviti e da Antonio Sarti, gente senza religione e rispetto. Altro poi non seguì poiché i francesi per allora non vennero. Ciò non ostante la notte giravano finte pattuglie.

La processione del Corpus D. fu perturbata dalle solite soverchierie dell’arciprete. Prima si usava che a tale processione interveniva la Municipalità in forma e precedeva il clero secolare. Dopo il baldacchino sopra l’Augustissimo SS.mo venivano regolarmente gli uomini che avevano i lumi, poi le donne con la loro prioressa. Il Calistri fece sul momento posporre al baldacchino il Corpo municipale, ma ciò che fu più scandaloso fece entrare in mezzo alla municipalità la prioressa della sua Compagnia Larga e, proseguendo la processione, le fece occupare il primo posto dopo il SS.mo sotto il baldacchino. Ci fu non poco scompiglio e turbamento nella processione che poco mancò che non trasformasse in un confuso miscuglio.

 La congiura non si era per niente spenta ma si era alquanto calmata. Avvenne che i francesi non erano riusciti a passare il Po, impediti dagli austriaci. Quindi si animarono i buoni cittadini per far fronte all’audacia dei patrioti, che temendo di essere arrestati, fuggirono il giorno 13 a Bologna per evitare funeste conseguenze.

 I capi dei congiurati, che ci furono confidati dal cittadino Gaetano Andrini, eletto nella riunione per loro segretario furono: Antonio Giorgi, Antonio Inviti con Giovanni e Pietro suoi figli, Salvatore Chiari, i fratelli Giuseppe e Luigi Vergoni, Luigi e Giovanni Muzzi, Francesco Bernardi fornaio, Camillo Bertuzzi, Lorenzo Alvisi, Pietro e Giovanni Amaduzzi, Giuseppe Oppi, detto Gussolo, Domenico Grandi, fattore dei Barnabiti, col figlio Giulio, Francesco Farnè, Giuseppe di Nicolò Giorgi, Zeffirino Sassatelli, Camillo Ronchi, Antonio Tragondani, Matteo di Ercole Bergami, Marco Martelli, Ciriaco Bertuzzi, Filippo Muzzi, detto Tarmone ed altri di minore peso.

 Dopo questa fuga si ritrovò un altro loro decreto che avevano fatto in casa dell’Inviti cioè che all’arrivo dei francesi si dovessero trucidare e fucilare nella pubblica piazza del Castello i seguenti paesani simpatizzanti del partito aristocratico: Don Baldassarre Landi, Antonio Bertuzzi, comandante dei paesani austriacanti, Giacomo Ravasini, cap. Francesco Giordani, Nicola e Felice Farnè, Sebastiano Lugatti, Ercole Cavazza e Padre Giantommaso, guardiano cappuccino di Castel S. Pietro.

 Pervenuta questa notizia al Governo militare di Bologna di cui ne era capo e comandante il tedesco Mayn, questi il 17 giugno spedì a Castel S. Pietro 22 corazzieri con un notaio a fare processo. Antonio Giorgi ex giudice, saputo questo fatto, fuggì alla montagna verso Sassoleone con un suo fratello ed un figliolo. La notte seguente furono arrestati Camillo Bertuzzi, detto l’Albretto, Antonio Facendi, Salvatore Chiari, Francesco Bernardi, Farnè e Zefferino Sassatelli. Fuggirono Stefano Grandi, Francesco Farnè, Antonio Inviti con i due figli Giovanni e Pietro, fuggì pure il medico condotto dott. Luigi Rossi ed altri della sua famiglia.

Il 19 si pubblicò la notizia che i francesi erano stati battuti nella Lombardia con perdita di 18 mila uomini[36], seguì un armistizio di tre mesi per venire alla pace e fu deciso che nessuno si movesse dai suoi posti. Le condizioni furono che Genova rimanesse come prima, la Lombardia austriaca ai francesi, le legazioni papali fino ad Ancona all’Imperatore e che il Piemonte fosse evacuato dagli austriaci. Fino a che si trattavano queste cose dalla Russia, Prussia, Danimarca, Svezia e Spagna fu ordinato che non si facessero ostilità tra le parti.

Il 20 giugno la sera di notte fu arrestato Stefano Grandi con suo cugino Gaetano Andrini, furono immediatamente condotti a Bologna. Il paese diviso in due partiti si scompigliò maggiormente. A detti due arrestati furono aggiunti Zeffirino Sassatelli, Giuseppe Vergoni, il fornaio Bernardi e Ciriaco Bertuzzi.

Il 24 giugno fu estratto Consolo per il secondo semestre Giovanni di Lorenzo Landi.

Il 25 venne a Castel S. Pietro il Padre Giambattista Giacomelli, agostiniano di Bologna, spedito dal Padre Pietro Tonarini, priore di S. Giacomo, accompagnato da decreto della Reggenza per il reintegro del convento di S. Bartolomeo alla Religione Agostiniana con i suoi beni. Andai subito con mio figlio dott. Francesco alla chiesa e convento e così la Religione riprese possesso e si fecero gli scritti agli inquilini ed ai coloni.

Contemporaneamente i paesani dettero supplica all’Imperatore per un ristoro del saccheggio sofferto. Questa non ebbe alcun ascolto, invece gli arrestati che erano in S. Giovanni in Monte di Bologna furono liberati.

 Nello stesso giorno fu arrestato a Bologna Antonio Bertuzzi, comandante della Guardia nazionale di Castel S. Pietro, perché aveva eseguito degli arresti senza la partecipazione del Maggiore dell’Armi di Bologna Conte Dondini. Dopo un giorno fu liberato e deposto dalla carica di comandante. Fu sostituito dal dott. Francesco Cavazza mio figlio.

Im mezzo a tutte queste rivolte, impensatamente giunsero a Bologna i francesi plauditi dal popolo insano. Presero in mezzo a loro tutti i patrioti e li posero al Governo di quella piazza.

La sera del 29 giugno, giorno di S. Pietro, ritornarono a Castel S. Pietro tutti i fuorusciti e camminando in gruppi, con la coccarda francese sul capello, baldanzosamente motteggiavano e prendevano in giro i buoni cittadini. Fu motivo per ciò che alcuni tedeschi adoperarono le mani e poi partirono per Imola.

Partiti i tedeschi, alquanti patrioti si unirono a suono di tamburo e portatisi alla piazza del Castello vi drizzarono un palo e lo misero nel posto dell’albero della libertà, tutto contornato di frasca di bussolo e fiori. Poi, ballandogli intorno con ragazzi e donne, festeggiarono la reviviscenza repubblicana. I capi di questa solennità furono Vincenzo Andrini, figlio di Giulio, benché zoppo, Giuseppe Vergoni, Pietro di Francesco Tomba, Domenico di Luigi Magnani, Ladislao Ronchi, detto Laino, ed altri 20 fanatici.

Arrivò poi la voce che gli insorgenti di Imola si mostravano armati al nostro confine e minacciavano di fare scorrerie e saccheggi. Si scrisse prontamente al generale Dondini per avere dei provvedimenti. Il generale Monier francese, che era Bologna, scrisse al comandante Cavazza, mio figlio, che gli avrebbe mandato, come poi fece, 50 dragoni, lodando la sua prudente condotta in tale affare.

Il dott. Antonio Bertuzzi con Giacomo Ravasini ed altri suoi colleghi fuggirono alla volta del fiorentino per unirsi agli aretini che valorosamente combattevano da quelle parti i francesi.

Luglio – Agosto 1800

Tentativo di arrestare i fili-austriaci, già fuggiti. Rimesso Albero della Libertà. Provocazioni ed aggressioni ai papalini. Rifatta municipalità, presidente Lolli. Violazioni dei termini dell’armistizio, truppe francesi tornano dalla Romagna. Progetto dei patrioti per creare una provocazione contro gli aristocratici. Continua la scarsità di granaglie. Insorgenti di Monte Catone occupano Dozza poi se ne vanno. 1.200 francesi arrivano a Castello. Arciprete Calistri fa di nuovo chiudere le chiese di S. Bartolomeo e del Crocefisso.

Il 5 luglio 50 patrioti castellani armati andarono alle case del dott. Bertuzzi, Ravasini, Badiali, Alessandro Alvisi e Luigi Musi per arrestarli credendoli nascosti in casa. Essi però erano fuggiti come si è detto, e arrestarono solo lo sventurato Masi che fu posto in carcere.

Fu pubblicato un proclama che prescriveva che l’attuale Governo municipale non si cambiasse fino a nuovo ordine. Furono solo tolte le insegne imperiali e sostituite con le repubblicane. Si proclamò ancora il rispetto ai sacerdoti di qualunque classe.

I patrioti ogni sera cantavano l’inno patriottico e i ragazzi rispondevano Evviva, evviva! Nel volere poi procedere all’arresto delle persone, fu grande l’ardore della vendetta e la premura degli assalitori.

 Altre famiglie si impaurirono di tanto clamore e, credendo una aggressione di insorgenti, molte persone nel fuggire pericolarono, altre incontrarono malattie ed alcune ancora vi lasciarono la vita. Fra queste vi fu Giovanna Ballarini madre di Camillo Bertuzzi che, sentendo strepiti ed urla nella casa di Luigi Musi, suo vicino, si impaurì talmente che data in una convulsione morì dopo poche ore. Infine ciò accadde a un familiare di Giacomo Ravasini che vi lasciò la vita, Pietro Cugini nel fuggire si ruppe una gamba da cui ne conseguì la morte.  

Domenica 6 luglio il locale che serviva per ricevere e distribuire le lettere della posta, che era stato levato dalla locanda della Corona e traslatato a quella del Portone, fu di nuovo trasferito nella locanda della Corona per volere di Agostino Corticelli, Mastro di Posta di Imola, a cui è sottoposta questa di Castel S. Pietro.

L’8 luglio venne un distaccamento di cisalpini e francesi che andarono alla volta della Romagna, nello stesso giorno, di buon mattino, fu circondata la casa di Pier Andrea e Nicolò Giorgi ad istigazione dell’ex giudice Antonio Giorgi benché fosse di loro nipote e fu pure circondata la casa di Gaetano Andrini dai francesi. Era stato a loro imputata, con i tre fratelli Sante, Gaetano ed Emilio Giorgi, una insorgenza. Ma la calunnia fu sventata e i soldati abbandonarono l’impresa. Io pure fui calunniato dallo stesso Giorgi di avere presentato un memoriale ai comandanti tedeschi contro i patrioti con la lista dei nomi, per cui mi convenne fuggire a scampo di maltrattamenti.

La sera del giorno 9 venne da Bologna in paese un nuovo distaccamento di francesi e di nuovo si inalberò nella piazza del Castello l’albero atterrato. Ciò fatto le truppe si inoltrarono nella Romagna. Intanto furono di nuovo cambiate le autorità dell’amministrazione a Bologna e nel territorio.

Poiché per la mancanza di acqua non si poteva macinare e anche perché le biade nei campi andavano a male, l’11 si fece un triduo con la processione della Madonna del Rosario per il Castello e Borgo e l’ultimo giorno, che fu domenica 13, si diede al popolo la S. Benedizione.

La mattina del 15 luglio vennero da Bologna alla volta d’Imola ottocento francesi che, passando dove c’erano case, spogliavano di tutto, e soprattutto del cibo, quei poveri abitanti e andarono anche fuori strada alle case dei poveri contadini. Nei nostri intorni andarono alle case della Commenda, a Casa Torre sopra il Castello, al Castelletto, a Liano e in altri luoghi quindi proseguirono nella Romagna.

Fu pubblicato anche il proclama sopra le funzioni dei giudici di pace e, per i notai, il dovere scrivere nei loro atti la data all’uso francese.

Mercoledì 17 luglio passarono nella Romagna 600 francesi a piedi. Nello stesso giorno venne a Castel S. Pietro il capitano Gio. Battista Tattini di Bologna per organizzare nuovamente la guardia nazionale di Castel S. Pietro nella quale fu eletto, come comandante di questa piazza, Stefano Grandi.

Questi nostri patrioti erano molto arrabbiati contro gli aristocratici. Il 18 luglio l’Andrini, quando uscì dal caffè di Luigi Giorgi per andarsene a casa, fu assalito da tre patrioti che furono Filippo Muzzi, detto Tarmone, Luigi Cavina e Luigi Castellari, detto Bardella.  Il Muzzi affrontò l’Andrini e lo provocò accusandolo di essere un aristocratico. Rispose l’Andrini che non intendeva di cosa parlasse e che perciò egli se ne andava per i fatti suoi. A tale risposta questi manigoldi lo assalirono con pugni, lo atterrarono e lo maltrattarono finché furono stanchi lasciandolo in condizioni tali che appena poté alzarsi per le botte e le percosse avute anche nel capo. Durante questa aggressione non si trovò cristiano che vi si intromettesse. Questo fatto era stato premeditato con l’intenzione di massacrare i presunti sostenitori dell’aristocrazia, provocandoli e così far correre il sangue in paese. A ciò non segui alcun atto ufficiale.

Lunedì 21 luglio passarono altri 100 francesi che andarono in Romagna e così seguirono altri piccoli distaccamenti ma con molti tamburi per far credere che erano migliaia e intimorire il popolo. Vennero tutti questi dal ferrarese e a contarli tutti assieme non arrivarono al numero di 500. La ritirata fu perché nel ferrarese erano avanzati molti tedeschi che avevano prese molte piazze di quella provincia, facendo prigionieri ed imponendo tasse militari e sovvenzioni di viveri e foraggi.

Antonio Sarti di Castel S. Pietro rimase prigioniere a Ferrara dei Tedeschi. Fuggì travestito e ritornò in patria, dove giunto fu acclamato per comandante della guardia del paese e fu deposto il Grandi.

Fu fatta la nuova Municipalità nel paese composta dai seguenti patrioti: dott. Angiolo Lolli medico condotto e presidente, Francesco Farnè, Luigi Cardinali, detto Scajola, e Stefano Grandi per segretario. Furono questi installati dai deputati di Bologna cioè Giovanni Bragaldi di Castel Bolognese e avvocato Filippo Gambari di Bologna. Questi partirono ed andarono a Dozza col dott. Gaetano Conti figlio di Francesco Conti di Castel S. Pietro, detto Uccellone, a insediare là quegli agenti municipali.  Ritornarono la sera e fecero una festa da ballo.

La mattina seguente fecero un lautissimo pranzo patriottico in casa di Pietro Pasi, già antica abitazione degli Serpa paesani poi dei Calderini di Bologna. Il veglione che si fece la sera stessa fu preparato con inviti scritti a tutte le famiglie patriote per mano del segretario Stefano Grandi con lo stemma della precedente Municipalità che era lo stemma imperiale per canzonare così i buoni cittadini e deridere quel monarca.

Le tre mattine seguenti si videro attaccati ai muri cartelli con motteggi, provocazioni e scherni alle persone probe di ogni grado. Fra questi si vide un elenco di 36 nomi sotto la intestazione: Cattalogo delli aristocratici che compongono il Corporale delli austriaci. Nella lista: Don Luigi Sarti, come presidente, Don Luigi Facendi, Don Baldazzarre Landi, Giovanni Landi, Giuseppe Sarti, Carlo Conti, Francesco Giordani, Domenico Giordani, Antonio Bertuzzi ed altri ed in fine come segretario Ercole Cavazza.

Ritornati li francesi in questi Stati, fu ripristinato il loro governo. In seguito di ciò la Municipalità di Castel S. Pietro andò formalmente in possesso della Terra e Castello di Dozza. Il possesso fu preso dai seguenti: dott. Angiolo Lolli, presidente, Francesco Farnè, Luigi Cardinali e Stefano Grandi. Avevano con sé anche un gruppo di persone fra le quali il dott. Gaetano Conti, l’avvocato Vicini, Ugo Pizzoli ed altri.

Il 31 luglio arrivarono da Bologna 100 fanti francesi mischiati con dei mori. Gli uomini di Dozza, capi di quel paese, vennero a Castel S. Pietro a riconoscere per loro Capo la Municipalità e furono Pietro Nerozzi, Felice Cassani, Innocenzo Bartolotti e Francesco Masina, notaio e segretario di quella Municipalità.

Il primo agosto furono mandati a questo luogo dei francesi che chiesero nuove contribuzioni ai mercanti da pagarsi in termine di 24 ore. Furono Giulio Andrini per scudi 100, Paolo Farnè per sc. 200, Pietro Ronchi per sc. 80, Carlo Conti per sc. 70 e così altri, in totale portarono via più di mille scudi.

Tutti i suddetti francesi non ardirono entrare in Castello e Borgo e si accamparono nella piazza dell’Ospitale e dei Cappuccini. Dopo la contribuzione portarono via grani ed altre robe.

La raccolta fu scarsa per cui si ebbe solamente il due o al più il quattro per corba di sementazione, crescevano perciò i ladri onde nei circonvicini abitati si viveva poco sicuri.

In Dozza nacquero rumori onde furono là spediti dei francesi da Castel S. Pietro ed in seguito la Municipalità di Castel S. Pietro si recò in forma a quel castelletto con Antonio Giorgi ad installare la Civica di quel luogo ove furono lasciati 28 francesi di guardia. Rimase nel nostro Castello il Capo battaglione, di nome Antonio Turan, con la sua brigata, abitò nel Borgo in casa Vachi. Tutta la notte passarono truppe dalla Romagna a Bologna a motivo che si erano oltrepassati i termini e i confini concordati provvisoriamente con gli austriaci nel breve armistizio. I 14 ufficiali francesi alloggiarono in diverse case del paese.

Stante la penuria di grani e farina la Municipalità emanò una Grida che nessuno più facesse pane bianco di fiore e nemmeno i fornai. Se qualcuno avesse operato diversamente gli sarebbe stato tolto il pane cotto o crudo.

I francesi temendo una invasione degli austriaci dalla parte montana perché i fiorentini si difendevano valorosamente dalle parti di Arezzo, tirarono un cordone di truppa nelle nostre colline e montagne, dove si temeva molto. I capisaldi furono Dozza, Varignana, Liano, Monte Calderaro, Stifonti, Ozzano, Castel de Britti ed in altri luoghi fin sopra Bologna. Monte Calderaro fu poi abbandonato per mancanza di alloggi quantunque Battista Quaderna patriota e capo di quella sezione li avesse lusingati anche con proprio danno.

La notte di martedì 5 agosto arrivò ai francesi, ossia che tutti retrocedendo dalla Romagna andassero a Bologna. I patrioti erano sempre più amareggiati sia per vedere instabile il comando francese, sia per sentire che i buoni cittadini sospiravano un tempo felice ed attendevano un riparo alle loro sopraffazioni. Essi non solo le volevano continuare ma neppure intendevano che alcuno le condannasse. Quindi grande era il loro odio per tutti gli aristocratici e pensarono di levarseli di sotto agli occhi con un massacro.

Fecero perciò nel Borgo in casa di Antonio Inviti una assemblea ove intervennero i seguenti terroristi e sicari: Battista Quaderna, Filippo Muzzi, Luigi Tomba, Luigi Castellari, Luigi Vergoni, Ladislao Ronchi, detto Laino, Marco Martelli, Luigi Cardinali, Antonio Giorgi, Pietro e Giovanni Inviti, Domenico Grandi, Gaspare Sarti e altri fino al numero di 40.

Quivi si ebbe una lunga discussione sulle persone da essi studiate e considerate come loro avversarie. Fu deciso che, dovendosi dai francesi guerreggiare a termine dell’armistizio, si dovessero fare nascere diverbi contro i buoni paesani senza ragione ma unicamente per avere motivo di litigare e, attaccata la rissa verbale con provocazioni anche di insolenti parole, venire in seguito al massacro dei partitanti del Papa e dell’imperatore, o almeno creduti tali, e poi appropriarsi delle loro sostanze. Ma la faccenda non ebbe quel fine che si aspettavano e tutto fu sventato. I paesani avvisati della congiura si chiusero in casa e non si vedeva più alcun galantuomo girare per il paese e nemmeno accompagnarsi con amici o parenti.

Attesa la scarsezza di grani, era stato diminuito il peso del pane e i fornai, non potendone smerciare, ricorsero alla Municipalità per averne una qualche provvidenza. La Municipalità tosto pose ai possidenti un contributo di grano oppure di danaro. Alquanti si prestarono ma non tutti. Io fui tassato per sc. 500 di Bologna o grano.

In questa notte passarono 500 francesi dalla Romagna ed andarono a Medicina, poi al ferrarese. A Castel S. Pietro si fecero le necessarie pagnotte.

Organizzata la Guardia di Dozza come si è detto, vi si lasciò per comandante Antonio Sarti con Luigi Tomba, detto Stanghetto. Al Sarti occorrevano dei civici abili ed arditi, perché si sentivano di insorgenti in quei dintorni. Scrisse alla Municipalità di Castel S. Pietro per avere soccorso. Il portatore della lettera era il Tomba. Lo seppero gli insorgenti di Monte Catone dei quali era capo un certo Stanislao, fattore dei Cavalca. Questi scese dalla sua postazione ed accompagnato da sei bravi della sua brigata che furono Luigi Rivalta, detto Righino, Giovanni Zanelli, Girolamo Rolli, Carlo Calazza, tutti di Dozza, e Andrea Brusa d’Imola, famoso ladro, tesero un agguato al Tomba ed al capo battaglione Innocenzo Bartoletti per averli nelle mani.  Costoro avvisati fuggirono a Castel S. Pietro e così Dozza rimase poco guardata.

Le nostre pattuglie poi, non avendo un capo che li tenesse in dovere, giravano a loro piacere e facevano ciò che veniva loro in mente, quindi la notte si sentivano entro l’abitato spari di archibugio che sconvolgevano la tranquillità notturna. Autori e capi furono Camillo Ronchi e Luca Giorgi, detto Luchetta, fratello del giusdicente Antonio Giorgi. Furono questi arrestati ma, perché erano della comitiva patriottica, dopo 24 ore furono rilasciati.

Gli insorgenti di Monte Catone in un agguato presero il Sarti, comandante della Guardia di Dozza, che si era allontanato dal suo posto. Fu mandato attraverso boscaglie alla volta del fiorentino. Liberata Dozza dal comandante gli insorgenti vi entrarono, assalirono il quartiere di quella guardia che, avvilita dalla presa del Sarti, si lasciò disarmare, quindi se ne andarono.

Passarono più di 400 patrioti romagnoli che da Cesena, Faenza e Forlì per timore degli insorgenti fuggivano a Bologna accompagnati da cisalpini e francesi.  Il lunedì seguente 11 agosto seguirono più di 30 carri con il loro bagaglio. Quindi nel paese cominciò a mancare il pane e si temeva di saccheggi.

Essendo stati uccisi alquanti francesi dagli insorgenti al Piratello e Toscanella, fu rinforzato il nostro Castello di truppa francese sotto il comando di monsù Lemoins. Alle ore 21 italiane arrivò anche un corpo di cisalpini, la massima parte ladri, ed alle ore 22 arrivarono pure i civici bolognesi con un cannone e cannonieri, capo dei quali era il bolognese Luigi Bechetti. Stettero qui fino alla domenica mattina 17 agosto e poi andarono in Romagna.

Ciò non ostante gli insorgenti non avevano timore. Poi quelli di Monte Catone di notte tempo assalirono Dozza, la presero e, per grazia di Dio nel tempo dell’assalto, i capi di quel Castello cioè Pietro Marozzi, agente municipale, ed Innocenzo Bartoletti, capo battaglione, riuscirono a fuggire a Castel S. Pietro.

Questi pochi francesi che guardavano la nostra piazza, saputa la presa di Dozza, fecero un corpo militare di 50 fanti con nostri patrioti, parte dei quali andò per la via romana a quel Castelletto e parte attraverso la collina tenendo la via di S. Lorenzo. Gli insorgenti avvisati spalancarono le porte presso la rocca, ove giunti i civici di Castel S. Pietro, cominciarono la baruffa ma poi, sentendosi dall’altra porta del Castello arrivare i francesi, fuggirono alla boscaglia di Monte Catone.

 Non si perdettero però di coraggio e, saputo essere rimasti in Dozza solo pochi francesi con pochi civici essendone partiti più della metà, ritornarono alla presa di Dozza la mattina della festa di S. Cassiano.  Vennero in 30 dei quali una parte si imboscò all’Ospitaletto vicino per arrestare al bisogno i fuggitivi. Avanzò il primo corpo alle porte di Dozza travestito da francesi. Gli fu detto dalla sentinella il Chi vive! a cui risposero con fucilate.  Fu chiusa subito la porta e la sentinella, che era Giuseppe Vergoni, sebbene ferito leggermente, rispose col fucile. Gli altri civici di Castel S. Pietro cioè Domenico Magnani, Giovanni Neri vedendo il furore degli insorgenti, salirono le mura del Castelletto e si nascosero nella vicina vigna e salvarono la vita, lasciando a discrezione del nemico Dozza con i francesi.

Durò la baruffa per due ore continue, ma saputa la venuta da Bologna del generale Muniè, che giunse un’ora dopo, gli insorgenti abbandonarono l’impresa. Si fermò il generale con tre battaglioni a Castel S. Pietro che erano 1200 uomini e poi ne giunsero altri per modo che il paese fu pieno di truppa. Gli ufficiali alloggiarono nelle case dei paesani, in casa mia ve ne erano, fra soldati e ufficiali, 21 con 19 paglioni e nel quartiere abitato dal dott. medico Muratori, ve ne erano 10. Abitarono perfino entro le chiese a norma della distribuzione fatta dal presidente della Municipalità.

Il paese era sfornito di pane e di farine onde cresceva il turbamento, tanto più che vi si aggiunsero 200 cavalieri cisalpini, i quali vedendo poca quantità di foraggio andarono ad Imola per inoltrarsi fino a Pesaro, punto marcato nell’armistizio coll’Imperatore.

In questa circostanza, trovandosi sprovvisto di legna da ardere ogni paese, la soldatesca girava le campagne e, oltre che saccheggiare le uve e i frutti, portava viali i pali nelle vigne e tagliavano ciò le pareva per fare fuoco e molto più, sollecitati dai patrioti, in quei fondi di proprietari che avevano dato segno di compiacenza per la invasione austriaca.

A Dozza dove erano stati accampati 250 francesi, io sentii più di tutti il danno nella vigna e nei poderi dove poi non potetti avere alcun grappolo d’uva. A Varignana dove erano 500 francesi accadde lo stesso e così nelle altre alture a noi vicine.

Il 18 agosto fu pubblicato il decreto del Direttorio di Milano che si cavassero tutti i beni degli agostiniani di S. Giacomo di Bologna e successivamente si spogliassero del tutto gli altri conventi di questa Religione. Per Castel S. Pietro fu incaricato Francesco Conti fu Pietro e Carlo Bettazzoni fu Marco di Castel S. Pietro ad impossessarsi della roba e delle case di questi agostiniani locali detti di S. Bartolomeo.

Partiti i suddetti francesi dal nostro Castello per la Romagna, ne venne un altro battaglione di presidio il cui capo alloggiò nella casa Vacchi presso il nostro canale e gli altri ufficiali per le case del Borgo e Castello. Non ostante questi movimenti si fecero i soliti mercati e la fiera di S. Bartolomeo nel nostro Castello.

Erano state chiuse le due chiese di S. Bartolomeo e del SS.mo nella piazza ove più non si celebrava. Furono di nuovo riaperte per ordine del Vicario capitolare ma per poco, poiché l’arciprete Calistri, sempre inquieto e dotato più di spirito repubblicano che di buon prete, non mancò per il suo connaturale livore ed odio a questi due santuari di procurarsi un altro ordine del Vicario che nuovamente si chiudessero al culto e l’ottenne. Si sentivano però nel paese proteste e reclami contro di lui perché pretendeva le elemosine della Compagnia del Suffragio non più operante e perché il Crocefisso non era più venerato.

La brigata dei francesi qui stanziata di presidio faceva due volte al giorno l’esercizio militare in diversi luoghi intorno al paese, nella piazza Cappuccini, nel foro boario, di dietro ai palazzi ed anche in mezzo la piazza del Castello. Ciò si eseguiva sul far del giorno e la sera alle 21 italiane. Il corpo della loro guardia era nel quartiere della nostra guardia nazionale nella casa municipale e giorno e notte si faceva la guardia con delle sentinelle.

La penuria di tutti i viveri faceva rumoreggiare il paese, onde fu in necessità alla municipalità di dovere provvedere ad un grande disordine tanto più che i francesi saccheggiavano qua e là per la campagna.

Il grano valeva l. 35 la corba, la fava l. 13, il formentone l. 22 e la farina di questo soldi 3 ½ la libra, quella di grano 4 ½, il pane venale era di once 9 per soldi 4.

Il lavoro è grande per il Governo, la Municipalità tiene in servizio 12 persone: due uscieri, due segretari, due facchini, un porta lettere, due segretari, due scrivani ed altri e tutta la spesa è addossata ai paesani. Nella presente penuria si fanno requisizioni di grani, farine e vino ai possidenti del paese.

Settembre – Ottobre 1800

Municipalità forma una commissione per gli approvvigionamenti, l’Annona. Prodigio nelle vicinanze di Roma. Patrioti di Dozza fuggono a Castello. Spese municipali con sprechi. Passaggio di fuggitivi dalla Romagna. Truppe cisalpine creano disagi. Malefatte del presidente Lolli. Timore per ritorno tedeschi, fuga di patrioti a Bologna. Rimpatriano gli aristocratici espatriati, si comportano bene. Arrivano gruppi di insorgenti da Imola. Tornano truppe cisalpine. Segretario Grandi accusato di intelligenza con gli insorgenti. Truppe francesi verso la Romagna, disagi e ruberie. Storia di un suicidio di un ufficiale francese, sue esequie.

Per ovviare perciò ai malcontenti la Municipalità pensò di formare un corpo di annonari e ne emanò il proclama in cui sono designati dodici civici del paese cioè: Carlo Bettazzoni, Giuseppe Ballarini, Domenico Grandi, fattori di casa Malvasia, Bianchetti e Barnabiti, Giulio Andrini e Nicolò Giorgi mercanti con Ercole Bergami, Francesco di Pietro Conti, Antonio Giorgi, Gaspare Sarti, Camillo Bertuzzi e Paolo Farnè i quali formarono un corpo separato dalla Municipalità per fare le loro funzioni  che furono di mandare ai possidenti cedole di  requisizione. La prima riunione fu fatta nella sala municipale il giorno primo settembre.

 Nel secondo giorno di questo mese di settembre avvenne un prodigio nelle vicinanze di Roma, che di cui fu fatta relazione ed a noi è solo pervenuta la seguente copia:

Naque nella villa di S. Pietro cinque miglia fuori della città di Roma li 7 settembre 1800 alle cinque della notte un fanciullo filio di Domenico Franchini qd. Pietro e Donina Luigia Marchetti qd. Gaspare jugali ambi della stessa villa ed alle ore 22 dello stesso giorno fu portato al S. Fonte per essere ammesso alla Cattolica Religione sotto li auspici di S. M. Chiesa. Mentre il sacerdote battezante recitava il credo et alle domande che faceva, improvisamente quelle parole che doveva ripetere il padre in di lui vece rispondeva il bambino cioè: Credo, Abnunzio, Volo, Amen. Giunto al S. Fonte, doppo che il sacerdote ebbe infusa l’aqua sopra il capo del bambino ponendole il nome di Angiolo, con voce di giubilo disse il fanciullo: “R. P. in quest’anno avenire si avrà una pace ed abbondanza per tutta la Cattolica Relligione se li uomini si pentiranno dei loro misfatti”.

Furono testimoni di udito in d. chiesa molti, fra quali li seguenti: D. Giovanni Busatti curato di d. Villa., li padrini del neonato fanciullo cioè D. Giacomo Tomaselli e D. Maria Cervalta, la  alevatrice Antonietta Rossani, assistente di chiesa Paolo Benvenuti in oltre Francesco Demeneghini, Natale Canessi, Giuseppe Benforti, Eustachio Giacomazzi, Matteo Bassi, Domenica Francesca Popolani, Domenica Fachinetti, Vittoria Lamberti, Anna M. Mieta, Claudia Vitori, Giacoma Marchesini, Maddalena Bertuzzi e molte altre persone.

Non bastò questo miracolo, che nel seguente ottobre si videro sulla lingua di un altro infante nato in Borgo S. Sepolcro, per nove mattine consecutive, le seguenti lettere iniziali che furono annotate e nella relazione furono anche interpretate da una buona serva di Dio di Monte Lugo, che fu la seguente:

Prima mattina: O.C.I. ossia Orazione, Contrizione, Innocenza.

Seconda mattina: C.I.E. Carità, Innocenza, Elemosina.

Terza mattina: C.O.V. Confessione, Odio al Vizio

Quarta mattina: Q.T., Questo è il Trionfo

Quinta mattina: C.R.R. Cuori Ravveduti Regneranno

Sesta mattina: E.C.A. Eletti Confutate l’Ateismo

Settima mattina: S.O.R. Sarà oppresso un Regno

Ottava mattina: C.V.N. Cristo Vincerà il Nemico

Nona mattina: C.V.O. Chiedete Umilmente ed Otterrete.

Dopo avere fatte queste osservazioni andarono le persone a turno a vedere il fanciullo e facendogli aprire la bocca si videro nella lingua altre lettere iniziali romane. Questo avveniva solo nei giorni di venerdì in cui il lattante non voleva cibarsi. I venerdì furono cinque nel primo si videro queste che dalla stessa serva di Dio furono interpretate

Primo venerdì: C.V.O Chiedete Umilmente Orate

Secondo venerdì: C.A.V.O. Cristo Ascolta i Voti Ossequiosi

Terzo venerdì: A.C.G.O.C. Amore, Costanza, Gesù Chiede e Comanda

Quarto venerdì: C.A.G.C. Che Avrete Grazia Certamente

Ultimo venerdì S.O.V.C. Sicuramente Otterrete Vittoria, Cooperando.

In questo giorno,2 settembre, partirono tutti questi francesi per Bologna, erano della Lorena e stazionarono qui per un mese. Oltre a queste angustie il Governo aumentò le tasse sulle possidenze di danari nove per ogni scudo di valore. A queste calamità si aggiunse il male nei bovini, per cui si chiusero alcune stalle nel nostro comune. Agostino Ronchi, già comunista del passato governo, morì, lasciò 4 maschi, tutti di spirito repubblicano cioè Camillo, Gaetano, Ladislao, detto Laino, e Vitaliano.

Partiti i francesi di Lorena da questa piazza, arrivarono la sera altri 500 della provincia di Bordò, che rimasero fino alla mattina del 7 settembre per lasciar posto a 100 cavalieri cisalpini che arrivarono dalla Romagna e partirono tutti il dopo pranzo per andare a Mantova e Ferrara in pericolo per l’arrivo di imperiali.

I nostri patrioti vedendo una marcia così affrettata si avvilirono. Appena evacuato il nostro paese, i principali patrioti di Dozza, abbandonata quella terra vennero a Castel S. Pietro per timore degli insorgenti, capo dei quali era Stanislao Gottardi di Monte Catone, valoroso e abile nelle sue imprese. I dozzesi furono Pietro e Don Domenico Nerozzi, nipoti di quel prevosto Don Ottavio Nerozzi, Felice Cassani, notaio fratello di Don Geminiano, Arciprete di S. Lorenzo di Dozza, anch’esso patriota, Innocenzo e Domenico Pietro e figlio Bartoletti e Don Lorenzo Poggipollini, prete e maestro di scuola di quel paese.

 Abbandonarono tutto lasciando la roba a discrezione. Chiesero aiuto e difesa alla municipalità di Castel S. Pietro, che spedì subito a quel luogo i più bravi patrioti del paese e furono Camillo Ronchi, detto il Moro, Filippo Muzzi detto Tarmone, Marco Martelli, Giuseppe Vergoni, Sebastiano Capelletti ed altri per rinforzo della guardia di Dozza.  I fuorusciti dozzesi stettero nel nostro Castello fino al 17 settembre in cui partirono e lasciarono qui solo i Bartoletti. Rimpatriati questi, poiché erano del Ceto di quella Municipalità, mandarono subito fuori un riparto di contribuzioni ai possidenti del loro territorio da pagarsi entro tre giorni sotto rigorose pene.

La Municipalità di Castel S. Pietro attesa la carestia di grani e farina pensò di formare una annona alimentare mediante la fissazione di contribuzioni ai paesani possidenti quindi scelse 12 soggetti che furono tassati capricciosamente dai componenti la Municipalità di fanatici patrioti.

Io fui tassato di 140 scudi. Ma poiché il proclama notificante aveva messo in allarme i buoni cittadini ed incitava il popolo a far nascere dei saccheggi, i soggetti tassati scrissero a Bologna per cui  in seguito furono tassate le famiglie credute nemiche della Repubblica fra le quali Francesco di Lorenzo Conti, Carlo Conti suo fratello, Don Luigi Sarti e Giuseppe suo fratello, Giovanni Landi, Giuditta e Giacoma sorelle Castellari, dette le Pretine, Filippo Conti, Carlo Savini per la Marianna Graffi sua madre e molti altri.

La Municipalità, dopo avere avuto da Francesco Conti 40 corbe di grano, altre 40 da Carlo, dall’arciprete 42 e così da altri con la promessa di pagargli il suo prezzo corrente, mancò poi di parola. Avuto il grano vi pose sopra una taglia a piacere, cioè a chi di l. 300 a chi di 100. Ebbe ancora la Municipalità, invece dei grani, da taluno vini e biade, valendo il grano la corba scudi 10 romani.

Questi generi furono poi passati alle bettole ed ai forni che guadagnarono molto, essendo questi amministrati da giacobini. Si seppe ciò in seguito. L’oste del Portone Giosafatte Benati su questo vino ebbe tanti abboni in carta per sc. 1.960, un affare che fa orrore. Si disse e seppe ancora che in questo conto vi entravano le cibarie che i presidenti Lolli, Luigi Cardinali e Stefano Grandi si facevano portare alle proprie famiglie. Questi avevano introdotto l’uso di stare con i capi di truppa alle locande quando passavano e qui si fermavano.

I deputati annonari, fatti dalla Municipalità, avevano anche loro decretato un segretario ed un contabile con la paga mensile di scudi sei per ciascuno, così pure avevano deputato un assistente alla vendita del pane con la paga giornaliera di cinque paoli e simili cinque paoli all’assistente alla macinatura dei grani, da ricavarsi tale danaro sopra i grani prelevati. Furono altresì deputati due provveditori per gli altri grani da comprarsi con danaro da ricavarsi dalle casse delle famiglie dei commercianti e dei possidenti. Furono questi Francesco di Pietro Conti e Giulio Andrini e furono fatte altre gravi disposizioni che se perverranno in nostra mano le trascriveremo per regola dei posteri.

Erano già cominciate nell’Adriatico le ostilità degli inglesi e russi contro i francesi. Il 12 settembre si seppe che da quelli si bombardava Ravenna ove erano le truppe francesi. Da quest’altra parte nella Romagna una parte di insorgenti locali, nominata truppa ausiliaria, batteva i francesi e i loro fautori. La truppa cisalpina, che con i civici, voleva imporre le leggi, fu respinta dagli aristocratici forlivesi. In Imola accadde lo stesso. Qui gli ausiliari, fecero fuoco contro i patrioti, si impossessarono dalla porta del Ponte e cacciarono i cisalpini che, fuggendo andarono alla volta di Bologna dopo breve sosta fatta nel Borgo di questo Castello. Due coraggiosi villani di quel territorio levarono un cannone ai cisalpini, ma poco lo tennero perché non essendo aiutati e essendo attaccati dai nemici, dovettero abbandonarlo. 

Il 13 settembre arrivarono a Castel S. Pietro molti patrioti di Romagna ed andarono a Bologna. Si contarono dalla mattina fino alla sera 124 carrozze piene di patrioti fuggitivi con i quali gli osti facevano guadagni immensi. Per la carestia dell’uva la si vendeva qui a scudi 40, 44 e 46 la castellata ed a Bologna sc. 60 fino a scudi 66. A Castel S. Pietro si vendeva il vino soldi 12 il boccale. Le granaglie erano anch’esse a un prezzo esorbitante. La fava era a 52 paoli la corba, il formentone 40 ed il grano 60 paoli ma crebbe fino a scudi 10. Il mondo è sottosopra.

Ferrara in questo tempo era attaccata dagli imperiali, ai confini di Romagna vi erano napoletani e russi con altre truppe ausiliarie per modo che si avevano scorrerie e saccheggi da parte di queste ultime.

Il 14 settembre stante il male nei bovini per cui ne morivano molti, si fece a Castel S. Pietro una solenne festa a S. Antonio Abate a cui seguì un devoto triduo. Il male nei bovini fu causato sopra tutto dai disagi e dalle fatiche fatte per il trasporto di militari, bagaglio e robe più che dall’influenza. Fu anche questo un motivo che pochi muovevano i carri e volevano andare con l’uva a Bologna onde solo i vetturali con le birocce tirate da muli facevano i trasportatori.

La Municipalità, sentendo il mormorio dei paesani su le funzioni ecclesiastiche, andò in forma a S. Bernardino nella chiesa di S. Francesco a sentire la consueta messa.

Si fanno pagare spese e impongono tasse enormi contro i poveri possidenti, ma non si vede come viene usato quel danaro.

Terminato il triduo di S. Antonio si fece con la sua statua la processione per il paese e giunta nella piazza fu data nei quattro angoli la benedizione.

Il generale imperiale Melas fu richiamato dalle sue truppe di queste piazze e fu sostituito il generale Belegard. Evacuati questi luoghi dagli imperiali, successero i cisalpini e vennero poi 60 cavalieri quindi i fanti in seguito un grande bombardamento dalla parte di ponente.

Sentendo i patrioti le cose peggiorare vennero in molti dalla Romagna a Bologna.

La notte venendo a lunedì 15 settembre alle ore 4 italiane giunse un mezzo battaglione di cisalpini cioè 500 fanti dalla Romagna ed alle 5 giunse l’altro mezzo battaglione. Entrati a Castello e nel Borgo fecero molto rumore per gli alloggi e scompigliarono le famiglie.

Gli ufficiali furono alloggiati nelle case e furono fatte alzare da letto le persone e muovere tutte le famiglie con tale fretta che poco mancò nascesse una insorgenza anche perché, oltre il comodo di albergo e letti, vollero pure la sussistenza. Nacquero per ciò amarezze contro la Municipalità la quale sapendo tutto l’aveva taciuto e così aveva tradito i paesani.

Qui non si fermò più la malvagità del capo che era il Dott. Lolli, uomo quanto di bassi natali, e nativo di Vedrana, tanto era altero, crudo ed inumano. Questi vedendosi nella situazione di dovere abbandonare il paese cominciò a fare tutte le iniquità possibili, delle quali alcune riuscì a realizzare ed altre Dio non volle che avessero successo.

La prima fu di insaccare tutte le carte della Municipalità perché non si vedessero tutti i suoi delitti e scelleratezze, la seconda fu di portare via tutta la cassa e danaro ricavato dai tassati e chiamati al sussidio della Annona del paese. Fra i tanti furono segnati i seguenti, che furono, si può dire francamente, derubati. Carlo Conti fu Lorenzo in tanto vino per sc. 260 di Bologna, Francesco Conti notaio in tanto grano per sc. 900. L’arciprete Calistri in tanto grano per sc. 1.200, ma questi fu indennizzato perché suo amico, Carlo Bettazzoni, grano per sc. 200, Carlo Savini, grano per sc. 300 ed altri che se avrò l’elenco riporterò i loro nomi e cognomi. Il danaro non si può calcolare, ma considerati i prezzi fu per circa 2.000 scudi romani. Fu un   ladro impunito, singolare imbroglione ed il migliore fra i framassoni.

Se non accadeva il presente caso per cui dovette fuggire, depauperava tutte le famiglie a forza di scelleratezze, prepotenze e soverchierie, coadiuvato dalla fece dei popolari disperati per i quali era il loro dio. Se non poteva avere grani si faceva dare farina ed altri generi e conveniva ai buoni cittadini, che non si volevano rompere il collo, tacere ed adattarsi alla circostanza del tempo.

 Infine la terza iniquità che voleva fare ma non gli riuscì, poiché il capo battaglione francese Menos fu galantuomo e cristiano e ricusò di servirlo nella crudeltà, era di fare ostaggi ed imporre loro per il riscatto una taglia arbitraria. Se non fosse stata pagata sul momento, voleva fossero deportati dallo stesso Menos a cui aveva offerto la divisione del ricavato.

Si seppe che i destinati alla pena furono dodici nel Borgo cioè Felice e Luigi Farnè, Gaetano ed Emilio Giorgi, oppure il loro padre Pietro, Andrea Giorgi, ufficiale di dogana, Don Baldassarre col fratello Giovanni Landi, perché era stato di governo sotto l’Imperatore, ed il legale Sebastiano Lugatti, perché denunciava questa perfida condotta. In Castello poi Ercole e il dott. Francesco Cavazza, creduti di opinione aristocratica avendo servito l’Imperatore e il Papa, Carlo Conti fu Lorenzo, Francesco Giordani, Don Luigi Sarti per essere stato precettore pubblico della scuola del paese, D. Luigi Facenda per essere amico del Sarti.

Tutto ciò tentò costui per che voleva ottenere con la tirannia ciò che non poteva per la retta via. È da notare che i suddetti mai avevano contrariate le leggi e il loro reato altro non era che di non volere concorrere nelle male imprese del Lolli e perché avevano compassione delle povere famiglie, che desolava e di cui si sovvertiva le figliolanze.

Fece altre iniquità sopra i rimborsi militari dividendosi il di più che si scriveva nelle cedole di rimborso con gli altri suoi compagni. Con questi proventi si trattava da signore in casa e si manteneva una bagascia, almeno per quello che si diceva. Questa Batovacca era della Molinella. Gli tenevano poi mano in queste sue ribalderie i fanatici patrioti Stefano Grandi, speziale del paese, Domenico Grandi, fattore dei Bernabiti e Giosafatte Benati, oste al Portone, che dava loro tutti i pasti che loro volevano in modo che le loro famiglie vivevano lautamente.

Restarono poi scoperti da questi rimborsi i macellai di carne grossa di 1.600 scudi. I carnaioli per scudi 560 e non poterono avere nulla. Stefano Grandi col dott. Lolli facevano le riscossioni, si intascavano a talento e quietavano con ciance e belle parole i creditori che non potevano ricorrere perché minacciati dalla forza.

Ma poi questi egoisti si videro alle strette a causa della insorgenza di alcuni popoli nella Romagna che, uniti in forma di truppe ausiliarie, avanzavano da queste parti.  Poiché temevano di essere sorpresi e massacrati anche dalle truppe tedesche le cui avanguardie erano giunte ad Imola, tutti i patrioti, di notte tempo, sloggiarono dal Castello e Borgo con le loro robe e andarono a Bologna ed altrove per mettersi al sicuro evacuando così tutta la terra.

I principali fuggiaschi furono il Grandi che caricò per fino le granaglie, Ercole Bergami, Francesco di Pietro Conti, che mandarono in molti carri per fino il vino e la legna. L’oste Bonoli caricò un baule di monete ed altri contanti.

La mattina di lunedì 15 settembre c’era stato un grande sconvolgimento delle truppe patriottiche forestiere e nostrane. Molti fanatici sentendo avvicinare a Imola le truppe ausiliarie e le avanguardie alla Toscanella, si decisero di abbandonare questa loro patria e andarono a Bologna in gran numero, parte in forma di truppa di linea e parte disordinati.

I primi marciarono a suono di tamburo con la bandiera francese spiegata di tre colori verde, bianco e rosso. Fu loro condottiero Antonio Sarti che faceva le veci di capo battaglione, erano tutti bene forniti di armi e con l’uniforme cisalpina. Portarono via tutti i fucili e le armi da punta, taglio e fuoco dal quartiere. Furono questi Ubaldo Tomba, detto Stanghetto, Luigi e Giuseppe Vergoni, Luigi Muzzi, il musico, con Filippo Muzzi suo fratello, detto Tarmone perché marcato di vaiolo, Ciriaco Bertuzzi, Luigi Cavina, Luigi Castellari, detto Bardella, Salvatore di Francesco Chiari, Giovanni Neri, Sebastiano Capelletti, Francesco di Giuseppe Farnè con Rafaele suo nipote, Giulio di Domenico Grandi, Domenico Magnani, Luigi Cavina, Domenico Bartoletti, Luca Giorgi fu Giovanni, Pietro Inviti, Giuseppe di Nicolò Giorgi, Lorenzo Alvisi, Giuseppe Oppi ,detto Gussolo, Marco Marzocchi e molti altri al numero di 40. Oltre questi se ne arruolarono molti altri, eccettuati i villani, che di questi nessuno si volle prestare.

Portavano questi dietro le spalle il loro fardello militare. Fuori di questa brigata seguirono il presidente dott. Lolli, Antonio Giorgi, Luigi Cardinali con Francesco Farnè, Gaetano e Vincenzo Andrini, Innocenzo Bartoletti, Ercole Bergami, Francesco di Pietro Conti, tutta la famiglia del fattore Domenico Grandi. Ai detti tennero dietro anche le loro spose ed andarono a Bologna. In questo modo il paese sembrò rinato, essendosi liberato della turba di persone scostumate e dissolute.

Per tale circostanza rimase ancora il paese privo di farine e pane in modo che la classe dei poveri si lamentava. Nel mentre che fuggivano queste genti, il dopo pranzo arrivarono sul nostro ponte del Sillaro due corpi di ausiliari a cavallo che esploravano la strada e i luoghi ove si temevano imboscate, avendo lasciato indietro alla Toscanella un corpo di cinquanta di loro. Questa avanguardia, perlustrato il paese, non avendo trovato alcun ostacolo, scesero per la via romana e andarono alla possessione di Paolo Farnè fratello del fanatico Francesco. Questo podere, denominato la Balestriera già delle monache di Medicina, è una delizia rurale, di fertile terreno e corredata di ogni sorta di piante. Portarono via da qui tutti i raccolti di grano e vino sia di parte dominicale che rusticale, forzando con le armi l’agricoltore a caricare tutto e condurlo a Imola. Quegli armati fecero intendere ai villani conduttori che fra poco sarebbe arrivata la loro truppa a rifornirsi di farine, carni, vino ed altri commestibili a tutte spese del Farnè Francesco come uno dei capi giacobini.

La riunione che doveva farsi questa mattina a Castello sopra l’Annona andò a monte per lo scompiglio arrivato.

Mercoledì 17 settembre, giorno delle quattro tempora, arrivarono a Castello venti insorgenti dalla Romagna, entrati nel Borgo presero i posti opportuni, poi andarono ai cappuccini e circondarono il Castello. Loro capo era Giuseppe di Bartolomeo Giordani di questo luogo, detto il Strabbino. Nel paese non fecero alcun male ai paesani, ma nella campagna vollero dai coloni dei giacobini tutti i viveri.

Rimpatriarono Giacomo Ravasini, Gioacchino Badiali, Alessandro Alvisi, detto Sandrone il mondatore, Luigi Fabbri, detto Stricca, ed altri paesani però senza armi e stettero composti senza offendere alcuno dei loro avversari.

Francesco Nannini, detto Muzzone, giovinastro bravo di sua vita, forzuto, bello e alto incontrò nel torrente Gajana sei giacobini di quel quartiere che gli volevano far fronte, da solo e a forza di sassate li cacciò alla volta di Budrio, quantunque non avesse nella destra che quattro dita.

Gli insorgenti ritornarono sul mezzogiorno e vollero il vitto dai paesani. La loro richiesta fu discreta. Carlo Conti fu Lorenzo gli diede una bigoncia di vino, Paolo Farnè fece lo stesso, pure l’arciprete diede del vino, del salato e 40 paoli. Tutto ciò fece perché era segnato nel numero dei giacobini col suo cappellano Don Francesco Landi, che si nascose nei fornici della chiesa. Sfamati, gli insorgenti tornarono nella Romagna.

Mentre questi ausiliari si trovavano in paese vennero alla volta di questo Castello alcuni dragoni cisalpini a difesa del paese ma a metà della strada, nelle larghe della Magione, avuto avviso che cresceva il numero degli insorgenti, si diedero alla fuga verso la città.

Alcuni dei nostri patrioti che erano andati a Bologna si arruolarono ed andarono nella guardia cisalpina a Reggio. Per tutti questi movimenti restò il nostro Castello e Borgo senza governo, senza guardia e senza armi.

 La notte seguente del 17 venendo al 18 i paesani che erano andati a Bologna, sentendo che gli ausiliari se ne erano andati dal paese rimpatriarono.  Trovarono il paese era sfornito di pane, farine ed altri commestibili e, quindi prevedendo un disordine della classe degli indigenti, andarono alle case dei contadini a prendere del pane. Fra le altre andarono alla Maranina, abitata dalla famiglia di Giacomo Cenni, che era del buon partito, con animo di saccheggiarla. I giovani di quella famiglia fecero alt, respinsero gli aggressori ma nello scontro restò ferita una povera sposa, che dopo pochi giorni morì.

La notte del 20 settembre sul far del giorno vennero da Imola alcuni esploratori degli insorgenti e si fermarono alla chiesa di S. Giacomo al ponte del Sillaro. La guardia del paese avvisata spedì una pattuglia che giunta ad un posto avanzato fece il Chi va là! Dalla chiesa risposero con archibugiate. La pattuglia chiese subito rinforzi. Avvedutisi di ciò gli insorgenti se ne andarono e tornarono alla Toscanella, fra di loro erano mischiati tedeschi ed ungari.

I nostri paesani spedirono l’avviso a Bologna per avere soccorso ma non furono ascoltatati, onde il paese venne in gran timore, tanto più che venendo al Castello alcuni carri di farina per i forni furono questi depredati da militari austriaci che a Imola stavano crescendo di numero.

Si lamentava il paese per questa circostanza, alla fine arrivarono da Bologna 25 cavalieri cisalpini come avanguardia e dopo un quarto d’ora andarono alla Toscanella. La sera arrivarono 200 fanti cisalpini. Gli ufficiali alloggiarono nelle case dei buoni cittadini di Castello e Borgo. Non passarono che poche ore che giunse una truppa di patrioti bolognesi con un cannone, il capo dei quali era il bolognese Giuseppe Jussi. La mattina seguente si incamminarono verso Imola per dissipare gli ausiliari ma a loro non riuscì nulla.

Finché si facevano questi movimenti, la Municipalità, timorosa di un disordine per la mancanza di farina e grano, pubblicò un proclama col quale ordinava sovvenzione di farine ai fornai. Furono sordi i paesani.  Crebbe il clamore popolare e la Municipalità mandò alle case a prendere con la forza le sussistenze per gli indigenti, lasciando ai poveri concittadini il puro bisognevole.  Convenne chinare il capo per evitare il massacro delle persone.

La chiesa di S. Bartolomeo e l’Oratorio, che finora erano stati chiusi, furono riaperti.    

La notte del 25 alle ore tre tornarono col loro cannone i cisalpini bolognesi che avevano inseguiti gli insorgenti ausiliari fino a Brisighella. Tutto questo tempo fino al loro ritorno stettero chiuse le porte del Castello guardate dalla guardia nazionale. Giunsero ancora 200 fanti cisalpini. Il comandante era un veneziano che albergò in casa mia.

Ogni paesano era restìo a dare sovvenzioni alla Municipalità per gli alimenti. Questa proclamò nuovamente che i paesani dovessero aderire al prestito e alle sovvenzioni, ma i paesani furono sempre negativi perché avevano avuto esempi che i municipalisti se ne appropriavano. Fu fatto ricorso al prefetto a Bologna, il quale ordinò che si facesse un invito a tutti i contribuenti che avevano avute le polizze e che, adunati nella sala municipale, eleggessero le persone di loro fiducia per la gestione dell’azienda annonaria.

 In seguito si riunirono in 40 ed elessero quattordici di loro e furono: Don Francesco Dalfiume per presidente, me Ercole Cavazza per depositario, Giuseppe Santi per segretario, Antonio Magnani, Francesco di Pietro Conti, Filippo Conti suo fratello, Carlo Conti fu Lorenzo, Carlo Bettazzoni, Giulio Viscardi, Gio. Battista Fiegna, Giuseppe Gallerani, Luigi Giorgi, Giovanni Landi e Paolo Farnè. Fra essi furono distribuiti i compiti.

A questi riuniti furono esposte le leggi in proposito venute da Bologna, nelle quali c’era la condizione che alle loro adunanze dovesse intervenire sempre un municipalista. Furono fatte quindi le tasse da riscuotere in grano e danari.

Fu contemporaneamente data una accusa a Stefano Grandi dai colleghi Francesco Farnè, Luigi Cardinali e dott. Angelo Lolli perché fosse rimosso dall’ufficio di segretario municipale. L’accusa fu che il Grandi aveva avuto intelligenza con lettere con gli insorgenti quindi aveva per ciò tradito la Municipalità. Inoltre che avendo

sgombrata la propria abitazione, aveva messo in allarme il paese per cui, su questo esempio molti erano emigrati con la roba. Infine si erano pure trovati dispacci dai quali risultava la sua intelligenza con gli imperiali.

Il 30 settembre partirono i Cisalpini per Imola. Il capo brigata era Federico Brasa veneto, che abitò in casa mia, uomo tanto cristiano che dabbene e pulito.

Il 5 ottobre alla mezza notte arrivarono mille francesi e la mattina seguente, domenica del Rosario, andarono a Imola. Successivamente ne arrivarono altri 1200 con quattro cannoni da batteria, fecero campo nel Borgo, la sera partirono per Imola. Quando questa truppa giunse a Castello il paese era sfornito di tutto. Andarono dalla Municipalità minacciando saccheggi, arresti e massacri. Furono quietati con il pane delle famiglie e con vino come si potette.

Il cittadino Antonio Bertuzzi era fuggito nella Toscana. Questi sotto il governo austriaco aveva coperto la carica di comandante la Guardia nazionale. Suo fratello Giuseppe spogliò la casa della roba e la portò a Bologna al sicuro dalla prepotenza dei patrioti locali e fece bene. Infatti costoro, accaniti contro di lui e forse anche sollecitati dai suoi avversari Lolli ed Antonio Giorgi, si impossessarono della casa e vi posero il quartiere della truppa mobile cisalpina. Questa casa è quella posta nella via maggiore del Castello presso la canonica. 

Non contenti di ciò ogni mattina i patrioti si univano in gruppo, poi entrando in quella e uscendo facevano a voce alta questi scherni: illustrissimo sig. Antonio, Comandante, siete in casa? Posso servirvi ?? all’Ordine! all’Ordine! Questi motteggi e scherni provocavano anche i paesani presenti. Autori di queste impertinenze furono i fratelli Luigi e Giuseppe Vergoni con altri del loro partito.

Le ruberie che poi si commettono da francesi e cisalpini sono infinite. I poveri villani non si possono salvare.

Intanto si tratta la pace, ma invano essendovi infrazioni in ogni luogo.

Poiché la truppa aveva bisogno di danaro, fu proclamato che si dovevano pagare 12 milioni di lire milanesi entro il giorno 11 novembre. Per effettuare ciò si sarebbe venduto il rimanente dei fondi ecclesiastici, forzando i commercianti e i facoltosi a farne gli acquisti mediante sborso di danari, roba, grani, vini, legna ed altro.

Intanto la città di Bologna si trova in penuria di grani e c’erano provviste solo per questo mese onde si teme una rivolta del popolo. i ladrocini sono commessi dai patrioti e dalla truppa sono incalcolabili.

Venerdì 7 ottobre vennero da Bologna 600 francesi parte a cavallo e parte a piedi, i cavalieri andarono nella Romagna e qui restarono solo 300 fanti, dei quali ne partirono la notte seguente per Conselice 150.

 La mattina dell’8, temendosi qualche sommossa nelle piccole terre malcontente, fu guarnita Dozza dalla Guardia nazionale di Castel S. Pietro e in guarnigione vi fu spedito Antonio Sarti con sedici fucilieri tutti paesani.

L’ufficialità francese che era qui venuta, fu distribuita nelle case del paese, furono messi in requisizione 150 letti, forniti di 300 lenzuoli, coperte, panni e materassi.

Bologna sempre più reclama per i viveri. La truppa francese che soggiornava in questo Castello era sfornita dei necessari utensili da tavola e fuoco. Il presidente dott. Angiolo Lolli ordinò una requisizione ai paesani per le posate da tavola, calderine ed altri rami.

Questo cane in figura umana che sempre più tiranneggia il paese, mandò la guardia francese alle case ed alle famiglie che erano restie a dare la loro roba a gente sconosciuta e rapace. Fra le famiglie maltrattate ci fu quella del cittadino Antonio Bertuzzi, che fu consegnata alla discrezione del capo guardia dei francesi onde fu maltrattata nei mobili ed in tutto quello che gli parve.

Mercoledì 8 ottobre Stefano Grandi segretario della Municipalità, fu destituito dalla sua carica stante le sue ribalderie non essendosi potuto ritrovare né capo né coda nel suo rendiconto a Bologna. Nel suo impiego fu sostituito dal notaio Antonio Giorgi fanatico patriota e di testa guasta, ed ecco un error peior priore, ed al medesimo fu attribuita anche la polizia punitiva. Dispiacque ciò molto alla popolazione perché si tratta di un uomo capace di qualunque scelleratezza, avendone date prove sufficienti.

Non essendosi potuto avere il numero completo delle 150 coperte per i letti ai francesi quelle mancanti furono mandate da Bologna.

L’11 ottobre ritornarono dalla Romagna due battaglioni di francesi e andarono a Bologna in guarnigione, temendosi di una rivolta per la penuria di viveri. La notte seguente vennero 80 cavalieri e la domenica seguente 12 ottobre partirono per Pianoro ad inseguire gli austriaci che erano al confine della Toscana. Andarono fino a Piancaldoli, ove era il nostro cittadino Antonio Beruzzi del partito imperiale, in qualità di capitano, ma furono respinti. Martedì 14 i francesi si inoltrarono fino sotto la porta di Firenze.

Sabato 18 ottobre, giorno di S. Luca alle ore 16 italiane un ufficiale francese che era in casa del cittadino Lorenzo Trochi in via di Saragozza di sopra, per i patimenti sofferti, si uccise da sé. Prese il suo fucile carico, si pose a sedere sopra una sedia, caricò il fucile e se lo rivolse colla bocca sotto il capo poi con il piede appoggiato allo scattarello, diede una compressione in modo che andò l’archibugiata e gli infranse tutto il capo. Il motivo fu la disperazione per essere da lungo tempo mancante della paga militare e del disagio dovuto a malattia.

 Il giorno seguente domenica 19, la sera su le 13 italiane, la civica guardia di questo Castello radunata in numero di 31 fece la funzione della sua sepoltura in questo modo. Andò a casa del morto a tamburo battente coperto a lutto, seguirono i 31 fucilieri col fucile rivolto a terra e la ufficialità locale, indi il clero laicale, poi il cadavere chiuso in una cassa coperta di nero su cui stava il suo capello e la spada, infine seguiva la municipalità. Vi furono molti lumi. Giunto alla chiesa non entrò, ma fu portato nel cimitero vicino e qui tutti i fucilieri spararono in aria, ma però sopra la testa a due a due. Terminata questa funzione fu subito sepolto. Aveva nome Angiolo Salviga, francese[37].

L’andata della Municipalità, ordinata dal Lolli, dispiacque a tutti i cattolici del paese, venendo riprovata la sepoltura in luogo sacrato e condannato l’arciprete come insubordinato ai S. Canoni che proibiscono la sepoltura ecclesiastica a quelli che commettono suicidio, ma l’arciprete per essere patriota, non si curò punto delle leggi ecclesiastiche ed attese piuttosto a seguire il suo repubblicanismo

Il 21 ottobre vennero di Bologna mille fanti francesi e andarono in Romagna, Contemporaneamente furono emessi dalla Municipalità ordini di requisizioni di fieni per tutto il distretto di Castel S. Pietro, furono messi in requisizione anche formentoni ai mercanti intervenienti in questo luogo, che furono immediatamente dai loro magazzini trasportati nel locale destinato.

Capi di quest’affare furono Giuseppe Parazza, campanaro della parrocchiale, detto Squizzino, Camillo Bertuzzi e Lorenzo Alvisi, che incontrarono resistenze da quelli di Castel Bolognese, perché non gli davano danaro, ma carta. Inoltre perché quei tre delegati dicevano che il formentone doveva servire per biada alla cavalleria francese, quando non si vedeva alcun cavallo né si sentiva della venuta di cavalleria. Ne seguì quindi discussione e contrasto con quelli, capo dei quali fu Marc’Antonio Contoli di Castel Bolognese.

I grani in questo tempo valgono scudi sei e mezzo la corba, il formentone sc. 4 e soldi 45.

I francesi che erano andati alla volta del fiorentino dalla parte del Santerno, tenendo la strada di Fontana, Borgo di Tossignano e Casalfiumanese, saccheggiarono tutti i poveri contadini di quei quartieri per il cibo.

Il vino si vende dieci baiocchi il boccale ed è debole e nuovo. La farina di grano si vende quattro bajocchi e mezzo la libbra e quella di formentone soldi 3 ½ la libbra, cosa mai sentita. Le castagne cotte un quattrinello l’una e così di mano in mano si vendono le noci con la guscia a libbra e non si può scoprire se sono buone o guaste.

Venerdì 24 ottobre la Municipalità, con atto arbitrario, mandò la guardia nazionale alle case dei paesani che avevano comprate le robe del saccheggio e le fece restituire a proprietari senza rifondere la spesa dell’acquisto. Molti si amareggiarono e fu fatto ricorso al Commissario del potere esecutivo per averne un intervento.

Nello stesso tempo Antonio Sarti, capo di questa guardia, si portò alla casa di Gioacchino Badiali, capo degli insorgenti, per recuperare alcune sue robe. Fu sorpreso improvvisamente dal Badiali nascosto in casa che, uscito dal nascondiglio, lo avvinghiò con le braccia, seguì fra loro non poca lotta, infine il Sarti riuscì a liberarsi e diede una fucilata al Badiali, che però andò a vuoto.

 La famiglia di Giacomo Cenni, lavoratore al fondo Maranina, che finora era stato in carcere a Bologna a motivo della aggressione della quale si scrisse in addietro, fu liberato come innocente dalle accuse.

Domenica 26 ottobre il dopo pranzo Ciriaco Bertuzzi cominciò a camminare armato per il paese e dove trovava due o al più tre persone unite, li minacciava di morte come aristocratici. Assalì Domenico Busi servente dei Graffi e Savini perché era accompagnato con Tomaso Sandrini e minacciò di togliere loro la vita. Così fece alla spezieria di Giuseppe Sarti, lo stesso a Domenico Alvisi, che fece fuggire in casa. Similmente a Giuseppe Nepoti, a Pietro Nepoti, Gaetano Giordani ed altri che passeggiavano, a Luigi Farnè nel Borgo ed a tanti altri che la faccenda cominciava a declinare in tumulto per questo terrorista.

La mattina seguente del lunedì 22 ottobre il curiale Sebastiano Lugatti, che era rimpatriato, fu assalito da Ubaldo Tomba e altri che lo minacciarono di bastonate se avesse girato fuori di casa. Nel pubblico mercato del Borgo nacquero altri simili casi, onde il paese era sconvolto. Si ricorse a Bologna, ma non si faceva giustizia.

Nello stesso giorno vennero dalla Romagna due battaglioni francesi e andarono a Bologna e poi verso il ferrarese.

Il Governo di Bologna aveva giorni fa spedito da questa parte alcuni esecutori per sequestrare i morosi che non avevano pagate le esorbitanti tasse sopra i terreni. Questi avevano fatto sequestri nelle vicine colline e montagne e consegnato danari e robe al massaro di Castel S. Pietro Paolo Vanini. Erano stati accompagnati da Ciriaco Bertuzzi e Filippo Muzzi, detto Tarmone. Il 28 ottobre, festa di S. Simone, questi furono fermati da sette insorgenti nel luogo detto Alborro, ove era l’antico castello detto dai latini Alborium. Capo di tali insorgenti era Giuseppe figlio di Innocenzo Adversi, villano lavoratore nel vicino luogo detto il Poggio. Furono perciò disarmati il Bertuzzi e il Tarmone e svaligiati.

I compagni insorgenti dell’Adversi cioè Brusa da Imola, Luigi Rivalta di Dozza, detto Roina, e Pandolfi suo compatriota dozzese erano tutti pezzi di carne cattiva che andarono a finire malamente

 Venuto l’avviso a Castel S. Pietro su le ore 17 italiane, si armò la guardia nazionale e sotto la condotta di Antonio Sarti andò con 18 civici ad Alborro per arrestare gli aggressori, ma invano poiché i sette insorgenti facevano fuoco dal vicino fondo del Poggio, luogo più alto, e solo dopo 4 ore di combattimento riuscì alla guardia di impadronirsi della situazione ma intanto i sette erano fuggiti. Presero il complice del posto con tutti i bestiami bovini, le suppellettili, i maiali e due sacchi di formentone e portarono tutto a Castello

Il 29 ottobre si pubblicò una legge di Milano di dovere raccogliere subito per la guerra sei milioni di lire milanesi da pagarsi alla truppa francese, tali danari furono addossati ai commercianti. Al Cantone di Castel S. Pietro o sia Distretto, che prima si chiamava Podesteria, furono addossati 6.000 lire di Bologna. L’elenco dei tassati fu fatto dalla Municipalità e poi spedito a Bologna.

Novembre – Dicembre 1800

Controllo dell’amministrazione di Dozza. Continua la carestia. A Imola sequestrati trasporti di grano dagli ungheresi. Tutta la municipalità fugge a Bologna. Arrivano 8 corazzieri tedeschi, abbattono l’Albero della libertà. Scoperta una lista per l’arresto di ostaggi. Arrivo di 70 cavalieri ungheresi comandati dal cap. Lituarez. Ordinato il ripristino della Reggenza. Abbattuti gli stemmi repubblicani. Peggiora la carestia per la povertà. Avanguardie tedesche fino al Savena. Buon governo dei tedeschi. Ritirata dei tedeschi. Altri castellani se ne vanno, tornano i patrioti fuggiti. Timore per presenza di insorgenti a Imola.

L’8 novembre, la notte del sabato venendo alla domenica, fu arrestato dai francesi il medico condotto di questo luogo Dott. Luigi Rossi perché aveva fatto dare la campana e martello contro i francesi quando egli era a S. Agata col padre e faceva la funzione di presidente municipale. Su le ore 7 della stessa notte vennero ufficiali cisalpini e dopo due ore di riposo andarono nella Romagna.

A Bologna fu dimessa la Deputazione amministrativa e venne un commissario da Milano di cognome Pelosi, uomo severo. Il motivo della dimissione fu perché quella non volle prestarsi a determinare né imporre una contribuzione sopra i commercianti, imposta dalla Legge di Milano, per un milione di lire milanesi mensilmente addossato al Dipartimento del Reno. Inoltre perché alcuni della Deputazione avevano messe le mani nella cassa delle finanze di Bologna e avevano dato 64 mila lire bolognesi ad un francese, che le volle a forza. Quelli furono condannati al reintegro dello smanco nella cassa.

Furono destituiti ancora altri bolognesi dalle loro cariche ed altri rinunciarono, fra quali vi fu Carlo Savini. Il Pelosi sdegnato gli intimò una multa di mille scudi se fra 24 ore non si rimetteva. Difese il Savini bravamente la sua rinuncia e nulla pagò.

Lunedì 17 novembre sull’ora di notte arrivarono due brigate francesi con 114 ufficiali e sconvolsero tutti gli abitanti del paese poiché vollero entrare ed albergare nelle loro case. La mattina seguente partirono per Bologna alle ore 13 italiane e si diressero a Casalmaggiore verso Cremona ove i tedeschi volevano passare il Po. Nello stesso giorno ne vennero altri dalla Romagna e passarono a Bologna.

Nella presente crisi era stato carcerato a Bologna Luigi Masi, detto Sbargnocola, al quale si faceva un rigoroso processo come ribelle a motivo di essere partitante tedesco e segnato per insorgente. Poiché

io avevo rogato come notaio attestati in sua difesa, il presidente Lolli mi chiamò all’ufficio e mi minacciò di arresto se rogavo simili documenti a favore di un nemico repubblicano. Dopo averlo avvertito che nessuna legge ha mai vietato le difese ai rei, per barbara che fosse la legge, soggiunsi che avessi veduta una tale legge avrei desistito di operare in simili cause. Se però il Lolli come presidente richiedeva che per favore mi astenessi, allora mi sarei prestato alle sue intenzioni, non mai per obbligo. Le Leggi delle genti e della natura a questo proposito favoriscono sempre i deboli e nessuno si condanna senza difesa.

Giovedì 27 novembre la Municipalità di Castel S. Pietro, composta dal dott. Angiolo Lolli, Francesco Farnè aggiunto, Antonio Giorgi segretario unitamente con lo speziale Stefano Grandi, capo battaglione e le guardie forensi di questo capoluogo, andarono a Dozza a fare il controllo a quella comunità per i pagamenti di danari della massaria e la frumentaria di quel paese. Trovarono molto disordine, ladronecci e birbate fatte da quei rappresentanti. Riscontrò per la frumentaria, che oltre avere fatto contribuire a tutti i possidenti di una certa quantità di grano il sessanta per cento sul grano raccolto, dopo averne avuta le denunce, avevano fatto uno smanco notevole senza pagare i contribuenti. Inoltre avevano comprato altro grano ad alto prezzo, e quel che era peggio ne avevano comprato più di quel che si doveva, in modo che, creato un debito notevole, lo avevano addossato ai possidenti.

Dopo avere scoperto ciò, si scoperse ancora che erano stati esentati alcuni possidenti dal contributo ed erano questi gli stessi rappresentanti che si erano fatti immuni dal contributo ed ancora esentati dalle tasse catastali. Erano questi i Nerozzi, capi di quel paese, i quali di 18 fondi rurali coi terreni di buona qualità e che fruttavano assai bene, non pagavano per tassa catastale, che solo 23 scudi romani all’anno, essendo che ne avrebbero dovuti pagare per lo meno 60 onde.  Quindi fu decretato che si dovesse fare un riparto nuovo per l’avvenire. I nostri municipalisti fecero poi là una lautissima cena e poi levarono tutti i danari da quella cassa e se li portarono a Castel S. Pietro.

Scarseggiando la città di Bologna a viveri, avevano comprato a Forlì 2.000 mila corbe di grano. Quella popolazione però era in fermento nel vedersi sprovvedere di grano. Bologna allora vi mandò 60 cavalieri e 200 fanti con un cannone che stette qui entro il Castello fino al 29 poi partirono il giorno seguente di notte su le ore 10 italiane.

Successivamente arrivò un distaccamento di francesi sull’aurora, scortato dall’ex nobile marchese Astorre Ercolani a cavallo con 40 cavalieri bolognesi e 200 fanti nazionali, gente tutta raccogliticcia, di statura diseguale e brutta. La cavalleria era accettabile, aveva due trombetti, vestita tutta di color verde scuro, la fanteria non aveva grande uniforme, poiché pochi erano quelli che avevano la marsina. Arrivarono a Imola su le ore 12. Vi tennero dietro 12 della guardia di Castel S. Pietro dei più sfacciati e coraggiosi, che furono Oppi, detto Barone, Sebastiano Capelletti, Ubaldo Tomba, detto Stanghetto e fratelli.

La sera di domenica 30 novembre presso il torrente Sellustra della vicina Romagna, sopra la strada che porta a Dozza al medico dott. Luigi Olivieri gli fu segata la gola e poi piantato il coltello sopra il capo.  Fu lasciato morto sulla via alle ore 23 circa. Questi aveva molti nemici in quel paesetto per essere stato egli patriota fanatico, contrario agli insorgenti suoi concittadini ed iconoclasta famoso.

 La mattina seguente del lunedì il formentone si vendette scudi sei la corba. La miseria cresce ed in ogni dove manca il vivere.

La truppa bolognese col loro nobile, che erano andati a Forlì per portare grano e formentone a Bologna, non ci riuscivano.  Era forte l’opposizione dei forlivesi ma anche degli imolesi e degli altri romagnoli, che erano tutti allarmati.  Fu richiesto un rinforzo di persone al nostro Castello dove erano cinquanta soldati francesi. Questi partirono subito per la Romagna con animo di battersi con i forlivesi ed altri che li avessero ostacolati. Intanto tutta la Romagna, e perfino i contrabbandieri di Castel Bolognese, parlava male dei bolognesi. Il suddetto rinforzo però non era sufficiente contro la ribellione.

Quindi su le ore 22 della stessa sera vennero 200 cisalpini e la mattina seguente del martedì su le ore 14 italiane partirono per Imola. Furono questi alloggiati prima nelle nostre case e conventi e fummo obbligati a dargli letti, lumi. fuoco e ciò che loro era necessario. I paesani la sentirono male anche perché che la legna destinata alla truppa si consumava nella residenza municipale ed in casa del dottor Lolli presidente e di Antonio Giorgi segretario.

Per quante diligenze si fecero per scoprire l’omicida del dott. Olivieri furono tutte vane. Quello che più meraviglia è che il fatto accadde in pieno giorno, di festa, poco distante dal luogo del Piratello ove era stata data la benedizione del SS.mo e dove passava gente di continuo. Ciò si attribuisce al volere di Dio, poiché l’Olivieri non approvava né le immagini né i santuari. Tre anni fa, quando fu sospeso il culto alle Immagini, egli fu il primo a Dozza che levò là una Immagine di Maria SS. Era questa nella strada pubblica che va dal castello di Dozza alla via romana, poco distante fuori della porta di sotto. L’Olivieri l’aveva tolta dal suo sito, ove riceveva molto culto dai vicini villani e dai viandanti e l’aveva nascosta. 

Per questa cosa, quando gli insorgenti di quel castelletto e del vicino Monte Catone presero il paese, quell’infelice fu assediato e fu presa la sua casa. ll primo saluto che ebbe da quei sollevati tutti fu che a forza di pugni e calci gli fecero ritrovare l’immagine nascosta.  Poi gliela fecero portare processionalmente per tutto il Castello di Dozza in mano come un ostensorio, dandogli di quanto in quanto calci e schiaffi fra urli e schiamazzi. Egli, credendosi condotto a morire gridava misericordia, e gli insorgenti di quando in quando gliela facevano baciare, aggiungendo contumelie e percosse. Finalmente fu accompagnato in questo modo, con una scala di legno, al luogo della S. Immagine, ove credette essere là impiccato con il capestro che gli avevano messo al collo per sua vergogna. Fra fischiate e urlate fu fatto salire la scala e riporre con le proprie mani la Immagine nel suo precedente posto. Ciò fatto, sempre col capestro al collo, fu riportato entro Dozza e davanti a tutte le S. Immagini di Maria e dei santi lo facevano genuflettere. Il luogo della immagine, di mezza maiolica, era sul fianco della strada del Calanco, alla destra scendendo da Dozza. Questa strada porta alla via romana contro la Ca’ del Vento ove appunto fu scannato.

Questa fu la conseguenza di togliere quella B. V. dal suo posto. Mai più la famiglia di quel miscredente godette pace e andò dispersa. Il suo primogenito, assoldato tra i cisalpini nelle battaglie seguite fra Mantova e Cremona, restò sul campo, gli altri suoi figli andarono dispersi per il mondo. Ecco la fine di chi poco onora e vilipende le Immagini di Dio, dei suoi santi e massime della sua SS. Madre, porta del paradiso, dalla quale ne è venuta la salute a tutto il genere umano.

Il 4 dicembre, in virtù della legge sulla riscossione da tutti i commercianti indistintamente di una tassa proporzionato al loro commercio, Castel S. Pietro e il suo distretto venne tassato per lire seimila. La Municipalità cominciò a emettere le cedole di questa tassa fatte in modo fantasioso ed ideale, per cui perfino chi aveva un piccolo banchetto fu tassato. Si sentì perciò non piccole proteste nel basso popolo, sopra tutto per la presente situazione di miserie e scarsità di cibo

Francesco di Pietro Conti fu deputato per riscuotitore, ma abbandonò dopo pochi giorni l’impegno per le grandi lagnanze e lamenti non solo dei tassati ma anche di altre famiglie colpite.

 Allo scopo poi di rimpiazzare la cavalleria francese che si trovava nel bresciano, ove si erano combattuti i tedeschi e i francesi, fu pubblicato un rigoroso proclama del generale francese Brun per una requisizione di cavalli forniti di tutto, per il pagamento dei quali fu ripartito il costo alle Comunità distrettuali del territorio bolognese. A Castel S. Pietro ne furono assegnati cinque, per cui che si spedirono immediatamente fuori le cedole di prestito. A me ne toccò una di cento lire da pagare entro 24 ore. All’arciprete Calistri una di l. 150, alle sorelle Giuditta e Giacoma Castellari, detta la Pritina, una di l. 100, a D. Sebastiano Dall’Ossa un’altra per l. 50, a D. Luigi e fratelli Sarti per altre l. 50, a Camillo Beruzzi per l. 100 ed a tanti altri del paese fino all’importo di l. 4.000 bolognesi. Ci fu perciò non poco rumore non solo per il contante quanto per l’importo fatto a talento del presidente dott. Lolli. Quelli che più la sentirono furono Antonio Tomba per l. 120, Lodovico Oppi per l. 350, Pascale Tomba per l. 100 e molti altri quali per i quali fu un aggravio sproporzionato alle loro possibilità dissestando il loro piccolo patrimonio.

In seguito il giorno 6 dicembre si fece la rivista dei cavalli requisiti nel prato dell’ex conte Stella, eredi Riguzzi, in questo nostro Borgo lungo la via che porta al canale del mulino. Furono scartati molti dei cavalli qui condotti sebbene fossero buoni, poiché lo stimatore dei medesimi ricevette mazzette dai proprietari

L’ 8 dicembre i cispadani che erano andati in Romagna per prendere i grani da Forlì a Bologna ritornarono questa mattina ed andarono a Bologna senza avere potuto fare frutto o come si dicesi con le trombe nel sacco. I forlivesi gli contesero bravamente l’ingresso nella loro città. L’avanguardia che si presentò alla porta fu sul momento salutata con archibugiate e ne restarono 4 morti e molti feriti.  Quindi il corpo maggiore, che era a Faenza con altri civici bolognesi, non si arrischiò.  Molti poi disertarono in modo che rimase quasi disfatta la truppa. Molti dei disertori, al numero di 51, furono arrestati e condotti a Bologna. il comandante Ercolani, che aveva visto la mala parte dei suoi soldati, la notte antecedente se ne ritornò, al buio, a Bologna con i suoi cannoni e fu per ciò deriso. Per questo fatto le altre città di Romagna si fecero coraggio e, per non farsi portare via delle vettovaglie, presero l’armi. A Faenza il Commissario di Polizia che aveva voluto procedere contro gli agitatori, fu ucciso di giorno in quella piazza. Cesena, Rimini, Pesaro non lasciarono uscire di città cosa alcuna perché anch’esse scarseggiavano di viveri.

A Castel S. Pietro la farina di formentone in questo tempo si vendeva a soldi cinque la libbra e non se ne trovava. Il pane si vende, per sette once di peso, a soldi quattro. La povertà si ciba di ghiande bollite. I morti di sfinimento crescono alla giornata. Piove spesso e i fiumi, i torrenti e i condotti straripando danneggiano le zone vicine.  La chiusa del Sillaro danneggiata dalla corrente, non permette di macinare. In queste angustie generali non si ha altro ristoro che è stata posta regola ai molinari nelle scopule ai generi che si portavano per la molitura. Il Governo invece della scopulatura ordinò che per ogni corba di grano macinato si pagasse un paolo e quanto agli altri generi sei baiocchi per corba. Questa tassa era stata promulgata il 29 agosto e reiterata il 5 settembre e fu messa in esecuzione nel presente mese di dicembre.

In questo giorno 8 dicembre essendosi avanzata una avanguardia di ungheresi e tedeschi fino a Faenza, i patrioti e quelli sospettati come loro aderenti fuggirono dalla Romagna a Bologna. Il passaggio delle carrozze ed altri legni da tiro e trasporto era così frequente che le locande dei paesi, non potevano albergare i fuggitivi. Il transito durò fino a mezza notte.

Il giorno seguente, martedì 9 dicembre un distaccamento di cavalleria ungherese arrivò a Imola, fecero chiudere le porte alla città e vennero fino al Corecchio sulla strada romana, per inoltrarsi nel bolognese. Questi fermarono tutti i trasporti di formentoni e granaglie che venivano alla volta del nostro confine. Furono fermati 42 carichi e fatti prigionieri i conducenti con i cavalli e le carette e furono condotti alla Massa ed a Lugo. Per tali novità si spaventarono molti paesani di Castel S. Pietro tanto che fuggì tutta la Municipalità con la guardia nazionale a Bologna. Fuggì pure il distaccamento della guardia mobile, che aveva il suo quartiere in questo Borgo nell’Ospitale dei Pellegrini ed il paese rimase sprovvisto di tutte le autorità ad esclusione del Giudicante dott. Francesco Cavazza, mio figlio.

Fuggirono pure i responsabili della fornitura del frumento e del pane del paese e portarono con sé alla volta di Bologna 500 corbe di grano, così il paese rimase quasi privato di viveri. Si chiuse la residenza pubblica e molti altri accidenti accorsero che il loro racconto sarebbe troppo prolisso e di poca rilevanza.

Morì come si scrisse un ufficiale francese in casa del cittadino Lorenzo Trochi che da sé si uccise, il cui nome era Edoardo Brines di Lione in Francia. Per la sua morte non meritava la sepoltura ecclesiastica e nemmeno il rito del suffragio essendo perduta l’anima.

 La notte seguente il funerale si cominciò a sentire dello strepito in quella stanza dove avvenne il suicidio. Alcuni però non la volevano credere.  Accadde che essendo venuto qui un distaccamento della colonna mobile militare di Bologna, due di questi bolognesi furono alloggiati in quella stanza. Il loro nome era Prospero Lambertini e Luigi Mazzoni, giovani coraggiosi.  Questi, informati della cosa, si chiusero molto bene in quella, dicendo non essere possibile che lo spirito di un trapassato potesse fare tutto quello che si raccontava. Poco dopo fu spalancata la porta della stanza, levato il catenaccio interno, rotta la legatura con un gran rumore ed aperta pure impetuosamente la finestra che guardava la strada. Si spaventarono a morte e perciò fuggirono non solo senza armi dalla stanza, ma dalla casa. A tale racconto nessuno ardiva più stare in quella casa.  Il vicinato stesso abitava di malavoglia nelle vicinanze, poiché lo strepito di catene risuonava da ogni parte. Fu fatta benedire la casa, ma Dio fino ad ora non ascoltava. Finalmente, dopo alcuni giorni intervenne il buon sacerdote Don Luca Bartolotti, che poi morì qui in aspetto di santità, il quale con frequenti esorcismi quietò quell’inferno.

Adì 10 dicembre su le ore 16 italiane arrivarono dalla Romagna otto corazzieri tedeschi che, andati alla casa municipale, cercarono la Rappresentanza fuggita. Quella poca guardia nazionale, che era tutta di villani assoldati provvisoriamente, abbassò le armi e non fu molestata ma solo mandata via. I corazzieri andarono all’albero e lo gettarono a terra. Erano accompagnati da diversi paesani alla cui testa erano Gioacchino Badiali e Luigi Fabbri. Atterrato l’albero partirono, prima avevano tracciate le stampe che trovarono di leggi repubblicane e minacciarono l’incendio che poi, pregati, sospesero.  Sparsero la voce che era imminente la truppa del comandante tedesco Maijr.  

Si intese perfino che Bologna era bloccata e solo quattro porte davano l’ingresso nella città cosa che era comunque sconsigliata. Le porte furono quelle di strada Maggiore, S. Felice, Galliera e S. Stefano. Tutti i carcerati furono condotti a Milano, fra quali il povero dott. Luigi Rossi già nostro medico condotto e Luigi Musi. Vi furono portati anche due preti di Medicina, l’arciprete e Don Spiridione, con altri della Romagna. I nostri paesani che ieri sono fuggirono sono questi: della Municipalità il presidente dott. Angiolo Lolli, gli aggiunti Francesco Farnè e Luigi Cardinali, il segretario Antonio Giorgi, il comandante della truppa Stefano Grandi. Dei patrioti militari: Giovanni Inviti, i fratelli Filippo, Giovanni e Luigi Muzzi, Ciriaco Bertuzzi, i fratelli Camillo, Ladislao e Gaetano Ronchi, Sebastiano Capelletti, i fratelli Giuseppe e Luigi Vergoni e molti altri fino al numero di 42. A Bologna erano stati fatti 20 ostaggi, la maggior parte nobili, che furono condotti a Modena. La partenza dei patrioti di Castel S. Pietro fu una fortuna per gli altri buoni cittadini poiché si scoperse che per una manovra del dott. Lolli dovevano essere qui arrestati e tenuti per ostaggi 30 paesani dei più probi, fra quali erano, il frate Don Luigi col fratello Giuseppe Sarti, Don Luigi Facendi, Don Sebastiano Dall’Ossa, Padre Angiolo da Castel S. Pietro della famiglia Cavalli, vicario di questi Padri Cappuccini locali, Padre Luigi Perdieri M. O. dipendente nel convento di S. Francesco, me Ercole Cavazza col dott. Francesco mio figlio, Nicola, Antonio e Ignazio Farnè, Luigi Farnè, detto Bevilacqua, Gian Francesco Andrini, Gaetano ed Emidio Giorgi, Giulio Viscardi, Vincenzo Violetti, Giovanni Landi, Giuseppe Nepoti, Carlo Conti, Francesco Giordani ed altri. Partendo il presidente dott. Lolli portò via dall’archivio, con l’aiuto dell’usciere Lorenzo Alvisi, tutte le carte della Municipalità.

L’11 dicembre 1800, su le 22 ore italiane, arrivarono dalla Romagna settanta cavalieri ungheresi condotti dal capitano Lituarez, che si fermò alla locanda del Portone ed alloggiò lì i suoi cavalieri.  Poi cercò la Municipalità e, sentendo che era fuggita, cercò qualcuno degli ultimi rappresentanti, ma questi non si trovarono. Chiamò allora l’unica autorità rimasta in paese e fu mio figlio il dott. Francesco Cavazza. Questo capitano gli ordinò, in nome del Barone Scustech, generale maggiore della piazza di Ferrara, di ripristinare la cessata Reggenza con l’insediamento dei seguenti soggetti: Giovanni Landi Consolo, Antonio Magnani, Paolo Farnè, Lorenzo Trochi, Sebastiano Lugatti, Giuseppe Sarti e Gio. Francesco Andrini.

La mattina seguente, venerdì 12 dicembre furono convocati e si radunarono nella pubblica residenza ove fu loro ordinato di mettere subito in attività la Guardia urbana per mantenere l’ordine. Fu inoltre loro imposto di atterrare tutti gli emblemi e stemmi repubblicani tanto in Castello che nel suo distretto, sostituendoli con lo stemma imperiale. Ordinò ancora che robe e gli effetti pertinenti alla repubblica francese e cisalpina che si trovavano nel castello e nel suo distretto dovessero essere posti sotto sequestro, dandone a lui avviso. Infine delegò ai Reggenti la vigilanza e l’impegno per la pubblica quiete e l’arresto dei perturbatori. Fino a che tanto Bologna non fosse in mano degli imperiali Castel San Pietro doveva dipendere dalla Reggenza d’Imola

Arrivata la notizia ai patrioti di Castel S. Pietro, ritirati a Bologna, che la truppa tedesca era in questo luogo, si fortificarono al ponte di Savena vecchia. Direttore della fortificazione fu Antonio Sarti, aiutante della guardia nazionale di Castello. Egli barricò con alberi ed altri materiali le bocche delle strade alla testa del ponte dalla parte di ponente. Fece tagliare le strade e pose il suo quartiere nella vicina caserma. Fece poi sapere a questi paesani che erano rimasti in patria che fra pochi giorni sarebbe rimpatriato. Intanto che si facevano queste cose fuori della città, da quella nessuno rischiava di uscire. Da quest’altra parte i tedeschi erano fino alla Claterna ed essi pure non lasciavano passare alcuno per la città.

Intanto la popolazione era prostrata da tutti questi movimenti. Non cessava la carestia di viveri al segno che le castagne se ne vendevano due per un quattrino e i miserabili raccoglievano le bucce dei marroni bolliti, detti volgarmente ballosi, e li succhiavano. Raccoglievano le granelle dei formentoni e legumi smarriti e li divoravano. La pioggia che continuava a cadere non lasciava camminare alcuno né fare le necessarie faccende. Tutto è solo una grande miseria.

Il 14 le avanguardie tedesche avanzarono verso Bologna fino al Savena vecchio.

I cisalpini con i patrioti assalirono la Molinella dove erano gli imperiali, ma furono respinti.

Dalla parte della Toscana scesero 200 cavalieri tedeschi e cacciarono da Pianoro i patrioti. A Cento avvenne una baruffa fra cisalpini, patrioti e tedeschi. Rimasero i primi soccombenti e ne furono fatti prigionieri 70.

A Bologna dalla parte di strada Maggiore fecero una sortita alquanti patrioti con i cisalpini e scorsero fino a Savena, ma furono respinti. La città mancava di viveri e la farina di formentone si vendeva a sei soldi la libbra. Nel nostro Castello, dopo l’arrivo dei tedeschi, è calata e si vende solo a soldi 4 e quattrini 2. Manca il grano perché la nostra Municipalità ne ha portate via 500 corbe, però la truppa e i paesani non sono a disagio perché siamo soggetti ad Imola da dove vengono grani, pane ed erbaggi.

Lunedì 14 si fece poco mercato per essere state chiuse tutte le comunicazioni dai tedeschi e abbiamo solo il commercio con Imola. Il formentone è calato di prezzo e ridotto a l. 30 la corba dove ne faceva 35. I mercanti bolognesi non possono passare e nemmeno gli altri.

Da che sono partiti i patrioti e qui governano i tedeschi non si sente di alcun minimo furto e tutto è in quiete. Questa sera sono arrivati 300 croati da Imola. Nessuno capisce come mai i tedeschi si accostino a Bologna con poca gente, a gruppi e distaccamenti e senza strepito di strumenti militari.  Sono nella massima parte a cavallo. Le famiglie del paese non hanno alcun incomodo né si sentono rumori. I nostri municipalisti Lolli, Farnè, Cardinali con il segretario Antonio Giorgi sono partiti da Bologna e non si sa il perché.

Camillo Bertuzzi, Innocenzo Bartoletti e l’usciere Lorenzo Alvisi si avviarono verso Milano, ma incontrate truppe francesi e cisalpine tornarono indietro. Furono posti in libertà gli ostaggi di Bologna e di altri luoghi.

Il 17 dicembre tutti i tedeschi, avendo avuta resistenza dai cisalpini e francesi arrivati dalla parte di Toscana, abbandonarono il nostro paese, che restò bersaglio dei fuorusciti e dei nemici.

Il 18 si sparse voce che i tedeschi si ritiravano e perciò venivano nuovamente i francesi da Bologna. Temendo di essere presi come ostaggi, tutti quelli che erano in timore abbandonarono questa loro patria e furono 30 famiglie. Successivamente rassicurate, 20 di loro tornarono alle case loro. Intanto i cisalpini si diressero a Imola.

Ciò non ostante il nostro Castello era senza autorità e per questo la Deputazione di Bologna plaudì la condotta del Giusdicente Cavazza per non avere abbandonato la sua residenza di Castel S. Pietro, come attesta un documento presso di me.

Ritornati i patrioti a Castel S. Pietro questi divennero più insolenti e aggressivi. Di ciò io posso esporre la prova. Mentre, sulla caduta del sole, andavo con i miei due figlioli alla chiesa fummo provocati con ingiurie e contumelie gravi da dei patrioti esaltati che erano nella pubblica piazza. Furono i fratelli Luigi e Giuseppe Vergoni, Ubaldo Tomba, Luigi Castellari, il sarto Luigi Cavina e Bartolomeo Sarti.  Se non si fosse usata prudenza sarebbe stata in pericolo la nostra vita.

Martedì 23, antivigilia di Natale, a causa dei ricorsi e dei richiami pervenuti a Bologna contro questo dott. Lolli, per le sue prepotenze, soverchierie, atti arbitrari e dispotismo, la Amministrazione di Bologna spedì qui il cittadino Carlo Savini con ampie facoltà di riparare, provvedere e reprimere l’audacia dei malvagi.

Questi, giunto a Castello, si portò immediatamente, dopo l’Ave Maria, nella pubblica residenza municipale. Qui spiegato il suo carattere di autorità amministrativa, sigillò sul momento tutte le carte del dott. Lolli che poté avere ed il giorno seguente, 24 dicembre vigilia di Natale, si portò nuovamente in consiglio ove ricevette molte testimonianze e si adoperò in modo che alcuni offesi dai patrioti si conciliarono con i loro offensori. Le altre istanze furono portate a Bologna.

Fra queste vi fu che, giunti a casa, quei patrioti provocarono gli individui delle famiglie, cominciando a mettere loro le mani addosso. Il primo assalito fu Camillo Tussani uomo di 70 anni bastonato all’improvviso da Emidio Tomba senza provocazione né di fatti né di parole. Luigi Lelli ed Emidio, figlio del capitano Pier Andrea Giorgi, furono assaliti da Luigi Castellari con pugni senza alcuna ragione. Anna Masi, moglie di Luigi Masi detenuto, fu disturbata di notte tempo, rompendole gli infissi delle finestre e riempiendole la casa di sassi e immondizie. Don Baldassarre Landi fu fatto fuggire e cacciato in casa a forza di pugni e spinte. Gianfranco Andrini fu assalito in casa propria da Bartolomeo Sarti, Ciriaco Bertuzzi e dal Tomba con armi alla mano minacciandolo di morte. Fu però difeso bravamente da suo nipote Gaetano Andrini, giovine di spirito e capace di qualunque atto difensivo ed offensivo. Furono pure minacciate altre persone che si trovavano fuori di casa dopo l’Avemaria. Intese tutte queste cose il Savini si adoperò per alcune conciliazione ed altre furono portate a Bologna e si riconobbe quindi da dove derivava il male.

Prese poi altri provvedimenti e fece altre cose in proposito, le quali sono state fatte riservatamente a Bologna e che non si sono potute conoscere.  Non di meno se ne seppe una enorme. Fu che il Lolli ed il segretario Giorgi avevano posto cento corbe di avena, per il valore di 260 scudi, nei conti della Municipalità per una fornitura fatta alla truppa repubblicana. Stefano Grandi che li accusava, si era procurato attestati di Camillo Bertuzzi e Giuseppe Parazza, custodi e dispensatori delle biade e dei foraggi, che giurarono di non avere fatta tale fornitura e perciò quella era una partita falsa.

Siamo alla fine dell’anno oramai e ancora non si sono fatte le autorità giudiziarie per il Dipartimento né si comprende il mistero.

Il 25 dicembre, la sera di Natale verso le ore due italiane, si levò una grande agitazione nel Castello e Borgo da parte di tutti i patrioti. Presero quindi tutti le armi perché si diceva che stava venendo dalla Romagna una truppa ungherese. Si credette ciò perché prima delle due erano passate due carrozze con ufficiali cisalpini, tirate a quattro cavalli, che andavano velocemente. Seguivano altre carrozze a due cavalli il cui postiglione aveva detto che dalla Romagna stavano venendo i tedeschi. Questo pose il paese in tale subbuglio che né i probi paesani né i patrioti sapevano a qual partito appigliarsi. Alle ore 5 poi passarono tutti i cisalpini che erano nella Romagna e andarono a Bologna.

 Intanto erano state presentate al Governo altre accuse contro il dott. Lolli in seguito delle quali fu escluso dalla condotta medica di Castel S. Pietro e reintegrato in essa il dott. Luigi Rossi, che era stato licenziato dal Lolli. Ciò non ostante il Lolli manteneva la carica di presidente della Municipalità e, allo spirare dell’anno, creò pubblico maestro di scuola un frate M. O. bolognese, alloggiato in questo convento di S. Francesco. Questi, di nome Padre Cristoforo Pedrini da Bologna, gran patriota, si trovava qui da pochi giorni per l’espulsione subita da altri conventi della provincia come uomo fazioso e troppo fanatico, per cui era anche stato sospeso a divinis per tre anni. Cominciò dunque il suo incarico all’entrata dell’anno nuovo e fu escluso Don Luigi Sarti, prete assai dotto, paesano e amante del buon sistema, fornito di probità e buona morale.

Essendosi poi riempita Imola di ausiliari, detti volgarmente insorgenti, i nostri patrioti e la Municipalità fecero nuovamente premure per avere soccorso e perché si munisse questo luogo di francesi, tanto più che Faenza era piena di austriaci ed ungheresi, sul piede di guerra, che facevano scorrerie fino qui. Non fu sordo il Governo che 31 dicembre spedì qui 150 fanti cisalpini sotto la condotta del capitano Brasa. Si fermarono poco e si inoltrarono fino ad Imola.

Così terminò l’anno 1800.

Gennaio – Giugno 1801

Festeggiamenti per vittoria francese nel ferrarese. Nuove tasse compensate con azioni di beni ecclesiastici. Arresto di Sebastiano Lugatti. Passaggio di truppe francesi verso Napoli. Pace con l’Austria. Truppe passano avanti e indietro. Breve arresto di don Calistri e Antonio Sarti. Scarsità di viveri e aumento prezzi. Santa morte di don Luca Bortolotti. Scontro con predoni francesi. Schiamazzi in teatro contro i municipalisti. Passaggio di truppe verso Ancona.

Col nome del Signore cominceremo la narrazione di quanto giornalmente accadrà nell’anno 1801.

Dopo i combattimenti accaduti nel ferrarese tra francesi e imperiali con la sconfitta di questi, vennero nel bolognese alquante truppe tedesche e vennero da Medicina a Castel S. Pietro commettendo mille mali nelle campagne.

Il giorno 8 gennaio Carlo Conti fu Lorenzo finì la sua vita. Partirono intanto le truppe da Castel S. Pietro.

Intanto era ritornato il presidente dott. Lolli che ordinò a tutte le chiese del paese di festeggiare, con ringraziamento a Dio, la vittoria ottenuta dai francesi. Suonarono le campane di tutte le torri e nella parrocchiale si cantò il Tedeum. Intervenne il clero tutto e la Municipalità con tutto il suo personale. Prima di dare la S. Benedizione col SS.mo l’arciprete Calistri raccomandò al popolo di recitare tre Pater, il primo in ringraziamento dei benefici passati, il secondo per i bisogni del paese ed il terzo per la confederazione repubblicana. Da qui mostrò il suo l’attaccamento al patriottismo e fu biasimato. Data la S. Benedizione seguì lo sparo di tutta la fucileria nazionale. Quindi la guardia si portò sulla piazza ove, a bandiera spiegata, fu inalberato, al suono di trombe e tamburi, il nuovo Albero della Libertà nello stesso posto ove era stato tagliato l’altro dai tedeschi. Luigi Cardinali, detto Scagliola, ai piedi dell’albero, fece una allocuzione al popolo radunato, al fianco aveva il nuovo maestro di scuola Frate Cristoforo Pedrini di Bologna, che fu poi cacciato dal paese.

Mentre il Cardinali esprimeva i suoi concetti il frate spiegava all’uditorio i termini che erano difficili. Il dott. Lolli stava alla ringhiera del palazzo pubblico ad ascoltarlo. Terminato il discorso il Lolli gettò dalla ringhiera del danaro al popolazzo. Poi con volantini invitò ogni abitante ad illuminare le proprie finestre con lumi a proprie spese.  Nella sala municipale si fece un baccanale con rinfreschi e ballo fino a mezzanotte quando finì tutta la festa con rumore di campane.

Il 20 gennaio passarono di Bologna ad Imola due battaglioni di francesi, la maggior parte soldati e pochi cavalieri, che andarono a Faenza e Forlì per tenere a freno la insorgenza là nata.

Fu nello stesso tempo fu arrestato Alessandro Alvisi come insorgente e qui processato dalla municipalità. Prima di partire da Bologna il commissario Pelosi, milanese, creò un Deputazione di tre soggetti e fu chiamata degli Appositi, con facoltà di imporre tasse per dodici milioni di lire milanesi, da riscuotersi in tante quote di l. 12 mila ciascuna, assegnando ai contribuenti tante azioni sopra i beni ecclesiastici invenduti nel milanese. A Bologna, suo territorio e Imola, furono prescritte 128 azioni. Queste furono ripartite a capriccio alle famiglie credute più facoltose ed ai commercianti. A me ne fu intimata una di 12.000 lire milanesi da pagarsi nel termine di 40 giorni.

 La sera del 25 gennaio mi fu presentata per l’incasso. Al commerciante Giovan Lodovico Oppi ne fu presentata una simile, pure uguale ai fratelli Giulio e Gianfrancesco Andrini. Le altre famiglie del paese andarono esenti, sebbene facoltosissime. Ai Nerozzi di Dozza, che hanno una possidenza di 22 fondi, non fu richiesto nulla, perché patrioti, lo stesso ai fratelli Farnè che hanno una buona possidenza di 100 corbe e più di sementazione, oltre al florido commercio, all’arciprete Calistri nulla, al dott. Gaetano Conti nulla, e così a tanti altri.

Giovedì 29 gennaio su le 22 italiane fu arrestato il cittadino Sebastiano Lugatti dalla Guardia nazionale e tradotto nel suo corpo di guardia. La notte tentò la fuga e gli riuscì, ma fu sfortunato poiché, passando per il Castello, una sentinella se ne accorse e cominciò a gridare ferma! ferma! e fu arrestato verso la porta superiore del Castello. La mattina seguente per opera di Luigi Vergoni, Luigi Castellari, detto Bardella, e Ubaldo Tomba, detto Stanghetto, fu messo nella segreta da dove fu poi levato e posto in casa del custode delle carceri.

I tre soggetti suddetti, saputo ciò andarono dal carceriere e trovato il Lugatti, lo maltrattarono di pugni, schiaffi, tirate di capelli e lo buttarono giù dalla scala e nuovamente in carcere.

I parenti del Lugatti si lamentarono giustamente col presidente Lolli, che avrebbe dovuto punire i malfattori. Questi nulla fece e, prendendo l’affare in scherzo, non fece altro che dal carcere trasferirlo nei Camerini del Borgo nell’Ospitale dei Pellegrini. Prima però di fare ciò fu interrogato dal segretario Antonio Giorgi, Il Lugatti, richiesto sulla causa del suo arresto, rispose che era stato per avere fatto petizioni contro il Giorgi e il dott. Lolli. Seguirono altre domande, alle quali il Lugatti rispose che le avrebbe date a chi di dovere a Bologna. Quindi la mattina del 31 gennaio, su le ore 20 italiane, fu condotto a Bologna da due della guardia che avrebbero voluto che andasse a piedi incatenato come un bandito, il che non fu loro permesso.

Il 31 gennaio in Bologna furono giustiziati Michele Manganelli, i fratelli Antonio e Giovanni Coterini, assassini che furono uomini inumani.

Il 4 e 5 febbraio passò dell’artiglieria francese che si riposò nella piana dietro al convento di S. Francesco e dei palazzi Malvasia e Locatelli. Furono 12 cannoni ed andavano in Romagna per incamminarsi verso Napoli.

 Contemporaneamente fu pubblicato un bando che da nessun pulpito si dovesse più predicare, se non si avesse avuto prima la licenza del Direttorio di Milano. Potevano predicare solo i parroci e i cappellani a cui fu solo concesso la spiegazione del vangelo. Vi fu molto sussurro nel popolo, che si dimostrava contrariato.

Domenica 8 febbraio a Dozza la guardia di quel paese arrestò Luigi Rivalta, detto Roino, supposto reo dell’omicidio commesso nella persona del dott. Olivieri e di altri francesi. Prima di arrendersi fece alle archibugiate per tre ore contro le guardie. Con il Roino c’era Giuseppe Adversi di Castel S. Pietro, ma questo fuggì e l’altro per mancanza di munizioni dovette arrendersi e fu perciò imprigionato e condotto al Castello e molto maltrattato.

Il formentone aumenta di prezzo e nel mercato d’oggi è salito al valore di l. 6: 50 la corba. La povertà piange e la mortalità cresce. L’inverno finora è senza neve, ma con nebbie che producono gravi raffreddori in ogni famiglia. Le profumazioni di ginepro, zucchero, palma e semola tengono le case sane. Il letto però è il miglior rimedio.

In questo mese si presenta il Piemonte in rivolta, per cui i francesi devono là portare le loro armi. Intanto l’armistizio tra i francesi e gli austriaci è stato protratto fino al prossimo marzo.

Nel paese ogni famiglia vende vino al minuto. Gli osti gridano, non sono mai sazi e si lagnano a torto perché vendono il vino a soldi 10 il boccale e i paesani a soldi 8.

La notte di sabato 14 febbraio alle ore sei italiane la guardia di Castel S. Pietro, comandata dall’aiutante Antonio Sarti, si portò nell’imolese a Turano ove erano cinque insorgenti, fra i quali due imolesi. I 14 nostri nazionali con altri 6 di Dozza circondarono la casa e cominciarono a sparare. Domenico Oppi, detto Barone, di Castel S. Pietro per essere troppo coraggioso, riportò una ferita mortale sul petto, che la domenica sera lo condusse al sepolcro. Fu sepolto in parrocchia a spese pubbliche

La sera di domenica 15 alle ore 22 italiane fu da questa guardia nazionale arrestato un cappuccino da Comacchio, di nome Padre Faustino che stava qui alloggiato e subito fu condotto a Imola entro una carrozza per ordine di quella polizia. La cagione fu perché aveva affermato che era stata fatta la pace con la condizione che le tre legazioni di Bologna, Ferrara, e Ravenna tornavano al Papa.

La pace era stata firmata il 9 febbraio[38]. Voglia Dio che duri.

Il 16 il formentone è cresciuto di prezzo ed è salito a scudi sette e soldi 20 la corba. Mentre la povertà si lamenta della miseria, le altre famiglie si lamentano perché crescono le contribuzioni e le tasse. La mortalità cresce e si sente di una epidemia grande nel genovese che fa morire le persone in 13 giorni. Il tempo è sconvolto e dona pioggia e neve.

Passano comunque truppe francesi e vanno nella Romagna. Dietro a queste passò da Bologna alla Romagna pure un corpo di 2 mila soldati di fanteria della Legione italiana e andò a Imola con quattro cannoni e munizioni da guerra.

Il 23 febbraio 23 la fanteria del generale Munier[39], che era nella Romagna ritornò a Bologna per andare nella Lombardia, attese le condizioni della pace con l’Imperatore d’Austria.

Mercoledì 25 per munire Ancona, tolta al Papa senza alcuna resistenza ma con stratagemmi ed intelligenza, passarono da Bologna a questa parte quindi ad Imola due mila fanti divisi in cinque battaglioni.  Si diressero a quella volta a bandiera spiegata con due pezzi di cannone. A questi seguì poi la cavalleria di 80 ussari. Imola esausta di viveri reclamava fortemente, ma non era ascoltata.

La notte di venerdì arrivò l’ordine di ritornare a Bologna, cosa che fecero la notte seguente del sabato.

Fu resa nota la pace seguita fra la Francia e l’Imperatore d’Austria, nella quale i capitoli più interessanti erano quelli di doversi mantenere quattro repubbliche: l’Elvetica, che sono i Grigioni, la Ligure che sono i genovesi, la Batava che sono gli olandesi e infine la Cisalpina.

Sabato 28 febbraio ritornarono le truppe alla volta della Romagna ed il giorno seguente domenica primo marzo su le 22 italiane passò la cavalleria che veniva da Bologna ed andava ad Imola. Tutti i soldati erano adirati per questi ordini e contrordini. Durò il passaggio fino al lunedì mattina.

La miseria di viveri è così grande che il pane si vende otto baiocchi la libbra, il formentone naturale si vende a scudi otto e mezzo la corba, la sua farina a soldi sei per libbra. Il grano a scudi undici la corba e di più a piacere ed è anche cattivo.

Martedì 3 marzo vennero dalla Romagna 800 cavalieri della divisione del generale Monnier. La notte alloggiarono nel Borgo e nel Castello. Fecero molte iniquità nelle botteghe, portarono via la roba e non la volevano pagare e se parlavi, adoperavano le mani. Paolo Farnè ebbe una botta di sciabola nel ventre e fu minacciato di morte. A Francesco di Pietro Conti portarono via due botti di vino, al Farnè sei carri di grano oltre i commestibili. A Camillo Bertuzzi vino e fieno e così a tanti altri che furono danneggiati chi in una cosa e chi in un’altra.

La mattina del 4 marzo alle ore 12 italiane andò questa truppa a Bologna ed appena colà giunta, fu fatta ritornare a Castel S. Pietro. Pernottarono qui e la mattina andarono a Imola.

Nelle condizioni della pace ci fu la concessione ai popoli di adottare e scegliersi quel governo politico che loro fosse piaciuto.

Giovedì 5 vennero da Imola 2 mila fanti della divisione di Monnier ed il sabato seguente vennero da Bologna 1.500 cisalpini ed andarono direttamente ad Imola. I grani non cambiano di prezzo. Il riso si vende soldi 8 la libbra. Il pane soldi 8 per una libbra e mezzo di peso. I fagioli bianchi, soldi 5 e mezzo la scodella, e quelli dell’occhio soldi sei e mezzo la scodella. La povertà non può vivere e quel che è peggio non trova da lavorare, onde per il disagio molti vanno al sepolcro.

I giorni 10, 11 e 12 passano molti francesi da Bologna ad Imola sebbene fosse stata fatta la pace fra l’Impero e la Francia.

In questi giorni la Municipalità andò alla visita delle botteghe e fermò molti bottegai perché non avevano i pesi e le misure bollate. Ci fu un aumento del prezzo a tutti i generi per cui si sentono solo lamentele.

 A motivo del saccheggio passato fu arrestato Gaetano Andrini per ordine del presidente Lolli su istanza di Antonio Sarti.

Il 13 marzo fu intimato ai terziari di S. Francesco de M. O. di spogliare fra 20 giorni l‘abito francescano. Nello stesso mese il 22, domenica di passione, si fece la solenne processione del Crocefisso non velato per tutto il paese dalla Compagnia del SS.mo, a cui intervennero tutte le autorità locali, con la guardia nazionale. Non intervenne la Compagnia del Rosario e nemmeno l’arciprete Calistri. Ercole Bergami che ne era il priore, benché invitato non volle partecipare alla funzione, il che dispiacque alla intera popolazione.

Il giorno 23, su le ore 10 italiane, andarono a Bologna, in arresto, l’arciprete Calistri ed Antonio Sarti. Il motivo non si seppe poiché, essendo entrambi patrioti, fu strozzata la giustizia. Uscirono dopo tre giorni.

Era molto in difficoltà l’Ospitale degli Infermi onde la Municipalità delegò per la questua 4 giovanetti del paese e donne maritate. Furono queste la cittadina Brigida Frabetti moglie di Carlo Bettazzoni, Lucia Inviti, Ottilia Cavazza e Rosa Giordani.  Fecero una abbondante raccolta fino alla somma di l. 150 bolognesi, cosa mai più ottenuta sia per le uova e il filato nella campagna che per le sovvenzioni in contante nel Castello.

La Guardia nazionale del paese che si era sospesa a causa della mancanza del quartiere, quest’oggi si attivò di nuovo e come nuova sede di riunione fu stabilito l’Ospitale dei Pellegrini nel Borgo. Il giorno 26 marzo si radunò nella casa municipale e alle ore 23 italiane si portò al Borgo a tamburo battente.  Eseguito ciò, tutti i villani se ne partirono ed abbandonarono il quartiere ove restarono solo i patrioti.

Il 28 marzo morì a Bologna Modesto Calistri fratello dell’arciprete e lasciò vedova Mariana di Nicolò Giorgi con una bambina.

Cresce la fame ed il riso si vende a sette bajocchi e mezzo la libbra, la farina di castagne a soldi sei. Il pane è cattivo e se ne danno sette once per quattro bajocchi. Le uova sono a cinque bajocchi la coppia, la carne bovina a sei bajocchi.

Il 3 aprile, venerdì Santo, vennero dei cisalpini da Bologna per la Romagna.  Venne pure l’ordine da Bologna di spogliare tutti i terziari delle religioni. Dietro questo ordine, ne venne un altro che tutte le chiese dovessero essere chiuse alle ore 23 italiane e terminati tutti gli offici divini, sotto pena di arresto ai contravventori.

In questo tempo passarono da qui i cisalpini sotto la condotta di Monsù Francesco Venier, francese di Grenoble. Avendo bisogno di pane si fermarono alcuni al forno esercitato in Castello da Giuseppe Parazza ed amministrato, per interesse pubblico, da Ercole Bergami e da Domenico Grandi, e chiesero del pane per servizio della truppa. Gli fu negato adducendo di non avere tale impegno. Si adirarono i cisalpini.  Il Parazza volle fargli fronte e si prese un colpo di sciabola nella pancia. I suoi colleghi Bergami e Grandi si difesero ma, non sentendosi troppo sicuri perché cresceva il numero dei cisalpini, fecero chiamare la guardia civica in aiuto. Questa, intervenendo, fece argine, ma poco giovò perché i cisalpini si adirarono maggiormente. Crebbe l’ardore della baruffa e furono feriti alcuni paesani fra i quali Lorenzo Alvisi, usciere della Municipalità, ed altri ricevettero bastonate. Alla guardia convenne ritirarsi. I cisalpini si impadronirono del forno e lo saccheggiarono portando via tutto il pane, il danaro e ciò che loro parve, poi si diedero ad inseguire i patrioti che riuscirono a fuggire in chiesa.

Il 5 aprile, domenica di Pasqua di Resurrezione, due ore avanti il mezzogiorno, si pubblicò la ratifica della pace fra l’Impero austriaco e la repubblica Cisalpina, a cui seguì uno strepito di tamburi col suono di tutte le campane del paese ed un triplicato sparo di fucili intorno all’albero. Dalla ringhiera municipale furono poi gettate al popolo stampe di esultazione.

 L’8 aprile furono portati in arresto a Bologna l’arciprete Calistri e Don Giacomo Mazzoni, arciprete di S. Martino in Pedriolo, perché avevano distribuito i santini per la Pasqua. La stessa sera il cappellano Don Francesco Landi, dovendo fare la comunione per viatico ad un infermo, invitò dopo l’Avemaria il popolo col campanello a mano su la porta della chiesa, seguendo lo stile vecchio. Fu denunciato al presidente Lolli e, dopo fatta la S. Comunione, gli fu intimato l’arresto in casa per tre giorni.

La domenica seguente, domenica in Albis ottava di Pasqua, ritornarono a Castel S. Pietro l’arciprete Calistri e l’arciprete Mazzoni.

Il Sacerdote Don Luca Bartolotti bolognese della parrocchia di S. Arcangelo di Bologna, già missionario apostolico, si era stabilito nella canonica di questo arciprete Calistri otto mesi fa e faceva tutte le funzioni parrocchiali, la carità agli infermi, le elemosine ai poverelli e viveva santamente. Mercoledì 8 si era ammalato, non si alzò più di letto e morì la sera di martedì 15 nella canonica al suono dell’Avemaria. Recitò con gli astanti le salutazioni angeliche del Regina coeli laetare al termine delle quali spirò santamente. È da notare che prima della recita angelica, cominciando a parlare, fu interrogato dall’arciprete Calistri, se abbisognava di nulla e se moriva volentieri, rispose lietamente: al mondo non so che mi fare, la morte non mi perturba, dunque si faccia la volontà di Dio, io non abbisogno di nulla.  Poi scopertasi la destra alzò gli occhi al cielo e sorridendo alle interrogazioni dell’arciprete, si fece da sé il segno di S. Croce, pronunciando chiaramente e ad alta voce: In manus tuas Domine comendo spiritum meum. Quindi chiuse gli occhi, in placido sonno, senza agonia, con volto ilare, ben colorito, così ché tutti gli astanti piansero di tenerezza. Fu portato il suo corpo da tutto il clero, accompagnato dalla Compagnia del Rosario, nella chiesa parrocchiale dove stette finché furono compiute le esequie. Fu chiuso in una cassa di rovere e sepolto in mezzo della chiesa. Entro la cassa in un tubo di latta gli fu lasciata una annotazione composta dal dott. Luigi Farnè di Castel S. Pietro, arciprete di Varignana.

Morì povero perché tutto dava in elemosina. Nell’inverno scorso era andato a Poggio da quel buon parroco Don Alessandro Dal Bello. Incontrò un poverello scalzo e nudo, egli si cavò le proprie scarpe e le diede a quello, facendo poi un lungo tratto di strada a piedi senza scarpe fino a Castello. Era talmente povero che non gli ritrovarono che quaranta soldi che non ebbe tempo di donare. Fu pianto da tutti perché fu un buon prete e un ottimo confessore. Non si scopriva un malato, che non visitasse subito senza essere chiamato. Gli furono tagliati i panni di dosso., come reliquie

Predisse la sua morte 20 giorni prima in una sua predica citando le chiamate che fa Dio col testo: Multi sunt vocati. Disse al popolo che dopo Pasqua doveva morire, che la sua morte sarebbe spiaciuta a molti e che egli non ci sarebbe stato a consolare i suoi penitenti.

Sebastiano Lugatti, che era stato arrestato i 19 gennaio, scorso uscì dal carcere a Bologna.

Molti cisalpini passarono dalla Romagna a Bologna. Non avevano voluto imbarcarsi per timore delle navi inglesi.

Il 24 aprile venne una grande brina che rovinò tutti i legumi seminati.

Avvenuta la pace volendo la Municipalità dare un segno del piacere, ordinò con proclama una sovvenzione pubblica che fu estesa a 17 parrocchie cadenti sotto il Cantone di Castel S. Pietro così come formato dal direttorio di Milano. Ha questo una popolazione di 3 mila individui. Comprende il territorio che va a sera dal Condotto detto la Centonara, a mattina fino al torrente Sellustra nella Romagna, poi a sud confina a metà del comune di Sassoleone e a nord con tutto il medicinese.

Furono nominati i giudici che però, essendo la maggior parte curiali di Bologna, riconobbero che era per loro svantaggioso e perciò rifiutarono e rinunciarono alla nomina.

Era stato giustiziato a Bologna un ladro sacrilego di cui non stiamo a farne la descrizione potendo il lettore dei nostri scritti leggere la relazione stampata.

Il sette maggio a Bologna morì Giuseppe Bertuzzi figlio del fu Giovanni, pubblico notaio di Castel S. Pietro, fratello questi del precedente arciprete. Resta vivente di questa famiglia solo il fratello Antonio emigrato dal paese e stabilito nel veneziano a motivo di avere servito l’Imperatore nell’ultima rivolta di questo Castello.

Per le recenti notizie sparse sulla non applicazione della pace, furono sospesi tutti i cambiamenti delle autorità nel contado.

Il 10 maggio fu sospeso l’uso della cappa e sacco alle compagnie per cui questa mattina, giorno di domenica, essendo la B. V. di Poggio nella chiesa della Annunziata nel Borgo per le rogazioni, si andò solamente con la Compagnia del SS.mo a riceverla e portarla nella sua chiesa ed oratorio. Le mattine del lunedì, martedì e mercoledì si fecero le solite processioni per il Castello e il Borgo in cui intervennero solo i Cappuccini, i Francescani, il clero secolare e solo sei confratelli del SS.mo portavano la cappa perché sostenevano il baldacchino.

A Bologna era stata cambiata la Centrale e la nuova risultò composta dall’avvocato Mazzolani d’Imola, da Coen ebreo di Cento, da Bernardini Monti bolognese e dall’avvocato Riguzzi di Cento.

Sparsa la voce che il papa era morto i patrioti esultarono molto ma poi fu smentita. Quando invece seppero che la Russia dell’Imperatore Alessandro primo[40] aveva intimata la guerra alla Francia, si rattristarono molto.

Il Direttorio riunito a Milano decretò che la Repubblica Cisalpina sarebbe stata divisa in tanti Dipartimenti e i paesi sottoposti al Dipartimento ossia i Distretti saranno denominati Cantoni, come di fatti avvenne. A Bologna furono tolti molti paesi. Imola fu chiamata: Dipartimentale Città del Santerno, prendendo il nome dal fiume che la costeggia, le furono sottoposti i seguenti cantoni con le sue ville e castelli cioè Lugo, Massa, Medicina, Castel S. Pietro, Castel Bolognese, Dozza con i rispettivi distretti. Furono dichiarate soppresse tutte le municipalità e concentrate in un solo agente ed un aggiunto, cioè un aiutante, per ogni comune.

Tutto ciò è manovra dell’avvocato Manuti imolese e del cavaliere Alessandro Sassatelli residenti ora in Milano, ma poca sarà di ciò la durata per il generale scontento. Come cresce la fame, crescono le tasse e le contribuzioni in ogni dove nella repubblica.

Il 10 maggio fu pubblicata la legge che per l’avvenire i contadini fossero esentati dal pagamento delle tasse prediali, ma che queste restassero addossate per l’intero ai proprietari dei fondi. Questo fu anche pubblicato nelle chiese parrocchiali durante la messa.

Il 15 maggio fu arrestato il cittadino Gian Battista Fiegna con l’accusa che l’anno 1799 in luglio aveva fatto scrivere una petizione contro le autorità del paese che erano composte dal dott. Angiolo Lolli, presidente, Antonio Giorgi, Giusdicente, per le loro birbate e scelleratezze. Gli accusatori furono Francesco Chiari, Francesco Bernardi, Antonio Inviti ed altri.

La stessa mattina del 15 maggio passarono da Imola a Bologna 800 ussari a cavallo tutti piemontesi, vestiti di rosso e si incamminarono poi alla volta di Mantova perché la pace in realtà non era rispettata e i tedeschi erano venuti a Verona per attaccare la Repubblica Cisalpina ed invadere la Lombardia e il mantovano.

Sabato16 maggio fu scarcerato il Fiegna dopo avere pagato al Lolli e al Giorgi sei zecchini. Poi, perché non apparisse questa furfanteria, il Giorgi e il Lolli stracciarono l’accusa e fecero apparire al Fiegna che era una grazia che gli facevano e cancellarono tutto il procedimento.   

Perché la polizia sussidiaria in mano della Municipalità e della Giusdicenza, faceva delle iniquità, da Milano per legge furono abolite tutte queste polizie e in conseguenza furono liberati tutti gli arrestati. Questi poi reclamarono e furono puniti quelli che li avevano fatti arrestare e furono sottoposti a pene pecuniarie, ma queste non furono pagate da quei responsabili perché erano giacobini.

Sebastiano Lugatti fu liberato dall’arresto per la petizione contro il Lolli e il Giorgi. Si fece sentire a Milano e ne ebbe le convenienti soddisfazioni. La ribellione delle tasse fu addebitata a Stefano Grandi e a Domenico Grandi.

Il 17 maggio per i rumori che erano nel paese per il malgoverno dei patrioti vennero qui in presidio 80 polacchi con due comandanti, uno dei quali era in casa mia. La loro uniforme era bellissima, tutta di color turchino scuro, finito in bianco, in capo portavano un berrettone alto che nella sommità era quadrato come la beretta dei preti e nelle quattro punte pendevano dei cordoni bianchi con perla.

Cresce la fame ed il grano si paga l. 12 la corba.

 Mentre dei villani stavano facendo il riattamento stradale con la ghiaia nel comune di Ozzano, sottoposto a Castel S. Pietro, accadde che quindici predoni francesi tolsero a viva forza le paia di buoi e un carro a quei poveri villani. Vennero poi tutti armati alla volta di Castel S. Pietro per passare alla Romagna, tenendo in mano le armi da fuoco per usarle chi contro chi li avesse voluto ostacolare. Fatto rapporto del fatto alla nostra guardia nazionale, questa armò 20 dei più coraggiosi e bravi a cui si unirono alquanti polacchi. Passando per le vie traverse nella vicina collina sopra la Toscanella tagliarono la strada ai predoni. Giunti al borgo della Toscanella i nostri dettero l’alt e andarono alquante fucilate. I francesi vedendosi contro una forza maggiore delle loro, abbandonarono la preda ed il villano che era stato sequestrato ritornò con le sue bestie a Castello.

I masnadieri furono dispersi per la vicina campagna e si seppe poi che si erano riuniti nelle vicine colline a danno dei dozzesi tenendo la via della Sellustra.

Il primo giugno presso il ponte sul Sillaro nella via postale furono arrestati due villani della famiglia Martelli per la supposizione di avere voluto ammazzare due piemontesi a cavallo. Furono processati e poi, considerati innocenti, dimessi.

Il 2 giugno passarono da Bologna a Imola 1.400 cisalpini.

Luigi Busi, detto Sbargnocola, che era il solo rimasto nelle carceri di polizia di questo castello, non poté essere liberato stante le calunnie che continuavano dei suoi avversari che lo volevano morto. Questi individui erano il dott. Lolli presidente e medico condotto, Stefano Grandi speziale, Bartolomeo Sarti oste al Gallo, Antonio Giorgi notaio, Camillo Bertuzzi, Domenico Grandi, Francesco di Pietro Conti detto Futilone, Ladislao Ronchi, le sorelle Antonia e Lucia Inviti, Luigi Muzzi, Paolo e Francesco Farnè, i fratelli Luigi e Giuseppe Vergoni.

Sopra il sepolcro di D. Luca Bartolotti fu poi apposta la seguente inscrizione

LUCAS BARTOLOTTI

missionarius apostolicus

absic expecto donec veniat

immutatio meo

Vixit an.. LXXIV. obiit …..

Perché la iscrizione era scorretta e male esposta fu tolta, con vergogna di quel prete ignorante che la compose e fu creduto l’arciprete Calistri.

Sabato 6 giugno partirono da Castel S. Pietro i polacchi e andarono a Bologna. Il loro comandante che stette sempre in casa mia con la sua servitù, aveva nome Stefano Chiatchoscht ed era primo capitano del terzo battaglione, uomo pulito, onorato. Nessuno si poté dolere del comportamento della sua truppa. Quando, il 4 giugno, passò il SS.mo davanti a casa mia nella processione del Corpus D., volle che tutta la sua guardia si schierasse a suono di tamburo e zufoli e nel cortile fu venerato il SS.mo.

Domenica 7 giugno, prima del mese, la processione del Venerabile si fece solo entro la chiesa arcipretale con la compagnia cappata.

La stessa sera, mentre nel teatro pubblico della Municipalità si stava rappresentando una commedia da comici forestieri, accadde che, terminato il primo atto, si alzò uno schiamazzo popolare, che gridava: Morte ai ladri! morte ai ladri! L’aiutante della guardia nazionale Antonio Sarti che era lì, invece di calmare il baccano alzò la voce più di ogni altro e gridò: lo so bene a chi si deve gridare Morte. Ognuno ammutolì temendo conseguenze. Cominciò il secondo atto e pure alla fine di questo fu rinnovato il clamore. Il dott. Lolli che era presente con Antonio Giorgi, di lui segretario, prevendo la mala parata della vicenda, fuggì destramente dal teatro.

Il motivo di ciò era perché il Lolli e il Giorgi come capi della Municipalità e responsabili della polizia criminale avevano, tempo fa, liberato il capo degli insorgenti di Monte Catone Stanislino Gottardi ricevendo in cambio 100 pezze di cotone.

In seguito di questa sollevazione tutti i patrioti paesani misero via le loro coccarde. La sera seguente seguì altro scompiglio nel teatro e fu che insorsero gli stessi patrioti verso il palco di mezzo ove stavano dei compari di quei due soggetti. Si fecero ad alta voce intendere, che se erano emigrati dal paese alcuni per avere servito l’Imperatore, li volevano restituiti a casa e desideravano fare pace, gridando: Pace, pace colli nostri fratelli e concittadini. A casa cittadini, a casa cittadini, non più nimistà, ma pace pace!

I principali emigrati e detenuti a Bologna erano Antonio Bertuzzi, il figlio di Battista Fabbri, Giacomo Ravaglia, Luigi Musi, che era alle segrete nelle carceri di Bologna, Ottaviano Galavotti ed altri oltre il loro seguito di amici.

Il 10 giugno   a causa dei raggiri del dott. Lolli ed Antonio Giorgi, l’ufficio delle lettere che era alla locanda del Portone, fu levato e trasferito entro il Castello nella casa municipale dove poi il Lolli e il Giorgi facevano le più fine ruberie del mondo.

Dopo tali fatti furono chiamate a Bologna tutte le autorità del paese che vi andarono, restando solo in patria Stefano Grandi, capo battaglione.

Il 12 per queste vicende tornarono i polacchi ed ebbero gli stessi alloggi di prima. Il 14 arrivò loro un ordine di partire subito per la Romagna, dove c’era maggior bisogno ed andarono subito a Imola.

Per gli incidenti accaduti in teatro la Municipalità aveva visto i tutti i patrioti togliersi le coccarde. Emise quindi un editto che in tempo di ore 24 dovesse ognuno rimettersi la coccarda, altrimenti sarebbe stato dichiarato nemico e sottoposto al carcere. Passarono le ore 24 ma nessuno obbedì e nemmeno fu arrestato perché si erano tutti rivoltati contro il presidente Lolli per le sue bricconate.

Il giorno14 passò da Bologna ad Imola molta cavalleria perché si diceva che era stata fatta una alleanza fra la Russia, Danimarca, Svezia ed Inghilterra contro la Francia. Si disse pure che il Papa sarebbe stato detronizzato.

Lunedì 15 lunedì il grano si vendette fino a scudi 17 e soldi 50 la corba. Il formentone a scudi undici la corba. I montanari che, per la gran miseria, erano discesi dal monte per venire a mietere il grano e ricevere vitto e danaro, rimasero delusi, poiché nessun contadino li prese ad opera e quelli che furono presi vi andarono per il solo cibo o al massimo per soli soldi quattro alla giornata e vi furono anche di quelli che lavorarono per un soldo e mezzo.

Il freddo che continua ancora, fa sì che si porti il tabarro e si tenga acceso il fuoco sebbene si sia a metà di giugno.

Le vicende presenti sono che si vocifera della guerra e si sentono di alleanze fra i popoli del nord contro la Francia e intanto il raccolto va assai male.

Mercoledì 17 la guarnigione di Rimini, che era di 60 piemontesi, venne a Castel S. Pietro per andarsene a Bologna.  Là si temeva una rivolta, essendo già accaduto un tumulto ed un saccheggio di pane ai principali forni della città, cioè di S. Stefano, di S. Francesco, di strada S. Vitale ed altri dove furono spogliati i forni ed alquante case dal popolo infuriato. L’ex conte Carlo Stella Riguzzi volle fare resistenza nel forno di S. Stefano con la sciabola alla mano, ma si prese una coltellata nella pancia. I soldati cisalpini e francesi che erano in città fuggirono fuori e si chiusero tutte le porte della città che così stettero fino al mezzodì del 18.

Nel giorno di sabato 19 si chiuse l’Officio della Gabella di Castel S. Pietro, che era nel Borgo e fu trasferito ad Imola.

Ultimamente l’Imperatore di Germania aveva rotto la pace con la Francia e si era coalizzato con i Russi, l’Inghilterra e il Turco contro i francesi.  Perciò si sono messe in movimento le truppe cisalpine a motivo che gli inglesi e i russi, preso come alleato il Re di Napoli, erano avanzati nel mare Adriatico ed avevano messo in blocco i porti pontifici. I francesi, temendo uno sbarco, richiamarono le truppe che avevano nel fiorentino e le spedirono a Rimini, Cesenatico ed Ancona. Queste, passando da qui domenica 21 giugno mostrarono malcontento. Dietro questa truppa pedestre nei giorni 23, 24, 26 giugno, di notte tempo col favore della luna, passò la cavalleria. Il 28 venne un distaccamento di 150 cisalpini dei quali ne restarono 100 a Castel S. Pietro e 50 passarono a Dozza.

I raccolti che si fanno sono mediocri, il pane è ancora piccolo e si danno 8 once per quattro baiocchi.  In altri luoghi è di maggior peso e sono per ciò incolpati i municipalisti mentre il grano si vende a solo sei scudi romani la corba.

Grandi preparativi di guerra si fanno nel mantovano, perché a Vicenza ci sono i tedeschi uniti ai russi, onde si attende una sanguinosa battaglia.

Il 23 fiorile, vale a dire il 13 maggio 180 fu pubblicata a Milano una Legge con la quale si divide il territorio di tutta la cisalpina in dodici dipartimenti.  I dipartimenti sono questi:

1) Agogna,

2) Lario,

3) Olona,

4) Serio,

5) Molla,

6) Alto Po,

7) Mincio,

8) Crostolo,

9) Panaro,

10) Basso Po,

11) Reno,

12) Rubicone.

 Nel dipartimento del Reno fu determinato capoluogo Bologna e diviso in quattro distretti cioè: Bologna, Imola, Cereto e Vergato.

Nel secondo distretto, con Imola capoluogo, furono posti 55 castelli, oltre i borghi, i villaggi e i comuni che furono: Castel S. Pietro, Vedriano, Liano di sopra, Liano di sotto, Cappella, Villa di Poggio e Castel Guelfo e Medicina con i loro territori.

Luglio – Dicembre 1801

Nuova annona e tassa per grani e alimenti. Nomina nuovo presidente della Municipalità. Rifatta mostra dell’orologio alla francese. Rivolta contro un esattore. Campana di S. Bartolomeo trasferita sulla torre del nuovo orologio. Disaccordo tra i castellani. Arresto di Ottaviano Galavotti, detto il Bellino. Tentativo di liberazione e successivi arresti, scontri e uccisioni. Francesi di stanza a Castello per timore degli insorgenti di Romagna.

Passeremo ora al secondo semestre del 1801. Il raccolto era stato più scarso dell’anno scorso. I fornai avevano rinunciato al loro impegno e non c’era alcuno che volesse interessarsi del problema.

Il 16 luglio per ordine venuto dal governo di Bologna, si convocò una congregazione di dodici cittadini di Castel S. Pietro per formare una Annona in paese, ma ne comparvero solamente nove.

Il 17 si replicò la riunione e furono delegati a presentarsi a Bologna alla amministrazione i cittadini Giuseppe Sarti e Giulio Viscardi per la approvazione di alcune regole fatti sopra il nuovo metodo per la fornitura granaria di Castel S. Pietro. Andarono e fu tutto approvato.

Il 20 si fece un’altra riunione e fu deputato per tesoriere, mediante votazione a scheda, Paolo Farnè. In seguito furono eletti per amministratori i seguenti cioè Giulio Viscardi, Ercole Cavazza, Giuseppe Sarti, Gaspare Sarti, Stefano Grandi, Camillo Bertuzzi, Domenico Albertazzi, Don Francesco Dalfiume e Giuseppe Ballarini.

Il 22 fu estratto per presidente Don Francesco Dalfiume e per segretario Giuseppe Sarti. Indi si fecero alcune regole a proposito della annonaria, composta dai suddetti soggetti e si distribuirono le cariche.

Il giorno 27 luglio fu pubblicato un bando sopra il Bollo della Carta e vi fu rumore. Perché poi vi erano inconvenienti per i generi alimentari, la Municipalità si fece carico di proclamare con suo editto alcuni provvedimenti.

La congregazione degli annonari non aveva contanti, perciò, con la partecipazione del Governo, emanò cartelle di prestiti forzosi per gli abitanti del distretto per ricavare granaglie o danaro.

Non bastando queste calamità locali, se ne aggiunsero altre da Bologna, che imponevano un’altra contribuzione pecuniaria e tutti si dolevano.

Domenica 2 agosto, erano in guarnigione in questo Castello e Borgo venti ussari cisalpini.  Chiesero alla municipalità la razione doppia della paglia per il letto dei cavalli.  Il presidente dott. Angiolo Lolli, rifiutò e andò alla locanda del Portone ove erano albergati i cavalli e gli ussari. Qui nacque un diverbio grande al segno che i cisalpini sfidarono la guardia nazionale a archibugiate e su l’Avemaria entrarono in Castello sei ussari con la carabina caricata e la sciabola sguainata e scorsero avanti e indietro per tutte le strade senza che alcun castellano si muovesse. Misero in seguito le guardie alle porte del castello e non lasciavano uscire né entrare alcuno. Si ricercò il Lolli ma non si trovò, poi dopo mezz’ora tutto terminò.

Il giorno seguente, lunedì 3, venne da Bologna il notaio Battista Canali capo brigata ad organizzare nuovamente la Civica di Castel S. Pietro. Fatto questo se ne partì per Bologna.

Il 10, giorno di S. Lorenzo, furono fatti gli ufficiali, che furono capo brigata Domenico Grandi, fattore dei barnabiti detto il Fattorone, capo battaglione fu Carlo Bettazzoni.

Il 13 agosto, poiché molti paesani erano ritrosi a pagare la tassa della annona, il presidente Lolli mandò tre soldati alla casa di questi con l’imposizione di mantenerli e pagargli cinque paoli il giorno a testa, finché non avessero pagata la tassa. Così tutti pagarono. Quanto poi alle tasse di casatico e terratico che di consueto si pagavano di bimestre in bimestre e che scadevano alla fine del mese, uscì una nuova legge che si dovesse pagare il 20 del corrente agosto sotto rigorose penalità.

Giunse un corriere dalla Romagna che riferì che Sinigaglia era bloccata dal Turco e che a tutti i mercanti era stato intimato di sloggiare con le loro derrate.

In questo giorno passò il figlio del Duca di Parma ed andò a Bologna in qualità di Re Etrusco[41].

Il 13 il generale Ottavi[42], cisalpino di nazione napoletana, vescovo apostata, si fermò qui. Fu complimentato dal presidente dott. Lolli, dal capo brigata Domenico Grandi e dal capo battaglione Antonio Sarti. Fu condotto ai Cappuccini dei quali era stato affiliato, visitò le stanze inferiori del convento, la chiesa e i vasi sacri poi dopo aver lodato questa famiglia, andò a S. Francesco e fece lo stesso. Dopo ciò decretò che il quartiere di riunione per la guardia nazionale del paese si facesse nel convento di quei poveri frati di S. Francesco, il che spiacque a tutti.

Dopo quattordici mesi di prigionia finalmente Luigi Musi, detto Sbargnocola, fu liberato e il 15 ritornò in patria a dispetto dei suoi avversari Antonio Inviti, Domenico Grandi e fratelli Vergoni che sempre si erano opposti alla liberazione.

Domenica 16 giunsero 150 cisalpini che erano tutti patrioti napoletani, i quali ebbero il quartiere nelle case dei paesani.

Domenica 23 agosto venne da Bologna Andrea Costa, uno della amministrazione centrale di questa città a rivedere i conti municipali ed a cambiare i componenti municipali. Si presentò nel consiglio in seduta con la lettera credenziale. Fu dimesso il presidente dott. Lolli per le sue ribalderie, poi furono presi tutti i libri di conteggio e portati a Bologna. La cosa fu da tutto il paese plaudita. Con decreto della amministrazione fu pure espulso dal posto di segretario e dall’ufficio di giudice Antonio Giorgi.

Il giorno 24 festa di S. Bartolomeo venne a Castel S. Pietro il generale Ottavio Ottavi, corso preso al servizio dei francesi. Alloggiò e pranzò ai cappuccini e pagò tutto di suo. Visitò questi patrioti composti di napoletani, romani, marchigiani, romagnoli, piemontesi e di altre nazioni che in 40, si erano venuti qui a stabilire da alcuni giorni. Trovò in essi, che erano quasi tutti graduati ed il loro grado si tace per dovuto rispetto al loro casato, somma corrispondenza perché nati di buona educazione. Fra loro c’erano alcuni claustrali e prelati, altri erano preti accompagnati con monache, che erano state espulse dai loro monasteri come discole o erano fuggite. Poi perché si vociferava in modo poco conveniente di quei patrioti e monache, il 28 agosto giunse ordine, per evitare gli scandali e il mormorio, che dovessero da qui partire alla fine del mese che fu il lunedì 31 agosto.

Contemporaneamente fu installato per presidente della Municipalità Francesco Conti fu Pietro. Il dott. Gaetano Conti figlio dello stesso Francesco venne qui per delegato politico a formare processo per i passati disordini del Lolli e del Giorgi.

Continuano ad accrescersi le imposizioni di tasse e vengono gravati i padroni dei fondi per gli inquilini e i lavoratori di campagna. Il Giorgi a forza di impegni fu reintegrato nell’impiego di giusdicente e così il dott. Lolli provvisoriamente nell’impiego di segretario, il che dispiacque a tutto il paese.

L’8 settembre, giorno della Madonna, venne una dirottissima pioggia al monte che gonfiando i corsi d’acqua e i torrenti fece molti danni. Nel nostro Sillaro portò via tutta la chiusa di pietra, che stava fabbricando il molinaro Domenico Rivani. In questa sera l’arciprete Calistri banchettò in canonica con i principali patrioti del paese e furono il dott. Gaetano Conti e suo padre Francesco, il dott. Lolli, Antonio Giorgi, Francesco Farnè ed altri. Dopo la cena, ebbri di vino, andarono tutti a ballare nel palazzo Malvasia, ove fecero ciò che gli parve e il fattore Carlo Bettazzoni dovette sopportare tutto per la forza. Intanto la pioggia dirotta proseguiva.

Avuta notizia che i patrioti di Pesaro avevano respinto i soldati papalini, i nostri di Castel S. Pietro esultarono e cominciarono a gridare per le contrade Morte al Papa! Morte all’Imperatore!

Il terremoto si fece sentire a Fano ed altri luoghi vicini. Il dott. Luigi figlio di Lorenzo Trochi fu fatto arciprete della Abbadia presso S. Giovanni in Persiceto, acclamato da quella popolazione.

Il giorno 11 settembre nella torre sopra l’ingresso maggiore del Castello si rinnovò la mostra dell’orologio, che andava prima alla italiana di sei in sei ore, e fu segnata di 12 in 12 alla francese.

Il Padre Ermenegildo, cappuccino da Campaggio, stabilito in questo convento fu il dipintore della mostra, sotto cui nella fascia esterna c’è la scritta F.E.F.A.X.R., cioè Fra Ermenegildo fece l’anno X repubblicano. Quello che accomodò la batteria delle campane fu un medicinese dilettante d’orologi.

Il 12 passarono dalla Romagna a Bologna 300 cavalieri francesi e la mattina seguente passarono molti cisalpini e francesi che andarono tutti da Bologna nella Romagna. Non si capisce questo mistero.

 Questa stessa mattina la guardia imolese con bagaglio, in numero di 70 fanti e 30 cavalieri, vestiti alla cisalpina passarono per andare a Bologna.  Ma passato questo Borgo e giunti alla Crocetta giunse una staffetta da Bologna con l’ordine di ritornare alla loro città. Questi comunque, poco convinti, andarono avanti fino alla Claterna e qui, mentre che si riposavano, giunse un altro ordine di ritornarsene. Così eseguirono e ripassarono su le ore 21 italiane e si fermarono nella piazza maggiore fino alle ore 23 poi andarono a Imola.

Il 19 la stessa guardia imolese di 24 cavalieri vestiti all’ussera, e 100 pedoni ritornarono a passare per Bologna a ricevere il premio della loro fedeltà repubblicana. La mattina seguente a Bologna le furono donate due grandiose bandiere dalla Amministrazione.  La prima portava la seguente iscrizione: Terrore delli insorgenti, la seconda per la, cavalleria, questa: Spavento alli ribelli. Questi imolesi arrivarono la sera del giorno 21 all’ora di notte e si fermarono nel nostro Castello e Borgo ed erano ubriachi e solo il martedì partirono a causa della grande pioggia.

Il giorno di lunedì venne da Bologna un temerario esecutore ed esattore di nome Barbieri al fine di fare una certa riscossione di testatico per cui ogni famiglia avrebbe dovuto pagare l. 1: 12 onde soddisfare la buon’uscita data al dott. Giuseppe Muratori. Codesto esecutore andava alle case e pretendeva il danaro. Non essendosi veduta una tal legge si rivoltò la popolazione e scese nella piazza a reclamare, ma nessuno aveva il coraggio di essere il primo a farsi avanti. Finalmente Sebastiano Capelletti entrò nella Residenza Municipale ove c’era tutto il Corpo adunato sotto la presidenza di Francesco di Pietro Conti. Pure gli altri popolani a mano a mano si avanzarono nella sala. Qui si affacciò il presidente e con lui era pure il Barbieri che si vedeva in pericolo. Il Capeletti chiese perché si facesse questo nuovo aggravio, cosa che mai era stata fatta per l’addietro. Il presidente, alzando la voce, gli chiese se egli era il capo degli ammutinati. a cui, Gli rispose coraggiosamente: Signore siamo tutti capi, non attendete che io sia il primo a parlare, molti parleranno e vi aspettano sulla piazza e se anco non credete affacciatevi alla ringhiera e guardate come si affollano anco qui dentro. Il Conti si affacciò e vide che era vero e sentì il clamore. Volle il Barbieri interloquire ma il Capelletti fatto più coraggioso per il seguito che cresceva tanto che era ormai piena la sala pubblica, si rivolse all’esecutore e così parlò. Che si pensi che il popolo di Castel S. Pietro anco in mezo all’armi sia affatto avilito delle sue minacce, che siano li individui d’ogni sesso ed ogni età senza sangue nelle vene, senza coraggio e senza forza. Né ci sono rimaste anco delle munizioni di quelle colle quali facessimo fronte alli insorgenti ed alli austriaci nell’ultima baruffa. Siamo avvezzi ad altri che li suoi pari. Sortisci di residenza e vedrai che perfino li fanciulli ti lapiderano e faranno della tua carne tanti pezzi che non ve ne resterà tanta, che possino lambirla li cani. Sappi che quella vita civile e sangue che ci vorresti togliere è quello che ci basta per anichilire il tuo orgoglio e di mille tuoi pari.

 Si allarmarono gli altri, la guardia nazionale temeva di essere disarmata e il Barbieri si raccomandava a braccia aperte. Con la interposizione del presidente Conti fu tutto sospeso con la promessa di scrivere a Bologna per un provvedimento e così tutto fu posto in calma. Venne poi la risposta di Bologna cioè che tutte le famiglie pagassero per una sola volta. Così fu quietato in qualche modo il popolo. Ma quando si fu all’atto del pagamento la tassa fu sentita sproporzionata e si eccitarono nuovi tumulti, che furono poi sedati per la pubblicazione della pace fra l’Inghilterra e la Francia

Sabato26 settembre i patrioti napoletani che erano partiti per Piacenza ritornarono nella Romagna per stabilirsi a Forlì nel prossimo inverno.

Il 6 ottobre fu promulgata da Milano una legge che stabiliva l’istituzione di una lotteria, dotata di molti premi, che aveva lo scopo di incassare 10 milioni di lire milanesi. I biglietti dovevano essere distribuiti ai possidenti nelle città e territori di Bologna. All’arciprete Calistri ne toccarono dodici da 50 scudi ciascuno, a me due e così agli altri del comune di Castel S. Pietro per un totale di 300 scudi. Si sentirono molti mugugni.

Terminate le due nuove mostre dell’orologio nella torre su la porta maggiore del Castello, mancava solo di sentire il battere delle ore alla francese.  La campana esistente sulla torre fu creduta piccola e venne in testa ai pubblici rappresentanti di levarla e sostituirla con una maggiore. Fu perciò deciso di levare la campana grande dal campanile di S. Bartolomeo dei frati agostiniani e collocarla nella torre. Tanto avvenne e la Municipalità ordinò al cittadino Lorenzo Trochi, macchinista del paese, di levarla e collocarla nella torre sopra l’orologio e quella che c’era riportarla al suo precedente posto, nella torre piccola della casa municipale. Ma il Trochi era priore della Compagnia della Cintura nella chiesa di S. Bartolomeo e perciò rifiutò di farlo e anche gli altri ufficiali del Suffragio del Purgatorio erano contrari e furono il tenente Giovan Francesco Andrini, ex priore, e Gio. Battista Fiegna.

Questi concordarono di scrivere al Commissario del Potere Esecutivo Banci, facendogli conoscere l’inconveniente che accadeva per la mancanza di questa campana che serviva la chiesa e le compagnie erette in quella. Fu poi deciso che l’Andrini e il Fiegna si portassero a Bologna dal detto commissario, dalla Deputazione amministrativa dei Beni Ecclesiastici e dal Vicario Capitolare del vescovato Mons. Fava. Tutti costoro promisero di provvedere.

Mentre però che si facevano queste cose andò a Bologna pure il presidente Conti, nemico di questa chiesa e con esso Francesco Farnè, agente municipale, uomo torbido, irreligioso e patriota sviscerato contro la chiesa. Al loro ritorno, senza altri discorsi, andarono dal sagrestano Mariano Ponti per salire al campanile, ma non lo trovarono.  A loro si aggiunsero il muratore Antonio Roncovassaglia, detto Baccarana, Antonio Sarti, Luigi Cardinali e Sebastiano Capelletti, entrarono nella sacrestia, andarono al campanile, cacciarono giù la porta, levarono la campana e poi la mandarono alla torre dell’orologio.

Questa campana pesava 800 libbre bolognesi, il metallo era mediocre e perciò il suono era duro. Non potendo introdurla nella sommità della torre per la ristrettezza delle sue aperture, ne fu tagliata una dalla parte di ponente e il mercoledì seguente fu posta in opera. Mentre che si tirava con le funi sopra la torre si dicevano contumelie e spregi ai santi che erano fusi nella parete della campana. Gli individui irreligiosi ed iconoclasti erano Lorenzo Alvisi, Giovanni Neri, il Sarti, il Farnè e il notaio Antonio Giorgi, i quali canzonavano anche la sacralità dicendo tira su la campana prima che venghi la scomunica. Altri dicevano diamo la corda a S. Nicola, presto, presto che viene da Roma la scomunica, la scomunica è impiccata, vola al cielo sopra la torre.

La gente che qui si era affollata ad udire ciò cominciò a vituperare i maldicenti. Ne fu data la relazione alla polizia da Eugenia Mingoni, moglie di Giuseppe Zardi, detto Casetta, e da Luigi Bottazzi, perché ebbero a dire con il Farnè e il Sarti. La polizia non operò perché era in mano della Municipalità. Contestualmente stava passando Don Filippo Cugini, sacerdote sagrestano della parrocchiale, e fu provocato da Antonio Giorgi, che alla fine gli disse che se questa campana non suonava bene sarebbero subito andati a prendere la Maggiore dalla arcipretale. Poi non accadde più altro.   

Nello stesso giorno vennero da Bologna due deputati a visitare il cimitero presso la parrocchiale per levarlo dal centro del paese e trasferirlo fuori dall’abitato.  Poi si sarebbe potuto allargare la strada che porta alla chiesa di S. Francesco, come era anticamente. Per effettuare ciò fu firmata da molti una petizione al Governo.  Fu anche deciso che si demolisse la costruzione fatta dall’arciprete a capo del Cimitero, senza alcuna licenza, occupandone una sua parte per farvi un nascondiglio per formentoni ed altri generi incettati.

L’8 ottobre vennero dalla Romagna tre battaglioni di francesi con due bandiere che andavano a Bologna. Avevano con loro due bande di strumenti, cioè due fagotti, due clarini, due corni e due plettri che erano suonati e battuti con un sistro da due mori. Stettero fermi nel Borgo e Castello tre ore della mattina poi partirono.

La lotteria annunciata di dieci milioni andò a monte. La vendemmia fu molto scarsa al segno che si vendette l’uva fino a venti scudi la castellata. L’altra campana, che era nella torre fu posta nella torre della piazza, ove già era tempo fa.

Su le ore 14 italiane si sentì fortemente il terremoto, che provocò gran spavento.

Sabato 10 ottobre venero di Bologna due personaggi sconosciuti con l’uniforme imperiale e che portavano sul petto l’Ordine con la Croce di Malta ed il Toson d’Oro al collo. Il loro siniscalco dichiarò che passavano per andare dal Papa per alcune questioni, appurate le quali, sarebbero ritornati al comando delle truppe austriache. I postiglioni delle loro carrozze avevano deposte le coccarde francesi e messe quelle austriache ed avevano i paramani nel loro abito alla imperiale cioè giallo neri. La staffetta che precedeva aveva sul petto e sul braccio destro le insegne austro-russe. Questi disse che presto questi nostri stati avrebbero mutato padrone e che, essendo questa piazza di Castel S. Pietro ben piena di giacobini, sarebbe stata liberata da questa genia di gente cattiva. Un tale asserto mise in apprensione tutto il paese.

La Municipalità aveva ricevuto una grave reprimenda dal Governo a causa della vicenda delle campane. Il temerario Lorenzo Alvisi era uscito di notte girando per il Castello e Borgo a dipingere campane alle case dei confratelli del Suffragio di S. Bartolomeo più affezionati alla chiesa. Le case furono quelle di Gio. Battista Fiegna, di Francesco Chiari, Giuseppe Ponti, Francesco Andrini ed altri. La polizia, subordinata alla Municipalità, non fece alcuna mossa perché l’Alvisi era d’accordo con i pubblici rappresentanti. Infatti aveva in casa fatto un marchio che rappresentava la campana come sfacciatamente confessava a tutti i suoi amici.

Crescono sempre le tasse e quella che più spiacque fu la tassa personale del versamento mensile, fino alla morte, di uno scudo bolognese. Bella libertà davvero.

Domenica 11, essendosi pubblicata la pace generale tra le potenze belligeranti[43], se ne diede il segno da tutte le chiese con le campane. La Guardia civica del paese vestita della sua uniforme, con la bandiera nazionale spiegata, partì dal suo quartiere e si portò alla piazza entro il Castello dove mostrò il suo giubilo con replicati spari di fucileria.

La sera di lunedì 11 questa guardia civica arrestò il cittadino Sebastiano Lugatti per ordine del capo brigata Domenico Grandi.

Il 14 vennero dalla Romagna alcuni battaglioni francesi ed andarono a Bologna. Si sparse la diceria che ritornavano in Francia evacuando l’Italia.

Il 20 ottobre di notte tempo fu innalzato un Albero della Libertà nella piazza dei cappuccini di Castel S. Pietro. La stessa notte si sentì il terremoto con spavento e furono scoperte le S. Immagini.

La Municipalità decretò che si facesse la selciatura in tutte le strade del Castello e del Borgo dando essa gli opportuni materiali, le maestranze invece dovevano essere pagate dalle proprietà delle case fronteggianti le strade. Furono delegati sopra il lavoro Lorenzo Trochi, il tenente Gio. Francesco Andrini e Carlo Bettazzoni. Si cominciò il lavoro nella via Maggiore, ma non fu poi continuato a motivo delle discordie fra i proprietari.

Il 2 novembre il generale francese Gobert, che si trovava a Bologna con molta truppa, intimò ai civici che guardavano la città e il palazzo di deporre le armi. Le compagnie di carabinieri, di cacciatori e granatieri rifiutarono e per ciò si misero in allarme al punto di volere cannonare i francesi. Si infrappose la Amministrazione, il generale Dondini, Ercolani ed altri e si pacificarono col generale Gobert che aveva avuta una spiattonata da un civico ed un pugno sul petto dal cannoniere Luigi Pistocchi che aveva già caricato a mitraglia il cannone contro i francesi che si affacciavano al palazzo. Poi, per non permettere che la città andasse a rumore, si fece la pace ed ognuno andò al proprio quartiere. 

Però i francesi, secondo il loro costume, ruppero a tradimento l’accordo e arrestarono il Dondini, il Pistocchi, il capitano Fabbri della Baricella e il Masini di Bologna, che di nottetempo furono spediti di nascosto a Ferrara e la notte seguente, nel più profondo silenzio fecero prigioniere le sentinelle civiche del palazzo, di cui si impossessarono. In seguito fu intimato, sotto rigorose pene, che tutti i civici portassero le loro armi al quartiere dei francesi nel convento de’ Servi, ma nessuno volle obbedire. Furono replicati più rigorosi proclami, ma ciò non ostante furono ostinati i bolognesi, né valsero le minacce dei francesi. Questo fatto fece molta impressione alle popolazioni, per modo che molti imitarono questa resistenza, per cui i francesi dopo dieci giorni posero tutto sotto silenzio. A Perugia, Reggio e Milano seguirono scontri fra papalini e patrioti, ma sempre furono battuti i partitanti francesi.

Essendo a Castel S. Pietro il contumace di giustizia Ottaviano Galavotti detto il Bellino, giovanotto veramente bello, robusto, bravo di sua vita, fu arrestato dalla guardia civica mentre usciva dal nostro teatro, e condotto in arresto in queste carceri. Venne la notizia di tale arresto ai suoi fratelli, giovani anch’essi forti e coraggiosi di nome uno Vincenzo, detto Bussolotto, e l’altro Natale. Si unirono con Antonio Sarti, detto del Portone, e di notte andarono armati al quartiere dove stava in arresto il Bellino. Disarmarono la guardia e la sentinella, ruppero le porte del carcere e liberarono il Bellino.

Il fatto avvenne domenica 8 novembre, poi la mattina seguente, lunedì, questi senza timore camminarono armati per il Castello e il Borgo e nessuno ardiva, se non loro amico, salutarli poiché c’erano altri loro seguaci disposti ad una sollevazione contro i patrioti.  Questi erano diretti da Domenico Grandi e dai suoi figli che, per non mostrarsi pavido, uscì con la pattuglia di alcuni paesani. Esso era alla sua testa, lo seguiva il capo battaglione Carlo Bettazzoni con altri, vi era pure il segretario della Municipalità. Antonio Giorgi. La pattuglia fingeva di vigilare sopra i venditori e egli eventuali abusi del mercato dei viveri. I Galavotti e i loro amici la affrontarono e la fecero rientrare al loro quartiere né altro più seguì.

Pure a Imola fu deposta dai francesi la guardia civica e le fu tolto il palazzo e la piazza nello stesso modo che si fece a Bologna.

La sera del 16 vennero 20 francesi da Imola e si fermarono qui per esplorare le novità, però vi ebbero poco gusto poiché gli oppositori suddetti li avvisarono che li avrebbero ammazzati tutti se non abbandonavano subito il paese. Cosa che fecero immediatamente.  

Intanto si pacificarono i due partiti del paese, ma la pace fu finta per la parte del Grandi. Il giorno di S. Martino fu combinata una gozzoviglia fra i pacificati nella locanda alla insegna di S. Marco di Vincenzo Trapondani. Quando entrò il Bellino, con altri suoi compagni, all’improvviso i suoi avversari e agenti di polizia, entrarono a fucile spianato tanto dalla parte anteriore che posteriore ed arrestarono il Bellino e lo condussero nelle carceri. Furono questi guidati da Domenico Grandi, Antonio Giorgi, Carlo Bettazzoni e l’usciere Lorenzo Alvisi.

Arrivarono poco dopo 60 francesi che andarono al quartiere della guardia nazionale. Intanto giravano altre pattuglie per prendere gli altri due fratelli Galavotti, Vincenzo, detto Bussolotto, e Natale. Questi furono avvisati e per salvarsi presero la fuga per la via di S. Carlo diretti a Medicina, armati solo con un miserabile coltelletto ed un ben tristo schioppetto.

Giovan Battista Quaderna, capitano dei civici, che aveva cambiato la guardia la mattina, unitamente con altri dei suoi tentò di prendere quei due sventurati e fuggitivi fratelli. Gli corse dietro assieme con Giovanni Muzzi ed altri e riuscì a raggiungerli presso la Braglia in un sito detto, il Pilastrino della Madonna, nei beni della eredità Graffi, denominati la Fossa. Siccome il Quaderna correva veloce precedette il Muzzi ed assalì Vincenzo Galavotti gridando contro Natale: Fermo! Fermo! per impaurirlo e incoraggiare il Muzzi. Intanto percosse col fucile Vincenzo, che cadde a terra. Il fratello Natale tornò indietro e diede mano al coltelletto.  Vincenzo, benché caduto, riuscì a prendere il miserabile schioppetto e sparò all’accorrente Muzzi e lo uccise. Natale disarmò il Quaderna e lo colpì così forte col suo fucile tanto che lasciò miseramente la vita in quella pubblica strada.

Poi entrambi i fratelli fuggendo si dispersero nella vicina campagna e gli altri civici, spaventati, non li inseguirono più. Al Muzzi morto era stato tolto il fucile e la sciabola da Vincenzo Galavotti. Quando furono più oltre i due fratelli videro alle loro spalle giungere i civici di rinforzo Sebastiano Capelletti e Marco Martelli. Si fermarono i fuggitivi e intimarono ai due civici di tornare a casa con la minaccia che sarebbero anch’essi andati a fare compagnia a casa del diavolo agli altri due uccisi. Così, vedendo la mala parte, ritornarono a casa con le trombe nel sacco. Ma, arrabbiati di non avere potuto fare l’arresto, quante persone trovarono per strada le affrontavano e le menavano. I francesi non si vollero infrapporre nella baruffa quantunque invitati dai civici e nessuno poté comprenderne la ragione.

 Arrivò intanto da Bologna il dott. Pietro Gavasetti per giudicare sopra il fatto della evasione dal carcere del Bellino, attuata da Antonio Sarti e dai fratelli Galavotti. Il giudice processò solo questo fatto e non si volle occupare nella causa dell’uccisione del Quaderna e del Muzzi. Vero si è che la truppa nazionale solamente a processo terminato andò alla ricerca di quelli ma senza risultato.

 Antonio Sarti avuta notizia che gli insorgenti di Romagna avanzavano da questa parte e che era ricercata dai nostri, prese un cavallo ed andò alla volta di Bologna ove verso Idice incontrò la truppa che lo cercava.  Gli andò coraggiosamente incontro, non fu riconosciuto e allora deviò dalla strada e andò verso la parte montana. I Galavotti intanto avevano adunati altri amici per tentare di liberare il Bellino che di nuovo stava chiuso in carcere.

Arrivati i francesi a Castel S. Pietro per timore degli insorgenti di Romagna, posero le guardie al Borgo, al Castello e al quartiere civico, ove facevano la sentinella un civico e un francese. La notte i francesi di sentinella facevano il solito Chi viv! vale a dire Chi va là!  Alcuni paesani che erano del partito dei Galavotti, per minchionarli, rispondevano: è morto, è morto, alludendo agli ammazzati Quaderna e Muzzi. Le persone dabbene si chiusero nelle case dalla sera e fino alla levata del sole e non si vide alcuno in giro per timore di una baruffa.

Fu pubblicato un proclama dai francesi che si volevano arruolare 5 mila giovani tra i 18 e i 25 anni per metterli in guarnigione nelle città di Lombardia per timore di una sorpresa degli austriaci. Si pubblicò anche un bando sopra la denunzia del vino, sotto pena della perdita dello stesso. Cosa mai sentita.

Il 20 novembre 1801 fu pubblicato un bando da Milano, in data 13, portante l’avviso che la Repubblica Cisalpina era stata riconosciuta libera ed indipendente nei trattati di pace con l’Imperatore. Fu pure convocata una consulta, da fare a Lione, di 144 rappresentanti per formare una assemblea che doveva poi redigere la costituzione repubblicana nei 12 dipartimenti. I nomi e i cognomi dei componenti l’assemblea erano

enunziati nella legge del 21 brumale (11 novembre).

Venerdì 21 novembre il distaccamento dei 60 francesi partì da Castel S. Pietro e andò a Bologna conducendo con sé il Bellino, partì anche il giudice Gavasetti. La partenza del Bellino fu seguita da molti paesani suoi amici. Crebbe il loro numero e i francesi, ben giustamente timorosi che nascesse qualche fatto, prima di uscire dal Borgo fecero ritornare tutti alle loro case minacciando l’uso delle armi. 

Sempre il 21 novembre venne pubblicata una legge che non si dovessero più pagare le tasse con moneta consumata, ma con moneta nuova. Per ciò nacque molto diverbio e rumore. Gli esattori riportarono i libri di esazione nel palazzo municipale di Bologna ed era prossima una rivolta che certamente sarebbe accaduta se non ci fosse stata a Bologna truppa francese.

Era stata messa a Castel S. Pietro una tassa municipale per mantenere la guardia nazionale ed era che tutti gli uomini dai 50 anni in su, dovessero pagare mensilmente una lira.  Il ricavato doveva servire al pagamento della guardia paesana. Accadde che molti, o per così dire nessuno, si prestò al pagamento che doveva essere fatto in mano dell’esattore municipale Luigi di Francesco Giorgi.  Fosse ignoranza della legge municipale, fosse rifiuto di obbedire o la non possibilità in alquanti paesani, nacque un serio rumore.  Cosi che all’esattore convenne desistere e nascondersi come fece.  Fu poi fatto ricorso a Bologna al Commissario di Milizia per avere la abrogazione della legge, ma fu vano e crebbero i richiami.

 Nella notte precedente Bologna fu attaccato all’albero patriottico che era nella piazza maggiore un quadretto dipinto. In questo era rappresentato un altare con lumi accesi, davanti all’altare, vestito da sacerdote, stava Bonaparte che rivolto al popolo proferiva queste parole: Ite missa est. Da una parte c’era un cisalpino che serviva la messa rispondendo Deo gratias.  Dall’altra parte c’era un chierico romano che incensava il popolo cisalpino ed il fumo offuscava gli adunati. Fu mirabile che non si scoprisse l’autore sul fatto essendo la piazza guardata dai francesi.

Con una circolare il Governo ordinò che la Municipalità visitasse le botteghe di alimenti e punisse quelle che non avessero le misure, le bilance e le stadere bollate.

Il 10 dicembre era stata data una petizione contro Antonio Giorgi, notaio, segretario della Municipalità e giusdicente del paese, per la sua cattiva condotta. Furono tanti i capi di accusa. Gli accusatori asserivano nella petizione che il Giorgi aveva più reati di quanti erano i minuti delle ore giornaliere e notturne. Fu chiamato a giustificarsi a Bologna. Vi andò ed ebbe con lui per compagno suo zio Francesco di Pietro Conti e l’aggiunto municipale Francesco Farnè, accusato anch’esso. Sono tutti dimissionari dal loro ufficio.

In tale frattempo tutti gli inquilini posti dalla Municipalità ad abitare nel convento dei soppressi agostiniani di S. Bartolomeo, furono assoggettati chi a malattie mortali, chi a prigionia e chi ad espulsione dal paese. Fu attribuita una tale crisi alla mano di Dio, perché erano tutti democratici e disturbavano le orazioni alle anime del purgatorio. In questa chiesa c’era la Compagnia del Suffragio che non poteva più officiare con quiete e che si voleva per amore o per forza abolire.  Le famiglie degli inquilini furono quelle del medico condotto Luigi Rossi, bolognese, che fu accusato di attività contro il presente governo e fu detenuto in carcere a Bologna per 4 mesi. Sua moglie ebbe una malattia mortale. Il dott. Angelo Lolli, sostituto nella condotta, fu svaligiato dagli insorgenti.  Giovan Battista Quaderna fu ammazzato come si scrisse. Il chirurgo Domenico Trebbi, bolognese, ebbe una malattia di più mesi che lo rese inoperoso. Sua moglie, donna avvenente e favorita del dott. Lolli, fu attaccata da una colica con pericolo di vita.

Il 21 dicembre furono chiamati a Bologna dalla amministrazione pubblica Francesco Farnè ed Antonio Giorgi, che provvisoriamente erano tornati a casa, furono dimessi e fu loro notificata la elezione del nuovo Presidente che era Ercole Bergami detto Scalfarotto, uomo ignorante e poco religioso. Questi presentendo che la repubblica Cisalpina vacillava nella sua esistenza, presentò alla Amministrazione centrale di Bologna la sua rinuncia.

Si ebbe intanto notizia che ad Ancona erano approdati molti ungheresi detti Unni, e che i francesi avevano abbandonata quella piazza in conformità degli accordi di pace.

Di notte tempo si fecero vedere in patria i due fratelli Natale e Vincenzo Galavotti, uccisori del Quaderna e del Muzzi. Alcuni della guardia nazionale vollero la notte del 20 tentarne l’arresto. Loro caporale era un villano, che incontrò mala sorte, fu disarmato ma ebbe la grazia di salvare la vita.

Il segretario Antonio Giorgi, nemico giurato dei Galavotti, vedendosi anch’esso in pericolo di vita e con lui Giulio Grandi, che sosteneva la carica di ufficiale di polizia nel paese, fecero istanza a Bologna affinché venisse a soggiornare in paese un distaccamento di 50 militari di linea, ma non furono ascoltati.

Il 27 dicembre fu pubblicata la pace fra il generale Morò[44] francese e l’arciduca Carlo[45]. Secondo la voce comune si disse che non sarebbe durata poiché i francesi per loro istituto non mantengono né parole né contratti con alcuna potenza.

Il 29 dicembre nella vicina Toscanella fu arrestato Francesco Nannini di Castel S. Pietro, detto Muzzone, per la mancanza del pollice nella mano destra, fu condotto a queste carceri per omicidio commesso a Castenaso. Era un uomo da temere e molto valoroso, giovane bello, grande e forzuto, di pelo biondo con occhio così vivace che atterriva chiunque.

A seguito dei reclami fatti per il pagamento della tassa personale mensile per la guardia nazionale era arrivato il decreto di esenzione per quelli che oltrepassavano i 55 anni. Il capo brigata Domenico Grandi, il capo battaglione Carlo Bettazzoni, Gaetano Ronchi, campionatore e il caffettiere Luigi Giorgi, riscuotitore, vedendosi privi di compenso, rinunciarono alla carica. Venuto ciò a notizia dei paesani si videro la mattina seguente, 30 dicembre, affissi cartelli che così dicevano:

Li boni cittadini servano senza tirar quattrini

non fan così però li ladri e li assassini.

Il 31 dicembre, ultimo giorno dell’anno, la notte si levarono, in contrasto tra loro, un vento boreale con un vento sciroccale tanto impetuosi che le case deboli vacillarono, molti camini furono demoliti e dei fienili andarono per aria. E qui terminiamo l’anno 1801.


[1] Il 2 febbraio 1797 Würmser, ormai definitivamente abbandonato, siglò la resa di Mantova con Sérurier, che gli concesse di poter abbandonare la città con una scorta e l’onore delle armi. 

[2] Si trattava di milizie napoletane che tornavano a casa. L’11 ottobre 1796 era stato stipulato un trattato che sanciva l’uscita del re Ferdinando di Borbone dalla coalizione anti francese.

[3]Trattato di Tolentino  (19 febbraio 1797) imposto da Napoleone  a papa Pio VI a seguito delle sue vittorie militari.

[4] Si tratta del così detto Armistizio di Bologna  firmato il 23 giugno 1796 fra lo Stato della Chiesa e Napoleone.

[5] Costituzione della Repubblica Cispadana approvata nel congresso di Modena il primo marzo 1797. I Comizi elettorali per la sua approvazione furono indetti per il 19 marzo.

[6] Addetti alla produzione e lavorazione della polvere da sparo.

[7] Il comizio serve per eleggere i delegati che dovranno eleggere i componenti dell’assemblea legislativa in applicazione della Costituzione appena approvata. Inoltre a eleggere il nuovo Consiglio della Comunità

[8] Preliminari di Leoben, fu un accordo tra Napoleone Bonaparte e l’Impero asburgico firmato il 17 aprile 1797.

[9] Le condizioni prevedevano in realtà esattamente l’opposto.

[10] Così chiamati perché vestiti di tela rigata, tipica degli abiti dei contadini e dei poveri.

[11] I monumenti si dissolvono / la morte viene anche per le pietre e i nomi.

[12] Si tratta della Repubblica Cisalpina istituita a Milano il 29 giugno 1797.

[13] Due ore dopo il tramonto del sole.

[14] Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) Una conseguenza di questo trattato fu la fine della Repubblica di Venezia.

[15] Forse si tratta della via Scania.

[16] Il generale Berthier entrò in Roma il 10 febbraio 1798.

[17] Lord Horatio Nelson (1758 – Trafalgar 1805), ammiraglio inglese.

[18] Battaglia della Baia di Abukir o battaglia del Nilo (1-2 agosto 1798) La vittoria inglese bloccò i rifornimenti a Napoleone impegnato nella campagna d’Egitto.

[19] Louis Alexandre Berthier (1753 –  1815), generale francese.

[20] Questa notizia però non ha alcun riscontro.

[21]  Forse è battaglia di Civita Castellana combattuta il 5 dicembre 1798. Dopo questa vittoria l’esercito napoletano si disgregò completamente e l’armata francese avanzò agevolmente fino a Napoli.  

[22] Battaglia di Verona, 26 marzo 1799. La battaglia comprese tre combattimenti separati nello stesso giorno. A Verona  fu pareggio. A Pastrengo vinsero i francesi. A Legnago, gli austriaci.

[23] Nel marzo 1799 Ferdinando III d’Asburgo-Lorena Granduca di Toscana era diretto all’esilio a Vienna,

[24]Gli insurgenti occuparono Cento il 17 ma il 19 furono costretti ad abbandonare la città.

[25] Russia e Gran Bretagna

[26] 29 aprile 1799, l’armata russa guidata dal gen. Aleksandr Suvorov ( 1729 – 1800)  entrò a Milano

[27] Forse si riferisce alla battaglia di Magnano del 5 aprile 1799, terminò con la vittoria austriaca e segnò l’inizio della cacciata dei Francesi da quasi tutta l’Italia.

[28]Probabilmente si tratta del bosso (buxus sempervirens)

[29] Prevale il loglio funesto e la sterile avena. (Virgilio: Georgiche).

[30] Si riferisce a Bollettino pubblicato a dispense presso la tipografia Sassi. Uscirà fino a settembre ed è una cronaca dei fatti più significativi successi nel periodo dell’offensiva austro-russa su Bologna.

[31] Dovrebbero essere piccoli ambienti usati come celle nell’Ospitale del Borgo.

[32] Barthélemy Joubert (1769 – Novi Ligure15 agosto 1799) generale francese. Partecipò, perdendovi la vita, alla battaglia di Novi.

[33] Michael Friedrich von Melas ( 1729 –1806) generale austriaco dell’epoca napoleonica.

[34] I francesi in realtà abbandonarono Roma il 19 settembre 1799.

[35] Il 2 giugno Napoleone era entrato a Milano abbandonato dagli austriaci.

[36] Battaglia di Marengo, 14 giugno 1800, vittoria decisiva di Napoleone. Seguì il giorno dopo l’armistizio di Alessandria.

[37] Successivamente scriverà che si chiamava Edoardo Brines di Lione

[38] Trattato di Lunéville,  9 febbraio 1801, fra la Repubblica francese ed il Sacro Romano Impero. Tra l’altro prevedeva il riconoscimento della Repubblica Cisalpina che comprendeva principalmente le odierne regioni Lombardia ed Emilia-Romagna e piccole parti del Veneto e della Toscana.

[39] Jean-Charles Monnier (1758 – 1816generale francese.

[40] Aleksandr Pavlovič Romanov ( 1777 – 1825), imperatore di Russia dal 24 marzo 1801 fino alla morte.

[41]  Con il trattato di Luneville il Granducato di Toscana, trasformato in Regno d’Etruria, era stato assegnato a Ludovico I di Borbone in cambio del Ducato di Parma,

[42] Jacques Philippe Ottavi (1767 – 1855) generale francese. 

[43] Forse è il Trattato di Parigi dell’8 ottobre 1801, tra la Repubblica Francese del Primo Console Napoleone e lo Zar di tutte le Russie Alessandro I.

[44] Generale Jean Victor Marie Moreau (1763 – 1813

[45] Carlo d’Asburgo-Lorena, arciduca d’Austria (1771 – 1847)